Avv. Antonio Travia

Sommario: 1. –  Introduzione 2. – La tutela costituzionale del diritto alla salute 3. – L’articolata origine della nozione di diritto alla salute adottata dall’articolo 32 della Costituzione 4. -Conclusioni.

  1. – Introduzione

Sottintendendo che la tutela della salute individuale – e, quindi, collettiva – costituisca uno dei compiti fondamentali di qualsiasi Stato democratico, la cui azione sia finalizzata alla promozione del singolo individuo, è ben conscio che, per quanto progredite, tecnologicamente avanzate e diligentemente somministrate, le cure ricevute in caso di bisogno, non saranno mai in grado di assicurare il sicuro soddisfacimento dell’esigenza avvertita dal consociato in difficoltà e, dunque, il ristoro delle condizioni psicofisiche ottimali, perché troppe sono le variabili in gioco, tanto che nessuno potrebbe mai giocare l’azzardo di ritenere che le prestazioni sanitarie siano, utilizzando le categorie del diritto civile, prestazioni di risultato e non prestazioni di mezzi[1].

E, su un piano diverso, non legato alla dimensione eminentemente individuale e utilitarista del rapporto coll’apparato statale (se tale duplice connotazione si vuol dare alla dimensione individuale del diritto alla salute e, soprattutto, al legame che si instaura con i soggetti erogatori delle prestazioni sanitarie), chiunque è in grado di percepire che la tutela e la promozione del diritto alla salute, assicurate dall’articolo 32 della Costituzione, sono solo in linea di principio assumibili come assolute e correlate alla somministrazione delle prestazioni più efficaci che costituiscano la manifestazione, sul piano più squisitamente pratico, della più progredita avanguardia della tecnica; giacché tanto la promozione (e, dunque, la risposta preventiva, per il tramite degli strumenti cautelativi della c.d. “medicina difensiva”, alle esigenze di salute della popolazione), quanto la tutela (costituente la manifestazione ordinaria e più risalente della medicina, consistendo nella prestazione di terapie a fronte del conclamarsi di una data patologia) della salute possono risultare influenzate da molteplici fattori e, al contempo, soffrire di numerosi limiti. Sarebbe, infatti, erroneo ritenere che il diritto alla salute possa essere tutelato sempre allo stesso modo, perché cambiano, di volta in volta, i fruitori delle prestazioni e, con essi, i bisogni da soddisfare, che mutano in relazione alle condizioni sociali ed economiche delle persone, oltre che a fattori “endogeni” delle stesse, quali l’età, il grado di invalidità e la storia clinica pregressa. Anche perché la salute non coincide con la mera assenza di malattie, ma combacia, piuttosto, secondo un approdo ormai consolidato della scienza sociale e, prima ancora, della scienza medica, col benessere fisico e psichico dell’individuo; il quale, all’evidenza, costituisce uno stato soggettivo correlato a diverse variabili, spesso indipendenti dalle effettive condizioni del soggetto, tra le quali spicca, per la sua immediata evidenza, l’ambiente in cui il soggetto vive, lavora o trascorre il suo tempo libero; di talché la risposta ordinamentale, sotto questo specifico aspetto, non potrà essere che soltanto tendenzialmente eguale, comune essendo l’obiettivo (assicurare un ambiente di vita ottimale per ciascun consociato), ma diversi risultando i mezzi per conseguire tale scopo. E, ancora, si sarebbe lontani dal vero se si lasciasse in disparte lo stretto legame che corre tra il diritto alla salute e la tutela previdenziale, che pure il moderno Stato sociale di diritto s’è premurato di accordare anche a livello costituzionale, riconoscendola a favore degli inabili al lavoro, degli anziani, degli indigenti e, più in generale, delle altre categorie “deboli”: soggetti, questi, che versando in siffatte precarie condizioni, avranno (con sufficiente grado di approssimazione) un maggior bisogno di cure e prestazioni sanitarie, così ponendo il problema di integrare il servizio sociale col servizio sanitario, di modo da fornire una risposta unitaria alle esigenze manifestate dalla popolazione.

