Nozione di circostanza

Il codice penale contiene una serie di disposizioni di parte generale (art. 59 ss.) che dettano un’analitica disciplina in materia di circostanze del reato, senza però dare una definizione di “circostanza”.

Dall’etimologia della parola (circostanza – qualcosa che “sta intorno” – quod circum stat), si ricava che la circostanza è un elemento accessorio: accessorio rispetto ad una struttura principale, che è data dal reato compiuto in tutti i suoi elementi essenziali.

Le circostanze incidono sulla pena edittale relativa al reato semplice, comportandone una modificazione.

Ratio delle circostanze

La previsione legale di circostanze del reato mira a consentire di adeguare la pena all’effettivo disvalore del fatto concreto, valutato anche in rapporto alle caratteristiche soggettive del reo e ad un contesto più ampio, che può tenere conto di vari fattori anche estranei al fatto di reato in senso stretto, vuoi antecedenti, vuoi concomitanti, vuoi successivi.

Disciplina di imputazione delle circostanze

La disciplina di imputazione delle circostanze è dettata dagli artt. 59 e 60 c.p. Stabilisce l’art. 59, comma 1°, c.p. che “le circostanze attenuanti sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti”.

La regola è, dunque, nel senso che delle attenuanti si tiene conto in base alla loro effettiva sussistenza; non importa che il reo se le rappresenti (c.d. criterio oggettivo od operatività oggettiva).

In altri termini, qualora il soggetto agisca ignorando che esista l’attenuante, ovvero ritenendola erroneamente inesistente, detta attenuante gli giova comunque, se ed in quanto oggettivamente ne sussistano gli estremi.

Peraltro, alcune circostanze sono strutturate in modo tale da richiedere necessariamente un certo atteggiamento psicologico in capo al soggetto agente (circostanze c.d. di natura soggettiva).

Si pensi all’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62, n. 1, c.p.): è logico che l’agente deve avere la consapevolezza del motivo per cui agisce.

Quel motivo, dunque, non può per definizione essere ignorato dal reo, o ritenuto per errore inesistente.

Il soggetto può, al più, ritenere erroneamente che quel motivo, in base alla valutazione legale, non si configuri come “di particolare valore morale o sociale”, il che non gli preclude comunque la possibilità di beneficiare dell’attenuante.

Diverso il caso in cui l’autore creda erroneamente che il motivo per cui agisce sia di particolare valore morale o sociale, mentre in realtà non lo e, in base ai parametri oggettivi di giudizio: il particolare valore morale o sociale, in tale ipotesi, esiste soltanto nella (erronea) valutazione del reo, e non costituisce un dato effettivamente presente; pertanto, l’art. 62, n. 1 c.p. non si applica (cfr. infra, a proposito dell’erronea supposizione di circostanze attenuanti).

L’art. 59, comma 2°, c.p., prosegue dettando la regola secondo cui le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

Si tratta di una notevole innovazione rispetto all’impianto codicistico originario, introdotta dall’art. 1 l. n. 19 del 1990.

Prima di tale riforma, valeva anche per le circostanze aggravanti la regola dell’operatività oggettiva: così, ad esempio, se Tizio avesse rubato un quadro ritenendolo di scarso valore, mentre in effetti si trattava di un dipinto preziosissimo, sarebbe stato senz’altro applicabile al furto l’aggravante di aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, n. 7, c.p.).

Tale disciplina, però, si poneva presumibilmente in conflitto con il principio costituzionale di colpevolezza.

Con la riforma del 1990, quindi, il legislatore è intervenuto ad adeguare il regime di imputazione delle circostanze aggravanti ai canoni costituzionali, eliminando una consistente arca di non più accettabile responsabilità oggettiva.

L’interpretazione che sembra essere definitivamente prevalsa in rapporto alla nuova norma contenuta nell’art. 59, comma 2°, c.p., è nel senso che l’imputazione dell’aggravante debba avvenire quantomeno per colpa (e ciò a prescindere dal fatto che il reato semplice, o reato-base, cui essa accede, sia doloso o colposo).

Quindi, per tornare all’esempio di poc’anzi, perché venga imputata a Tizio l’aggravante del danno di rilevante gravita, è necessario che Tizio o addirittura conosca il valore del quadro, o che lo ignori per colpa, ovvero che per errore colpevole lo ritenga di valore scarso.

Laddove l’elemento circostanziale sia cronologicamente successivo rispetto alla condotta, si richiede, ai fini dell’imputazione al soggetto agente, la previsione o la prevedibilità dell’aggravante: dal punto di vista logico, infatti, la conoscenza, o la conoscibilità, sono destinate a proiettarsi non su circostanze future, ma solo su circostanze passate o concomitanti rispetto alla condotta del reo; mentre le circostanze future possono essere, appunto, previste o prevedibili.

Ed è questa un’interpretazione della norma cui accede la dottrina prevalente.

Stabilisce infine l’art. 59, comma 3°, c.p., che “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti queste non sono valutate contro o a favore di lui”.

Il principio è quello della irrilevanza delle circostanze (sia aggravanti che attenuanti) meramente putative, ossia erroneamente supposte dal soggetto, ma in realtà inesistenti.

Quanto alle aggravanti, la regola rappresenta una elementare ricaduta del principio di materialità, e di un sistema ancorato a fatti concretamente offensivi, che non può certo addebitare al reo qualcosa che è rimasto strettamente confinato alla sfera del suo atteggiamento interiore.

Quanto alle attenuanti, la disciplina dettata dall’art. 59, comma 3°, c.p., non è altro che il riflesso della già illustrata operatività oggettiva delle attenuanti; così come si calcola a favore del reo un’attenuante che egli non si prefigura, per il semplice fatto che in effetti essa esiste, altrettanto (e all’inverso) non si tiene conto di un’attenuante che il reo ritiene per errore che sia realizzata, ma che invece non c’è.

Sarebbe forse opportuna de iure condendo la rimozione di questo limite; sarebbe infatti in sintonia con una maggiore personalizzazione del rimprovero giuridico-penale una disciplina che attribuisse efficacia attenuante anche a dati di valore positivo, per quanto soltanto putativi: oggi tale disciplina è prevista solo come eccezione (art. 60, commi 1° e 2°, c.p., su cui vedasi il paragrafo successivo).

Errore sulla persona dell’offeso

L’art. 60 c.p. si sofferma sulla disciplina dell’errore sulla persona dell’offeso.

È utile chiarire preliminarmente che tale norma presuppone un contesto con “tre protagonisti”: il soggetto agente; la “vittima designata”; la “vittima reale” (ossia colui che in concreto assume la veste di persona offesa, in luogo di chi avrebbe dovuto esserlo nei piani del soggetto agente, che quindi è necessariamente autore di un fatto doloso).

Orbene, “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardino le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole” (art. 60, comma 1°, c.p.).

L’esempio ricorrente è quello di Tizio che crede di sparare a Caio, suo nemico, ma in realtà spara a suo padre Sempronio e lo uccide, scambiando erroneamente nell’oscurità l’uno per l’altro; in tal caso Tizio risponde per omicidio (si legga l’art. 82, comma 1°, c.p. e si vedano comunque i problemi esposti in sede di trattazione dell”aberratio ictus), ma senza l’aggravante del parricidio, che attiene appunto ai rapporti tra il colpevole e l’offeso, e comporta l’ergastolo (art, 577, comma 1°, n. 1, c.p.; fatto commesso contro l’ascendente o il discendente).

Qualora, invece, il soggetto abbia erroneamente supposto l’esistenza di circostanze attenuanti concernenti le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole, queste sono valutate a favore del reo (art. 60, comma 2°, c.p.), con una deroga, quindi, del principio generale di operatività oggettiva delle circostanze attenuanti e della connessa regola di non-rilevanza a favore dell’autore delle attenuanti (solo) putative.

Così, se Tizio reagisce in stato d’ira e spara a Caio uccidendolo, avendolo scambiato per Sempronio, che poco prima lo aveva percosso ed ingiuriato, Tizio risponde di omicidio, ma può ugualmente beneficiare dell’attenuante della provocazione, anche se la “vittima reale”, diversa dalla “vittima designata”, non é, in realtà, il provocatore.

Le disposizioni dei primi due commi dell’art. 60 c.p., fin qui esaminate, non si applicano infine (e si ritorna pertanto alla disciplina generale di cui all’art. 59 c.p.) “se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, della persona offesa” (art. 60, ult. comma, c.p.).

Circostanze definite e circostanze indefinite

Le circostanze (attenuanti e aggravanti) si dicono definite quando la legge descrive il contenuto della circostanza stessa, ossia gli elementi oggetto di valutazione positiva (nel caso delle attenuanti) ovvero negativa (nel caso delle aggravanti).

Si dicono, all’opposto, indefinite quando il contenuto del dato circostanziale non è precisato: in questo caso, il legislatore concede il massimo spazio alla discrezionalità del giudice.

Quali esempi di circostanze definite si possono citare quelle contemplate dagli artt. 61 e 62 c.p.

La principale ipotesi di circostanza attenuante indefinita è rappresentata dalle c.d. attenuanti generiche, di cui all’art. 62-bis c.p.

Analogia e circostanze attenuanti

Sul presupposto che le norme che prevedono circostanze attenuanti sono certamente norme di favore, si sarebbe portati a dire che nulla osta alla loro applicazione analogica.

Ma come ho già avuto modo di dirvi l’applicazione analogica è preclusa quando la lacuna è intenzionale, è, in altre parole, voluta dal legislatore.

È questo il caso delle norme che prevedono circostanze attenuanti con le quali il legislatore individua precise situazioni sulla base di altrettanto precise scelte politico – criminali.

Prendiamo, ad esempio, l’art. 62 n. 4, c.p.

Il legislatore vuole che il danno patrimoniale sia di speciale tenuità.

Non può, pertanto, riconoscersi l’attenuante se il danno è tenue perché, così facendo, si ricorrerebbe all’analogia come se la lacuna fosse involontaria.

Altro esempio: l’art. 62, n. 5.

Il legislatore parla di fatto doloso della persona offesa.

Mai, dunque, si potrebbe riconoscere l’attenuante in presenza di un fatto colposo della persona offesa.

Infine: l’articolo 62 n. 6, c.p.

Il danno deve essere riparato interamente.

Mai si potrebbe riconoscere l’attenuante qualora la riparazione sia solo parziale.

Ora qualcuno di voi potrebbe dirmi: ma ci sono le circostanze attenuanti generiche di cui all’articolo 62-bis c.p.

Potrebbe cioè sostenere che tutte le situazioni sopra indicate, che non integrano le specifiche attenuanti che abbiamo preso in esame, potrebbero contribuire ad integrare le circostanze attenuanti generiche.

E’ vero: questo rischio c’è e spesso lo si fa.

Capita, ad esempio, che si riconoscano le attenuanti generiche in presenza di un risarcimento parziale del danno.

Questo è, a mio avviso, un grave errore perché così facendo si eludono le scelte politico – criminali.

In altre parole, per riconoscere le generiche, ci vuole qualcosa in più, circostanze diverse da quelle previste dall’art. 62 c.p.

Mi spiego meglio: se il giudice, in presenza di risarcimento parziale del danno, riconosce le attenuanti generiche pur emergendo dagli atti la volontà dell’imputato di ridurre solo in parte le conseguenze della sua azione, la decisione è scorretta.

Se, invece, le riconosce perché accerta che il risarcimento parziale è dovuto all’impossibilità materiale di risarcire il danno arrecato, allora può affermarsi che ricorrono altri validi motivi per concedere le attenuanti generiche.

Criteri di identificazione delle circostanze

Premessi cenni sugli strumenti di cui dispone l’interprete per stabilire se la legge abbia inteso prevedere una fattispecie autonoma di reato ovvero una circostanza, dite se la disposizione di cui all’art. 497-bis, secondo comma, c.p. integri una fattispecie autonoma di reato.

Come si fa a capire se un certo elemento è una circostanza oppure rappresenta un elemento essenziale del reato?

Spesso, invero, il problema non si pone neppure: si pensi ad esempio alle c.d. circostanze estrinseche, basate su fatti successivi alla consumazione del reato, e che quindi per loro stessa essenza risultano meramente eventuali rispetto al reato stesso (es. art. 61 n. 8, c.p.: l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso; art. 62 n. 6, c.p.: attenuante della riparazione del danno).

Qui, si tratterà certamente di circostanze (e d’altra parte ciò è confermato dal fatto che quelle menzionate sono collocate dal legislatore fra le “circostanze comuni”).

Talora, invece, la natura intrinseca di un elemento si presta indifferentemente ad una tipizzazione, da parte del legislatore, come elemento essenziale; di una data fattispecie criminosa oppure come circostanza.

Di quali strumenti dispone allora l’interprete per stabilire se la legge abbia inteso prevedere l’uno o l’altra?

Vari sono i criteri elaborati in dottrina.

Si dice, innanzitutto, che occorre distinguere a seconda della funzione attribuita all’elemento della cui qualificazione si tratta: se la funzione è quella di contraddistinguere un reato da un fatto lecito, o da un altro reato, si tratterebbe di elemento essenziale, mentre si sarebbe dinnanzi ad una circostanza quando l’elemento ha la mera funzione di aggravare o di attenuare la pena edittale.

Tuttavia, la distinzione basata sul criterio funzionale non fa altro che riproporre in una differente prospettiva l’interrogativo iniziale: quando, infatti, è possibile concludere nel senso che il fatto ha una mera funzione aggravante o attenuante, e quando, invece, esso ha la funzione di caratterizzare un titolo autonomo di reato?

Un passo avanti sulla via di una corretta qualificazione si può tentare, affermando che le circostanze debbono porsi necessariamente in rapporto di specie a genere rispetto ai corrispondenti elementi della fattispecie semplice, mentre gli elementi essenziali si aggiungono o si sostituiscono ad essi.

Ma anche dando per acquisito che siano qualificabili come circostanze solo gli elementi “specializzanti” della fattispecie semplice, occorre dire che detto rapporto di specialità è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’individuazione di una circostanza, giacché anche una figura autonoma di reato può risultare speciale rispetto ad un’altra, proprio in virtù della specialità di un suo elemento essenziale.

Si deve ammettere, in ultima analisi, che ad oggi manca un vero criterio risolutore, e che pertanto la qualificazione di un elemento come circostanza oppure come elemento essenziale rappresenta non di rado un delicato problema interpretativo, da risolvere caso per caso, tenendo conto di quanto sopra esposto e di ulteriori indici (quali il nomen iuris, la rubrica legislativa, i precedenti, il bene giuridico, il nesso di imputazione soggettiva, ecc.), i quali però sono ben lungi dall’avere una portata decisiva.

La qualificazione nell’un senso o nell’altro, si badi, è ben lungi dal rappresentare una sterile disputa teorica; al contrario, ne discendono conseguenze pratiche di grande rilievo, nella prospettiva della disciplina giuridica applicabile.

In particolare, se un elemento è circostanza, va imputato al soggetto agente secondo le regole dettate dagli artt. 59 e 60 c.p., mentre si seguono ovviamente le regole consuete di imputazione degli elementi costitutivi del reato in presenza di questi ultimi (ancorché la riforma del ’90 in tema di imputazione delle circostanze aggravanti abbia in parte ridimensionato le distanze fra le une e le altre).

Inoltre, se un certo elemento viene considerato circostanza del reato è oggetto del giudizio di comparazione con circostanze di segno opposto, entrando quindi nella valutazione in chiave di prevalenza o di equivalenza: operazione preclusa, invece, qualora si tratti di elemento essenziale.

La giurisprudenza ha ormai assunto una linea costante, recentemente ribadita da

Cass. S.U. 21 giugno 2018, n. 40982, Mizanur.

