Di Alessandra Abbate
L’esame parte dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 26806/2009 che ha escluso la giurisdizione contabile sull’azione di responsabilità degli amministratori e dei dipendenti della società partecipata per i danni ad essa arrecati sulla base di quattro ragioni concorrenti:
a) le società in questione non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico;
b) non è utile invocare l’esistenza di un rapporto di servizio il quale può sussistere, in ipotesi, tra società ed ente pubblico, ma non tra quest’ultimo e gli amministratori della società i quali non si identificano con essa;
c) in ogni caso se il danno è dedotto a carico della società, esso non è erariale perché non è imputabile direttamente all’ente pubblico-socio, stante la distinta personalità giuridica e autonomia patrimoniale della società rispetto ai soci. Sebbene tale danno possa indirettamente ripercuotersi anche sui soci e sul valore della loro partecipazione, si tratta di un danno subito in via diretta dal patrimonio sociale della società alla quale sola spetta il risarcimento;
d) se si ipotizzasse il possibile concorso tra l’azione del procuratore contabile e l’azione sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, stante la diversità delle rispettive caratteristiche delle differenti azioni.
Secondo la medesima sentenza la giurisdizione contabile rimarrebbe sussistente in due ipotesi residuali, con un possibile concorso del danno erariale con quello civile:
a) il primo caso riguarda chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione; si tratterebbe cioè di un danno arrecato all’ente pubblico non dall’amministratore della società ma dal rappresentante dell’ente nella società la cui responsabilità amministrativa sorge nel rapporto contrattuale organico con l’ente pubblico;
b) il secondo caso riguarda gli amministratori e i sindaci che, compromettendo la ragione stessa della partecipazione dell’ente pubblico, causano un danno direttamente al socio pubblico.
A tale sistema fanno eccezione le società che, avendo lo statuto giuridico speciale, hanno natura sostanzialmente pubblica, giustificandosi l’azione di responsabilità per danno erariale nei confronti degli amministratori e dipendenti (vedi Cassazione Sezioni Unite n. 27092/2009 sulla Rai).
Tale orientamento appare seguito dalla giurisprudenza prevalente della Suprema Corte. Tuttavia così non è per l’ordinanza SS.UU. n. 10063/2011, la quale, pur richiamando il precedente del 2009, da esso divergendo, afferma che ai fini della sussistenza del danno erariale e della giurisdizione contabile ha rilievo solo il fatto che il danno sia arrecato ad un soggetto che, svolgendo un servizio pubblico, è considerato avere natura sostanziale di ente pubblico (organismo di diritto pubblico). L’ordinanza fa proprio un approccio sostanzialista che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a partire dall’ordinanza numero 19667/2003, hanno privilegiato “per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento, o almeno di un grave indebolimento, della giurisdizione della Corte contabile in punto di responsabilità” (così SSUU n. 26806/2009).
Nel segno della continuità invece appare la successiva sentenza n. 3692/2012 sempre delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Con tale pronuncia le Sezioni Unite forniscono infatti continuità all’orientamento giurisprudenziale più di recente invalso (Cass., sez. Un., 19 dicembre 2009, n. 26806; Id., 19 gennaio 2010, n. 674; Id., 7 luglio 2011, n. 14957; Id., 12 ottobre 2011, n. 20940; Id., 5 luglio 2011, n. 14655), secondo cui l’autonomia dello strumento societario conforma l’esperibilità dell’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e dipendenti che, nel condurre la propria azione, abbiano perpetrato una “mala gestio” foriera di danni per la stessa società a partecipazione pubblica.
Più nel dettaglio, nella sentenza de qua si ritiene che la responsabilità contestabile all’amministratore o al dipendente di una società (anche a totale partecipazione pubblica) non è del tipo erariale, trattandosi di comune responsabilità regolata dal diritto civile di cui conosce il giudice ordinario, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’azione di responsabilità sia volta a censurare il comportamento di chi, nella veste di rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, pregiudicando il valore della partecipazione; o, ancora, nel caso in cui i comportamenti avversati siano tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio.
Da ultimo, occorre fare riferimento all’ordinanza n. 1419/2012 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la quale si ritorna ad affermare che l’ipotetica controversia non rientra nella giurisdizione della Corte dei conti non essendo configurabile, avuto riguardo all’autonoma personalità giuridica della società, nè un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, nè un danno diretto di quest’ultimo.
Tale essendo il quadro di riferimento, è possibile formulare qualche osservazione.