Né si direbbe bene ove s’obliterasse la considerazione che la tutela della salute (e, con essa, l’elaborazione di un modello di welfare state più o meno progredito) assumono una valenza diversa a seconda del particolare momento storico e del contesto in cui essa viene attuata, giacché dinnanzi a carestie, ad eventi epidemiologici massivi o ad eventi bellici mutano senz’altro le condizioni di protezione di tutti i diritti sociali, i quali pure possono finire coll’essere sospesi, o comunque soddisfatti in altra maniera: sembra financo una banalità affermare che in tali frangenti le prestazioni cui si potrà ambire potrebbero essere ben più esigue o, quanto meno, nettamente decurtate rispetto al catalogo di prestazioni ordinariamente fruibili; ma, altrettanto degno sarebbe fare riferimento a quel che avviene – anche in campo sanitario – in presenza non di accadimenti epocali, ma di eventi comunque di una certa gravità tale da indurre all’emanazione, da parte di chi è a ciò deputato, di ordinanze contingibili e urgenti o di altri consimili provvedimenti (si pensi all’atto che dispone il trattamento sanitario obbligatorio o la quarantena per un soggetto le cui precarie condizioni di salute siano potenzialmente dannose per sé e per gli altri), che, in deroga ai paradigmi procedimentali del diritto amministrativo (e, in specie, alla stretta osservanza del principio di legalità) ovvero conculcando la posizione giuridica soggettiva del singolo, hanno il precipuo fine di risolvere situazioni emergenziali, potenzialmente pericolose per la collettività. Tanto meno, infine, si direbbe qualcosa di esatto se si volesse ritenere che il massimo grado di prestazioni sanitarie erogabili da parte dello Stato (e, dunque, la corrispettiva aspettativa di prestazione del cives) possa essere determinato non tenendo in minima considerazione la misura delle risorse finanziarie effettivamente disponibili, così da evitare di incidere (come è successo in passato) in modo eccessivamente gravoso sul complesso del debito pubblico, la cui crescita smisurata, in effetti, s’è prodotta nel Paese quando le grandi speranze di mantenere inusitati (e ingannevoli) trend di crescita delle entrate fiscali si sono infrante, tra gli anni Ottanta e Novanta del Secolo scorso, sull’insormontabile scoglio della contrazione della crescita economica (o, peggio, con la sua decrescita).

O, piuttosto, che la generale tutela offerta dall’Ordinamento in punto di salute non può essere a tal punto incisiva nei confronti delle singole posizioni giuridiche soggettive da arrivare a conculcarle in modo così prepotente da precludere l’esercizio della libertà di scelta del singolo consociato, il quale, autodeterminandosi liberamente e scientemente, ben potrebbe scegliere – ove ciò non costituisca un fattore di rischio per la collettività – di non farsi curare (o meglio, di non accedere volontariamente al sistema terapeutico approntato dallo Stato) esercitando le attribuzioni che gli sono costituzionalmente garantite, finanche lasciandosi morire. Senza scordare, in questi fugaci cenni, la necessità di coniugare la presenza di una c.d. amministrazione di prestazione (perché tale deve comunque ritenersi il complesso di Organi, Enti, Uffici e Apparati che costituisce il Servizio Sanitario Nazionale) con la libertà d’impresa privata, che, da tempo immemore (e prima ancora che si parlasse di diritto alla salute) costituisce un caposaldo dell’Ordinamento moderno, e che – già ad un primo sguardo – non si dimostra incompatibile con la protezione del benessere psicofisico dell’individuo, non fosse altro perché, se l’obiettivo è la tutela del singolo, non si vede perché una siffatta attività non possa essere condotta anche da un soggetto diverso dallo Stato. Tanto più se, in ossequio, questa volta, al principio della tutela della concorrenza tanto caro al diritto europeo, dalla presenza di due o più operatori i “consumatori” potrebbero trarre beneficio.

E’ solo tenendo presente queste variabili (e altre, ancora, che s’è preferito qui omettere, per ragioni di opportuna brevità, ma sulle quali ci si soffermerà nel corso della trattazione) che si può dare una effettiva e valevole conformazione al diritto alla salute e, dunque, al corrispettivo dovere dello Stato di fornire le necessarie prestazioni a tutela del singolo. E sono sempre queste variabili a dimostrare l’esattezza della definizione, di recente coniata, che qualifica il diritto alla salute come una fattispecie a “geometria variabile”[2].

E’ da queste poche considerazioni, che, in verità, per come è progredito il sistema, costituiscono al dì d’oggi più la constatazione degli esiti di uno sviluppo pregresso – cristallizzatosi tuttavia soltanto di recente, grazie, soprattutto, all’intenso lavoro della Corte costituzionale – che ha voluto prendere le mosse il presente contributo, che s’è prefisso l’obiettivo di valutare il diritto alla salute in uno dei significati che attualmente gli sono attribuibili; ovvero, in quella sua componente che, oggi come oggi, costituisce

forse uno degli argomenti tra i più discussi nel dibattito politico quotidiano: la sua incidenza sul bilancio finanziario complessivo dello Stato.