  1. Le questioni di diritto per le quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite possono essere così sintetizzate:

“Se in tema di disciplina dell’immigrazione, le fattispecie disciplinate dal d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 3, costituiscano circostanze aggravanti del delitto di cui all’art. 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo ovvero figure autonome di reato; se, in quest’ultimo caso, tali figure integrino un reato di pericolo ovvero a consumazione anticipata, che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, in violazione della disciplina di settore, non richiedendo l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio”.

  1. L’interrogativo sulla natura della previsione dell’art. 12, comma 3 T.U. imm. è stata risolto in senso differente dalla giurisprudenza di legittimità parallelamente alle modifiche ripetutamente ad essa apportate dal legislatore.

La norma attualmente vigente, da ultimo riformata dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, ha lasciata intatta la struttura dell’art. 12, comma 1 T.U. imm., modificando profondamente la parte successiva dell’articolo: la condotta dettata dal dolo specifico di profitto, anche indiretto, è ora contemplata nell’aggravante ad effetto speciale di cui al comma 3-ter, unitamente a quella contrassegnata dal fine di sfruttamento lavorativo, sessuale, di prostituzione o di minori; tuttavia, l’effetto di impedire una eccessiva riduzione della pena è stato mantenuto con il divieto di bilanciamento dettato dal comma 3-quater.

Il comma 3, contempla, ora, cinque diverse ipotesi (alcune delle quali già previste nelle precedenti versioni della norma) punite con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 Euro per ogni persona. Le condotte punite sono descritte unitariamente mediante la riproduzione letterale di quella contemplata dal primo comma e il loro elenco è introdotto con la locuzione “nel caso in cui: a) (…)”.

È presente anche la riserva iniziale “Salvo che il fatto costituisca più grave reato (…)”.

Il comma 3-bis disegna un’aggravante “se i fatti di cui al comma 3 sono commessi ricorrendo due o più ipotesi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del medesimo comma”, soggetta al divieto di bilanciamento stabilito dal comma 3-quater.

  1. Le Sezioni Unite ritengono corretta tale seconda linea interpretativa.

Premessa

Si deve premettere che, come risulta con evidenza dagli artt. 61, 62 e 84 c.p., non esiste alcuna differenza ontologica tra elementi costitutivi, o essenziali, ed elementi circostanziali del reato: il legislatore, infatti, può rendere elementi costitutivi del reato ipotesi che, altrimenti, sarebbero considerate circostanze comuni ovvero considerare “fatti che costituirebbero, per se stessi, reato” come “circostanze aggravanti di un solo reato”.

Di conseguenza, la risposta in ordine al dubbio sulla natura di una fattispecie è data esclusivamente dalla ricostruzione della volontà del legislatore che, nella sua discrezionalità, tenta di articolare la valutazione penale di determinate condotte in maniera più aderente alle loro concrete manifestazioni, che mutano anche nel tempo: le numerose riforme della norma in commento sono frutto di questo tentativo, che ha tenuto conto del mutamento del fenomeno del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel corso degli ultimi decenni.

Ciò premesso, in mancanza di una manifestazione espressa della volontà del legislatore di introdurre, con l’art. 12, comma 3 T.U. imm., circostanze aggravanti o fattispecie autonome di reato (manifestazione che, invece, si rinviene per le ipotesi descritte nell’art. 12, commi 3-bis e 3-ter T.U. imm., che il successivo comma 3-quater, qualifica esplicitamente come “aggravanti”), occorre ricavare tale volontà da indici significativi, elaborati da giurisprudenza e dottrina in mancanza di indicazioni normative sui criteri di distinzione.

Il criterio principale è quello “strutturale”

Le Sezioni Unite hanno ribadito negli anni che il criterio principale (anche se non unico) è quello strutturale, attenendo alla struttura del precetto o della sanzione: il modo in cui la norma descrive gli elementi costitutivi della fattispecie o determina la pena è indicativo della volontà di qualificare gli elementi come circostanza o come reato autonomo; ciò, del resto, è coerente con la discrezionalità del legislatore oggetto della premessa.

Cass. S.U. 26 giugno 2002 Fedi

Nel valutare la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640-bis c.p., con riferimento a quella di cui all’art. 640 c.p., Sez. U, n. 26351 del 26/6/2002, Fedi, RV 221663 rilevava che “nel caso dell’art. 640-bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità Europee o di altri enti pubblici). Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa”. In effetti, “la descrizione della fattispecie (…) non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale – laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo. Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali”.

Cass. S.U. 24 giugno 2010, Rico

Analogamente Sez. U, n. 35737 del 24/6/2010, Rico, RV 247910 ribadiva che, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4-bis, il d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, configurava una circostanza attenuante ad effetto speciale e non un reato autonomo, in quanto la norma era correlata ad elementi (i mezzi, le modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non incidevano sull’obiettività giuridica e sulla struttura delle fattispecie previste come reato, ma attribuivano ad esse una minore valenza offensiva.

L’evoluzione normativa seguita alla declaratoria di illegittimità costituzionale della L. n. 49 del 2006, sancita con la sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, è indicativa della discrezionalità del legislatore nella scelta di introdurre circostanze del reato o fattispecie autonome di reato: infatti, come è noto, il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10 ha introdotto una fattispecie autonomo di reato, pur mantenendo i medesimi elementi distintivi rispetto all’ipotesi base di cui all’art. 73, comma 1 T.U. stup.

Cass. S.U. 27 ottobre 2011, Casani

Infine, Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, RV 251270 ha applicato il medesimo criterio strutturale per stabilire che la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall’art. 615-ter c.p., comma 1, e non un’ipotesi autonoma di reato.

Si affermava che “circostanze del reato sono quegli elementi che, non richiesti per l’esistenza del reato stesso, laddove sussistono incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando modifiche quantitative o qualitative all’entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in rapporto di species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti elementi della fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole dottrina, una specificazione, un particolare modo d’essere, una variante di intensità di corrispondenti elementi generali”; richiamando S.U., Fedi, si rilevava che “nei casi previsti dall’art. 615-ter c.p., comma 2°, n. 1, non vi è immutazione degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte dal primo comma, in quanto il riferimento è pur sempre a quei fatti-reato, i quali vengono soltanto integrati da qualità peculiari dei soggetti attivi delle condotte, con specificazioni meramente dipendenti dalle fattispecie di base”.

  1. Il criterio strutturale ben si attaglia alla fattispecie dell’art. 12, comma 3 T.U. imm.

In effetti, in conseguenza della ripetizione della descrizione della condotta presente nel primo comma, risulta evidente che gli elementi essenziali della condotta non mutano, mentre le ipotesi descritte dalle lettere da a) ad e) riguardano elementi ulteriori, che non sono necessari per la sussistenza del reato e che, secondo la valutazione del legislatore, rendono più grave la condotta posta in essere.

Le considerazioni favorevoli ad una considerazione dell’ipotesi come fattispecie autonoma di reato non appaiono decisive.

La tecnica legislativa di riprodurre integralmente la descrizione della condotta presente nella fattispecie del primo comma è, senza dubbio, insolita ma ottiene lo stesso risultato che avrebbe prodotto un rinvio per relationem: non pare, quindi, un indizio inequivoco della volontà del legislatore di creare una diversa fattispecie autonoma.

Il riferimento distinto ai “fatti di cui ai commi 1 e 3” contenuto nel comma 3-ter non dimostra la natura di fattispecie autonoma dei due commi, ben potendo applicarsi ai fatti di cui al primo comma così come aggravati ai sensi del comma 3.

Infine, la costruzione di aggravanti di fattispecie già aggravate, riscontrabile nei commi 3-bis e 3-ter non è affatto inusuale nella variegata produzione legislativa.

Cass. S.U. 10 luglio 2002, p.m. in proc. Fedi

7 – Conviene a questo punto esaminare partitamente i criteri adottati da dottrina e giurisprudenza per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie, quando – come accade purtroppo nella maggior parte dei casi essa non sia espressamente manifestata.

Essi sono criteri di natura testuale o topografica, di natura strutturale o di natura teleologica.

 

7.1

Criterio testuale (criterio del nomen iuris)

Fra i primi rientra il nomen iuris adottato dal legislatore, come nel caso di specie, in cui la rubrica dell’art. 640-bis è intitolata “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”.

In questo caso il titolo della rubrica sembra indicare nettamente la volontà di configurare la fattispecie come circostanza aggravante.

Ma – come è noto – la rubrica non è mai stata ritenuta indizio univoco e assoluto della voluntas legis.

Del resto, seguendo lo stesso criterio del nomen iuris, un indizio simmetricamente contrario dovrebbe ricavarsi dalla formulazione dell’art. 7 della legge 575/65 (disposizioni contro la mafia), come modificato dal decreto legge 152/92, convertito in legge 203/91, il quale prevede un aumento di pena, se il fatto è commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, in ordine ai “delitti previsti” dall’art. 640-bis, oltre che da altre numerose norme.

Altro indizio testuale contrario si potrebbe ravvisare nelle succitate clausole di riserva di cui alle leggi 142/92 e 300/00, laddove la fattispecie di cui all’art. 640-bis è ancora qualificata come “reato”.

In queste disposizioni il legislatore sembra qualificare il fatto descritto nell’art. 640-bis come figura autonoma di reato e non come circostanza aggravante.

 

Criterio topografico (criterio della collocazione della disposizione)

 

7.1.1 – Altro indizio dello stesso genere è quello che si potrebbe chiamare topografico, perché valorizza la collocazione della norma: se la norma è formulata in un articolo separato, denoterebbe una fattispecie autonoma di reato; se è formulata nello stesso articolo che prevede il reato semplice denoterebbe una fattispecie circostanziale.

Secondo questo indizio, dunque, il reato di cui all’art. 640-bis sarebbe autonomo rispetto a quello di truffa previsto dall’art. 640.

Ma anche questo indizio non è probante, perché vi sono fattispecie formulate in articoli separati che tuttavia sono da classificarsi come circostanze aggravanti: cosi le circostanze aggravanti previste negli artt. 292-bis e 293 C.p. rispetto ad alcuni delitti contro la personalità interna dello Stato, se compiuti da militari in congedo o dal cittadino in territorio estero.

Di contro vi sono fattispecie formulate nello stesso articolo che sono sicuramente reati autonomi: per esempio forme colpose di delitti dolosi; le diverse ipotesi dì favoreggiamento personale di cui al comma primo e al comma terzo dell’art. 378 C.p.; o altri reati cosiddetti a fattispecie plurime contemplati in molte leggi speciali.

7.2..

 

Criteri strutturali (attinenti alla struttura del precetto o della sanzione)

I criteri che si possono chiamare strutturali, perché attengono alla struttura del precetto o della sanzione, sono invece di maggior peso.

Criterio di descrizione degli elementi costitutivi della fattispecie

7.2.1 – Cosi, il modo in cui il legislatore descrive gli elementi costitutivi della fattispecie può essere molto indicativo della volontà di qualificarli come circostanza o come reato autonomo.

Si sostiene che quando la fattispecie è descritta attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione di legge, ci si trova in presenza di una circostanza aggravante.

Si replica in contrario che vi sono casi in cui un reato sicuramente autonomo è descritto solo per relationem.

Cosi per il reato di cui all’art. 251, comma 2°, C.p., nel quale l’inadempimento colposo di contratti di fornitura in tempo di guerra è indicato richiamando l’inadempimento doloso di cui al comma 1 dello stesso art. (“se l’inadempimento del contratto, totale o parziale, è dovuto a colpa”).

Così anche, prima della recente depenalizzazione della figura colposa, avveniva per il delitto di atti osceni di cui all’art. 527 C.p., dove il delitto colposo era individuato nel secondo comma attraverso il rinvio al “Tatto” descritto nel primo comma (“se il fatto avviene per colpa, la pena è della multa da lire sessantamila a lire seicentomila”).

Altro esempio si può ravvisare nei delitti colposi contro la salute pubblica di cui all’art. 452 C.p., individuati richiamando semplicemente i “fatti” preveduti dagli artt. 438 e 439 C.p…

Criterio del modo di determinazione della pena

7.2.2 – Altro criterio strutturale è dato dal modo di determinazione della pena.

In certi casi il legislatore determina la pena richiamando quella prevista in altra norma e applicando sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o in diminuzione.

Nonostante la determinazione per relationem possa far pensare alla configurazione di una circostanza, sono però frequenti i casi in cui è indubbia la previsione di uno autonomo reato: così per la corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 C.p.); per la subornazione (art. 377), la cui pena è stabilita in relazione a quelle previste per la falsa testimonianza e la falsa perizia o interpretazione; per i già citati delitti colposi contro la salute pubblica di cui al secondo comma dell’art. 452.

In altri casi invece il legislatore determina la pena modificandone la specie o mutando la cornice edittale rispetto alla pena di riferimento.

Anche in questi casi in genere l’indizio non è univoco, perché, con siffatte variazioni del trattamento sanzionatorio, talvolta il legislatore ha inteso configurare una figura nuova di reato e talaltra ha semplicemente previsto una circostanza c.d. autonoma o indipendente.

In linea generale, comunque, l’unico caso in cui il modo di determinazione della pena non lascia adito a dubbi è quello in cui la variazione in aumento o in diminuzione è lasciata indeterminata dal legislatore: così per esempio nei già menzionati artt. 292-bis e 293.

In tali casi il giudice che debba quantificare la pena deve necessariamente far ricorso ai criteri generali stabiliti negli artt. 64 e 65 C.p., che delimitano la variazione quantitativa entro una misura frazionaria (un terzo) e specificano la variazione qualitativa (reclusione fino a 24 anni invece che ergastolo).

E poiché tali variazioni sono stabilite con espresso riferimento alle circostanze del reato (come si evince dalla rubrica delle norme e del capo secondo in cui sono inserite), ne risulta obiettivamente una chiara volontà del legislatore di sussumere la fattispecie sotto la categoria del reato circostanziato.

In tal modo resta individuato un indizio univoco della voluntas legis in ordine alla qualificazione circostanziale o essenziale del fatto.

Ma questo indizio non è utilizzabile per la questione rimessa al giudizio di queste sezioni unite, atteso che l’art. 640-bis non lascia indeterminata la variazione sanzionatoria e quindi non richiede l’applicazione dell’art. 64.

7.3

Criterio teleologico (dell’oggettività giuridica)

Resta ora da esaminare il criterio di tipo teleologico, che è in genere quello più seguito dalla giurisprudenza di legittimità.

Secondo questo criterio, quando la fattispecie penale tutela un bene giuridico diverso rispetto a quello tutelato dalla fattispecie penale di riferimento, siamo di fronte a un’autonoma figura di reato e non a una circostanza aggravante.

In particolare questo criterio è stato adottato in numerose decisioni di queste sezioni unite.

La sentenza Greco del 1982, trattando un caso di omessa cessione all’ufficio italiano dei cambi di valuta estera non superiore a lire cinque milioni, affermava nettamente il principio che ai fini della distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato occorre tener presente il bene giuridico protetto (sezioni unite 11399/82, dep. 26 novembre 1982, Greco, RV 156405).

La sentenza Parisi del 1991, nel qualificare come circostanza attenuante l’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 73 del D.P.R. 309/90, secondo cui si applicano pene molto inferiori se i fatti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope sono di lieve entità per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, osservava che questi ultimi elementi della fattispecie non modificano né l’obiettività giuridica né la struttura essenziale del reato, ma attribuiscono al reato stesso solo minore valenza offensiva e grado di pericolosità: sicché sono elementi di carattere accidentale ed accessorio, esterni alla struttura tipica del reato, che incidono solo sulla gravità del reato e sulla quantità della pena (sezioni unite 9148/91, dep. 12 settembre 1991, Parisi, RV 187930).

