di Saul Monzani

Ricercatore di Diritto amministrativo
Università di Bergamo

Sommario:1. La tutela cautelare quale snodo fondamentale del processo amministrativo.- 2. Tutela cautelare e attenuazione della strumentalità rispetto alla decisione sul merito. Il parallelismo tra poteri decisori del giudice amministrativo e misure cautelari. – 3. I provvedimenti cautelari monocratici a contenuto decisorio. – 3.1. Le misure cautelari monocratiche in corso di causa.- 3.2. Le misure cautelari anteriori alla causa. – 4. L’impugnabilità dei decreti cautelari monocratici a contenuto decisorio in un’ottica di effettività della tutela.

1. La tutela cautelare quale snodo fondamentale del processo amministrativo.

Tradizionalmente, come è noto, la misura cautelare che il giudice amministrativo era abilitato a disporre, ricorrendone ovviamente i presupposti (ovvero la sussistenza di “gravi ragioni” e il pericolo di subire “danni gravi ed irreparabili”), consisteva nella sola sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato (art. 39 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, recante “Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato” e art. 21, ultimo comma della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, recante “Istituzione dei tribunali amministrativi regionali”, nella sua originaria formulazione).

Addirittura, nei primissimi interventi normativi in materia (ovvero a partire dall’entrata in vigore della legge 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato) e fino alla già citata legge del 1974 istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali, la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato era considerata una deroga, come tale da disporsi eccezionalmente, al principio di esecutività del provvedimento amministrativo, ovvero alla presunzione di legittimità che lo caratterizza e alla sua piena efficacia per tutto il tempo necessario a pronunciarne l’annullamento, ove illegittimo.

La scelta originaria del legislatore, così come appena ricordata nei suoi tratti essenziali, è parsa diretta conseguenza di una considerazione del giudizio amministrativo in termini meramente impugnatori nei confronti di un atto che, in tale ottica, doveva conservare la propria piena efficacia quantomeno fino alla conclusione del giudizio, in quanto espressione della libertà dell’amministrazione e del conseguente carattere autoritario ed imperativo dell’atto medesimo.

Poi, con l’introduzione della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali, nel 1971, il legislatore non ha confermato espressamente il carattere “eccezionale” della sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato, limitandosi ad attribuire al soggetto interessato, che alleghi il pericolo di subire per effetto dell’esecuzione del provvedimento impugnato gravi ed irreparabili danni durante il tempo necessario alla definizione del giudizio, la possibilità di chiederne la sospensione, come autonoma azione.

In ogni caso, nella fase storica ora in considerazione, il potere cautelare del giudice amministrativo rimane comunque limitato alla sospensione del provvedimento impugnato, quale riflesso di un sistema di giustizia amministrativa imperniato sulla giurisdizione generale di annullamento, nell’ottica di apprestare una anticipazione, provvisoria, degli effetti della sentenza finale, in un quadro non ancora compromesso per il ricorrente (re adhuc integra).

Successivamente, si registra, prima in giurisprudenza e, poi, anche ad opera del legislatore, un ampliamento della gamma di misure cautelari che il giudice amministrativo risulta abilitato a disporre.

Un fondamentale primo snodo nel senso indicato è dato dalla pronuncia della Corte costituzionale che ha dichiarato la illegittimità, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della nostra Carta fondamentale, e rifacendosi al rimedio apprestato in ambito processuale civile dall’art. 700 c.p.c., dell’art. 21, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali “nella parte in cui, limitando l’intervento d’urgenza del giudice amministrativo alla sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato, non consente al giudice stesso di adottare nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d’urgenza che appaiono secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”, ogniqualvolta il ricorrente abbia fondato motivo di temere che durante il tempo necessario alla pronuncia di merito il suo diritto sia minacciato da un “pregiudizio imminente e irreparabile”.

Coerentemente, anche la giurisprudenza amministrativa che si colloca nel periodo storico ora in esame è giunta a ritenere che “in sede di ricorso giurisdizionale davanti al giudice amministrativo, allorquando l’ordinanza di sospensione dell’atto impugnato, non sia per se stessa sufficiente a garantire l’effettività della tutela dell’interesse fatto valere dal ricorrente, ovvero l’amministrazione ne rifiuti o eluda la esecuzione, l’interessato alla esecuzione medesima, può nuovamente, osservate le forme stabilite per l’ordinario giudizio di sospensione, adire lo stesso giudice che ha emanato l’ordinanza di sospensione, chiedendogli l’emanazione, in via cautelare, delle misure idonee ad assicurare l’esecuzione di tale ordinanza”. 

Del resto, anche la giurisprudenza euro-unitaria ha contribuito all’ampliamento del novero dei rimedi di natura cautelare che il giudice è abilitato a riconoscere in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Infatti, la Corte di giustizia ha da tempo riconosciuto la necessità che il giudice nazionale disapplichi le leggi nazionali che gli impediscano di emettere i provvedimenti provvisori di natura cautelare necessari a garantire la tutela di diritti fondati sulle norme europee, in vista di una piena efficacia satisfattiva della decisione finale di merito. 

Ancora più specificamente, si è chiarita la natura atipica dei provvedimenti cautelari che possono essere assunti dai giudici nazionali, al fine della modifica o disciplina di situazioni di diritto o di rapporti giuridici controversi.

Sulla scia della tendenza giurisprudenziale così manifestatasi, il legislatore, con la legge 21 luglio 2000, n. 205, ha effettuato una riforma organica del sistema di tutela cautelare nel processo amministrativo, basandosi proprio sul principio di atipicità.

In concomitanza con l’ampliamento dei poteri cognitori e decisori del giudice amminitrativo (per effetto della novella apportata dapprima dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e, poi, dalla stessa legge n. 205 del 2000), il quale è ormai legittimato a pronunciare nei confronti della pubblica amministrazione la condanna ad un facere specifico, attaverso una tutela risarcitoria per equivalente o reintegratoria in forma specifica, anche la funzione cautelare non poteva ritenersi strumentale solo rispetto ad una decisione di annullamento. In sostanza, l’assunto di fondo da cui muove la riforma in questione tiene conto dell’avvenuta trasformazione dell’oggetto del giudizio amministrativo, il quale viene a riguardare non solo il provvedimento ma, più in generale, il rapporto giuridico che sorge tra il cittadino e la pubblica amministrazione: in tale quadro, la previsione di misure cautelari atipiche sono apparse meglio in grado di salvaguardare, nel corso del giudizio e nelle more della definizione di esso, la posizione del ricorrente, non solo nei casi in cui esso sia animato dal far valere un interesse legittimo oppositivo, ma anche quando la posizione azionata sia di natura pretensiva.

Così, l’art. 3 della legge n. 205 del 2000, riscrivendo l’art. 21, comma 7, delle legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali, è giunto a riconoscere al ricorrente che sia in grado di allegare un pregiudizio grave ed irreparabile derivante dall’esecuzione del provvedimento impugnato o dal comportamento inerte della pubblica amministrazione durante il tempo necessario a definire il giudizio, la possibilità di ottenere dal giudice amministrativo l’emanazione delle misure cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso.