Argomento particolarmente sentito, si dirà, oggi che si versa in una situazione in cui è conclamato che le risorse pubbliche sono scarse e s’avverte l’esigenza di spenderle al meglio, evitando diseconomie e sprechi e che, oltre a violare i parametri europei di contenimento della spesa pubblica imposti dapprima dal c.d. Patto di stabilità e, ora, dal c.d. fiscal compact, finisce coll’infrangere i precetti costituzionali recentemente entrati in vigore (ovvero, l’obbligo di pareggio di bilancio – o di equilibrio, a stare alla rubrica normativa della legge che l’ha introdotto – sancito dalle nuove formulazioni degli articoli 81 e 97 della Costituzione), ma soprattutto le aspettative di tutela dei singoli che, a fronte dell’esiguità delle risorse a disposizione, o sono costretti a mettersi le mani in tasca e a partecipare (nella migliore delle ipotesi) al costo della prestazione di cui intendono usufruire, ovvero a rinunciare (nella peggiore delle ipotesi) al servizio. Vivida testimonianza ne sono, del resto, le recenti trattazioni che di diritto sanitario, in prospettiva (anche) di controllo della spesa, sono state negli ultimi anni pubblicate[3].

Se, infatti, al diritto alla salute è stata data una determinata importanza sul piano finanziario, oggi come ieri, è solo perché esso è stato inteso in un certo modo e, più precisamente, in tempi ormai remoti, come un diritto a tal punto fondamentale da non tollerare alcuna sensibile intrusione da parte di altri precetti costituzionalmente imposti e, in un secondo tempo, come una situazione giuridica soggettiva parametrabile ad altri interessi costituzionali e, anzi, da questi passibile d’essere limitata, tanto da venire definita in dottrina e in giurisprudenza come “diritto finanziariamente condizionato”[4] .

  •  – La tutela costituzionale del diritto alla salute

Che sia la Repubblica a doversi occupare di predisporre un adeguato sistema di tutela della salute di ciascun individuo; che la stessa debba premurarsi di fornire cure gratuite agli indigenti; che ciascun trattamento sanitario imposto ai singoli debba scontare l’insuperabile limite del rispetto della dignità umana e della persona, potrebbero apparire dei meri corollari di un assioma ben difficilmente confutabile e che in sé potrebbe pure racchiudere ciascuno di essi: se il diritto alla salute è un diritto fondamentale, tutelato alla stregua degli altri diritti previsti dalla Parte prima della Carta, non v’è motivo di non ritenere che l’Ordinamento debba approntare adeguate difese al diritto del singolo che mai venisse offeso e leso dall’altrui condotta; né tanto meno (proprio perché si tratta di una delle posizioni soggettive più forti) che l’Ordinamento debba pure predisporre un sistema che – indipendentemente da dove scaturisca la lesione del diritto alla salute – lo protegga efficacemente; né, infine, che l’esercizio di un diritto personalissimo qual è il diritto alla salute possa sopportare indebite intromissioni da parte di chicchessia. Senza dire, sull’altro versante, che non può che essere compito dell’istituzione che è esponente degli interessi di tutti i soggetti che ne fanno parte, tutelare l’esistenza stessa di questi ultimi; e ciò anche in considerazione del fatto che pure lo Stato ricaverebbe dei benefici da una popolazione in perfette condizioni di salute. Tuttavia, per anodina e austera che sia la sua formulazione e per ogni tentativo si faccia di individuarne il nucleo fondamentale attorno al quale è imperniato il diritto alla salute, rimane evidente che una approfondita lettura dell’art. 32 della Costituzione non possa che condurre all’evidenziazione di paradigmi e di valori che tra loro, più che in rapporto di dipendenza (o di sviluppo concentrico), si pongono in una relazione di eterogeneità e di complementarietà[5], ritrovando una riconduzione ad unità solo in un articolato, vastissimo e complesso modo di intendere il diritto alla salute[6].

Vero è, infatti, che il binomio inscindibile diritto fondamentale dell’individuo – interesse della collettività è formula normativa fortunata, efficacissima nella sua brevità; e altrettanto vero è che, in assenza di tale risvolto, il diritto alla salute non avrebbe, probabilmente, quella posizione di primazia all’interno del catalogo dei diritti fondamentali che lo Stato pluriclasse ha nel corso del tempo elaborato. Ma non può negarsi che basti una riflessione su tale precetto, per approfondita che sia, ad esaurire ogni aspetto trattato dall’articolo 32 della Costituzione.