Significativa è anche la sentenza Petrongari del 1994. Le Sezioni unite dovevano affrontare la questione se il superamento della soglia di lire cento milioni di proventi non dichiarati, prevista nell’art. 1, comma 1, della legge 516/82, costituisse una circostanza aggravante del reato di omessa dichiarazione fiscale, ovvero un titolo autonomo di reato.

La questione si poneva prima della modifica introdotta dalla legge 154/91, che invertendo l’ordine delle proposizioni normative e anteponendo l’ipotesi della omessa dichiarazioni di proventi per oltre cento milioni, trasformava tale ipotesi in reato base, rispetto all’ipotesi minore – posposta – della omessa dichiarazione di proventi inferiori ai cento milioni.

Orbene, la sentenza osservava che ciò che distingueva le due ipotesi era un mero dato quantitativo, che indicava il maggior pericolo cui era esposto il bene giuridico protetto, che era comune a entrambe le ipotesi contravvenzionali; sicché la diversità del dato quantitativo, restava un profilo contingente, che non intaccava l’identità del bene protetto e la struttura essenziale del reato. Per conseguenza, in base a siffatto criterio, integrato da altri criteri complementari, la fattispecie doveva qualificarsi come circostanza aggravante e non come titolo autonomo di reato.

Da ultima, utilizza – assieme ad altri – il criterio dell’oggettività giuridica la sentenza Deutsch del 1997.

Essa doveva valutare se il contrabbando di tabacco lavorato estero in quantità superiore ai 15 kg., previsto e punito dall’art. 2 della legge 50/1994, costituisse figura autonoma di reato oppure circostanza aggravante del delitto di contrabbando previsto dall’art. 282 D.P.R. 43/1973.

Al riguardo osservava anzitutto che differenti sono gli interessi tutelati dalle due disposizioni e quindi differente è l’oggettività giuridica, giacché il testo unico del 1973 tutela la potestà tributaria dello Stato e la riscossione delle imposte di confine, mentre la legge del 1994 protegge il regime di monopolio sui tabacchi.

Era questo un primo sintomo della volontà del legislatore del 1994 di configurare un reato autonomo anziché una circostanza aggravante (sezioni unite 119/97, dep. 8 gennaio 1998, Deutsch, RV 209126).

L’obiezione più seria contro il criterio dell’oggettività giuridica è quella che denuncia l’inversione logica su cui esso si fonda.

Per individuare l’interesse tutelato dalla fattispecie penale, invero, è necessario prima esaminare la struttura della stessa fattispecie, distinguendo i suoi elementi essenziali da quelli accidentali; sicché si potrà registrare un mutamento del bene tutelato solo quando e perché è stato accertato un mutamento degli essentialia delicti.

Le stesse sentenze sopra citate, in realtà, pur adottando formalmente il criterio teleologico, finiscono per optare per la qualificazione circostanziale o per la qualificazione autonoma della fattispecie non tanto perché non è cambiata o è cambiata l’oggettività giuridica, quanto piuttosto perché è rimasta o non è rimasta immutata la struttura essenziale del reato (per una formulazione esplicita in questo senso, vedi soprattutto le sentenze Parisi e Petrongari).

Solo in questo senso si può dire che la fattispecie circostanziale modifica soltanto il grado di offensività della condotta, senza sostituire il bene tutelato. Anche se si deve aggiungere che non è sempre vero il contrario, che cioè la figura autonoma di reato modifica necessariamente l’oggetto giuridico rispetto alla figura autonoma di riferimento: così per esempio l’infanticidio di cui all’art. 578 C.p. ha lo stesso oggetto giuridico dell’omicidio di cui all’art. 575 C.p.

8

Principio di legalità

Rilevato il carattere insoddisfacente o comunque non risolutivo degli indici sopra esaminati, un’autorevole dottrina ha sostenuto che nella soggetta materia deve essere adottato come criterio preferenziale il principio di legalità canonizzato nell’art. 25, comma 2, Costituzione e nell’art. 1 C.p.

Quando si controverte intorno alla natura costitutiva o circostanziale di un determinato elemento della fattispecie, si controverte per ciò stesso circa l’esistenza nell’ordinamento di una particolare figura criminosa.

Ma per il principio di legalità questa figura esiste nell’ordinamento solo se è “espressamente” prevista, ovverosia se è contemplata in modo certo e incontrovertibile: sicché ogni dubbio ermeneutico deve essere risolto contro la qualificazione autonoma e a favore della qualificazione circostanziale della fattispecie.

Questa teoria ha carattere dichiaratamente residuale, perché dovrebbe soccorrere solo quando la voluntas legis rimanga altrimenti inaccessibile all’interprete.

Ma a parte questa considerazione, essa si espone a un’essenziale obiezione di ordine dommatico, perché il principio di legalità vale per il reato semplice come per il reato circostanziato; sicché, in mancanza di un’espressa qualificazione legislativa, l’interprete dubbioso non potrebbe optare per una configurazione circostanziale invece che autonoma senza incidere ugualmente sul principio di legalità penale.

Nello stesso ordine di idee, qualche autore ha additato come criterio sussidiario di risoluzione della questione il favor rei, sostenendo che nei casi dubbi l’interprete dovrebbe qualificare la fattispecie come circostanziale, in quanto essa è più favorevole all’imputato, che in tal modo potrebbe godere dei benefici effetti del giudizio di bilanciamento tra circostanze.

Ma nell’ordinamento penale, il favor rei è un principio di accertamento del fatto addebitato all’imputato, è cioè soltanto un principio che regola l’applicazione della legge al caso concreto, non già un canone di interpretazione della legge stessa.

E ciò senza considerare che in teoria la configurazione circostanziale non sempre è più favorevole all’imputato.

Si pensi a un dubbio ermeneutico tra un reato autonomo meno grave rispetto al reato di riferimento e una circostanza attenuante: in tal caso la qualificazione come circostanza attenuante espone l’imputato alla pena più grave prevista per il reato semplice, ove il giudice ritenga l’attenuante equivalente (o peggio subvalente) rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, speciali o comuni.

9.

Criterio del regime di procedibilità

Dopo aver saggiato in tal modo la validità generale dei criteri adottabili nella soggetta materia, è possibile affrontare più da vicino il thema decidendum.

Un criterio del tutto specifico utilizzato per risolvere il problema della qualificazione giuridica della fattispecie de qua, è quello del regime di procedibilità espressamente previsto per la stessa.

Ma anche questo criterio è stato utilizzato ed è utilizzabile con pari plausibilità razionale per conclusioni diametralmente opposte.

Come s’è già visto, l’art. 640-bis richiede che si proceda d’ufficio.

Orbene, da una parte si può sostenere che questo è indizio della configurazione circostanziale, giacché per una fattispecie autonoma di reato la procedibilità d’ufficio è la regola e quindi non aveva alcun senso richiamarla espressamente.

Ma d’altra parte si può sostenere con altrettanto fondamento logico che, siccome la procedibilità d’ufficio, ai sensi dell’art. 640, ultimo comma, è prevista come regola per la truffa aggravata da qualsiasi circostanza, speciale o comune, il richiamo alla procedibilità officiosa risulterebbe superfluo anche se si accedesse alla tesi del reato circostanziato.

S’é già visto che anche i criteri generali del nomen iuris e della collocazione topografica della norma non hanno portata univoca.

Anche il modo di determinazione della pena non ha un valore sintomatico decisivo nel caso della truffa comunitaria.

Come s’è visto, la fattispecie di cui all’art. 640-bis non lascia indeterminata la variazione della pena, sicché sia necessario fare ricorso all’art. 64 C.p.; ma stabilisce invece la pena con una variazione qualitativa (reclusione, invece che reclusione e multa) e con una variazione quantitativa (reclusione da uno a sei anni, invece che reclusione da sei mesi a tre anni) rispetto alla pena prevista per la truffa semplice.

Peraltro questa formulazione può denotare tanto la volontà di configurare la fattispecie come reato a sé, quanto la volontà di configurare una circostanza aggravante autonoma rispetto alla truffa semplice.

E’ decisivo il criterio strutturale della descrizione del precetto penale

Risulta invece decisivo, ad avviso di questo collegio, il criterio strutturale della descrizione del precetto penale.

Nel caso dell’art. 640-bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici).

Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa.

L’obiezione summenzionata (paragrafo 7.2.1), secondo cui vi sono casi in cui la descrizione per relationem è tuttavia compatibile con la configurazione di un autonomo reato, non regge a un’analisi critica più attenta.

A ben vedere, tutti i casi addotti a sostegno dell’obiezione, tra cui l’art. 251, comma 2°, l’art. 452 e l’art. 527, comma 2° (prima della recente depenalizzazione), configurano reati colposi, sicché la descrizione per rinvio alla corrispondente ipotesi dolosa non contrasta con la configurazione di una fattispecie autonoma di reato solo per la ragione che il modulo descrittivo adoperato, se da una parte richiama il fatto tipico del reato doloso, dall’altra introduce anche una variazione nell’elemento soggettivo, che è essenziale nella struttura del reato medesimo, trasformandolo da doloso a colposo.

In altri termini, è proprio la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640-bis, definita da un lato attraverso il richiamo degli elementi essenziali del delitto di truffa di cui all’art. 640 (artifici o raggiri, induzione in errore con conseguente disposizione patrimoniale, ingiusto profitto per l’agente o per altri, danno del soggetto passivo) e dall’altro con l’introduzione di un elemento specifico (erogazioni pubbliche) che è estraneo alla struttura essenziale della truffa, a denotare la inequivoca volontà legislativa di configurare una circostanza aggravante e non un diverso titolo di reato.

La descrizione della fattispecie, insomma, non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale — laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo.

Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali.

Per completezza, si deve rilevare come la specialità che caratterizza la fattispecie dell’art. 640-bis rispetto alla truffa semplice di cui all’art. 640 sia in realtà duplice, giacché riguarda sia l’oggetto materiale della condotta dell’agente e della disposizione patrimoniale del soggetto passivo (sovvenzioni ed erogazioni) sia la natura pubblica del soggetto passivo medesimo (Stato, Comunità europea, altri enti pubblici); mentre in rapporto alla fattispecie di truffa aggravata contro lo Stato o altri enti pubblici, di cui all’art. 640 C.p.v n. 1, quella specialità si riduca solo all’oggetto materiale, posto che i soggetti passivi appartengono nei due casi alla stessa categoria pubblicistica (gli istituti comunitari sono considerati pacificamente di diritto pubblico: cfr. per tutte Cassazione sezioni unite Panigoni, succitata, RV 203971).

A questo proposito va quindi rilevato che, una volta qualificata la fattispecie de qua come circostanza aggravante, la sua applicazione dà luogo a un concorso di circostanze aggravanti, disciplinato dall’art. 68 C.p., con l’assorbimento della circostanza generale dell’art. 640 C.p.v n. 1 nella circostanza speciale di cui all’art. 640-bis (è la circostanza c.d. complessa, che l’art. 68 disciplina facendo espressamente salva l’applicabilità del principio di specialità di cui all’art. 15 preleggi).

Le più significative pronunce delle Sezioni unite della Corte di cassazione e della Corte Costituzionale (escluse quelle dichiarative di illegittimità costituzionale) in materia di circostanze comuni, circostanze attenuanti generiche e recidiva

Art. 61

Circostanze aggravanti comuni

Una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, ai sensi dell’art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato.

Invece non è da ritenere applicata l’aggravante solo allorquando, ancorché riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà, in modo che sul piano dell’attività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset. (Cass. S.U. 18 giugno 1991, Grassi)

 

MOTIVAZIONE

Pertanto, non resta, all’interprete, che dare al verbo “applicare” il significato che gli è più proprio. Anzitutto secondo la comune accezione, rapportata al lessico giuridico ed all’oggetto dell’argomento: e cioè di utilizzazione funzionale. Una norma va quindi considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso.
Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica – pur se indiretta – esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondaria o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica.
Limitarne le conseguenze, ove non previsto, sarebbe pertanto arbitrario.
Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’art. 69 C.P. – un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato.

Invece, non è da ritenere applicata gravante solo allorquando, ancorché riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset.

61 n. 1

Ricorre, per la spregevolezza del fatto secondo il comune sentire, la circostanza aggravante del motivo abietto in relazione all’omicidio commesso, su ordine del capo di un gruppo mafioso, in danno di chi abbia intrapreso una relazione sentimentale con una donna già a lui legata da analogo rapporto, per mero spirito punitivo, dettato da intolleranza per la libertà di autodeterminazione della donna stessa, rifiutatasi di soggiacere alla sua volontà, e per la conseguente perdita sia del dominio fino ad allora esercitato su di lei, sia del prestigio criminale. (Cass. S.U. 18 dicembre 2008, Antonucci)

Allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, sia per motivi abietti, le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso. (Fattispecie in cui la circostanza del motivo abietto era consistita nell’intento punitivo dell’autore di un omicidio, dettato da spirito di mera sopraffazione, e quella dell’agevolazione mafiosa nella volontà di riaffermare, attraverso il delitto così connotato, la persistente supremazia del sodalizio criminale). (Cass. S.U. 18 dicembre 2008, Antonucci) 

61 n. 4

Il dolo d’impeto, designando un dato meramente cronologico consistente nella repentina esecuzione di un proposito criminoso improvvisamente insorto, non è incompatibile con la circostanza aggravante della crudeltà di cui all’art. 61, primo comma, n. 4, c.p.

La circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all’art. 61, primo comma, n. 4, c.p., è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole. (Nell’affermare il principio, la S.C. ha precisato che la sussistenza di tale atteggiamento interiore deve essere accertata alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo). Nella circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 4, c.p., per “sevizie” deve intendersi una condotta studiata e specificamente finalizzata a cagionare sofferenze ulteriori e gratuite, rispetto alla “normalità causale” del delitto perpetrato; si ha invece “crudeltà” quando l’inflizione di un male aggiuntivo, che denota la spietatezza della volontà illecita manifestata dall’agente, non è frutto di una sua scelta operativa preordinata. (Cass. S.U. 23 giugno 2016, p.m. in proc. Del Vecchio)

MOTIVAZIONE:

La giurisprudenza di legittimità esprime un orientamento consolidato sui più rilevanti tratti dell’aggravante.

(…)

Si enuncia insistentemente che la circostanza è caratterizzata da sofferenze che esulano dal normale processo di causazione, costituiscono un quid pluris caratterizzato dalla gratuità e superfluità dei patimenti, dalla efferatezza, dalla assenza di pietà (…).

L’eccedenza della condotta rispetto alla normalità causale e la efferatezza costituiscono, in sintesi estrema, il nucleo della fattispecie aggravante.

Pure concorde è la giurisprudenza in ordine al carattere soggettivo della circostanza (…); alla necessaria volontà di infliggere sofferenze aggiuntive e, quindi, alla consapevolezza che la vittima sia viva (…).

Inoltre, non si richiede che la vittima del reato abbia effettivamente percepito la gratuita afflittività della condotta, essendo la circostanza essenzialmente imperniata sulla considerazione del comportamento dell’autore dell’illecito e sulla conseguente maggiore riprovevolezza di un modus agendi connotato da particolare insensibilità, spietatezza, efferatezza (…).

Proprio il carattere eminentemente soggettivo della circostanza giustifica l’affermazione che non occorre che la condotta crudele sia diretta contro la vittima (…).

E’ tuttavia necessario che la stessa vittima sia ancora in vita, in quanto l’aggravante è configurabile solo quando l’azione si diriga verso una persona e tale è l’uomo soltanto finché vive. Ne consegue che, una volta intervenuta la morte, gli atti di crudeltà compiuti contro le sue spoglie possono integrare all’occorrenza un reato diverso, ma non la circostanza in questione (…).