Da ultimo, l’art. 55, comma 1, del vigente Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha confermato sostanzialmente la previsione predetta, e con essa, l’atipicità delle misure cautelari adottabili nel processo amministrativo, con la sola eliminazione del riferimento all’esecuzione dell’atto impugnato o all’inerzia della pubblica amministrazione, tenuto conto che la giurisdizione amministrativa abbracccia ormai non solo l’atto o il comportamento inerte ma, più in generale, come espressamente individuato dall’art. 7, comma 1, del Codice, le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, riguardanti l’esercizio, o il mancato esercizio, anche mediato, del potere amministrativo.

Pertanto, la misura cautelare diviene, non più o non solo, una fase incidentale del processo amministrativo, bensì uno snodo fondamentale dello stesso, sia sotto il profilo dell’effettività della tutela in capo al ricorrente, cristalizzando la situazione in attesa della definizione del giudizio di merito o anticipando la decisione stessa (tramite l’adozione di qualsiasi misura atta ad assicurare interinalmente gli effetti della sentenza).

2. Tutela cautelare e attenuazione della strumentalità rispetto alla decisione sul merito. Il parallelismo tra poteri decisori del giudice amministrativo e misure cautelari.

Come si è già accennato, tradizionalmente, la misura cautelare nel processo amministrativo è sempre stata vista porsi in rapporto (meramente) strumentale alla decisione di merito.

Del resto, una siffatta impostazione appare sostanzialmente confermata anche dal dato letterale di cui all’art. 55, comma 1, del Codice del processo amministrativo che, come è noto, abilita il ricorrente, il quale abbia il fondato timore di subire un danno grave ed irreparabile dall’esecuzione del provvedimento impugnato nel  tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso, a chiedere l’emanazione delle misure cautelari che appaiano, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare “interinalmente” gli effetti della decisione sul ricorso, compresa l’ingiunzione a pagare una somma “in via provvisoria”.

La strumentalità della misura cautelare rispetto alla decisione di merito è stata ritenuta connotarsi sotto due profili: dal punto di vista strutturale, in quanto gli effetti della misura cautelare sono provvisori, essendo destinati a cessare una volta assunta la sentenza finale nonchè, dal punto di vista funzionale, nel senso che la misura in questione, essendo preordinata ad assicurare, interinalmente, gli effetti della decisione di merito, non può produrre effetti diversi o maggiori di quelli ottenibili con quest’ultima.

Invero, il carattere di strumentalità rispetto alla decisione di merito ontologicamente connaturato alla misura cautelare pare essere entrato in “tensione”, perlomeno in una certa misura, rispetto ad una tendenza, che talvolta si intravede nella prassi, ad assumere una funzione anticipatoria e quasi sostitutiva della pronuncia finale.

Si è affermato, da tale punto di vista, che con l’introduzione del principio di atipicità dei provvedimenti cautelari, il baricentro della relativa tutela si dirige più verso la sentenza da emanare che verso il provvedimento da sospendere.

In tale ottica, nell’anticipare gli effetti della sentenza di merito si finisce, in certi casi, per sostituirla.

La tendenza ora in commento trova terreno fertile nella atipicità delle misure cautelari e nel parallelismo che si può tracciare tra poteri decisori veri e propri attribuiti al giudice amministrativo e la gamma delle misure cautelari che il medesimo è abilitato a disporre, proprio al fine di assicurare fin da subito gli effetti della decisione sul ricorso, con conseguente necessità che in fase cautelare il giudice amministrativo debba poter assicurare, ricorrendone i presupposti, i vari effetti utili per il ricorrente conseguibili con la decisione finale.

Così ragionando, in altri termini, al fine di determinare le misure cautelari adottabili dal giudice amministrativo, occorre volgere lo sguardo ai poteri decisori di cui esso dispone, alla luce dell’ordinamento vigente.

Sul punto bisogna fare riferimento all’art. 34, comma 1, del Codice del processo amministativo, a norma del quale, il giudice amministrativo, in caso di accoglimento del ricorso, è abilitato a disporre, nei limiti della domanda: a) l’annullamento, totale o parziale, del provvedimento impugnato; b) l’ordine all’amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine; c) la condanna: al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, al risarcimento in forma specifica ovvero la condanna ad un facere ben preciso, al rilascio di un provvedimento richiesto nel contesto dell’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio, nei casi in cui l’annullamento del provvedimento impugnato non risulti più utile per il ricorrente ma rilevi ai soli fini risarcitori; d) nei casi di giurisdizione di merito, l’adozione di un nuovo atto, ovvero la modifica o la riforma quello impugnato; e) le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza.

Così, parallelamente, il giudice amministrativo sarà abilitato a pronunciare in sede cautelare, onde assicurare tutti gli effetti possibili della sentenza di merito, oltre alle misure istruttorie e a quelle sospensive del provvedimento impugnato, nel caso in cui sia fatto valere un interesse legittimo oppositivo, anche le misure propulsive con vincolo conformativo, nonchè quelle positive sostitutive, con le quali si attribuisce, sia pure provvisoriamente, al ricorrente titolare di un interesse legittimo di natura pretensiva il bene alla vita cui egli aspira, ciò con riferimento soprattutto a provvedimenti a contenuto vincolato o comunque di limitata discrezionalità ed, infine, le misure ordinatorie di carattere patrimoniale.

Ne deriverebbe, in sostanza, che l’ampliamento di tutela apprestabile dal giudice amministrativo ai sensi di quanto disposto dalla l. n. 205/2000 prima, e dal Codice del processo amministrativo, poi, avrebbe aperto, in forza del parallelismo ora in commento, la possibilità da parte del giudice amministrativo di “sostituirsi” all’amministrazione pubblica già in sede cautelare. In altri termini, il definitivo passaggio della giurisdizione amministrativa dal modello del giudizio sull’atto a quello del giudizio sul rapporto, ha finito per dischiudere nuovi orizzonti circa il contenuto, il grado di incisività e l’ambito applicativo delle misure cautelari propulsive e sostitutive, rendendo ammissibili già in tale sede valutazioni (tendenzialmente) sostitutive dell’azione amministrativa preordinate alla condanna nei confronti della pubblica amministrazione ad adempiere o ad assumere determinati provvedimenti.

Così, nella vigenza del Codice del processo amministrativo, pur dovendosi ritenere confermato da un punto di vista strutturale e formale il carattere strumentale della tutela cautelare, tuttavia si assiste ad una certa crisi o attenuazione della strumentalità o comunque ad una sua diversa considerazione, perlomeno con riferimento alle misure cautelari collegiali, anche, e forse soprattutto, ad opera dei giudici amministrativi.