Così, senza pretesa d’essere ora esaustivi, ma col solo intento di fornire delle coordinate logico sistematiche all’interno delle quali muoversi per tentare di dare un concreto significato e di collegare tra loro i concetti espressi dal richiamato articolo della Carta, val la pena di evidenziare che, prendendolo a riferimento, il quisque de populo ben potrebbe leggervi una dichiarazione per molti versi scontata, o se si preferisce, una norma meramente ricognitiva d’una posizione giuridica soggettiva connaturata all’essenza dell’uomo.

Che il diritto alla salute sia, invero, un fondamentale diritto dell’individuo potrebbe ai più apparire un dato pacifico, indiscusso e indiscutibile. Senza salute, è banale dirlo, riesce preclusa l’attività lavorativa; sono impedite le relazioni sociali e familiari; e, peggio ancora, risulta, nei casi più sfortunati, compromessa persino la sopravvivenza del singolo. Di qui, dunque, l’interesse del consociato a conservare il proprio stato di salute in, quantomeno, buone condizioni, per poter vivere pienamente e serenamente la propria esistenza. Nella prospettiva individualistica appresso esposta, poi, nessuno potrebbe aspettarsi che il proprio diritto venga in un qualche modo conculcato o calpestato da chicchessia, dallo Stato come da un altro soggetto privato; e, soprattutto, nessuno potrebbe frapporsi al mantenimento (o al raggiungimento) delle condizioni di benessere dello stesso titolare del diritto. Corollario di questa affermazione – connaturata in ciascun essere umano per quel principio di autodeterminazione e di sopravvivenza che governa dall’alba dei tempi l’agire degli uomini e che, a ben guardare, ha pure trovato ulteriore fondamento nella dogmatica socioeconomica capitalistica, tipica del mondo occidentale – è la pretesa che, proprio per la sua primaria rilevanza, il diritto alla salute non sia prerogativa unicamente del suo titolare, ma sia affidato pure alle cure dell’Organizzazione sociale in cui esso vive.

Il diritto alla salute, almeno per l’accezione che s’è ora tentato di dargli e che appartiene a una nozione scientifica comune, infatti è un diritto personalissimo, del quale solo il titolare può realmente disporre, ove tanto sia capace di fare. A patto che con ciò non si metta a rischio la salute altrui, giacché non può revocarsi in dubbio, per utilizzare una espressione troppo spesso abusata, che le libertà di ciascuno finiscano dove iniziano le altrui. Sicché, nel caso di epidemie o di malattie altamente infettive che abbiano colpito un singolo, costui non può certo pensare di poter determinarsi liberamente a non ricevere alcuna cura e al contempo di continuare a vivere la propria esistenza, generando e aumentando il pericolo di diffusione del morbo. Quanto sin qui affermato per sommi capi e che già dimostra come del diritto alla salute possa essere, in maniera piuttosto agevole, fornita una lettura nient’affatto banale, peraltro, trova puntuale conferma seguendo gli sviluppi che – ormai da decenni – hanno segnato la giurisprudenza amministrativa, civile e, prima ancora, costituzionale. L’articolo 32 della Costituzione, invero, ha costituito il perno attorno al quale trasfondere linfa nuova al complesso sistema civilistico dell’illecito aquiliano, permettendo di estendere i suoi campi di applicazione e fornendo al soggetto danneggiato dalla condotta altrui la possibilità di ottenere un risarcimento davvero pieno, che tenesse conto non soltanto del nocumento direttamente patito a causa dell’evento dannoso, ma pure dei risvolti psicologici ed emotivi che lo stesso gli avesse arrecato[7].

  • – L’articolata origine della nozione di diritto alla salute adottata dall’articolo 32 della Costituzione

La risposta ad ogni dubbio afferente la reale portata del diritto alla salute e alla individuazione delle molteplici sfaccettature in cui si articola non sarebbe completa, ove non si avesse a spendere qualche breve cenno sulle origini del disposto costituzionale. Illusorio e fallace, invero, sarebbe ritenere che l’entrata in vigore della Costituzione abbia operato una mera ricognizione di un valore già maturato e assorbito dall’ordinamento, giacché, prima del 1948, il bene “salute” non costituiva affatto un diritto fondamentale dell’individuo, al più, a tutto concedere, un interesse della collettività. Ciò in ragione del fatto che, allora e pure negli anni immediatamente successivi all’adozione della Carta democratica, se si pensa che al disposto costituzionale si è iniziato a dare concreta attuazione solo sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, quando già la Carta vigeva da oltre un ventennio, s’era ben lungi dal poter definire compiuto il percorso che ha portato alla realizzazione (almeno nei suoi tratti essenziali) di un modello ordinamentale definibile, facendo ricorso alla legge fondamentale tedesca, come Stato sociale di diritto[8].