Occorre dunque partire dalla considerazione in ordine alla quale tradizionalmente gli enti pubblici economici, pur perseguendo finalità di interesse generale e quindi pubbliche, agiscono nelle forme del diritto privato con l’eccezione per le cosiddette attività di auto organizzazione involgenti invece potere autoritativo. Al riguardo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, abbandonando il precedente principio, avevano esteso (v. ord. n. 19667/2003) l’ambito della responsabilità amministrativa per danno erariale nei confronti degli amministratori e dei dipendenti delle società nel presupposto che comunque si tratti di soggetti pubblici per definizione, istituiti per il raggiungimento di fini del pari pubblici attraverso risorse di eguale natura. Una ulteriore sentenza, la n. 3899/2004 delle Sezioni Unite, ritenne sussistente la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità degli amministratori di una società partecipata in misura maggioritaria da un comune che svolge un servizio pubblico, sul presupposto dell’esistenza di un rapporto di servizio tra la società e l’ente pubblico. Conclusivamente la sentenza affermava poi che, ai fini della giurisdizione, non sarebbe necessario accertare se il danno sia subito in via diretta dalla società o dall’ente pubblico-socio, ciò appartenendo al merito della domanda, sfuggendo così al sindacato della Suprema Corte in punto di giurisdizione.
Anche con la sentenza n. 9096 del 3 maggio 2005 le Sezioni Unite della Cassazione rilevano che, la veste societaria non basta ad escludere la natura pubblica (di una istituzione nella fattispecie) che è configurabile quando le azioni siano possedute, almeno prevalentemente, da un ente pubblico, sia lo strumento per la gestione di un servizio pubblico entrando quindi a far parte di una nozione allargata di pubblica amministrazione.
Ciò pone in rilievo un primo punto controverso e cioè come possa essere compatibile l’affermazione contenuta nelle più recenti pronunce della Suprema Corte, per cui “non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l’ente pubblico partecipante e l’amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata”, con il riconoscimento di forme, seppur residuali, di permanenza della giurisdizione della Corte dei conti in materia di società pubbliche partecipate che, di tutta evidenza, di quel rapporto ha stretta necessità per la sua affermazione e comunque con tutta la precedente giurisprudenza che tale rapporto di servizio ha riconosciuto ed evidenziato.
Qui, inoltre, finisce per innestarsi un delicato profilo relativo, in particolare, alla presenza del socio pubblico in una società privata quando questa è interamente in mano pubblica, cioè a dire laddove ci si trovi di fronte a un socio unico di natura pubblica.
Per quanto riguarda la Spa unipersonale, infatti, nulla viene specificamente disposto dal legislatore in tema di organi sociali. Alla società unipersonale possono, pertanto, applicarsi, in quanto compatibili, tutte le norme che sono proprie delle Spa. Sia in materia di struttura societaria che in materia di assemblea il legislatore non ha voluto adottare soluzioni diverse rispetto a quelle generali previste per le Spa pluripersonali. E, d’altra parte, la stessa sentenza citata n. 26806/2009 della Suprema Corte riconosce, facendo salvi i casi di permanenza di giurisdizione della Corte dei conti, che l’azione per danno erariale davanti alla Corte possa concorrere con l’azione individuale del socio ex artt. 2395 e 2476, comma sesto, del codice civile, “né si pongono difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati articoli 2395 e 2476, sesto comma, poiché l’una e l’altra mirerebbero verso il medesimo risultato “.
Ma che, sotto altri profili, la società con socio unico non sia la società pluripersonale è evidente. Infatti, quanto precede porta anche a dire, in via di principio, che la società di capitali unipersonale è, allo stesso tempo, una società personale e una società di capitali imperniata unicamente sul socio unico, che costituisce anche “la proprietà” della società (v. anche le disposizioni in materia di società unipersonali contenute nella legge n. 244/2007).
Questa sorta di “unione personale” tra socio unico e società, dove necessariamente gli amministratori si identificano con la società /socio unico, sembra confliggere con il concetto stesso di società, tanto da essere portati ad assumere il concetto che una società senza pluralità di soci, è un’entità imprenditoriale fittizia. In questo modo, si sarebbe portati a dire che le società costituiscono vuote scatole giuridiche che devono rispondere all’unico requisito della liceità dello scopo. Ma tale scopo, nel caso che ci interessa, è legato a filo doppio all’interesse pubblico.
Se il socio unico è un soggetto pubblico, non vi è chi non veda come l’attività della società sia vincolata alla ricerca del fine pubblico e cioè di quell’interesse collettivo di cui gli stessi amministratori della società non possono non farsi carico in via esclusiva attraverso la propria attività personale. In altre parole, se è vero che alle società con socio unico si applicano, come detto, le norme sugli organi delle società di capitali, è altrettanto innegabile che tali organi, pur in un regime di sostanziale autonomia privata, di fatto non possono non svolgere una funzione pubblica direttamente incidente sulla finanza altrettanto pubblica.