In tale prospettiva, si registra una certa tendenza al superamento del rigido collegamento di strumentalità tra fase cautelare e giudizio di merito, nel senso che, fermo restando l’obbligo di non esorbitare dai poteri cognitori e decisori propri della sentenza di merito, la strumentalità  assume sempre più connotati anticipatori rispetto alla decisione finale, e, per certi versi pratici, anche sostitutivi della decisione finale stessa.

Sul punto, infatti, occorre considerare che la decisione sulla domanda cautelare può produrre effetti irreversibili (come ammesso dall’art. 55, comma 2, del Codice nel momento in cui esso introduce la possibilità di prevedere una cauzione) e, di fatto, giungere a definire i rapporti tra le parti, i quali potrebbero essere già esauriti nel momento in cui intervenga la sentenza di merito, che, proprio per tali motivi, può divenire superflua o comunque, nella prassi, accade che essa non viene più pronunciata.

É ben vero, come già accennato, che l’impostazione del Codice sul punto depone ancora per la strumentalità della misura cautelare rispetto alla decisione di merito, e ciò traspare, oltre che dalla previsione di cui al comma 1 dell’art. 55, che parla espressamente di misure “interinali”, ovvero provvisorie, anche da quanto disposto ai successivi commi 4, per cui “La domanda cautelare è improcedibile finché non è presentata l’istanza di fissazione dell’udienza di merito”, e 11, a norma del quale “L’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissa la data di discussione del ricorso nel merito”.

Tuttavia tale impostazione rischia di rimanere sulla carta se non accompagnata da una prassi conforme, la quale non di rado pare indirizzarsi diversamente, essendo il deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito ridotto ad una mera formalità e prendendo atto che spesso le ordinanze cautelari non fissano la data dell’udienza predetta, la quale, in tali casi, finisce per non tenersi mai.

Il carattere “anticipatamente decisorio” di talune ordinanze cautelari pare essere in qualche modo assecondato anche dal fatto che nel nostro sistema vi è corrispondenza tra il giudice cautelare e il giudice del merito: ciò determina la conseguenza che, una volta apprezzata l’esistenza del fumus boni juris in sede cautelare, difficilmente lo stesso giudice, o comunque lo stesso collegio, è portato a mutare orientamento nella successiva fase di merito che si svolge sulla medesima questione.

In tale ordine di idee, occorre constatare che nel momento in cui in sede cautelare si effettui una “ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (come richiesto dall’art. 55, comma 9, del Codice), inevitabilmente lo stesso giudice o collegio può tendere a rimanere fedele al convincimento originariamente maturato, sia pure solo in virtù di una cognizione sommaria.

Certamente, un’impostazione, come quella descritta di derivazione perlopiù giurisprudenziale, che elida in tutto, o comunque in buona parte, il carattere meramente strumentale della tutela cautelare in nome di una tendenza sostitutiva della decisione di merito, non può essere condivisa nel momento in cui ciò si traduca nella trasformazione del processo amministrativo in un giudizio sommario, condizionato da tempi processuali estremamente brevi e costretto entro confini angusti che non diano sufficiente garanzia di contraddittorio, di effettività della tutela, di realizzazione del dirito alla difesa, determinandosi, per tale via, l’ulteriore rischio di porre il ricorrente privato in una posizione tendenzialmente recessiva rispetto a quella dell’Amministrazione.

A ben vedere, però, il Codice del processo amministrativo prevede già diversi “meccanismi” che appaiono utili al fine di ricondurre ad equilibrio il rapporto tra ontologica strumentalità delle misure cautelari rispetto alla decisione di merito e tendenza, nella prassi, “anticipatamente decisoria” delle medesime, quale espressione degli accresciuti poteri del giudice amministrativo e della gamma di statuizioni che esso è abilitato a pronunciare, sia in sede di merito, che, parallelamente, nella fase cautelare, proprio al fine di assicurare fin da subito (tutti) i possibili effetti della decisione finale.

Un primo istituto che depone nel senso indicato è quello relativo alla celere fissazione dell’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, del Codice, il quale prevede, appunto, che il Tribunale Amministrativo Regionale procede, in sede cautelare, a fissare un’udienza di merito “a breve termine” nei casi in cui si ritenga che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente per tale via. Nello stesso senso, può provvedere anche il Consiglio di Stato, pronunciando un’ordinanza motivata sulle ragioni per cui ritiene di riformare l’ordinanza cautelare di primo grado e di trasmetterla al Tribunale Amministrativo Regionale per la sollecita fissazione dell’udienza di merito. 

In tali casi, il giudice amministrativo, nel momento in cui ritenga necessario l’approfondimento proprio della fase di merito e che, al contempo, non esista un pericolo imminente per il ricorrente, tale da non poter attendere gli esiti di un’udienza di merito fissata entro un breve termine, può procedere nel senso indicato, senza pertanto prendere posizione in sede cautelare sul merito della controversia. In siffatta ipotesi, è la tutela di merito che, di fatto, sostituisce quella cautelare, qualora ne ricorrano i presupposti, il che consente di pervenire ad una soluzione rispettosa dei principi generali del processo amministrativo e, di conseguenza, dei diritti di effettività della tutela e di difesa del ricorrente privato, garantendo, al contempo, una soluzione tempestiva della questione.

Un altro strumento significativo ai fini ora in esame può essere utilizzato qualora il collegio giudicante, nella fase cautelare, nel momento in cui abbia già accertato la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, ritenga di essere in grado, in camera di consiglio, di definire il giudizio con una sentenza redatta in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 del Codice del processo amministrativo. In sostanza, l’istituto appena ricordato è in grado di consentire al giudice amministrativo che ritenga di poter definire il giudizio fin da subito di farlo, non adottando un’ordinanza dagli effetti irreversibili e tendenzialmente sostitutiva della pronuncia di merito, bensì, pronunciando (sentite le parti e sempreche una di essi non intenda proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione) una vera e propria sentenza di merito, sia pure in forma semplificata.

Ne deriva, in ultima analisi, che il superamento del collegamento strumentale tra fase cautelare e di merito, nel senso fin qui indicato, non appare accettabile sotto il profilo dei principi generali e della struttura del processo amministrativo, ma nemmeno tale approdo risulta utile o necessario dal punto di vista pratico. Infatti, come appena illustrato, il Codice già attribuisce al giudice amministrativo, ricorrendone i presupposti, la possibilità di definire immediatamente o comunque celermente il giudizio con una pronuncia di merito, senza bisogno di sovvertire l’ontologico rapporto tra cautela e decisione finale, quali fasi del giudizio che rispondono a diverse finalità e presupposti, e che, pertanto, è bene non confondere e sovrapporre.