Quel che oggi appare un’affermazione scontata e un approdo dal quale non è dato di “tornare indietro” e che ben giustifica, in termini giuridici e non solo sociologici, il bisogno fondamentale del singolo di ottenere una risposta dall’ordinamento ove il suo diritto alla salute sia – per fattori endogeni ed esogeni – messo in pericolo, non sempre è stata esatta.

Peraltro, mette conto rilevare come il passaggio a regimi democratici – o che tali erano nelle intenzioni espresse dalle costituzioni che li sorreggevano – che ha caratterizzato la nascita stessa dello Stato di diritto e la codificazione di un catalogo di diritti fondamentali per i cittadini non ha postulato, in alcuna forma, il riconoscimento e la promozione di situazioni giuridiche ulteriori dai tradizionali diritti di libertà, enucleati intorno al valore sociale fondante dell’epoca, ossia al diritto di proprietà. Al singolo, invero, veniva sì garantita dallo Stato la tutela della sua sfera di autonomia, ma questa (intesa come complesso di situazioni giuridiche soggettive facenti capo a ciascuno) non era estesa quanto lo è oggi, non fosse altro perché essa risentiva dell’abbandono, appena avvenuto, della forma di Stato assoluto, in cui, valga rammentarlo, le prerogative dell’individuo erano pressoché nulle.

Non stupisce, quindi, che nello Stato postunitario, regolato nei suoi tratti fondamentali dallo Statuto Albertino del 4 marzo 1848, piuttosto che al diritto alla salute del singolo, l’Ordinamento mostrasse una certa attenzione per il concetto di sanità[9], slegato completamente dalla dimensione individuale e studiato, piuttosto, per consentire il raggiungimento di finalità di interesse collettivo, coincidenti col mantenimento dell’ordine (appena) costituito. Si voleva, in effetti, evitare il flagello delle epidemie che allora risultavano tutt’altro che rare, per le precarie condizioni igieniche e sanitarie in cui la gran parte della popolazione viveva, dal quale sarebbe dipesa la frustrazione non solo dell’obiettivo di crescita dello Stato, ma pure della stessa sopravvivenza dello stesso. Il fine pubblico perseguito era, quindi, di “avere una popolazione sana e numerosa, poiché la sanità e il numero della popolazione è un presupposto necessario alla potenza dello Stato”[10] e prima ancora, vien da dire, all’esistenza stessa della struttura sociale.

Si sa, per un verso, che, in una prospettiva attenta all’espansione e al colonialismo e in cui le guerre di aggressione erano ancora all’ordine del giorno o, quantomeno, ricordo ancora troppo fresco per poter essere dimenticato, la necessità di disporre di adeguate risorse umane da chiamare alle armi per far fronte ad eventi bellici o conquiste militari era di fondamentale importanza per ciascuno Stato.

Parimenti noto è che, nelle società neocapitaliste, la cui vertiginosa crescita economica era trainata dall’industrializzazione e dall’abbandono di un sistema produttivo fondato essenzialmente sulla coltivazione della terra, v’era la necessità di disporre della forza lavoro da impiegare nelle fabbriche.

Forse meno evidente, ma altrettanto comprovato rispetto alle sommarie considerazioni sin qui esposte, è il malcelato timore che la classe dirigente nutriva della insoddisfazione popolare, i cui moti insurrezionali sono sempre esplosi per situazioni di estrema contingenza, tra le quali, a pieno titolo, poteva e può essere fatta rientrare pure un’epidemia.

Lo Stato (inteso come apparato burocratico), in quel particolare frangente storico, si comportava, dunque, alla stregua di ogni altro soggetto di diritto, facendo prevalere il proprio istinto di autoconservazione e di sopravvivenza su qualsiasi altro valore. Che, in questa impostazione, un qualche beneficio potesse derivare pure ai singoli e alle fasce della popolazione meno rappresentate in Parlamento e nella classe dirigente statuale, era solo un incidente.

Si capisce quindi, sulla scorta di questi presupposti, perché della tutela della salute (o meglio, della materia della sanità pubblica) si facesse una questione di ordine pubblico, tanto da affidare la sua soluzione a speciali corpi di polizia o, come avvenuto nell’ordinamento italiano, ad apparati che pochi elementi di contatto avevano col mondo della sanità.