L’aggravante è compatibile con il vizio parziale di mente, ma va esclusa quando la condotta sia espressione della patologia: va al riguardo compiuta un’indagine caso per caso (…).

La crudeltà è pure compatibile con il dolo d’impeto. Anche su tale questione, naturalmente, si tornerà diffusamente.

  1. Gli indirizzi di cui si è dato conto sono condivisi, nelle loro linee generali, dalle Sezioni Unite.

La circostanza di cui si discute costituisce tipica espressione dello stile della codificazione: la normazione ha un’impronta fortemente casistica, attuata attraverso la previsione di innumerevoli tratti accessori, circostanziali, delle fattispecie.

Il fine è quello di dirigere e limitare la discrezionalità giudiziale nell’individuazione della gravità del reato e della risposta sanzionatoria.

La disciplina dell’omicidio doloso costituisce un classico esempio di tale metodo: i motivi abietti o futili, la crudeltà, l’uso di sostanze venefiche o di mezzi insidiosi, l’azione nei confronti dei congiunti, la premeditazione ecc..

L’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, richiamato dagli artt. 576 e 577 c.p., attiene all’adoperare sevizie o all’agire con crudeltà verso le persone.

La distinzione tra sevizie e crudeltà non è stata oggetto di speciali approfondimenti in ambito teorico.

In giurisprudenza si riscontrano le oscillazioni cui fa cenno l’ordinanza di rimessione, ma non si riscontrano articolate riflessioni: segno che la distinzione presenta scarsa utilità pratica.

Al riguardo queste Sezioni Unite non nutrono dubbi, alla luce della nitida connotazione semantica dei termini.

Le sevizie costituiscono azioni studiate, specificamente indirizzate finalisticamente ad infliggere alla vittima sofferenze fisiche aggiuntive, gratuite.

Talvolta esse, pur afferendo senza dubbio al contesto illecito, non attengono propriamente all’azione esecutiva, tipica, e sono caratterizzate dall’adozione di specifici gesti volti proprio ad infliggere patimenti efferati.

Dunque, la figura è caratterizzata dalla specificità della misura afflittiva studiata, sadicamente indirizzata direttamente alla vittima, nonché dall’intenzionalità dell’agire.

Parafrasando le classiche categorie del dolo d’evento, si può affermare che le sevizie richiedono dolo intenzionale: proprio la architettata, finalistica volontà di infliggere sofferenze perverse.

Per contro, la condotta crudele è quella che, pur non mostrando una studiata predisposizione finalizzata a cagionare, per qualche verso, un male aggiuntivo, eccede rispetto alla normalità causale e mostra l’efferatezza che costituisce il nucleo della fattispecie aggravante.

L’esperienza giuridica mostra illuminanti esempi delle fenomenologie di cui si parla.

In un caso l’autore cagionò lesioni ai glutei e al fianco alla vittima quando era già agonizzante, per sadismo e sfregio.

Nella sentenza di legittimità si parla genericamente di crudeltà; ma è verosimilmente più appropriato ritenere l’esistenza di sevizie, in considerazione del carattere sadico dell’azione di tagliuzzare i glutei, all’evidente quanto deliberato e studiato scopo (come si legge in sentenza) di infierire con patimenti umilianti e dolorosi (…).

In altro caso altrettanto emblematico sono state ritenute con piena evidenza le sevizie: la vittima venne legata, sottoposta ad una lenta, dolorosa e spasmodica asfissia da strangolamento; fu brutalmente pestata con frattura di alcune costole, sfregiata con una lunga ferita sulla guancia; venne pure stuprata (…).

  1. Proprio l’efferatezza che contrassegna tutte le manifestazioni dell’aggravante induce a condividere l’indirizzo giurisprudenziale che, alla luce dell’art. 70 c.p., considera soggettiva la circostanza.

Si tratta in effetti di comportamenti che rilevano precipuamente nella sfera della colpevolezza, dell’atteggiamento interiore, caratterizzato da particolare riprovevolezza per via della sua perversità.

È ben vero che l’aggravante chiama in causa le particolari modalità dell’azione.

Tuttavia tali peculiarità rilevano più che per la concreta afflittività della condotta tipica che conduce all’evento, per il contrassegno di spietatezza che conferiscono, nel complesso, alla volontà illecita manifestatasi nel delitto.

Insomma, le eccedenti modalità dell’azione mostrano una riprovevolezza che giustifica l’aggravamento della pena.

Coerente con tale lettura della norma è la costante, condivisa giurisprudenza che ritiene l’aggravante anche quando la crudeltà si manifesta nei confronti di una persona viva di cui non si sa se percepisca concretamente l’afflizione gratuita, trovandosi in stato d’incoscienza.

Parimenti per ciò che riguarda l’esistenza della crudeltà quando essa è rivolta contro una persona diversa dalla vittima.

È il caso di scuola del figlio costretto ad assistere allo scempio del genitore.

Insomma, è la perversità dell’intento che, al fondo, contrassegna la figura di cui si parla.

Tale atteggiamento di gratuita eccedenza, naturalmente, è intrinsecamente volontario.

Esso può essere definito doloso, ma con la precisazione, già accennata ma da ribadire, che non si fa qui riferimento al dolo d’evento ma se ne recuperano le categorie, i tipi, per più immediata ed agevole esplicazione del pensiero e catalogazione dei moti interiori entro schemi noti al lessico giuridico.

In breve, conclusivamente, è la stessa norma che configura l’aggravante come una circostanza soggettiva a colpevolezza dolosa.

Tale colpevolezza circostanziale può ben manifestarsi nella forma del dolo eventuale: l’agente è consapevole che vi è concreta, significativa possibilità che dalla propria condotta derivi un pregiudizio eccedente e tuttavia si risolve ad agire accettando tale eventualità. È il caso dell’autore che lascia la vittima agonizzante e senza scampo in un luogo remoto, accettando la concreta eventualità che la morte sopravvenga dopo strazianti patimenti a contatto con avverse forze della natura.

Infine, l’aggravante può concretizzarsi anche nel caso in cui il dolo d’evento sia eventuale: si tiene una condotta virulenta accettando la possibilità che da essa discenda l’evento lesivo.

Le considerazioni svolte – si confida – rendono chiaro che la riprovevolezza aggiuntiva riguarda l’azione e non l’autore.

Si infligge una pena più severa perché la condotta è efferata e non perché l’agente è una persona crudele.

(…)

(…) il dato normativo è chiaro: il rimprovero riguarda la condotta posta in essere nel corso dell’esecuzione del reato.

Si può essere compassionevoli per un’intera vita ed efferati in una speciale, magari drammatica contingenza esistenziale.

Infine, il sistema. Il codice non è alieno dal considerare l’autore: la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato. Ma sempre lo fa considerando la storia personale e mai un singolo atto.

  1. Sulla base di tali premesse, è possibile affrontare le questioni controverse: la compatibilità tra dolo d’impeto e dolo di crudeltà; nonché la correttezza dell’esclusione dell’aggravante nel caso in esame.

Orbene, questa Corte ha in numerose occasioni enunciato la compatibilità di cui si discute.

Tale affermazione va ribadita e chiarita. Ed è bene prendere le mosse dalla tipologia di condotta caratterizzata dalla forsennata ripetizione degli atti lesivi, che qui interessa.

La giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente occupata di vicende del genere di quella in esame, caratterizzate dalla insistita ripetizione dei colpi inferti alla vittima; ed ha costantemente affermato che l’accanimento violento può costituire crudeltà quando gli atti non sono funzionali al delitto ma costituiscono espressione autonoma di ferocia belluina che trascende la mera volontà di arrecare la morte (…).

Il principio si riscontra in diverse altre pronunzie: in breve la speciale aggressività, la veemenza, il furore aggravano il reato solo quando non trovano giustificazione nella dinamica omicidiaria, non eccedono la normalità causale ma costituiscono espressione della volontà di infliggere sofferenze eccentriche cioè non direttamente finalizzate a determinare l’evento morte (…).

Tale condiviso indirizzo trova agevole spiegazione nella natura e nella conformazione della circostanza, di cui si è prima dato conto. La norma aggrava il reato quando si manifesta un atteggiamento di colpevole, riprovevole efferatezza documentata dalle modalità dell’azione.

Nella maggior parte dei casi, come si desume da alcuni degli esempi proposti, la crudeltà è espressa dall’azione nel modo più chiaro. Esistono tuttavia contesti che non designano con univoca immediatezza il tratto tipico dell’aggravante.

È il caso della reiterazione dei colpi: l’aggressività talvolta platealmente insistita può essere una contingente modalità omicidiaria oppure un modo per crudelmente infierire, per smembrare la vittima, per farne scempio.

L’alternativa teorica impone al giudice di analizzare attentamente tutti i dettagli del contesto per sceverare l’un caso dall’altro: è ciò che accade normalmente nella prassi.

  1. La circostanza della crudeltà è a colpevolezza dolosa.

Tale colpevolezza non sempre si manifesta nella forma di un deliberato, lucido e conclamato proposito, reso di immediata evidenza dalle modalità dell’aggressione.

Nelle situazioni non evidenti s’impone un’accurata indagine sulle scaturigini dell’azione, sulla vicenda e sul suo autore. A tale proposito è di particolare rilievo, anche per le implicazioni che se ne possono trarre quanto al caso in esame, la già accennata (p. 1), copiosa ed uniforme giurisprudenza di questa Corte relativa a reati efferati commessi da persone in condizioni psicopatologiche.

Di fronte a protagonisti di tale genere, si è affermato, occorre intendere se la peculiare aggressività sia frutto di un chiaro intento crudele o se, invece, costituisca espressione della patologia e sia quindi non colpevole, cioè non mossa dal proposito d’infliggere sofferenze superflue.

Per esemplificare: da ultimo è stata esclusa l’aggravante in un caso di omicidio commesso attingendo la vittima con innumerevoli colpi di coltello.

Si è posto in luce che si trattava di agente con tratti di tipo paranoideo e sfumati sintomi psicotici; che, di fronte a stimoli di tipo costrittivo-punitivo produceva reazioni spropositate sostenute da una forte componente di rabbia; che il numero elevato dei fendenti ha espresso l’esplosione di rabbia tipica del rilevato disturbo mentale e del connesso spunto paranoide, che impediva l’interruzione dell’azione dopo i primi colpi (…).

Insomma, esiste un problema di colpevolezza dell’aggravante rispetto al quale può assumere rilievo la condizione alterata dell’agente, che in qualche caso muove in guisa parossistica l’azione, senza che ciò implichi la volontà di procurare sofferenze eccedenti.

  1. La fenomenologia di cui ci si occupa, con il suo frequente carico di incoercibile coazione a ripetere l’atto aggressivo, è spesso caratterizzata da azioni impulsive.

Si è conseguentemente posto il problema della compatibilità del dolo d’impeto con l’aggravante della crudeltà.

In proposito la Corte si è espressa ripetutamente con enunciazioni consonanti e recise: si è considerato che la finalità di arrecare inutili sofferenze non è un tratto essenziale dell’aggravante ed è sufficiente la volontarietà degli atti posti in essere, sicché la circostanza è compatibile sia con il dolo d’impeto che con quello eventuale (…).

Si è pure argomentato che la norma non richiede che si tratti di reato premeditato o preordinato; e che l’uso di crudeltà o di sevizie non assume una diversa connotazione giuridica solo perché posto in essere a seguito di una determinazione volitiva coeva o immediatamente precedente rispetto alla condotta esecutiva del reato (…).

Tale visione delle cose va senz’altro condivisa.

In effetti non si scorge alcuna ragione logica, empirica o legale che consenta di escludere l’affermata compatibilità: è ben possibile che un delitto maturato improvvisamente si estrinsechi in forme che denotano efferatezza, brutalità; e l’art. 61 c.p., n. 4 non caratterizza per nulla la circostanza in una guisa che postuli una protratta ponderazione in ordine alle modalità dell’aggressione.

  1. La recente pronunzia (…) richiamata dall’ordinanza di rimessione, dalla quale si desume un orientamento difforme, reca in realtà una soluzione del dubbio sull’aggravante che non è basata su ragioni dogmatiche legate alle caratteristiche normative delle figure del dolo d’impeto e della crudeltà.

Si considera che non si è in presenza di preordinazione del delitto, anche se esso è maturato in un contesto di profondo disagio personale nella relazione con la vittima, che ha determinato una strettoia emotiva ed una condizione di aggressività, slatentizzatasi nel momento del delitto.

L’azione risulta commessa con dolo d’impeto, come reazione immediata ad uno stimolo esterno: un’aggressione commessa con estrema rapidità, frutto di rabbia ed aggressività, con colpi portati in rapida sequenza e ravvicinati.

Il loro numero è indicativo del dolo d’impeto e del concreto finalismo omicidiario: nessuna delle lesioni è mortale, tutte concorrendo alla determinazione dell’evento.

La sede delle lesioni non risulta indicativa di alcun ulteriore determinismo volitivo, posto che esse sono tutte probabile frutto della stessa concitazione lesiva.

Ciò esclude il tentativo di scannamento che si era in un primo momento ipotizzato; e quindi l’esistenza dell’aggravante.

Come si vede, l’esclusione della circostanza non è determinata, in realtà, dall’esistenza di dolo d’impeto, cioè di una deliberazione criminosa improvvisa, bensì dalla rabbiosa concitazione che determinò la furiosa e non mirata ripetizione dei colpi che attinsero la vittima in organi non vitali, tanto che la morte sopravvenne solo in un momento successivo al termine dell’azione violenta.

Dunque, la pronunzia si rivela, al fondo, perfettamente aderente alle caratteristiche dell’aggravante che si sono sopra tratteggiate: l’inflizione di lesioni eccedenti rispetto alla normalità causale, sorretta dalla perversa volontà di cagionare gratuite sofferenze fisiche o morali.

La Corte di legittimità analizza il caso alla ricerca della colpevolezza dell’aggravante alla stregua del metodo indiziario che costituisce l’unico possibile strumento per l’indagine sulla colpevolezza, sull’atteggiamento interiore che contrassegna il processo decisionale (Sez. U, n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn, RV 261105). La ragionata conclusione dell’indagine è che l’azione è mossa da parossistica impulsività e non da dolo di crudeltà.

  1. Traendo le fila di quanto sin qui considerato emerge che, al fondo, la introduzione nell’argomentazione della figura del dolo d’impeto è frutto di confusione e sovrapposizione tra tale forma dell’elemento soggettivo e le componenti impulsive della condotta. Infatti, la deliberazione illecita può ben essere fulminea, estemporanea ma al contempo fredda ed ordinata. Al contrario, un crimine lungamente preordinato può essere eseguito in una condizione psichica emotivamente perturbata dalla stessa drammaticità dell’atto. L’affermazione richiede un breve chiarimento che riguarda per l’appunto il dolo d’impeto.

La vasta letteratura sul dolo mostra alcune classificazioni prive di reale interesse da punto di vista dogmatico. Esse, frutto di risalenti istanze descrittive, classificatorie, non svolgono un ruolo significativo nel governo dell’imputazione soggettiva, tanto che sono nel presente oggetto di scemata attenzione anche in dottrina. In tale ambito si colloca la figura del dolo d’impeto.

Soprattutto la dottrina meno recente evidenzia la distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito, fondata sulla maggiore o minore repentinità della decisione illecita e della sua esecuzione.

Il primo è caratterizzato da una risoluzione che insorge improvvisa e viene subito tradotta in azione. Tale specie di dolo viene ritenuta meno grave, in quanto esprime una ponderazione sommaria delle implicazioni del fatto. Essa non è incompatibile col dolo eventuale, giacché l’analisi dei risultati che si prospettano può avvenire anche in un breve lasso di tempo.