Pertanto, è auspicabile che i giudici amministrativi facciano buon uso degli strumenti già previsti dal Codice, limitando la pronuncia delle misure cautelari con effetti irreversibili a quelle situzioni in cui un siffatto provvedimento costituisca l’unico modo per scongiurare un pregiudizio effettivamente grave ed irreparabile in capo al ricorrente, secondo un’interpretazione stringente circa la sussistenza di tale condizione. Diversamente, sarebbe preferibile optare per la sollecita definizione della questione nel merito ovvero per l’assunzione, già in sede cautelare, di una sentenza in forma semplificata, laddove le esigenze di urgenza o comunque di celerità sussistano, tanto da non poter attendere una pronuncia di merito secondo la procedura “ordinaria”, ma non siano estremamente stringenti, risultando, così, compatibili, con i tempi necessari al deposito di una sentenza redatta in forma semplificata o con i tempi propri di una trattazione nel merito “a breve”, fatta salva la facoltà di sospendere, nel frattempo e cautelativamente, gli effetti del provvedimento impugnato o di adottare altre misure che consentano di pervenire ad una decisione “re adhuc integra“, ovvero senza alcuna compromissione della posizione del ricorrente.

3. I provvedimenti cautelari monocratici a contenuto decisorio.

In nome di una completa ed esauriente tutela dei principi di effettività della tutela, almeno sotto il profilo della tempestività di un intervento del giudice amministrativo tale da non compromettere la posizione del ricorrente in attesa della decisione, il Codice del processo amministrativo, portando a compimento un percorso sviluppatosi sia a livello giurisprudenziale che normativo, contempla, come è noto, la possibilità di ottenere misure cautelari monocratiche già prima della trattazione in sede collegiale o, addirittura, dell’instaurazione del ricorso.

Dal primo punto di vista, la legge n. 205/2000 ha introdotto, rispondendo alle sollecitazioni della giurisprudenza, la tutela monocratica presidenziale che, all’epoca, era previsto si svolgesse inaudita altera parte, la cui disciplina è poi rifluita, con significative “correzioni”, nel disposto di cui all’art. 56 del Codice del processo amministrativo.

Dal secondo angolo visuale, la tutela cautelare ante causam, ovvero quella abilitata ad intervenire prima ancora dell’instaurazione del giudizio, è stata introdotta nel nostro ordinamento, dapprima con riferimento ai contratti pubblici (art. 245 del previgente Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e, poi, in via generalizzata (art. 61 del Codice del processo amministrativo). Ciò sulla base dell’impulso decisivo impresso dalla Corte di giustizia, la quale ha statuito, sempre in tema di appalti, che gli Stati membri sono tenuti a conferire ai propri organi giurisdizionali la facoltà di adottare, indipendentemente dalla previa proposizione di un ricorso nel merito, qualsiasi provvedimento provvisorio (compresi quelli volti a sospendere la procedura di aggiudicazione).

Nella prospettiva di indagine in corso, pare utile ricordare come sono normativamente articolati i rispettivi procedimenti ed individuare i tratti comuni della tutela cautelare monocratica, al fine di illustrare come, talvolta, anche i provvedimenti cautelari assunti in via monocratica assumano una funzione sostanzialmente decisoria, anticipando o comunque condizionando la valutazione collegiale, secondo uno schema simile a quello segnalato relativamente al rapporto tra fase cautelare (collegiale) e fase di merito del processo amministrativo.

3.1. Le misure cautelari monocratiche in corso di causa.

L’art. 56 del Codice del processo amministrativo consente di ottenere un decreto presidenziale monocratico che disponga misure cautelari provvisorie in caso di “estrema gravità ed urgenza” tale da non consentire neppure la dilazione fino alla trattazione collegiale della domanda cautelare in camera di consiglio.

A differenza di quanto era previsto nell’ordinamento previgente, sotto la cui vigenza, come già accennato, il decreto presidenziale poteva intervenire “anche in assenza di contraddittorio”, nella formulazione vigente è prevista la notificazione del ricorso e, a tal proposito, il presidente o il magistrato dal lui designato sono tenuti a verificare, prima di emettere il decreto, che essa si sia regolarmente perfezionata “nei confronti dei destinatari o almeno della parte pubblica e di uno dei controinteressati”. Nel caso in cui l’esigenza cautelare sia tanto urgente da non consentire l’accertamento del perfezionamento delle notificazioni, per cause non imputabili al ricorrente, viene disposto che il presidente possa comunque provvedere, fatto salvo il potere di revoca. Inoltre, ove ritenuto necessario quest’ultimo, fuori udienza e senza formalità, può sentire, anche separatamente, le parti che si siano rese disponibili prima dell’emanazione del decreto. 

Nella disciplina vigente, pertanto, è prevista l’instaurazione di una qualche forma di contraddittorio, anche se attenuata in ragione dell’esigenza di particolare celerità di apprestare la misura cautelare; così, resistente e controinteressato sono posti, almeno in astratto, nella condizione di conoscere la proposizione dell’istanza cautelare, oltre che del ricorso vero e proprio, e, conseguentemente, di presentare tempestivamente documenti o memorie, o comunque di essere sentiti informalmente, allo scopo di contestare la sussistenza dei presupposti per la concessione della misura cautelare monocratica, anche se nella prassi, ciò pare avvenire raramente. 

In sostanza, il decreto presidenziale monocratico riveste una funzione strumentale rispetto alla fase cautelare collegiale, sulla falsariga del rapporto che viene a sussistere tra ordinanza collegiale e decisione di merito, nei termini in precedenza ricostruiti, in un’ottica di effettività della tutela giurisdizionale, almeno sotto il profilo della tempestività dell’intervento del giudice teso a “cristallizzare” la situazione per il tempo necessario a giungere alla decisione di merito.

Tale rapporto rispetto alla trattazione in sede collegiale della domanda cautelare viene sottolineato da diverse previsioni che, tenuto conto del contraddittorio molto limitato, enfatizzano il carattere provvisorio del decreto monocratico: da questo punto di vista, si considerino le previsioni dell’art. 56 in commento per cui: la domanda cautelare è improcedibile finché non è presentata l’istanza di fissazione d’udienza per il merito (comma 1); il decreto, nel quale deve essere comunque indicata la prima camera di consiglio utile, è efficace, in caso di accoglimento, sino a detta camera di consiglio e perde comunque efficacia se il collegio non provvede sulla domanda cautelare (comma 4, primo e secondo periodo); fino a quando conserva efficacia, il decreto è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte notificata (comma 4, ultimo periodo).

Una criticità che si può cogliere consiste nel tempo che separa l’emissione del decreto monocratico e la camera di consiglio la quale, ai sensi dell’art. 55, comma 5, del Codice, deve essere la prima utile successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. In tale prospettiva, soprattutto ove per motivi organizzativi e dimensionali dei Tribunali Amministrativi Regionali le camere di consiglio non siano previste a cadenze molto ravvicinate, o nel periodo estivo, il provvedimento cautelare monocratico, pur ontologicamente provvisorio, potrebbe comunque produrre, nei fatti, effetti irreversibili e, dunque, definitivi, prima della valutazione collegiale, la quale, come visto, può anche non intervenire in tempi brevissimi.   