E’ certo, piuttosto, che, in sostanziale continuità con quanto si andava dapprima affermando, le suggestioni civilistiche e penalistiche abbiano influenzato il pensiero giuridico successivo, in forza di uno schema logico difficilmente confutabile: la predisposizione in altri settori dell’ordinamento di una tutela particolare per una determinata situazione giuridica e l’aspettativa che di essa avevano i singoli consociati, in una con la maggior ingerenza dello Stato in situazioni che fino a qualche tempo prima erano meramente personali, ha posto l’attenzione su dimensioni sconosciute di un diritto (singolare) e su un’esigenza (pubblica) allora guardate sotto altra luce. E’ su questo riscontro, che a ben guardare iniziava ad essere trasversale, che l’Assemblea costituente si è poi fondata nel dare le attuali fattezze all’articolo 32 della Costituzione.

  • -Conclusioni.

Il dibattito in seno alla prima Sottocommissione[11] che s’occupava della redazione della parte della Costituzione relativa ai diritti e ai doveri dei cittadini non s’affannò, per vero, più di tanto, sul diritto alla salute, intenti com’erano, essi, a cogliere sfumature e a discutere di altri diritti, apparentemente ben più “fondamentali” del diritto alla salute. Nella sua formulazione originaria, il dettato sottoposto alla approvazione della Assemblea era ancor più stringato del testo oggi recato dall’articolo 32. La norma si componeva, per vero, sempre di due commi, ma al primo non v’era, in essa, alcuna specificazione dell’effettivo rilievo da dare al diritto alla salute, limitandosi la stessa, nella sua primigenia formulazione, a impegnare la Repubblica nella tutela della salute, nella promozione dell’igiene e nella erogazione di cure gratuite agli indigenti. Al secondo, invece, era previsto, con una dizione assai vicina a quella poi effettivamente adottata, che “nessun trattamento sanitario [potesse] essere reso obbligatorio se non per legge” e, altresì, che era fatto divieto di compiere “pratiche sanitarie lesive della dignità umana”[12].

Quel che appare singolare è che il dibattito sorto in seno all’Assemblea Costituente in riferimento ai proposti emendamenti, non si sia concentrato tanto sull’addendum che prevedeva di definire il diritto alla salute come “un fondamentale diritto dell’individuo e come un generale interesse della collettività”, quanto, piuttosto, sulla possibilità che all’interno della Costituzione fosse regolata, sia pure per sommi tratti, l’organizzazione sanitaria, così da impedire, in una norma di ben ardua controvertibilità, che fossero esclusivamente le Regioni e gli Enti locali ad occuparsi della determinazione delle misure a garanzia della popolazione; ovvero, ancora, che si includesse nel catalogo costituzionale l’impegno dell’Ordinamento a garantire cure agli indigenti o se fosse più opportuno virare su una nozione più generica e generalizzata di assistenza gratuita; se fosse parimenti opportuno che una legge fondamentale s’occupasse pure di porre un limite all’esercizio di un diritto (quello di essere sottoposto a cure mediche), prevedendo che solo nei casi previsti dalla legge – e pur sempre nel rispetto della dignità umana – potesse essere predisposto un trattamento sanitario obbligatorio.

Dalla circostanza che il diritto alla salute fosse un diritto sociale discendeva, anzitutto, che ad esso poteva essere dato altro che un contenuto positivo, intercettando, così, la pretesa del singolo a ottenere dallo Stato una determinata prestazione che tutelasse anche quell’aspetto della sua esistenza: ma solo a questo egli poteva rivolgersi, giacché – a differenza di quel che avveniva per i diritti di libertà – il diritto alla salute avrebbe potuto essere tutelato esclusivamente con l’intervento dello Stato. Quel che poteva pretendere il cittadino, sarebbe stato che l’ordinamento predisponesse adeguate misure a garanzia di quel suo diritto; ma, quest’ultimo, non avrebbe potuto essere fatto valere erga omnes (così come un diritto negativo), ma soltanto in quella direzione che già era stata tracciato dallo Stato.

Come è stato acutamente notato[13], in altri termini, l’uguaglianza meramente formale non può, presa in sé, assicurare che tutti gli individui possano godere dei diritti fondamentali che l’Ordinamento ha voluto riconoscere loro, essendo necessario un intervento dello Stato, per assicurare la piena estrinsecazione di tali diritti.