D’altra parte, tenuto conto che la Corte Costituzionale ha richiesto più volte che ai fini dell’identificazione del giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici sia necessaria l’interpositio legislatoris, viene da chiedersi come andrebbe allora interpretato l’art. 16 bis della legge 31/2008 che riservando al giudice ordinario le azioni di responsabilità degli amministratori e dipendenti di società quotate in mercati regolamentati con partecipazione pubblica in misura superiore al 50%, per converso ammette implicitamente di aver stabilito la giurisdizione contabile sulle restanti società.
Da ultimo occorre anche puntualizzare che lo stesso oggetto societario non può essere ritenuto irrilevante ai fini della giurisdizione da affermare. Quando il legislatore ammette che un soggetto privato possa gestire in forma societaria e con un capitale prevalentemente o totalmente pubblico un servizio pubblico di preminente o assoluto interesse collettivo, come nel caso di specie, diventa difficile poter giustificare una giurisdizione diversa da quella assicurata dal giudice che tutela anche il corretto impiego delle risorse allocate per assicurare i servizi pubblici essenziali.
In tal caso, la dimensione collettiva dell’attività societaria, vincolata dalla natura giuridica del socio unico pubblico e dalle relative capacità di scelta, in assenza di esigenze di interesse generale che abbiano carattere industriale o commerciale, creano quel rapporto di servizio che, seppur non rispondente ad un automatismo ontologico tra impresa ed ente pubblico, determina il motivo per ritenere che nella fattispecie non possa configurarsi per la società quella pretesa autonomia giuridica e soprattutto patrimoniale che la sottrarrebbe alla giurisdizione contabile. Il danno cioè non può che essere reso che alla collettività e per essa alle risorse di cui la società dispone in quanto investita della missione istituzionale voluta dalla legge che l’ha prevista e che la giustifica nella sua forma privatistica.
Va, ad abundantiam, ricordato che al problema delle società partecipate ha fatto indirettamente riferimento anche la legge n. 104/2010 (riordino del processo amministrativo) che, all’art. 7, II comma, ha espressamente detto “Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”. La norma, infatti, ha lo scopo di completare sul piano processuale il percorso di conclusiva e definitiva affermazione del criterio sostanziale-oggettivo rispetto a quello formale-soggettivo riguardo al trattamento giuridico degli organismi di diritto pubblico comunque denominati e dei soggetti di diritto privato assegnatari a vario titolo ed esercenti funzioni e/o servizi pubblici. In altre parole, la norma conferma che l’individuazione dei soggetti privati preposti all’esercizio delle “attività amministrative” deve avvenire tenendo conto delle attività soggette per natura o per espressa disposizione di legge al regime del diritto pubblico, se ed in quanto i soggetti considerati svolgano funzioni di rilievo oggettivamente pubblico anche se in forme alle stesse non coessenziale.
E lo stesso concetto è dato rinvenire nella legislazione comunitaria che, a partire dalla direttiva n. 89/440/CEE, al concetto di persona giuridica di diritto pubblico, sostituisce definitivamente quello di organismo di diritto pubblico definito come qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificamente interessi generali non aventi carattere industriale e commerciale; dotato di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta ad un controllo da parte di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
D’altra parte va osservato che nel diritto comunitario non è dato riscontrare definizioni di pubblica amministrazione in senso soggettivo, poiché il legislatore comunitario deve confrontarsi con le eterogenee realtà organizzative dei diversi Stati membri. Il legislatore comunitario mira all’applicazione ed al rispetto dei principi del Trattato di Roma e, quindi, al di là delle varie forme di partenariato pubblico-privato, punta al cuore del problema: il soddisfacimento di interessi generali, cui non fanno riscontro interessi commerciali e industriali. Questa è la “pubblica amministrazione” europea, cui fa implicito riferimento l’art. 7 della riforma del processo amministrativo, con tutte le conseguenze di carattere procedimentale e soprattutto relative all’actio finium regundorum della giurisdizione applicabile.
Ancora, ha avuto occasione di pronunziarsi in proposito anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale, con sentenza n. 10/2011, ha statuito – dopo aver citato l’art. 3, co. 27, l. n. 244/2007 secondo cui “al fine di tutelare la concorrenza ed il mercato, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società ” – che “allorquando un ente pubblico decide di costituire una società con la forma del partenariato pubblico-privato, la scelta del socio privato è considerata dall’ordinamento una vicenda pubblicistica, tanto che tale scelta deve avvenire con procedura di evidenza pubblica soggetta alla giurisdizione amministrativa esclusiva. Se ne desume per argomento a fortiori che è ascritta alla sfera pubblicistica la scelta, a monte, dell’utilizzo del modello societario. … La partecipazione di un ente pubblico a una società è ispirata alla cura dell’interesse pubblico, al punto che è consentito l’esercizio di poteri pubblicistici interferenti con la vita della società, e il cui sindacato è attribuito al giudice amministrativo”.