Così, si potrebbe ravvisare, dal punto di vista appena assunto, un rischio simile, almeno per certi versi, a quello evidenziato a proposito del rapporto tra ordinanza collegiale e sentenza di merito. In altri termini, la natura dell’intervento cautelare monocratico dovrebbe presupporre una stretta provvisorietà, e dunque precarietà, dei propri effetti (e tale impostazione pare evidente nel disposto del Codice); tuttavia, nei fatti, può accadere che, ove la trattazione collegiale segua ad una certa distanza di tempo l’emissione del decreto monocratico, attraverso quest’ultimo si pervenga ad un assetto di interessi già di per sè satisfattivo delle richieste del ricorrente, ma a seguito di una cognizione estremamente sommaria e, come si vedrà, per effetto di una decisione legislativamente ritenuta non  impugnabile.

Il descritto rischio risulta essere in una certa misura controbilanciato considerando che è prevista una qualche forma di contraddittorio, sia pure attenuata e calibrata sulla particolare celerità con cui il presidente, o suo delegato, è chiamato ad intervenire, nonchè tenuto conto della facoltà attribuita al medesimo di disporre la prestazione di una cauzione, proprio “con riguardo all’entità degli effetti irreversibili che possono prodursi per le parti e i terzi”.

Ne consegue che, ancora una volta, si intravede la possibile assunzione da parte della misura cautelare monocratica di una funzione per certi versi anticipatamente decisoria. 

Ciò anche da un altro punto di vista: sebbene l’art. 56 non disponga espressamente la necessità di evidenziare, in sede di adozione del provvedimento cautelare monocratico, i “profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (c.d. fumus boni juris), come invece testualmente previsto all’art. 55 in tema di misure cautelari collegiali, ciò nondimeno si ritiene che il decreto debba essere “motivato”, non solo in punto di  “estrema gravità ed urgenza” (periculum in mora), ma anche in punto di verosimile accoglibilità del ricorso.

Tale esigenza, se da un lato, risulta ineluttabile, al fine di evitare pronunce giurisdizionali completamente avulse da un sia pure minimo esame circa la verosimile fondatezza delle pretese del ricorrente e dunque circa la illegittimità del provvedimento impugnato, dall’altro lato, può favorire una sorta di anticipazione della decisione la quale, pur rimessa formalmente al collegio, trovi nel precedente cautelare, ove ben circostanziato in punto di fumus, già una presa di posizione, magari autorevole in quanto espressa dal presidente della sezione, in grado, non formalmente, ma nei fatti, di influire, in una qualche misura, sulla decisione collegiale stessa. 

Ne deriva, in definitiva, che il carattere anticipatamente decisorio della misura cautelare monocratica può trovare una sua ragion d’essere, non solo nei tempi che talvolta separano il decreto presidenziale dall’ordinanza collegiale, potenzialmente non così brevi, ma anche nella prospettiva della, pur necessaria, valutazione già in sede monocratica-presidenziale del fumus che assiste il ricorso.

In tale ottica, appare sempre più rispondente alla realtà la considerazione per cui la fase cautelare, talvolta anche quella monocratica, può rappresentare il momento centrale del processo amministrativo nonchè quello decisivo per le sorti del ricorrente. 

Ciò può accadere con una certa facilità quando si tratti, ad esempio, di fronteggiare situazioni di emergenza, che esauriscono i loro effetti prima della trattazione in sede collegiale.

Si profila così il rischio, che appare concreto, per cui le valutazioni giudiziali decisive siano  anticipate all’esito di una cognizione non solo sommaria, come quella che avviene da parte del collegio, ma addirittura particolarmente sommaria e, perdipiù, effettuata in sede monocratica, con limitate possibilità di contraddittorio nonchè attraverso un provvedimento che la legge definisce non impugnabile.

3.2. Le misure cautelari anteriori alla causa.

Come accennatto poc’anzi, con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, si è generalizzata la possibilità di acedere ad una tutela cautelare ante causam, ovvero, a norma dell’art. 61 del Codice stesso, di ottenere le misure interinali e provvisorie che appaiono “indispensabili” in caso di “eccezionale” gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la redazione e la notificazione del ricorso.

Analogamente a quanto disposto in tema di tutela cautelare monocratica in corso di causa, anche il procedimento ante causam presuppone l’instaurazione di qualche forma di contraddittorio: infatti, non solo la relativa istanza deve essere notificata con le forme previste per il ricorso (all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati, se esistenti), ma è anche necessario che il presidente, o magistrato delegato, accerti il perfezionamento della notificazione stessa prima di provvedere oppure, qualora ciò non sia possibile per causa non imputabile al ricorrente, “soccorre” il potere di revoca del decreto assunto senza aver svolto la predetta verifica; inoltre, è parimenti prevista la possibilità di sentire le parti, ove necessario ed “omessa ogni altra formalità”. 

Il vincolo di strumentalità rispetto alla tutela monocratica in corso di causa appare stringente, anche sotto il profilo della definizione di precise tempistiche: infatti, l’art. 61, comma 5, del Codice, dopo avere disposto che il provvedimento di accoglimento è notificato dal richiedente alle altre parti entro il termine perentorio fissato dal giudice, non superiore a cinque giorni, prevede che il provvedimento in parola perde comunque effetto ove entro quindici giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni corredato da istanza di fissazione di udienza; in ogni caso, sempre per espressa previsione codicistica, la misura cautelare ante causam perde effetto con il decorso di sessanta giorni dalla sua emissione, dopo di che restano efficaci le sole misure cautelari che siano confermate o disposte in corso di causa. 

D’altro canto, occorre notare che il termine di efficacia massima del decreto cautelare, ovvero sessanta giorni, non è poi così breve, potendosi generare, nelle more della notifica del ricorso con proposizione di istanza cautelare in causa e della successiva fissazione della camera di consiglio, effetti irreversibili che non sempre, o solo in parte, possono essere compensati dalla previsione di una cauzione.

Così, ancora una volta, la funzione che si è definita “anticipatamente decisoria” che talvolta connota l’intervento cautelare in sede monocratica, appare ancora più “rischiosa”, sotto il profilo del diritto alla difesa e al contraddittorio in relazione alla possibile produzione di effetti irreversibili, qualora il predetto intervento dovesse intervenire “ante causam“, il che, invero, non accade di frequente.

Tuttavia, anche solo in astratto, bisogna tenere conto che, nel caso ora in esame, la valutazione alla quale è chiamato il presidente, o suo delegato, risulta inevitabilmente ancora più sommaria di quanto possa avvenire rispetto al decreto emanato in corso di causa, e ciò per la fondamentale ragione che nel procedimento ante causam non vi è un ricorso con l’esposizione completa del fatto e dei motivi di diritto, ma, molto più semplicemente, una “istanza” che, verosimilmente, si concentra solo sul requisito della “eccezionale gravità ed urgenza” e non tanto, o addirittura, per niente sul fumus boni juris. Analoghe considerazioni valgono anche per le controparti, alle quali sarebbe riconosciuta la possibilità di interloquire e contraddire sulla base, non di un ricorso, ma di una “istanza”. 