Da ultimo, poi, era stata aspramente avversata la proposizione che voleva il diritto sociale come un diritto di pochi, evidenziando come non soltanto questa affermazione corresse il rischio di applicarsi pure ai diritti fondamentali, per loro natura concessi a tutti, ma che, proprio nella loro estrinsecazione, possono assumere contorni variabili, ma perché, in potenza, il diritto è comunque un diritto di tutti, non potendosi dare distinzioni all’interno dell’ordinamento tra coloro che, sempre in astratto, possono godere o meno di una situazione giuridica protetta.

In ragione della necessità di valorizzare la persona “nel complesso e nella concretezza del suo essere ed agire”, non vanno ritenute fondamentali solo le usuali libertà, ma pure tutte le ulteriori situazioni giuridiche soggettive che possono considerarsi “funzionali” alle prime, consentendone un godimento più pieno.

A questo argomento, elementare nella sua linearità, ma in grado di cogliere un fenomeno, quello dell’allargamento dei diritti protetti e, più nello specifico, dei diritti fondamentali dell’individuo, che si pone in una chiara necessariamente relativa e non si presta ad una catalogazione definitiva, che possa di qui in poi essere sempre considerata valevole, se ne affianca uno ulteriore, d’accesso forse ancor più immediato, che ha saputo, tuttavia, far breccia nel pensiero giuridico in tempi, tutto sommato, non troppo remoti.

Non può dimenticarsi, invero, che è la stessa Costituzione, nel primo alinea dell’art. 32, a ritenere che il diritto alla salute sia un diritto fondamentale dell’individuo: l’univoco dato positivo, che i primi commentatori, ancora condizionati, nel loro pensiero, dai principi e dalle regole di matrice puramente liberale, avevano ridotto a enunciazione di mero principio, ben lontana dal dare una concreta forma al diritto alla salute, è stato adeguatamente valorizzato dalla parte di dottrina che ha soppesato, con la dovuta attenzione, l’enunciato della Carta in relazione al mutato assetto ordinamentale.

Se, invero, in un primo momento qualche dubbio lo si poteva nutrire in relazione alla possibilità che l’Ordinamento accordasse una qualche tutela a un diritto che non rientrava tra quelli classici di libertà, la rinnovata coscienza sociale ha fatto sì che quel che la Costituzione dava soltanto ad intuire, diventasse concreto. Tanto, del resto, imponevano i supremi principi costituzionali, che permeavano altresì i rapporti etico sociali e con essi il diritto alla salute. Se compito della Repubblica, in ossequio al principio di uguaglianza sostanziale espresso dall’articolo 3 della Carta, doveva essere quello di rimuovere ogni impedimento allo sviluppo della persona umana e a che, effettivamente, gli individui potessero dirsi tra loro uguali, allora il diritto alla salute (e la sua tutela) dovevano ritenersi parti essenziali di questo meccanismo. E, in quanto tali, insostituibili ed insopprimibili in un moderno Stato di diritto.

Il diritto alla salute è diritto fondamentale perché, per come è stato da tempo configurato, assume tutte le caratteristiche di tale tipologia di diritti. Partendo dalla ben nota classificazione (elaborata in epoca antecedente all’entrata in vigore della Costituzione) che vuole che i diritti fondamentali siano quei diritti della personalità aventi per oggetto attributi della persona nella sue varie esplicazioni e comprendenti i diritti di stato, i diritti ai segni distintivi della persona, i diritti agli elementi costitutivi della persona e i diritti di libertà, si può con tranquillità affermare, senza stravolgere le categorie modellate quando ancora lo Stato sociale era agli albori del suo sviluppo e il riconoscimento dei diritti sociali rappresentava una utopia, che il diritto alla salute rientra tra i diritti costituivi della persona. Senza di esso l’individuo non potrebbe in alcun modo estrinsecare la sua personalità, essendo tale diritto espressione di facoltà e “di attribuzioni essenziali della persona umana”[14], mancando così ad esso la possibilità di essere non soltanto singolo, ma pure “individuo sociale”.

Una volta apposto e riconosciuto, infatti, il diritto alla salute è entrato a far parte di dello “zoccolo duro” della Costituzione, non fosse altro perché, in un sistema teso allo sviluppo e alla protezione della persona umana (e questo è il connotato fondamentale dell’Ordinamento), non sarebbe dato di concedere e poi ritrarre un diritto che ha, anche nel suo nucleo essenziale, una simile portata, ricollegabile, direttamente, non soltanto all’articolo 3 e al principio di uguaglianza, ma pure ai concetti di dignità dell’uomo e di solidarietà espressi dall’articolo 2 .