Il dolo di proposito è caratterizzato, invece, da un considerevole distacco temporale tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua esecuzione. Qui il coefficiente psicologico è più forte, giacché più viva è la coscienza dell’atto e delle sue conseguenze.

A tale categoria, quale sottospecie, viene generalmente ricondotta la premeditazione, prevista come circostanza aggravante dagli artt. 577 e 582 c.p., nella quale, secondo la visione più diffusa in dottrina ed in giurisprudenza, al decorso di un significativo lasso di tempo tra la nascita e l’esecuzione dell’idea criminosa si accompagna una riflessione che esprime il consolidamento del proposito ed una sua persistenza tenace ed ininterrotta.

La distinzione in questione esprime un dato meramente cronologico di per sé non dirimente da alcun punto di vista ed afferente più al piano della prova che a quello categoriale.

Un accenno al dolo d’impeto compare nella Relazione al Re sul codice: esso costituisce il primo gradino cui seguono quelli della riflessione normale e quello della premeditazione. Ma non gli si attribuisce alcun rilievo, a parte quello naturalmente afferente all’intensità del dolo.

L’assenza di specifico peso regolativo si desume del resto dalla stessa giurisprudenza, che solitamente fa riferimento alla figura proprio per escluderne la concreta autonoma incidenza negli ingranaggi del sistema. Ad esempio, l’aggravante del nesso teleologico è compatibile con il dolo d’impeto, in quanto l’ideazione e l’esecuzione del reato mezzo e del reato fine possono coincidere, mantenendo il collegamento strumentale e funzionale tra di essi (…). Tale incompatibilità non esiste in quanto la risposta immediata, o quasi immediata, in cui si concreta il primo non collide con una connessa e coeva ulteriore e contestuale intenzionalità (…).

È stata pure ravvisata la compatibilità, in tema di omicidio volontario, dello stesso dolo d’impeto con la circostanza aggravante dei motivi abietti e futili (…).

In giurisprudenza si afferma altresì, condivisibilmente, che non vi è incompatibilità neppure tra dolo d’impeto e dolo eventuale: non è ravvisabile incompatibilità logico-concettuale di sorta tra tali figure per pretesa inconciliabilità tra previsione ed assenza di riflessione, posto che anche al dolo d’impeto inerisce naturalmente un profilo di consapevolezza e previsione degli esiti della condotta voluta, in funzione del nesso causale che deve legare i due termini del fatto (…).

Di particolare interesse ai fini che qui interessano è una pronunzia in cui si è affermato che il dolo d’impeto, che connota la risposta immediata o quasi immediata ad uno stimolo esterno, non esclude la lucidità, ma non richiede neppure una immediatezza assoluta della risposta allo stimolo, essendo diversi, in ogni soggetto, i tempi di reazione (…).

Alla luce di tali riferimenti sistemici, dunque, risulta corroborato l’assunto sin qui proposto:

Il dolo d’impeto, designando un dato meramente cronologico, non è incompatibile con la circostanza aggravante della crudeltà di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 4.

Del tutto distinto è il tema afferente ai tratti impulsivi della condotta, che frequentemente caratterizzano vicende del genere di quella in esame; e più in generale la condizione psichica dell’agente. La concitazione, la rabbia, possono in qualche caso spiegare l’incalzante agire aggressivo, escludendo l’esistenza della già evocata colpevolezza di crudeltà. Analogamente è a dirsi per ciò che riguarda l’alterata condizione mentale che può costituire la spiegazione della virulenta azione aggressiva. Come sempre, quando si tratta di cogliere i tratti interiori dell’agire, la strenua ricerca dei dettagli e la loro serrata ed equilibrata analisi costituiscono strumenti indispensabili ai fini del giudizio.

Da quanto sin qui esposto può trarsi la seguente ulteriore enunciazione:

La circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all’art. 61 c.p., commi 1 a 4, è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo.

61 n. 7

La falsità in atto pubblico, sia materiale che ideologica, non avendo come componente necessaria e costante anche l’offesa del patrimonio, oltre quella alla fede pubblica, non consente l’applicabilità dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (e, naturalmente, dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità) e non ha alcuna importanza il fatto che essa, in alcuni casi, possa essere determinata da motivi di lucro, perché il danno patrimoniale, quando si verifica, non è riferibile alla persona offesa dal reato, che è lo Stato, o, se si vuole, la società, ma al singolo cittadino. I delitti che offendono il patrimonio sono quelli plurioffensivi che, secondo l’astratta previsione della legge, oltre a recare offesa in via primaria a un altro diritto o interesse, offendono anche il patrimonio in via secondaria, ma sempre necessariamente come costante oggetto della norma incriminatrice: ove una qualsiasi figura di delitto di falso documentale astrattamente preveduta contenga in sé, oltre l’offesa primaria alla fede pubblica, anche quella al patrimonio, è applicabile, secondo i casi, la circostanza attenuante o aggravante. Diversamente, non è applicabile. (Cass. S.U. 22 marzo 1969, Brunetti Flodiola)

Mentre le circostanze indicate negli artt. 61, n. 7 e 62, n. 4 c.p. hanno riguardo ai reati la cui oggettività giuridica afferisce al patrimonio, l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. attiene al danno che, indipendentemente dall’offesa all’interesse tutelato, può derivare da qualsiasi reato. Invero essa trova ragione unicamente in una diminuita capacità di delinquere del colpevole dimostrata dal comportamento successivo al reato. Quest’ultima circostanza, a differenza di quelle menzionate negli artt. 61, n. 7 e 62, n. 4, c.p., è del tutto svincolata dall’oggettività giuridica del reato rispetto al quale va applicata e, perciò, è applicabile anche al reato di cui all’art. 455 c.p. Tale reato configura una fattispecie plurima che si realizza con l’introduzione nel territorio dello Stato, o con l’acquisto e la detenzione, di monete contraffatte e alterate, ovvero con la spendita o la messa in circolazione di siffatte monete al di fuori delle ipotesi previste dagli artt. 453 e 454 c.p. Ne deriva che, mentre rispetto all’ipotesi di spendita di monete è ammissibile il risarcimento del danno, non altrettanto può dirsi con riferimento alla previsione della introduzione, acquisto e detenzione di monete contraffatte, poiché non c’è qui un danno risarcibile ex art. 185 c.p., ma un danno criminale, i cui effetti possono essere neutralizzati solo mediante un’efficace e spontanea condotta del reo, volta a elidere o ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito, così come statuisce la seconda ipotesi dell’art. 62, n. 6, c.p. Pertanto, nei riguardi dei reati contro la fede pubblica è applicabile l’attenuante dell’attivo ravvedimento di cui alla seconda parte dell’art. 62, n. 6, c.p., ben potendo il colpevole, dopo la realizzazione dell’evento, adoperarsi per eludere o attenuare quelle conseguenze dell’azione criminosa che non si concretino in un danno economicamente risarcibile. (Cass. S.U. 29 ottobre 1983, Del Fà) 

Art. 62

Circostanze attenuanti comuni

62 n. 1

Ove il reato sia una manifestazione di lotta politica, non basta, perché possa profilarsi l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale, l’elemento psicologico dell’ispirazione dell’azione agli ideali programmatici della intrapresa lotta politica, ma occorre la ricognizione della sicura conformità a giustizia di quegli ideali, il che può aversi in determinati eventuali casi, per esempio, quando esista un conflitto tra il precetto della legge penale e quello superiore della legge morale. Pertanto, l’attenuante de quo non può riconoscersi agli appartenenti a una minoranza linguistica che commettano dei reati mossi dall’ideale di riunire il territorio dove abitano alla pretesa madre patria, quando, per l’assenza di una legislazione discriminatoria o di direttive di governo ispirate a faziosità o di distorsioni nei metodi di gestione della cosa pubblica da parte delle autorità amministrative, non può dirsi che dette persone vivano in una condizione di oppressione, sotto una specie di giogo. (Cass. s.u. 14 marzo 1970, Kofler)

62 n. 4

Ai fini della configurabilità dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, quando non si tratti di denaro, si deve tenere conto del valore economico che la cosa oggetto del danno ha nelle normali contrattazioni commerciali in un determinato momento storico senza che possa darsi peso, a tale riguardo, a elementi contingenti o casuali, di natura oggettiva o soggettiva, che possano influenzare, in un senso o nell’altro, la valutazione della cosa come tale.

Non è, in particolare, consentito tenere conto, ai fini sopra specificati, del prezzo di affezione, maggiore di quello reale, che la cosa può avere per una determinata persona, né ha rilevanza allo stesso fine che, con azioni successive a opera dello stesso o di altri soggetti, la cosa in questione venga utilizzata per commettere altre azioni delittuose integranti di per se stesse uno o più reati, in relazione ai quali la tenuità o la gravità del danno eventualmente prodotto si atteggia in una autonoma tematica circostanziale (nella specie si è ritenuto illegittimo il diniego dell’attenuante fondato non sul valore oggettivo degli stampati oggetto dell’illecito, bensì sull’eventuale pregiudizio subito dalla pubblica amministrazione per la ricettazione di moduli di carta d’identità, non rientrando tale pregiudizio nella nozione del danno quale conseguenza immediata e diretta del reato). (Cass. S.U. 7 luglio 1984, Juardi)

Esiste la compatibilità tra l’attenuante prevista dall’art. 648, comma secondo e l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., quando al giudizio concretamente espresso nei termini della particolare tenuità del fatto sia rimasta estranea la valutazione del danno patrimoniale; soltanto in questa ipotesi può affermarsi che l’attenuante speciale, benché complessa e potenzialmente comprensiva dell’elemento caratterizzante l’attenuante comune, non ne ha provocato la consunzione e, quindi, l’assorbimento. (Cass. S.U. 26 aprile 1989, Beggio)

La valutazione del danno patrimoniale cagionato alla persona offesa dal reato, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 c.p., nel caso di ricettazione non deve avere esclusivo riguardo al valore economico della cosa ricettata, ma deve fare riferimento a tutti i danni patrimoniali oggettivamente prodotti alla (o alle) persona(e) offesa(e) dal reato quale conseguenza diretta del fatto illecito e, perciò, ad esso riconducibili, la cui tenuità-gravità deve essere apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti. L’apprezzamento del giudice di merito, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione. (Cass. S.U. 12 luglio 2007, Ruggiero)

 

MOTIVAZIONE

In effetti, sull’applicabilità dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, di cui all’articolo 62, comma 1°, n. 4, c.p. nel caso in cui la ricettazione abbia per oggetto moduli di assegni bancari, si registrano diversi orientamenti giurisprudenziali, fermo, peraltro, il principio, ormai pacifico, fissato da Cass. S.U. n. 13330 del 26 aprile 1989, Beggio, (RV 182220 e 182221) secondo il quale “l’attenuante di aver cagionato alla persona offesa del reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, prevista dall’articolo 62 n. 4 c.p., è compatibile con l’ipotesi attenuata di ricettazione prevista dall’articolo 648, secondo comma c.p., solo se la valutazione del danno patrimoniale sia rimasta estranea al giudizio sulla particolare tenuità del fatto che caratterizza l’ipotesi attenuata di ricettazione, e che va condotto alla luce di tutti i parametri di cui all’articolo 133 c.p., perché ove il danno patrimoniale sia stato tenuto presente in tale giudizio l’attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 c.p. è assorbita nell’ipotesi attenuata di cui all’articolo 648, secondo comma c.p.”.

Neppure si ravvisa contrasto giurisprudenziale con riferimento al caso in cui l’oggetto del reato di ricettazione sia un assegno già formato con indicazione dell’importo e non un assegno in bianco, e ciò perché, si afferma, la natura di titolo di credito e le obbligazioni in esso consacrate fanno assumere all’assegno i connotati di un “bene”, con valore economicamente apprezzabile, e, con riferimento al quantum portato dallo stesso, anche agli effetti del danno patrimoniale causato dalla commissione del reato; in tal caso, si precisa, “è da escludersi che il danno conseguente alla utilizzazione del titolo possa essere dissociato dalla condotta del colpevole e riferito, invece, ad una diversa e successiva attività criminosa” (Cass. S.U. n. 13330 del 1989, Beggio cit. …).

Controversa, invece, è l’individuazione dei criteri di applicabilità dell’attenuante di aver cagionato alla persona offesa del reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, nel caso in cui oggetto della ricettazione siano moduli di assegni bancari in bianco.

Sulla questione controversa, in verità, le Sezioni Unite si sono già pronunciate con la sentenza n. 10446 del 7 luglio 1984, Del Pozzo (RV 166806), la quale ha affermato che “la questione relativa all’applicabilità, o meno della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, di cui all’articolo 62 n.4 c.p., nell’ipotesi di ricettazione di assegni bancari in bianco (articolo 648 c.p.) va risolta, in linea generale, nel senso che la speciale tenuità del danno deve essere apprezzata in relazione al valore della cosa che forma oggetto del reato. Ciò significa che, quando non si tratti di denaro, si deve tener conto del valore economico che la cosa oggetto del reato ha nelle normali contrattazioni commerciali, in un determinato momento storico; senza che possa darsi peso, a tale riguardo, ad elementi contingenti o casuali, di natura oggettiva o soggettiva, che possano influenzare, in un senso o nell’altro, la valutazione economica della cosa come tale”.

Sulla base di tale principio, che si considera conseguenza di quello più generale per cui il danno, ai fini dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 c.p., è quello che deriva in modo immediato e diretto dal reato, si afferma che nell’ipotesi di ricettazione di moduli di assegni bancari in bianco, la valutazione, ai fini della concessione o del diniego dell’attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 c.p., del danno patrimoniale derivante dal reato di ricettazione va effettuata in base al valore (materiale) dei moduli stessi e non al diritto di credito incorporabile nei titoli (così Cass. Un. Cit.).

Identico principio è stato espresso da Cass. S.U. 7 luglio 1984, n. 10445, Suardi, (RV 166805), che, con riferimento all’ipotesi di ricettazione di moduli per carte di identità, ha formulato l’ulteriore precisazione che non “rileva al fine de quo, che con azioni successive, ad opera dello stesso o di altri soggetti la cosa in questione venga utilizzata, per commettere altre azioni delittuose integranti di per se stesse uno o più reati, in relazione ai quali la tenuità o la gravità del danno eventualmente prodotto si atteggia in un’autonoma tematica circostanziale”.

Successivamente a tali pronunce delle Sezioni Unite, si registrano orientamenti giurisprudenziali difformi.

[…]

occorre procedere ad una ricostruzione della normativa in materia …

La base di partenza non può che essere il testo letterale del disposto dell’articolo 62 n. 4 c.p.

 

La disposizione fa riferimento al “danno patrimoniale di speciale tenuità” cagionato alla persona offesa dal reato e non al semplice valore della cosa ricettata

Sulla base di tale testo, si può formulare una prima osservazione, cioè che la giurisprudenza quando dibatte sul valore economico della cosa ricettata trascura di considerare che il disposto della legge fa riferimento al “danno patrimoniale di speciale tenuità” cagionato alla persona offesa dal reato e non al semplice valore della cosa ricettata.

Quando il legislatore ha voluto fare riferimento al valore della cosa oggetto del reato lo ha detto espressamente, come nel caso del furto punibile a querela dell’offeso se il fatto è commesso su “cose di tenue valore” (articolo 626 n. 2 c.p.).

Si può anche ricordare che la disposizione in esame trova riscontro in quella dell’articolo 431 del codice penale Zanardelli, che, invece, faceva riferimento, per l’aumento o la diminuzione della pena, al “valore della cosa che ha formato oggetto del delitto” o al “danno recato”, con ciò distinguendo chiaramente i due termini di riferimento.

La norma parla di tenuità del danno non di entità

Anzi, il richiamo alla “tenuità” del danno e non alla sua semplice “entità” rende ancora più evidente che il punto di riferimento per la valutazione in merito all’applicabilità dell’attenuante in questione non può essere il semplice valore oggettivo della cosa ricettata.