D’altro canto, il senso della richiesta di una tutela cautelare monocratica anteriore alla causa presuppone che non vi sia il tempo nemmeno di redigere il ricorso stesso.

Così, se si ritiene che il decreto cautelare ante causam debba esprimersi anche sul possibile esito del ricorso, tale operazione risulta particolarmente delicata, per non dire azzardata, nel momento in cui il presidente o suo delegato non abbiano nemmeno il quadro completo della situazione perlomeno dal punto di vista del ricorrente e, tantomeno, sia verosimilmente possibile un minimo di contraddittorio con le altre parti.

Ne consegue che l’esigenza, di matrice comunitaria, di apprestare un rimedio cautelare anche prima della instaurazione del giudizio può entrare in tensione con il principio per cui il giudizio stesso può essere definito solo all’esito di una fase di merito a contraddittorio pieno. 

In tale ottica, una tutela cautelare che intervenga ancora prima della proposizione del ricorso e che sia destinata, in caso di accoglimento, e salva la possibilità di revoca e modifica, a durare fino a sessanta giorni (per poi cedere il passo a provvedimenti assunti in corso di causa, ma sempre in via cautelare) rischia di far pervenire ad un certo assetto (anche irreversibile) degli interessi in gioco per effetto di una valutazione estremamente sommaria, in un contesto in cui la possibilità di contraddittorio appare inesistente, o quasi, e in forza di un provvedimento non impugnabile.

In altri termini, si affaccia anche dalla prospettiva ora esaminata il rischio che l’interesse all’instaurazione del giudizio di merito da parte del ricorrente si esaurisca nell’ottenimento della misura cautelare, di per sè già soddisfacente, e, quindi, definitiva, ma con un sacrificio significativo del diritto di difesa delle altre parti, il quale sacrificio sarebbe particolarmente marcato ove la decisione collegiale affondi le proprie radici in un intervento assunto in sede monocratica in cui si sia già preso posizione sul possibile esito del ricorso o comunque si siano assunte decisioni comportanti effetti irreversibili sui rapporti giuridici coinvolti.

Per questo, il rimedio della tutela cautelare ante causam andrebbe utilizzata con estrema parsimonia e con espresso rinvio almeno alla trattazione collegiale, da svolgersi in camera di consiglio più che tempestivamente, in ordine all’accertamento del fumus boni juris.

4. L’impugnabilità dei decreti cautelari monocratici a contenuto decisorio in un’ottica di effettività della tutela.

Uno specifico aspetto che incide sulle riflessioni che si stanno conducendo, e di cui si è già avuto modo di accennare, è quello relativo alla ritenuta non impugnabilità dei provvedimenti cautelari monocratici.

Sul punto, l’art. 56, comma 2, del Codice del processo amministrativo prevede testualmente che sulla domanda di tutela cautelare in corso di causa, il presidente, o magistrato da lui delegato, provvede con decreto motivato “non impugnabile”, ferma restando la possibilità di revoca o modifica su istanza di parte notificata, da utilizzare, evidentemente, nel caso di mutamenti della situazione.

L’art. 61, inoltre, in tema di tutela cautelare ante causam, dispone, al comma 4, che il decreto di rigetto dell’istanza non è impugnabile, salva la possibilità di riproporla dopo l’inizio del giudizio di merito con le forme delle domande cautelari in corso di causa, mentre il successivo comma 5 prescrive che il provvedimento di accoglimento non è appellabile anche se, fino a quando conserva efficacia, esso è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte previamente notificata.

Nonostante il dato normativo che appare chiaro sul punto della non impugnabilità dei decreti cautelari monocratici, data la loro “ontologica” provvisorietà in vista della pronuncia collegiale da cui è destinato ad essere assorbito, taluna giurisprudenza ha creato una “breccia” piuttosto significativa rispetto a tale regola, ritenendo ammissibile l’appello avverso il provvedimento monocratico di primo grado “quando vi siano eccezionali ragioni d’urgenza, tali da rendere irreversibile – per il caso di mancata emanazione di una misura monocratica in sede d’appello – la situazione di fatto, a causa del tempo che intercorre tra la data di emanazione del decreto appellato e la data nella quale è fissata la camera di consiglio per l’esame della domanda cautelare, da parte del T.AR. in sede collegiale”. In altri termini, si è ritenuta ammissibile l’impugnazione di un decreto monocratico presidenziale del Tribunale Amministrativo Regionale, sia pure nei “soli, limitatissimi, casi in cui l’effetto del decreto presidenziale del T.A.R. produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita”, il quale “corrisponda ad un diritto costituzionalmente tutelato dell’interessato”.

Diversamente, altra parte della giurisprudenza, muovendo dal dato testuale codicistico poc’anzi ricordato, propende nettamente per la non impugnabilità del provvedimento cautelare monocratico, con conseguente improcedibilità dell’appello eventualmente proposto in tal senso. Ciò in considerazione del fatto che il predetto provvedimento è suscettibile di revisione nello stesso grado o con lo stesso mezzo od in occasione della conseguente collegiale camera di consiglio. In altre circostanze, è stato pronunciato addirittura un “non luogo a provvedere” sull’appello, ritenendo che la pronuncia cautelare collegiale del Consiglio di Stato sia configurata esclusivamente quale rimedio avente ad oggetto una decisione cautelare assunta in primo grado nella sede collegiale oppure rilevando l’inesistenza del rimedio giuridico in questione, “esulando dalla competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge.

La diversità di impostazioni che si rinviene in giurisprudenza poggia sulla differente interpretazione e bilanciamento dei principi costituzionali in tema di diritto di difesa e di effettività della tutela (artt. 24 e 113 Cost.), con particolare riferimento ai principi di indefettibilità della tutela cautelare in ogni fase e grado del processo nonchè del doppio grado di giudizio nella giurisdizione amministrativa (art. 125 Cost.), declinato anche con riferimento alla fase cautelare del processo.

Il dibattito ha trovato spunto in alcune pronunce, risalenti ma ancora significative, dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale, riferendosi al tema dell’appellabilità delle istanze cautelari, all’epoca non prevista, era giunta a statuire, su di un piano più generale, che il regime di impugnabilità di un atto processuale dipende non dalla sua natura o dal suo nomen juris, bensì dal suo contenuto, con la conseguenza che laddove un provvedimento giurisdizionale sia risolutivo di una controversia, per ciò solo si tratterebbe di un atto impugnabile, non potendosi rinvenire, perlomeno nel contesto entro cui è stata resa la decisione ora in commento, alcun principio di tassatività dei mezzi di impugnazione. In una seconda pronuncia, sempre il massimo consesso della giustizia amministrativa, aveva sancito l’applicabilità del principio del doppio grado di giudizio anche rispetto alla fase cautelare del processo amministrativo, e ciò sulla scorta del riconoscimento effettuato dalla Consulta per cui nell’ambito della giurisdizione amministrativa, ivi compresa la fase cautelare, il principio del doppio grado di giurisdizione trova una rilevanza costituzionale nel disposto di cui all’art. 125 della Carta fondamentale, il che si spiega per il fatto che tale giurisdizione verte particolarmente nella sfera del pubblico interesse rendendo, quindi, (sempre) opportuno il riesame delle pronunce dei tribunali di primo grado da parte del Consiglio di Stato, quale organo di vertice del sistema di giustizia amministrativa. 