Appare, pertanto, evidente come tutto ciò porti inevitabilmente, in tema di danno, a concludere conformemente affermando che per soggetto, per contenuto, per finalità, per riferibilità non solo all’ordinamento nazionale ma a quello comunitario, il danno assuma valenza collettiva laddove determinato da un soggetto, solo formalmente privato, la cui discrezionalità dell’agire si manifesta limitata dalla sua “missione istituzionale”. E ciò è a maggior ragione vero se si segue quel filone interpretativo secondo cui, una volta fissati in maniera obbiettiva ed univoca i requisiti da parte del reale titolare dell’interesse collettivo, l’esercizio reale del potere da parte di quest’ultimo su chi esercita la funzione anche in forma privata deve essere circoscritta alla protezione degli interessi generali.
Nonostante quindi gli ampi spazi perlomeno dubitativi che il quadro normativo pone a fronte degli assetti giurisprudenziali fissati dalla Suprema Corte di Cassazione, il legislatore ha inteso consacrare questi ultimi nell’ambito della riscrittura del regime legislativo della società in mano pubblica di cui al d.lgs. n. 175/2016, facendo proprio il contenuto degli arresti più recenti del giudice della nomofilachia (V. SS.UU., decisioni n. 7293, n. 9280, n. 10040, n. 11385, n. 12325, n.21692, n. 24591, n. 26643, n. 26644, n. 26645, tutte del 2016. Vedi anche le decisioni n. 962 e n. 1091 del 2017, entrambe rese nel dicembre 2016).
Sulla base di tali ultime pronunce, infatti, appare irreversibile l’indirizzo, invero particolarmente rigoroso (forse anche più di quello eurounitario in tema di presupposti legittimanti il modello dell’ in house providing) e più volte oggetto di richieste di ripensamento da parte della Corte dei conti, seguito dalla Corte di Cassazione, quanto alla necessità di distinguere tra danno inferto al patrimonio della società avente veste di diritto privato e danno inferto al patrimonio del socio pubblico partecipante, fatta eccezione per le sole società in house e per il cd. danno all’immagine (dalla legge affidato espressamente alla potestà cognitiva esclusiva del giudice contabile).
In particolare, infatti, l’art. 12 del citato decreto n. 175/2016 prevede testualmente che “1. I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2.
2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione”.
Non vi è chi non veda come in detto contesto sarà tuttavia da scandagliare la portata giuridica delle nuove previsioni di cui al citato art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 175/2016. Il testo normativo – individuando il “danno erariale” nel nocumento patrimoniale o non patrimoniale subito dagli enti partecipanti a seguito di condotte dei rappresentanti negli organi di gestione societaria che, con dolo o colpa grave, abbiano “pregiudicato il valore della partecipazione” – sembra avere creato premesse in diritto per un ampliamento dei margini di potestà cognitiva della Corte dei conti, sinora dalla Cassazione ristretti e perimetrati unicamente sulle “società in house”, mera longa manus delle amministrazioni, per nulla distinguibile dalle stesse, se non per la veste giuridica di “società” formalmente rivestita.
E tale norma non potrà non essere letta, inoltre, alla luce della nuova impostazione che anche il legislatore comunitario ha voluto dare alla materia dell’ in house. Non va infatti dimenticato che lo sviluppo dell’istituto dell’ in house providing nella legislazione europea ha subito da ultimo un’improvvisa evoluzione con l’approvazione della direttiva sugli appalti pubblici 2014/24/UE del 26 febbraio 2014.
L’art. 12 di detta direttiva, in particolare, prevede che un appalto pubblico aggiudicato da un’amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva stessa quando siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi;
b) oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; e
c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Siamo dunque in presenza di una disciplina molto più ampia rispetto al passato che consente la qualificazione di in house ad un’impresa operante nel settore dei contratti pubblici con sicura maggiore larghezza applicativa rispetto al passato.
Ciò non potrà non incidere, in uno con l’interpretazione che dovrà essere data del nuovo regime nazionale di cui al d.lgs. n. 175/2016, anche sul riparto di giurisdizione in tema di danno arrecato da società in mano pubblica, con l’auspicio che, in ultima analisi, ciò che sarà destinato a prevalere possa seguire la logica non dello stretto formalismo giuridico, ma della migliore e più efficace tutela dell’erario pubblico.
In conclusione, può ben affermarsi che la partita sul regime delle responsabilità delle società pubbliche è ancora aperta, nell’ambito di un magmatico rapporto che ancora avvolge l’intero settore del partenariato pubblico/privato.