La circostanza attenuante in questione si contrappone alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità

La circostanza attenuante comune di cui all’articolo 62 n. 4 c.p. si contrappone alla circostanza aggravante comune di cui all’articolo 61 n. 7 c.p., l’avere “cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità”.

La “tenuità”, pertanto, si contrappone alla “gravità” e lo stesso riferimento normativo alla gravità piuttosto che all’entità del danno invita ad una valutazione il più possibile completa del danno; in altri termini, il valore della cosa che costituisce l’oggetto materiale del reato non necessariamente esaurisce la gravità del danno che rileva ai fini in esame.

Suscita perplessità sistematiche l’affermazione secondo cui un modulo di assegno in bianco non è suscettibile di valutazione economica

Si deve, inoltre, considerare che la tesi secondo la quale il modulo di assegno in bianco non è suscettibile di valutazione economica non potendo formare oggetto di transazioni commerciali, suscita anche perplessità sistematiche.

Infatti, la stessa sentenza che introduce tale principio si preoccupa di argomentare che esso “non comporta, ovviamente, ricadute in tema di reato presupposto (in ipotesi, in tema di furto), atteso che in relazione a tale fattispecie è stato costantemente affermato che il bene oggetto della condotta criminosa non deve essere considerato unicamente nella sua consistenza materiale, ma anche con riferimento alla sua normale destinazione d’uso, equivalente al profitto illecito che ne trae colui che se ne è impossessato (cfr., ex plurimis, Cass., Cass. V, 25 settembre 1998, Di Gioia): in altri termini, la nozione di “patrimonio”, ai suddetti fini, ricomprende necessariamente anche quelle cose che, pur prive di reale valore di scambio, rivestono comunque interesse per il soggetto che le possiede”.

Non si considera, peraltro, che tale affermazione se può non comportare conseguenze in tema di furto, che richiede per la sua configurabilità soltanto il fine di profitto, può, invece, comportare conseguenze inaccettabili con riferimento a quei delitti contro il patrimonio, come l’estorsione, la truffa, la frode informatica, che richiedono per il perfezionamento della fattispecie oltre al profitto anche l’altrui danno.

D’altro canto, la stessa pronuncia della Sezione II, mentre tenta di andare al di là della interpretazione delle Sezioni Unite, ad essa, poi, si richiama, integrandola con una precisazione in merito ai criteri di determinazione del valore del modulo di assegno in bianco, che conduce, comunque, ad escludere sempre l’applicabilità dell’attenuante in questione, mantenendo, però, in tal modo, irrisolto il problema dell’esatta individuazione del corretto fondamento giuridico dell’inapplicabilità, nella specie, dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 c.p..

La giurisprudenza che tiene in preminente considerazione le potenzialità criminose del bene ricettato potrebbe ritenersi coerente con lo spirito dell’incriminazione di cui all’articolo 648 c.p., soprattutto dopo le modifiche operate dall’articolo 15 della legge 22 maggio 1975, n. 152 e l’aggiunta effettuata dall’articolo 3 della legge 9 agosto 1993, n. 328.

E’ opinione diffusa che la previsione del delitto di ricettazione non abbia una valenza di tipo quasi esclusivamente patrimoniale, ma svolga anche rilevanti funzioni di prevenzione generale rispetto a quei comportamenti che rendono produttivo il commettere reati e che consentono ai loro autori di negoziare il provento delle attività criminose.

Tale giurisprudenza non considera, però, che la potenzialità criminosa della cosa ricettata, per potere essere valutata ai fini della diminuzione o dell’aggravamento di pena, deve avere avuto concreta attuazione, poiché il danno potenziale è estraneo alla funzione dell’attenuante in questione che richiama una dimensione effettiva e concreta del danno, come si desume anche dall’articolo 133, comma 1, n. 2, c.p. che attribuisce, invece, rilevanza non solo alla “gravità del danno cagionato alla persona offesa” ma anche al semplice “pericolo” di danno. Pertanto, perché l’“interesse generale della banca emittente al cosiddetto valore formale del documento” possa acquistare rilevanza ai fini della valutazione dell’applicabilità dell’attenuante ex articolo 62 n. 4 c.p., occorre individuare una concreta fattispecie risarcitoria di natura patrimoniale, la cui configurabilità è confermata dalla giurisprudenza civilistica in materia (Cass. I, 30 maggio 1963, n. 1466, RV 262186; Cass. III, 9 aprile 1982, n. 2208, RV 420075; Cass. III, 14 ottobre 1992, n. 11207, RV 478912; Cass. III, 18 febbraio 2000, n. 1859, RV 534078; Cass. I, 7 giugno 2000, n. 7698, RV 537354; Cass. III 29 settembre 2004, n. 19565, RV 577422).

Non è stata approfondita l’affermazione secondo cui deve considerarsi soltanto il valore cartaceo del modulo di assegno in bianco ricettato, quando il riempimento sia addebitabile all’autore dell’ulteriore e successivo reato

Altra affermazione non attentamente approfondita dalla giurisprudenza è quella secondo la quale deve considerarsi soltanto il valore cartaceo del modulo di assegno in bianco ricettato, quando il riempimento sia addebitabile all’autore dell’ulteriore e successivo reato.

Non si considera che applicando tale affermazione di principio in un corretto quadro sistematico, dovrebbe, con ragionamento speculare, riconoscersi che quando il ricettatore riceve cose provenienti da delitto, il danno cagionato da questo si può ritenere già compiutamente verificato, con la conseguente impossibilità di trasferire nello schema della ricettazione, e con identità di qualifica, la persona offesa dal reato presupposto, con la conseguenza che può sostenersi che, essendo la ricettazione reato autonomo rispetto al delitto presupposto, le circostanze del danno patrimoniale devono essere valutate non in rapporto al valore della cosa ricettata (che riguarda il danno cagionato dal delitto presupposto), bensì in rapporto al danno patrimoniale ulteriore.

La chiave di lettura dell’art. 62 n. 4 c.p.

Pertanto, come chiaramente discende dalla stessa formulazione letterale della norma, agli effetti dell’attenuante in questione ciò che effettivamente rileva è il danno cagionato dal reato, che nel suo significato più proprio è quello giuridicamente considerabile, cioè, quello per cui è data l’azione di risarcimento, tenendo ben presente che il danno risarcibile che il reato può determinare può essere elemento costitutivo dell’incriminazione, ma potrebbe anche essere pregiudizio inerente all’aggressione del bene protetto o conseguenza diretta scaturente dall’offesa tipica.

Risulta allora evidente che la chiave di lettura dell’articolo 62, n. 4 c.p. (ed anche dell’articolo 61 n. 7 c.p.), è offerta dall’articolo 185 c.p., che, senza alcun riferimento al titolo ed alla collocazione sistematica del reato e, quindi, all’interesse primario da esso previsto e tutelato, concerne l’obbligo del risarcimento in via civile del danno, di cui il reato stesso in concreto sia stato causa immediata.

L’espressione danno “cagionato” di cui all’articolo 62 n. 4 c.p. trova perfetta corrispondenza nell’articolo 185, che fa riferimento appunto al danno “cagionato” dal reato, esprimendo il concetto che tra l’azione (o l’omissione) e il danno deve esistere un rapporto di causa ad effetto: ciò che rileva, appunto, è che il danno sia conseguenza diretta del fatto illecito a prescindere dalla riferibilità al momento consumativo dello stesso.

Tale chiave di lettura è pacifica nella giurisprudenza, a prescindere dalla obiettività giuridica del reato, purché siano coinvolti interessi a carattere patrimoniale, con riguardo all’attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 c.p. (“l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno”), ma non si ravvisa alcuna giustificazione giuridicamente fondata per ritenere che la stessa non valga anche con riguardo all’attenuante di cui si discute. L’unica differenza tra le due attenuanti è data dalla loro rispettiva natura, l’una, quella di cui all’articolo 62 n. 4 c.p., di natura oggettiva, che prescinde dalla condotta dell’agente, l’altra, quella di cui all’articolo 62 n. 6 c.p., di natura soggettiva, che presuppone il ravvedimento attivo del colpevole.

Le differenti formule legislative sono, appunto, conseguenza della diversa natura, che importa soltanto nell’ipotesi di cui all’articolo 62 n. 6 c.p. una valutazione integrale, oltre che analitica, del danno risarcibile senza distinzioni all’interno di esso.

E’, pertanto, una conseguenza logica, che risponde anche a una ortodossa regola di ermeneutica, ritenere la unitarietà del concetto di danno nell’ambito della stessa norma, sia ai fini del n. 4 sia a quelli del n. 6 dell’articolo 62.

La circostanza attenuante in esame richiede la produzione del danno in capo alla persona offesa dal reato

In verità la giurisprudenza ha rilevato che, diversamente da quanto previsto dall’articolo 62 n. 6 c.p., l’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 c.p., richiede la produzione del danno in capo alla “persona offesa” dal reato, e ciò giustificherebbe nell’un caso il riferimento ad ogni nocumento patrimoniale derivante dal fatto lesivo, nell’altro caso alla diminuzione patrimoniale determinata dall’azione del colpevole nel momento della consumazione del reato (Cass. S.U. 6 dicembre 1991 – 1 febbraio 1992, n. 1048, Scala).

Senza entrare nella dibattuta questione dell’esatta individuazione del concetto di “persona offesa”, questione della quale queste Sezioni Unite non sono investite, si può rilevare che, mentre la circostanza attenuante del risarcimento del danno prima del giudizio (articolo 62 n. 6 c.p.) fa riferimento al danno patrimoniale che può derivare da qualsiasi reato, con riguardo alla circostanza in esame (e a quella di cui all’articolo 61 n. 7 c.p.), invece, il legislatore ha voluto delimitare l’ambito di applicazione, prendendo in considerazione, non soltanto i reati classificati dalla stessa legge come “contro il patrimonio” (Titolo XIII del codice penale), ma anche quelli c.d. ad offesa plurima, la cui categoria è stata elaborata dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Un. 9 luglio 1960, Esti, che si è pronunciata con specifico riferimento alle circostanze, attenuante e aggravante, in esame) e da larga parte della dottrina.

La circostanza attenuante è applicabile anche ai delitti che comunque offendono il patrimonio

Non è irrilevante che l’attenuante in questione sia applicabile non solo ai delitti contro il patrimonio ma anche a quelli che comunque offendono il patrimonio.

Con tale formula si fa riferimento all’incriminazione di fatti, in cui, pur essendo primaria e principale l’offesa ad interessi non patrimoniali, non manca, in via secondaria o accessoria, l’offesa al patrimonio.

Si aggiunga che gli articoli 61 n. 7 e 62 n. 4 c.p. prevedono l’applicabilità del danno grave – tenue anche nei confronti dei delitti, che, pur non essendo contro il patrimonio e pur non rientrando nella categoria dei delitti che comunque offendono il patrimonio, sono determinati da motivi di lucro.

Ciò significa che la circostanza deve essere applicata in ogni caso nel quale vi sia una persona offesa danneggiata dal reato, cioè il titolare di un interesse inerente alla tutela del bene leso o messo in pericolo dall’azione criminosa sul quale ricadono direttamente gli effetti economici dell’aggressione al bene tutelato.

Si può, pertanto, affermare che il riferimento al “danno” cagionato alla persona offesa, a prescindere dall’oggettività giuridica primaria del reato, rende evidente che il legislatore ha inteso riferirsi alla produzione di un danno risarcibile, con la limitazione del riferimento al danno “patrimoniale” che sia stato cagionato ad una “persona offesa” (a differenza dell’articolo 62 n. 6, che dà rilievo alla gravità del danno, senza alcuna specificazione, e dell’articolo 133 n. 2 c.p., che prende in considerazione la gravità del danno “cagionato alla persona offesa”, ma senza la specificazione della patrimonialità del danno e senza delimitazione di categorie di reati); ciò non significa, però, come si è detto, che il danno considerato sia soltanto quello costituente elemento della fattispecie criminosa, proprio perché non tutti i reati contro il patrimonio e, ancor meno, quelli che offendono il patrimonio o che sono determinati da motivi di lucro prevedono all’interno della fattispecie tipica la produzione di un danno, così che appare incongruo riferirsi al momento consumativo del reato per la determinazione del danno.

Anche sul punto può richiamarsi il disposto dell’articolo 431 del codice Zanardelli, il quale stabiliva che il “il valore della cosa” o il “pregiudizio recato” dovevano essere determinati “nel momento del delitto”: proprio la necessità di una disposizione espressa evidenziava che tale principio non si deduceva dal sistema, ma era una precisa scelta legislativa, che non è stata ribadita nel codice vigente.

Che si tratti, poi, di una circostanza del reato che opera oggettivamente, comporta che il giudice di merito dovrà in concreto accertare se il danno patrimoniale sia conseguenza diretta del fatto illecito e valutare la sua gravità in termini generali e globali, senza quelle specificazioni analitiche che sarebbero richieste per la pronuncia di statuizioni civilistiche. Inoltre, perché si possa invocare l’applicazione di una circostanza attenuante è necessario che sussista la prova certa del peculiare fatto che è invocato a fondamento della stessa. Lo stabilire se le risultanze processuali forniscano tale dimostrazione spetta al giudice di merito, il cui giudizio, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione.

Deve, pertanto, essere formulato il seguente principio di diritto: “La valutazione del danno patrimoniale cagionato alla persona offesa dal reato, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 c.p., nel caso di ricettazione non deve avere esclusivo riguardo al valore economico della cosa ricettata, ma deve fare riferimento a tutti i danni patrimoniali oggettivamente prodotti alla (o alle) persona(e) offesa(e) dal reato quale conseguenza diretta del fatto illecito e, perciò, ad esso riconducibili, la cui tenuità – gravità deve essere apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti. L’apprezzamento del giudice di merito, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione”.

Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. (Fattispecie relativa al tentativo di furto di monete custodite in apposito cassetto di un distributore automatico di bevande). (Cass. S.U. 28 marzo 2013, Zonni Sanfilippo) 

MOTIVAZIONE

  1. Orbene, riassunto come sopra lo sviluppo e le “linee di tendenza” della giurisprudenza di legittimità dall’entrata in vigore del codice Rocco ad oggi, si deve riconoscere che un’accorta riflessione sulla problematica che ha determinato l’assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite non può non prendere le mosse da considerazioni che, avendo riguardo alla struttura stessa del delitto tentato, approfondiscano, innanzitutto, il tema della ipotizzabilità di un delitto tentato circostanziato.

Ipotizzabilità di un delitto tentato circostanziato

  1. Sul punto, la dottrina non è unanime. 

7.1. Alcuni Autori, infatti, escludono in radice la compatibilità tra tentativo e circostanze. Si sostiene al proposito, da un lato, che l’art. 56 c.p., fa riferimento ai soli delitti, senza alcuna ulteriore specificazione, dall’altro, che le circostanze attengono al solo momento sanzionatorio, senza dar luogo a una autonoma fattispecie astratta.

Le circostanze “tentate”, si afferma, non esistono nel nostro sistema penale, atteso che l’art. 59 c.p., ha prefigurato un meccanismo di imputazione delle circostanze fondato sul presupposto dell’effettiva esistenza delle stesse.

7.2. Vi è anche chi esclude la configurabilità del delitto circostanziato tentato con riferimento alle sole circostanze attenuanti. A sostegno di tale conclusione si è fatto rilevare che la modifica (ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19), dell’art. 59 c.p. ha riguardato le sole circostanze aggravanti, rendendo così ammissibile il delitto circostanziato tentato, ma esclusivamente in relazione a esse, mentre per le attenuanti, sarebbe sempre valido il principio della operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente ipotizzate, atteso il testo vigente dell’art. 59 c.p..