Muovendo da tali presupposti giurisprudenziali è stato osservato che la possibilità di tutela giurisdizionale, corrispondendo ad un diritto fondamentale dell’individuo, deve essere riconosciuta sempre, ove necessario, con l’utilizzazione di tutti i rimedi che astrattamente l’ordinamento ammette siano esperiti, anche al di là delle previsioni ostative del legislatore che, da tale prospettiva, dovrebbero considerarsi costituzionalmente illegittime o comunque dovrebbero essere interpretate in senso costituzionalmente orientato.

In maniera conforme, si è ritenuto che l’appellabilità dei decreti cautelari si ponga in termini tutt’altro che eccentrici rispetto al sistema di tutela giurisdizionale nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione, soprattutto se considerata dal punto di vista dell’effettività della tutela stessa, in nome della quale appare quasi doveroso assicurare (anche) il rimedio ora in questione, in quanto finalizzato ad evitare un danno irreparabile, con buona pace delle esigenze del contraddittorio, che comunque viene in qualche modo consentito, e della collegialità del giudizio, destinata in ogni caso ad intervenire e ad assorbire la pronuncia monocratica.

D’altro canto, ad avvalorare la tesi opposta, ovvero quella della non impugnabilità dei decreti cautelari monocratici, si è dubitato del carattere indefettibile e costituzionalmente riconosciuto del principio del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo.

La stessa Corte costituzionale, tornando sul precedente poc’anzi menzionato, è giunta a precisare  che l’art. 125 Cost. comporta soltanto l’impossibilità di attribuire al Tribunale Amministrativo Regionale competenze giurisdizionali in unico grado, con la conseguente necessaria appellabilità di tutte le sue pronunce. Ne deriva, secondo tale prospettiva, che la garanzia del doppio grado dovrebbe essere intesa come riferita alle controversie che il legislatore ordinario attribuisca agli organi locali della giustizia amministrativa: solo in tal senso, continua la Consulta, assume rilevanza costituzionale il principio del doppio grado di giudizio, non potendo, il predetto art. 125 comportare l’inverso, perché nessun’altra norma Costituzione indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado.

In dottrina, analogamente, si è ritenuto che il principio del doppio grado nel processo amministrativo non implica che su ogni questione sollevata da un ricorso debbano pronunciarsi il Tribunale Amministrativo Regionale in primo grado e (in caso d’appello) il Consiglio di Stato in secondo grado, né tanto meno che siano assicurati, rispetto ad ogni ricorso, nel caso di appello, due diversi giudizi sul merito. Conformemente, si è osservato che l’art. 125 Cost. nulla dispone in ordine al secondo grado, limitandosi a prevedere un primo grado: così facendo, secondo l’impostazione ora in commento, il costituente avrebbe voluto garantire l’istituzione di organi locali di giustizia amministrativa, a fronte della competenza generale assorbente dell’allora unico giudice con giurisdizione generale nei confronti della pubblica amministrazione, che era il Consiglio di Stato, senza per questo che si possa ragionevolmente affermare che il costituente stesso abbia voluto altresì garantire la revisione completa in sede di Consiglio di Stato delle pronunzie del giudice amministrativo. 

Nel senso ora in esame, ovvero quello contrario all’ammissibilità dell’impugnazione dei decreti cautelare monocratici, si è invocata l’applicabilità anche al processo amministrativo del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione. 

In giurisprudenza, sul tema, si è rilevato, da un lato, che, perlomeno in linea generale, nel processo amministrativo devono considerarsi oggetto di gravame solo i provvedimenti del giudice di primo grado che espressamente la legge qualifica come impugnabili, non senza specificare, però, dall’altro lato, che secondo un’impostazione sostanzialistica si possono ritenere impugnabili anche le pronunce che, pur non avendo la forma esteriore di sentenza, abbiano un reale contenuto decisorio della controversia, il che si verifica allorché esse esplicitamente o implicitamente risolvano in tutto o in parte la questione che oppone le parti, ovvero un punto pregiudiziale di essa.

Così, inserendo la questione dell’appellabilità delle misure cautelari monocratiche nell’ambito dell’indagine che si è fin qui condotta, si può concludere che, preso atto della funzione “anticipatamente decisoria” che talora viene assunta da tali provvedimenti, risulta da considerare con favore la “breccia” che taluna giurisprudenza ha aperto rispetto alle previsioni legislative testualmente ostative all’ammissibilità dell’impugnazione, pur se con riferimento ai soli casi in cui si tratti di evitare un pregiudizio irreparabile nelle more della celebrazione della camera di consiglio in primo grado.

In altri termini, si potrebbe ragionevolmente condividere l’impostazione, poc’anzi illustrata, per cui il principio generale di tassatività dei mezzi di impugnazione non osti, in un’ottica di effettività della tutela, al riconoscimento della possibilità di impugnare una pronuncia di carattere sostanzialmente decisorio, quale può essere in certi casi la misura cautelare monocratica. In tale ottica, occorre  considerare che  pur trattandosi di pronunce ontologicamente caratterizzate da efficacia provvisoria e limitata nel tempo, essendo inesorabilmente destinate ad essere assorbite nella valutazione collegiale o comunque a venir meno per effetto del decorso di un certo periodo di tempo, ciònondimendo può accadere, come esplicitamente ammesso dal legislatore, che si producano, proprio per effetto dell’intervento cautelare monocratico, effetti irreversibili non sempre o non totalmente compensabili con la previsione di una cauzione.

Del resto, per i motivi che si è cercato di illustrare, la fase cautelare può essere quella in cui si profila già la decisione sul merito del ricorso, e che talvolta ciò avviene anche in sede monocratica, ove il presidente, o suo  delegato, in certi casi prendono una posizione già netta e chiara in punto di fumus boni juris, con ciò anticipando o comunque condizionando in qualche modo la successiva pronuncia collegiale. Ciò è tanto più rispondente alla realtà, quanto più si tratti di decidere su situazioni di natura emergenziale, nel qual caso può capitare che l’emergenza stessa venga meno nelle more della fissazione della camera di consiglio oppure che gli effetti decisori prodotti dalla decisione cautelare monocratica siano chiaramente irreversibili.