Il diritto alla salute può pertanto avere una estensione più o meno ampia, anche in dipendenza della capacità dello Stato (tecnica, ma soprattutto finanziaria) di erogare determinate prestazioni, ma vi è sempre comunque un nucleo minimo di prestazioni che “rappresentando l’ultima speranza di sopravvivenza per l’individuo non potrebbero mai venirgli negate”. Se così non fosse e se davvero il diritto alla salute potesse in un qualche modo essere espunto dal sistema costituzionale, verrebbe frustrata non solo una posizione giuridica che è connaturata all’essenza umana, almeno come essa è stata intesa dal Costituente, ma sarebbero messi in discussione pure quei parametri (ovvero, l’articolo 2 e l’articolo 3) che hanno fatto da fondamento al riconoscimento della natura assoluta e primaria del diritto alla salute.

In altri termini, essendo il diritto alla salute prima e diretta estrinsecazione delle norme di fine della Costituzione, volte a determinare l’intero sviluppo del sistema democratico, esse non possono essere attinte da modifiche che ne diminuiscano la portata pena, altrimenti, lo stravolgimento dell’intera organicità di un sistema in cui, taluni diritti, sono a tal punto fittamente connessi, da costituire una unica trama, incapace d’essere sciolta se non con il disfacimento di tutto il sistema


[1] Che ciò sia vero, oltre che dalla lettera del Codice civile e, prima ancora, dalla comune esperienza, è ben esplicato nei manuali universitari di diritto civile. Il rinvio, pertanto, non può che essere a A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto privato, Padova, 2007, 625 ss

[2] V. C. BOTTARI, Tutela della salute e organizzazione sanitaria, Torino, 2009, 34

[3] Si possono rammentare, solo per rimanere alle trattazioni di carattere monografico, le opere di C. TUBERTINI, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela della salute, Bologna, 2008, di M. D’ANGELOSANTE, Strumenti di controllo della spesa e concorrenza nell’organizzazione del servizio sanitario in Italia, Rimini, 2012, di E. JORIO, Diritto sanitario, 2010, Milano; e, ancora, le opere collettanee, curate da R. BALDUZZI – G. CARPANI, Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013; da A. PIOGGIA, S. CIVITARESE MATTEUCCI, G.M. RACCA, M. DUGATO, I servizi sanitari: organizzazione, riforme e sostenibilità. Una prospettiva comparata, Rimini, 2011;

[4] La celeberrima espressione, d’utilizzo, per la sua efficacia, assai lato, tanto da rinvenirsi in più d’una decisione della Corte costituzionale, è di F. MERUSI, I servizi pubblici negli anni Ottanta, in Quad. reg., 1985, 1, 52.

[5] Sul punto, v. N. AICARDI, La Sanità, p. 626.

[6] R. FERRARA, L’ordinamento della sanità, p. 48 ss.

[7] Significativa, a tal proposito, è la locuzione elaborata dalla Cassazione di pretium doloris, per descrivere il disagio fisico e mentale patito dal danneggiato. Tra le ultime decisioni ad avere utilizzato tale espressione, Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2011, n. 10108, in Dir. e Giust., 2011; Id. 11 giugno 2009, n. 13530, in Dir. e Giust., 2009.

[8] F. CONTI – G. SILEI, Breve storia dello Stato sociale di diritto, Roma, 2005.

[9] G. CILIONE, Diritto Sanitario, Rimini, 2005, 2 ss..

[10] F. CAMMEO, Sanità pubblica: fonti e organizzazione, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da V.E. Orlando, Milano, 1905, IV, 213

[11] Va ricordato, a livello di funzionamento dell’Assemblea costituente, che i 556 membri eletti alla tornata del 1946 scelsero di nominare una Commissione per la Costituzione, composta da 75 di loro, che a sua volta si suddivise in tre ulteriori Sottocommissioni, preposte, rispettivamente, alla stesura dei diritti e dei doveri dei cittadini; dell’organizzazione costituzionale dello Stato; dei rapporti economici e sociali. Il lavoro di queste tre Sottocommissioni venne poi compendiato dal comitato dei diciotto (detto anche comitato di redazione), che s’occupò, materialmente, di redigere il testo della Carta, coordinando i testi elaborati da ciascuna Sottocommissione

[12] Cfr., per il contenuto della prima formulazione del disposto che sarebbe poi divenuto l’articolo 32 della Costituzione, Atti dell’Assemblea costituente, Seduta del 24 aprile 1947, 2247 ss. e, in particolare, la relazione illustrativa che introdusse la discussione.

[13] L’intuizione si deve a M. LUCIANI, Il diritto costituzionale alla salute, p. 771.

[14] B. PEZZINI, Il diritto alla salute profili costituzionali, p.72.