7.3. Per quanto poi specificamente riguarda la compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato, vi è chi, pur non negando – in astratto e in generale – la possibilità di un delitto tentato cui ineriscano (possano inerire) alcune circostanze, sostiene che l’attenuante de qua dovrebbe comunque essere esclusa, in quanto il danno rilevante ai fini della sua integrazione, avuto riguardo alla lettera della disposizione, è solo quello effettivo (“avere cagionato (…) un danno patrimoniale di speciale tenuità”) e che la assenza del danno connota, appunto, il delitto tentato e costituisce la ratio della più blanda punizione rispetto al delitto consumato. L’assenza di danno (lieve, lievissimo, grave, gravissimo, che sia), dunque, in quanto già valutata – in linea generale – dal legislatore, da ragione del differente trattamento sanzionatorio, rispetto al delitto consumato.

7.4. Viene inoltre posto in campo anche un argomento testuale, comparando il testo dell’art. 62 c.p., n. 4, che fa riferimento al danno cagionato, con quello dell’art. 61 c.p., n. 8, che, viceversa, attribuisce espressamente rilievo alla condotta consistente, non solo nell'”aver aggravato”, ma anche nell’aver “tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso”. 

  1. Altri Autori sostengono, invece, la configurabilità del delitto circostanziato tentato e, nello specifico, la sua compatibilità con l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4.

Si assume al proposito, innanzitutto, che il delitto semplice e il delitto circostanziato costituiscono fattispecie incriminatici autonome, fattispecie che disegnano differenti titoli di reato. Non vi è ragione di non “ibridare” il disposto dell’art. 59 c.p., con la disciplina del tentativo (e ciò a maggior ragione dopo la riforma operata dalla L. n. 19 del 1990). Nel testo attualmente vigente, infatti, l’art. 59 si limita a escludere la rilevanza di circostanze meramente supposte.

Per altro, la compatibilità è stata anche ritenuta, da una parte della dottrina, sul presupposto che il divieto di configurabilità del delitto circostanziato tentato opererebbe solo con riferimento alle aggravanti e non anche alle attenuanti; ciò in coerenza con la funzione di garanzia che assume il principio di legalità-tipicità nel nostro ordinamento.

  1. In realtà, è indubbio che alcune circostanze siano oggettivamente incompatibili con il tentativo.

Certamente lo sono quelle relative a una attività che neanche parzialmente sia stata posta in essere.

Proprio in dottrina, d’altra parte, si è distinto il delitto circostanziato tentato (ovvero il tentativo di delitto circostanziato), dal delitto tentato circostanziato (ovvero il tentativo circostanziato di delitto).

Il primo (delitto circostanziato tentato) è il tentativo di un delitto che, se fosse giunto a consumazione, sarebbe apparso qualificato da una o più circostanze. Il secondo (delitto tentato circostanziato) si realizza quando, nella fase esecutiva del tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggravanti, anche se il delitto avuto di mira non giunge a consumazione.

Dunque: nel primo caso, la circostanza non si è, di fatto, è realizzata, ma, per così dire, è rimasta assorbita nel tentativo (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 7, e, appunto, art. 62 c.p., comma 1, n. 4, c.p.); nel secondo gli elementi costitutivi della circostanza si sono effettivamente realizzati (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 6, art. 62 c.p., comma 1, n. 2). 

9.1. Ebbene riesce difficile, per non dire impossibile, sostenere che, nella seconda ipotesi (delitto tentato circostanziato), la circostanza – aggravante o attenuante – non sia applicabile, dal momento che essa, indubitabilmente, sussiste in rerum natura.

9.2. Il problema, evidentemente, rimane, allora, circoscritto alla prima ipotesi: quella in cui la circostanza, pur inerente alla condotta dell’agente, non è stata posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza potesse essere realizzata.

Il che accade sempre quando “il venire al mondo” della circostanza coincide con la consumazione del delitto. Trattasi, ad evidenza, del caso in esame, in quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di speciale tenuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se la res non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale diretto. Il che però è insito nel concetto stesso di delitto tentato, in quanto reato senza evento (in senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque, il delitto tentato può essere assimilato – come pure è stato fatto – ai reati di pura condotta o anche a quelli a consumazione anticipata, reati per i quali, come è noto, il legislatore ha previsto la punibilità prima del (o a prescindere dal) verificarsi dell’evento.

Invero, sia nel delitto tentato che in quello a consumazione anticipata è richiesta tanto la idoneità dell’atto, quanto un principio di esecuzione, dal quale si possa desumere la unidirezionalità della condotta (…). D’altra parte, nei reati di pura condotta, come è noto, la consumazione coincide con il compimento di quell’azione (ovvero di quell’omissione) descritta nella norma incriminatrice.

9.3. Orbene, tali categorie di reati (di pura condotta e a consumazione anticipata) pacificamente ammettono la forma circostanziata, come può desumersi, tra le altre, dalla sentenza per ultima citata che, pur disconoscendo, nel caso specifico, la sussistenza della attenuante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 1, ciò fa per motivi attinenti alla fattispecie concreta e non per una ritenuta – astratta e generale – incompatibilità tra la predetta circostanza e i delitti di attentato. 

9.4. In realtà, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità dell’azione che si intende compiere.

Naturalmente è richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di semplice intendimento, ma si manifesti attraverso condotte significative, cui sia collegata una apprezzabile probabilità di “successo” (appunto: atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto). Anche le circostanze non realizzate dunque (è l’ipotesi del tentativo di delitto circostanziato, cioè del delitto circostanziato tentato), contribuiscono a integrare e a caratterizzare il proposito criminoso.

Per quel che si è detto prima, tuttavia, deve trattarsi di circostanze riconoscibili in base a quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere. E la riconoscibilità, va da sé, costituisce il riflesso nella mente dell’interprete della inequivocità dell’azione. Invero, da un punto di vista logico, il giudizio sulla inequivocità degli atti (e dunque sulla direzione dell’azione) sembra precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato sotto il profilo della sua (potenziale) efficacia. Vero è, tuttavia, che solo un atto (sia pure astrattamente) idoneo si presta a un giudizio di tipo teleologia), essendo la potenziale efficacia dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di talché idoneità e univocità si pongono come due connotazioni dell’agire volontario che, congiuntamente apprezzate, rendono – ad un tempo – riconoscibile (dai terzi) e raggiungibile (potenzialmente) lo scopo perseguito dall’agente. 

9.5. Ma l’azione diretta a uno scopo – questo è il punto – ben può inglobare quella che l’ordinamento considera una circostanza del reato, in quanto caratterizzante, come si è premesso, le modalità della condotta, ovvero in quanto inerente all’oggetto della attività criminosa.

Il problema, allora, si risolve, da un lato, nel vagliare la compatibilità logica e giuridica della circostanza (di quella circostanza) con il tentativo di delitto, dall’altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della compatibilità in concreto, cioè nel verificare la ravvisabilità, nell’ambito del singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze raccolte, della circostanza in questione. In tal senso, non a caso, si è espressa quella giurisprudenza che ha esaminato funditus il problema (…). 

9.6. La soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea meramente astratta e non può essere univoca; in realtà essa dipende, da un lato, dalla tipologia della particolare aggravante in questione, dall’altro, dallo sviluppo dell’azione posta In essere dall’agente. E invero, In determinati casi, è indubbiamente necessaria la realizzazione dell’evento che costituisce oggetto di quella determinata circostanza, ovvero occorre il perfezionamento dei relativi presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dal soggetto agente; in altri casi non è necessario che ciò si verifichi. 

9.7. E allora, anche con specifico riferimento alla problematica sottoposta alle Sezioni Unite, occorrerà procedere con la metodica sopra evidenziata, cui sembra esattamente conformarsi il dictum della già citata sentenza Sez. 2, n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, RV 245258, in base alla quale, ai fini dell’applicabilità della diminuente di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, il giudice deve avere riguardo alle concrete modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato, avrebbe cagionato, in modo diretto e immediato, un danno di speciale tenuità; deve cioè aversi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato, qualora fosse stato consumato.

Ciò, ovviamente, sul presupposto (già sopra evidenziato) in base al quale “la norma dell’art. 56 c.p., non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato, ma anche a quella del reato circostanziato, per cui l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che non tocca il principio di legalità. Infatti, al fini della configurazione del tentativo di delitto aggravato, oltre al criterio della idoneità e della univocità degli atti e dei mezzi che possono indicare un proposito criminoso riferibile a un delitto aggravato, acquistano rilevanza e sono compatibili – e, dunque, estensibili al tentativo – tutte le circostanze, aggravanti o attenuanti, che attengono ai fini dell’azione criminosa” (così testualmente la appena citata sentenza De Luca).

E su tale principio di carattere generale converge gran parte della giurisprudenza di legittimità, affermando con nettezza che l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato non contrasta con il principio di legalità (…). 

9.8. Invero, come ha osservato da Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, dep. 2007, Aquino, RV 235937, (in tema di stupefacenti e di applicabilità al tentativo di importazione della aggravante ex art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), “la disciplina del reato tentato si riferisce a tutti gli aspetti della tipicità, ivi compresi quelli inerenti alle circostanze. Dagli artt. 56 e 59 c.p. non si trae alcun argomento, diretto o indiretto, da cui possa inferirsi che la disciplina del tentativo sia inerente al solo reato base”.

A ben vedere, il tentativo stesso è configurabile, come è pacifico, in base alla “combinazione” di due norme: la norma incriminatrice speciale e la norma estensiva di cui all’art. 56 c.p.. Trattasi di una metodica tipica del codice penale e che si applica, ad esempio, in ipotesi di concorso di persone nel reato (norma incriminatrice speciale e norma estensiva dell’art. 110), nonché, ovviamente, in tema di reato caratterizzato da circostanze comuni (norma incriminatrice speciale, cui ineriscono le circostanze di cui agli artt. 61 e 62 c.p.). Non vi è dunque ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio “meccanismo combinatone)”, che veda agire sulla norma incriminatrice tanto l’art. 56, quanto gli artt. 61 e/o 62 c.p.). 

9.9. Né ha pregio l’obiezione – sopra anticipata – in base alla quale le circostanze hanno rilievo ed effetto solo in campo sanzionatorio. L’assunto, invero, prova troppo, in quanto anche le “semplici” norme incriminatrici hanno, ovviamente, rilievo sul versante sanzionatorio; non di meno, esse descrivono una condotta (e indicano la relativa connotazione psicologica), così come fanno le circostanze, tanto che talune condotte, a volte, sono considerate dal legislatore ipotesi autonome di reato, altre volte, elementi costitutivi di altri reati, o ancora – appunto – circostanze (es. la violenza sulle cose, cfr. artt. 635 e 392 c.p., art. 614 c.p., comma 4). 

la compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato

  1. Il ragionamento appena sviluppato non riceve smentita – in relazione al tema specifico oggetto della presente decisione – dall’assunto che caratterizza tutte le sentenze espressive dell’orientamento minoritario, vale a dire quello in base al quale, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, non potrebbe trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, ovviamente, il danno manca (…).

In merito è appena il caso di osservare che è del tutto ovvio che la circostanza sia attinente a un fatto che non integra alcun elemento costitutivo del reato, in quanto, se così non fosse, ovviamente, non di una circostanza si tratterebbe (cioè di un quid che eventualmente accede a un reato in sè perfetto), ma – appunto – di una componente del reato stesso. La circostanza, per sua stessa definizione, è un satellite del reato (circum stat) e, come la sua eventuale mancanza non incide sulla esistenza dello stesso, così la sua presenza non postula necessariamente (e sempre) che il reato sia stato consumato, ben potendo esso essersi arrestato allo stadio del tentativo.

10.1. Al proposito, non sembra pertinente l’osservazione circa la irrilevanza delle circostanze erroneamente ritenute sussistenti (art. 59, comma terzo, c.p.), perché, nel caso del tentativo di delitto circostanziato (delitto circostanziato tentato), la circostanza non è supposta, ma voluta e – per quel che si è detto – riconoscibile sulla base di quel frammento di condotta effettivamente posto in essere. L’agente, in altre parole, non è in errore circa la sussistenza di una circostanza, ma vuole agire realizzando (anche) una determinata circostanza.

10.2. Occorre dunque che l’Interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall’agente, allo scopo di desumere se, sulla base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circostanza sia riscontrabile.

Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma, non per questo, di una valutazione inibita al giudice, atteso che, ad esempio, del tutto ipotetico è il così detto giudizio controfattuale, cui lo stesso è chiamato in tema di reato omissivo (cfr.: Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv 222138) e ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema proprio di delitto tentato (o dei delitti a consumazione anticipata), posto che al giudicante è richiesto di valutare, non la condotta – in sè – tenuta dall’agente, ma tale condotta in relazione all’obiettivo che l’agente si proponeva di raggiungere, di valutare detta condotta, vale a dire, “come se” l’evento voluto si fosse, in realtà, realizzato.

Ed è proprio per tale ragione che la menzionata sentenza Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, rie. Aquino, RV 235937, ha ritenuto configurabile l’aggravante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, allorché vi sia la prova che, se l’operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato un quantitativo ingente di sostanza psicotropa.

10.3. Ebbene, oltre alle già ricordate considerazioni in ordine al principio di legalità, la sentenza in questione svolge anche considerazioni in ordine al principio costituzionale di eguaglianza, per quel che riguarda il riconoscimento di circostanze (attenuanti o aggravanti) in tema di tentativo; ciò fa prendendo come termine di riferimento proprio il tentativo di furto e sostenendo che “è razionale che la ponderazione della gravità dell’illecito sia rapportata anche alla configurazione che il fatto e l’offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto fosse stato portato a compimento. Una diversa soluzione porterebbe a risultati contrari al principio di uguaglianza, determinando l’irrogazione della medesima pena, sia nel caso in cui fosse tentato un furto semplice, sia in quello in cui la sottrazione riguardasse un bene di grande valore”.

10.4. D’altra parte, con riferimento alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, comma primo, n. 7, c.p., che ovviamente costituisce il “reciproco” della attenuante ex art. 62, comma primo, n. 4 stesso codice), la giurisprudenza – precedente e successiva alla ricordata sentenza Aquino e altri – non dubita della sua applicabilità al tentativo (…). 

  1. Le conclusioni sopra esposte ricevono conferma testuale, dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito e in quello sostanziale.

Invero, l’art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), come è noto, fa obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza di una serie di delitti non colposi – consumati o tentati – individuati in base alle pene edittali, ovvero specificamente elencati. Ebbene, detto articolo ha subito modifica, ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94, nel suo comma 2, che, attualmente, recita:

“anche fuori dei casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: (…) e) delitto di furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 4 della legge 8 agosto 1977, n. 533, o quella prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, prima ipotesi, salvo che, in quest’ultimo caso, ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4; e-bis) delitti di furto previsti dall’art. 624 bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4”.

Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi, si deduce necessariamente che le circostanze – aggravanti o attenuanti – debbano essere valutate (quantomeno ai fini dell’arresto in flagranza), sia con riferimento ai delitti consumati, sia ai delitti tentati. 

11.1. D’altra parte, la Corte costituzionale, più di un decennio prima, con la sentenza n. 54 del 1993, aveva avuto modo di occuparsi dell’arresto obbligatorio in flagranza, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 380 c.p.p. – nel testo, ovviamente, all’epoca vigente – nella parte in cui prevedeva l’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto, tanto consumato, quanto tentato, aggravato ai sensi dell’art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi (violenza sulle cose), proprio nel caso in cui ricorresse, insieme con l’aggravante di cui sopra, la circostanza attenuante prevista dall’art. 62, comma 1, n. 4, dello stesso codice.