D’altro canto, come si è detto, è stata introdotta anche nella fase cautelare monocratica una certa forma di contraddittorio, pur se compatibile con le stringenti esigenze di celerità che vengono in considerazione in tali situazioni. A questo proposito, si potrebbe obiettare che, come rilevato in precedenza, si tratta di una possibilità di contraddittorio estremamente ridotta, la quale rischia di rimanere meramente teorica, essendo nei fatti molto difficile che la controparte sia in grado di articolare una sia pure minima difesa nei tempi ristrettissimi in cui interviene un decreto cautelare: d’altro canto, però, bisogna pure apprezzare il fatto che si è abbandonata l’impostazione previgente per cui la misura in questione veniva adottata anche inaudita altera parte. Forse, in tale prospettiva, sarebbe il caso che la facoltà di sentire le parti prevista dal Codice fosse maggiormente valorizzata nella prassi, quale strumento atto a favorire un minimo livello di contraddittorio, perlomeno quando si tratti di assumere decisioni cautelari monocratiche dotate di una qualche valenza decisoria, sia pure provvisoria.

In definitiva, nell’ambito di una logica di bilanciamento tra diversi valori ed interessi, il sacrificio che può venire richiesto, in nome dell’effettività della tutela, rispetto ai principi di collegialità, contraddittorio e pienezza di cognizione, potrebbe essere ulteriormente compensato ammettendo l’impugnabilità dei provvedimenti cautelari monocratici aventi valore sostanzialmente decisorio quando si tratti di evitare un danno irreversibile alla sfera giuridica del ricorrente nelle more della valutazione collegiale in sede cautelare di primo grado.

Per tale via, si potrebbe pertanto arricchire la gamma di “contromisure” che l’ordinamento appresta a fronte dell’assunzione di un provvedimento sostanzialmente decisorio a seguito di una cognizione (particolarmente o estremamente) sommaria da parte di un organo monocratico,  la quale gamma già annovera la facoltà di disporre una cauzione e la previsione di un, sia pure limitato, contraddittorio.

Ove, diversamente, l’intervento cautelare monocratico non rivesta il benchè minimo valore decisorio e non sussista la stringente esigenza di evitare un danno irreparabile nelle more della celebrazione della camera di consiglio in primo grado, pare invece dirimente la considerazione della natura  provvisoria e strumentale del provvedimento monocratico. Pertanto, in tali casi, proprio attribuendo prevalenza al carattere per definizione interinale della misura in questione, si potrebbe ragionevolmente farne derivare la non impugnabilità in sede di appello, anche allo scopo di evitare complicati “intrecci” di giudizio tra primo e secondo grado.

Proprio a quest’ultimo proposito, una volta giunti, perlomeno nelle intenzioni, a proporre un bilanciamento a livello di principi, potrebbero individuarsi residue difficoltà dal punto di vista della tecnica processuale. In tale prospettiva, infatti, occorre prevenire l’insorgenza di un incrocio tra provvedimenti cautelari in appello e decisioni collegiali in primo grado, stante il fatto che il contenuto dei primi potrebbe influire sulla serenità con cui vengano assunte le seconde: a tale scopo, la decisione d’appello sul decreto monocratico di primo grado deve poter intervenire prima che il collegio sia chiamato a pronunciarsi in primo grado.

Sul punto, è intervenuta anche la giurisprudenza in precedenza citata che si è espressa a favore della impugnabilità, nei casi indicati, del provvedimento cautelare monocratico emesso in primo grado: proprio sotto il profilo della tecnica processuale e allo scopo di tentare di scongiurare “intrecci” tra giudicati o condizionamenti inopportuni, si è rilevato che il Presidente della Sezione del Consiglio di Stato, o il magistrato delegato, se ritiene di accogliere l’appello e di riformare il decreto impugnato, emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile, e che comunque perde effetti quando il Tribunale Amministrativo Regionale esamina la domanda cautelare nella ordinaria sede collegiale. Ciò posto, resta fermo il fatto che quest’ultimo, ove ritenesse di non condividere il decreto reso in sede d’appello (anche se, in ipotesi, “confermato” dall’ordinanza del Consiglio di Stato in sede collegiale nella relativa peculiare fase incidentale), è legittimato a decidere la domanda cautelare posta al suo esame con la pienezza dei propri poteri.

Tutto ciò posto, si possono concludere le riflessioni fin qui condotte ribadendo l’opportunità, de jure condendo, di ammettere, sulla scia della giurisprudenza che si è già espressa in tal senso, l’impugnabilità dei decreti cautelari di natura decisoria allorquando si tratti di evitare un pregiudizio irreversibile alla sfera giuridica del ricorrente nelle more della valutazione collegiale in primo grado, ritenendo prevalente, in tali ipotesi, la necessità di assicurare l’effettività della tutela. 

Viceversa, in mancanza di siffatti presupposti, da accertare con rigore, sarebbe auspicabile che l’esigenza cautelare sia valutata e risolta nel medesimo grado di giurisdizione, così da assicurare coerenza con il carattere provvisorio e strumentale che connota il provvedimento cautelare monocratico, sul piano dei principi, nonchè evitando il rischio di un “intreccio” di pronunce, collegiali e monocratiche, in primo e secondo grado, comunque complicato da gestire, sul piano della tecnica processuale.

Del resto, in difetto dei presupposti predetti, bisogna anche ammettere che la possibilità di revoca o modifica della misura monocratica oppure di riproposizione dell’istanza cautelare ante causam in corso di giudizio paiono costituire una garanza adeguata per il ricorrente, senza che, pertanto, sorga la necessità di un rimedio di appello che sembra potersi giustificare solo, superando una certa “incoerenza” rispetto alla natura strettamente interinale della misura cautelare monocratica, se indispensabile per assicurare la, in questo caso prevalente, necessità di effettività della tutela nell’ottica di pervenire ad una decisione giurisdizionale in un quadro non irrimediabilmente compromesso per il ricorrente.

Abstract

Le riflessioni che si sono svolte hanno trattato, in via introduttiva, il tema della tutela cautelare nel processo amministrativo la quale, pur astattamente connotata da caratteri di provvisorietà e strumentalità nei confronti della sentenza di merito, è venuta, nel corso del tempo, a rappresentare uno snodo fondamentale nel processo amministrativo, finendo non di rado per svolgere una funzione anticipatoria o addirittura sostitutiva, per certi versi, rispetto alla pronuncia a cognizione piena propria della fase di merito.

Ciò posto, la prospettiva di indagine si è rivolta verso la tutela cautelare apprestata in via monocratica, anteriormente o in corso di causa, giungendo a mettere in luce come talvolta anche i provvedimenti giudiziali emanati in tale sede assumano una natura sostanzialmente decisoria, anticipando o magari condizionando, in un certo senso, la valutazione collegiale.

Infine, proprio prendendo atto di quanto emerso in ordine alla funzione e alle caratteristiche che possono assumere i provvedimenti cautelari monocratici, se ne è auspicata l’impugnabilità, nonostante il dato normativo testualmente ostativo, sia pure limitatamente ai casi in cui essi rivestano una natura chiaramente decisoria e al solo fine di scongiurare un danno irreparabile nella sfera giuridica del ricorrente nelle more della valutazione collegiale in primo grado.