Il Giudice delle leggi, a seguito di ricognizione del “diritto vivente”, rilevava allora che la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4, c.p. risultava applicabile anche al furto tentato; ciò anche in considerazione del fatto che “una più incisiva considerazione, in via generale, della speciale tenuità del danno emerge dall’ampliamento dell’originario art. 62, n. 4, effettuato con la L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2”.

E in effetti, con il predetto testo normativo, il legislatore ha notevolmente ampliato l’ambito di applicazione della circostanza attenuante della “speciale tenuità”, estendendola, dai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro. In tale ultimo caso, tuttavia, sembra avere esplicitamente previsto, accanto all’ipotesi in cui il lucro sia stato effettivamente conseguito, quella in cui esso sia solo sperato, ma non anche raggiunto (“(…) nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire, o l’avere comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”).

11.2. Tale essendo la lettera della legge dopo “l’innesto” operato dal legislatore del 1990, sembra inevitabile chiedersi se, per quel che riguarda l’attenuante in questione, il regime relativo ai delitti determinati da motivi di lucro si differenzi da quello relativo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, nel senso che, solo nel primo caso, e non anche nel secondo, la diminuente sarebbe applicabile anche al tentativo, secondo il criterio dell’ubi voluit dixit (“aver agito per conseguire, o avere comunque conseguito”); ovvero se si debba ritenere che il legislatore abbia semplicemente introdotto la nuova disposizione in un contesto nel quale la diminuente in questione doveva già ritenersi applicabile al tentativo, redigendo un testo più articolato, per la necessità di assicurare la tutela degli altri beni giuridici protetti dalle fattispecie qualificabili come “delitti determinati da motivi di lucro”. 

11.3. In questi termini si è espressa la già ricordata sentenza Sez. 2, De Luca, per la quale nessuna incidenza ostativa alla applicazione della attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n. 4al delitto tentato può derivare dalla riforma del 1990, atteso che “l’aggiunta apportata all’art. 62 c.p., n. 4, dalla L. n. 19 del 1990, (…) ha solo esteso l’ambito applicativo della suddetta norma anche ai delitti determinati da motivi di lucro”.

11.4. D’altronde, vi è più di una ragione per scartare la prima opzione interpretativa, atteso che, non solo i delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, in quanto manifestazione dell’istinto predatorio, sono ispirati, secondo l’id quod plerumque accidit, da motivi di lucro (di talchè essi si pongono, nei confronti di tali ultimi delitti in rapporto di specie a genere), ma anche perchè la pretesa differenziazione introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento.

Disparità di trattamento che, come messo in luce da attenta dottrina, determinerebbe conseguenze davvero paradossali, sia sul versante sostanziale, che su quello procedurale.

Invero, considerando inapplicabile al furto tentato l’attenuante in questione, ben potrebbe, in ipotesi, tale delitto esser punito più gravemente di un furto consumato, se, in tale secondo caso, l’attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n. 4, dovesse trovare ingresso (eventualmente insieme con altre attenuanti).

“Aberranti” poi sono state definite le conseguenze in tema di applicazione di specifiche discipline demenziali; in particolare è stato richiamato ciò che sarebbe potuto accadere in applicazione dell’amnistia prevista dal D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, art. 4, per la quale un furto (consumato) pluriaggravato, attenuato dalla circostanza del danno patrimoniale di speciale tenuità, sarebbe rientrato nell’amnistia, mentre da questa sarebbe stato escluso il tentativo di furto dello stesso oggetto, nel caso in cui si ritenesse l’attenuante inapplicabile al delitto tentato.

11.5. E, d’altra parte, ancora in tema di arresto obbligatorio in flagranza, se si ipotizzasse che il legislatore, nel modificare l’art. 380 c.p.p., comma 2, non avesse inteso riconoscere l’applicabilità della diminuente in esame al tentativo, si arriverebbe a un risultato ermeneutico altrettanto assurdo. Sarebbe infatti obbligatorio procedere “all’arresto nel caso di flagranza di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, di tentato furto in abitazione o di tentato furto con strappo, pur se il danno in concreto ipotizzabile fosse di speciale tenuità, mentre, se il danno effettivamente causato fosse, appunto, di speciale tenuità, tale dovere non sussisterebbe, in caso di furto consumato, aggravato dalla violenza sulle cose, di furto in abitazione o di furto con strappo.

  1. In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, deve affermarsi che “nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, di cui all’art. 62 c.p., n. 4, può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima”. 
  1. La sentenza impugnata che ha escluso in radice – ritenendola incompatibile con il tentativo di furto – l’applicabilità dell’attenuante in questione all’Imputato che aveva tentato di impadronirsi del denaro contenuto in un distributore automatico di bevande, deve dunque essere annullata sul punto, disponendosi rinvio per nuovo esame, in merito ad esso, ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

62 n. 6

Non è applicabile l’attenuante della riparazione del danno prevista dall’art. 62 n. 6 c.p. nel caso di risarcimento compiuto dall’ente assicuratore, anche se il contratto di assicurazione è stato stipulato dall’imputato per la propria responsabilità civile. Quella del risarcimento del danno è una circostanza essenzialmente soggettiva, un comportamento che si estrinseca nella volontà dell’imputato di riparare il danno prodotto con la sua condotta criminosa e quindi una tangibile manifestazione di ravvedimento: perciò il comportamento integrante l’ipotesi attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p. deve essere da lui posto in essere, deve seguire l’esaurimento del reato, non è surrogabile da terzi o da strumenti che della volontà suddetta non siano espressione efficace e significativa. A maggior ragione un discorso del genere vale nel caso di un’assicurazione obbligatoria come la R.C.A., in cui, ancora di più, viene a mancare una condotta spontanea positivamente apprezzabile che giustifichi l’attenuante. (Cass. S.U. 23 novembre 1988, Presicci)

L’attenuante del risarcimento del danno è applicabile al reato di concussione di cui all’art. 317 c.p., in quanto ciò che rileva ai fini dell’operatività di detta attenuante non è l’evento costitutivo del reato, consistente, nella specie, nella lesione o messa in pericolo di interessi primari che, non valutabili economicamente, indicano l’obiettività giuridica del reato, ma il danno, giuridicamente considerabile, di cui il reato stesso sia stato in concreto causa immediata e per il quale è data l’azione di risarcimento. (Cass. S.U. 6 dicembre 1991, Scala)

È manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62 n. 6 c.p., nella parte in cui, secondo il prevalente orientamento interpretativo della Corte di cassazione, esclude l’applicabilità dell’attenuante, allorché al risarcimento del danno cagionato alla persona offesa abbia provveduto, in forza di contratto di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi, la compagnia assicuratrice, mentre la stessa attenuante sarebbe, invece, applicabile al soggetto non assicurato che abbia quindi personalmente provveduto al risarcimento del danno. Ai fini dell’applicabilità dell’attenuante in esame è irrilevante l’elemento soggettivo del ravvedimento del reo, ma, al contrario, è determinante soltanto la circostanza oggettiva che il danno sia stato integralmente risarcito. Se si imponesse all’imputato, al fine di ottenere l’applicazione dell’attenuante de quo, di non avvalersi della assicurazione e di provvedere personalmente al ristoro dei danni, si finirebbe col negare l’essenziale funzione dell’assicurazione e, in particolare, dell’assicurazione obbligatoria (prevista in caso di danni alle persone e di obblighi risarcitori eccedenti le normali condizioni patrimoniali dei proprietari dei veicoli). In altre parole, il risarcimento del danno sarebbe ridotto a mera prestazione personale del danneggiante: da una parte, si ravviserebbe una disparità di trattamento fra chi, disponendo di risorse economiche, possa risarcire in modo integrale il danno personalmente e dimostrare così il proprio ravvedimento e chi, invece, non essendo in grado di erogare personalmente le somme necessarie al risarcimento, sia costretto a richiedere l’intervento dell’assicuratore; dall’altra parte, si configurerebbe un inammissibile restringimento del diritto al ravvedimento alle sole persone in grado di provvedere personalmente all’integrale risarcimento del danno. In conclusione, l’attenuante del risarcimento del danno opera anche quando l’intervento risarcitorio, comunque riferibile all’imputato, sia compiuto, prima del giudizio, dall’ente assicuratore. (C. cost. 23 aprile 1998, n. 138)

L’estensione dell’attenuante del risarcimento del danno al colpevole non può discendere dal semplice soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria ad opera del coobbligato solidale e dalle norme che presidiano l’estinzione delle obbligazioni da illecito, ciò in quanto nei reati dolosi si richiede «una concreta, tempestiva, volontà di riparazione del danno cagionato», in modo che, se uno dei correi ha già provveduto in via integrale, l’altro, per esempio, dovrà nei tempi utili rimborsare il complice più diligente o comunque dimostrare di aver avanzato una seria e concreta offerta di integrale risarcimento. (Cass. S.U. 22 gennaio 2009, Pagani)

MOTIVAZIONE

  1. A questo proposito la giurisprudenza, con indirizzo pressoché unanime, nega che il colpevole possa giovarsi del risarcimento effettuato da un terzo (…)e ciò basandosi sulla natura soggettiva dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, rientrante tra quelle concernenti i rapporti tra il colpevole e l’offeso ai sensi dell’art. 70 c.p., attenuante da intendersi (con varianti lessicali, ma non sostanziali) quale segno di diminuita capacità a delinquere (S.U. 29 ottobre 1983 n. 145, Del Fa, RV 162036) o di resipiscenza (S.U. 6 dicembre 1991 n. 1048, Scala e altri, RV 189183) o di ravvedimento attivo (S.U. 12 luglio 2007 n. 35535, Ruggiero, RV 236914).

Orientamento che testimonia la fedeltà all’intento del legislatore per come rispecchiato nella Relazione ministeriale di accompagnamento al Codice, in cui si legge che “la riparazione del danno come diminuente comune ad ogni reato era auspicata da una gran parte della dottrina.

Il Progetto limita tuttavia questa circostanza entro confini ragionevoli, considerandola, non tanto dal punto di vista pratico, come causa cioè che facilita il soddisfacimento degli interessi della persona offesa dal reato, quanto dal lato psicologico e volontaristico, ossia della condotta del colpevole dopo il reato, come sintomo della sua attenuata capacità a delinquere.

È, soprattutto, per questo motivo che la riparazione deve verificarsi prima del giudizio, e che non è stata accolta la proposta di estenderne l’efficacia a momenti successivi e, secondo alcuni, fino a che non fosse intervenuta sentenza irrevocabile …” (Relazione ministeriale di accompagnamento al Libro I del Progetto, Roma, 1929, 118).

Orientamento che peraltro è stato sottoposto a riserve e a critiche in sede dottrinale in cui alcune autorevoli voci hanno preferito accogliere la tesi del carattere oggettivo della circostanza, tesi cui ha poi aderito la sentenza n. 138 del 1998 della Corte Costituzionale per argomentare la riferibilità all’assicurato contro la responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione dei veicoli del risarcimento operato dall’ente assicuratore.

  1. Ma accantonando, per il momento, la discussione sulla natura dell’attenuante, bisogna subito osservare che il problema qui in esame può apparire ed è stato spesso ritenuto specifico, rispetto a quello generale della comunicabilità al colpevole del risarcimento operato dal terzo.

Ciò per il fatto che nel nostro caso il terzo autore del risarcimento è un concorrente nel reato, con la conseguenza che l’art. 118 c.p., diretto a regolare l’imputazione delle circostanze ai concorrenti, potrebbe essere individuato, e sovente lo è stato, come chiave risolutiva del quesito.

  1. In tale prospettiva, anteriormente alla riforma apportata a questa disposizione dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 3, l’affermata natura soggettiva dell’attenuante, ai sensi dell’art. 70 c.p., è valsa a fornire immediatamente la risposta, perché, dato il precedente tenore dell’articolo oggi modificato, si doveva necessariamente concludere per la non comunicabilità al concorrente del risarcimento del danno operato da altro concorrente.

[…]

Va da sé che accogliendo l’idea che la circostanza in esame abbia natura oggettiva il risultato doveva ribaltarsi, nel senso cioè che l’applicazione della norma dell’art. 118 c.p. avrebbe invece comportato l’estensione dell’attenuante a tutti i concorrenti.

  1. In ogni modo, restando sempre in questa prospettiva, una volta intervenuta nel 1990 la modifica all’art. 118 c.p., sarebbe stato inevitabile che la questione dovesse rimeditarsi.

La nuova formulazione della regola di imputazione delle circostanze, per la quale le aggravanti o le attenuanti concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti la persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono, avrebbe infatti impedito di mantenere ferma la spiegazione dell’inapplicabilità, attraverso unicamente il richiamo alla natura soggettiva dell’operato risarcimento.

Simile attenuante, pur essendo in tesi soggettiva, ma rientrando nella categorie di quelle riguardanti i rapporti tra colpevole e persona offesa e non figurando dunque tra le escluse dalla comunicabilità, sembrava adesso doversi riferire a ogni concorrente nel reato.

Talché, onde persistere nel negare un tale risultato, o si sarebbe dovuta abbandonare l’idea che la riparazione riguarda i rapporti tra il colpevole e l’offeso dal reato (per rientrare piuttosto in una delle categorie non estensibili), oppure si sarebbe dovuto affermare che l’art. 118 c.p., nella sua attuale formulazione, fornisce soltanto una regola di esclusione, ma non reca a contrario una regola di inclusione, ovvero, in altri termini, non comporta che le circostanze non menzionate debbano necessariamente applicarsi a tutti gli autori del reato, in quanto fa un implicito rinvio ad altri principi per l’imputazione o meno di esse ai concorrenti. Entrambe le strade si mostravano impervie.

In primo luogo si sarebbe dovuta misconoscere la riconduzione della circostanza in esame ai rapporti tra colpevole e offeso, per oltre settanta anni pacificamente accettata da quanti, in giurisprudenza e in dottrina, ne affermavano la natura soggettiva e ciò per suggerirne una collocazione ben più problematica (intensità del dolo ex post? inerenza alla persona del colpevole, oltre l’imputabilità e la recidiva?).

D’altro canto, non ammettendo il valore di regola positiva alla non menzione dell’art. 118 c.p., era ben difficile uscire dalla vaghezza e dal soggettivismo del giudice nella ricerca dei principi (unici o plurimi?) regolatori l’imputazione ai concorrenti, mentre, sotto un profilo dogmatico, si sarebbe dovuto negare che le circostanze, quali esse siano, in armonia con la struttura unitaria del reato concorsuale, si comunicano naturaliter a tutti i concorrenti, salvo le eccezioni espressamente poste dal legislatore e fermi i requisiti di attribuzione al soggetto di cui all’art. 59 c.p..

  1. Fatta questa premessa, bisogna però immediatamente dire che, ai fini della risoluzione del quesito, non è proficuo addentrarsi nella problematica appena indicata, in quanto, a monte, le Sezioni Unite ritengono che, ai fini della riferibilità al colpevole, non sussista uno speciale regime del risarcimento operato dal correo rispetto a quello eseguito da un qualsiasi terzo e cioè affermano che una corretta esegesi del dato normativo comporta l’inapplicabilità alla specie dell’art. 118 c.p..

È a tal fine opportuno ricordare che la circostanza del risarcimento del danno, in questo senso sola tra le attenuanti comuni, suppone necessariamente che il reato a cui si riferisce sia stato già consumato.

Cosa che si palesa con evidenza osservando la struttura dell’art. 62 c.p., n. 6, il quale, nel richiedere che sia stato riparato interamente il danno, esclude che un’azione riparatrice utile possa intervenire quando il reato non si sia ancora perfezionato e continui così a provocare danni materiali e morali.

L’attenuante, per esprimersi con S.U. 23 novembre 1988, n. 5909, Presicci, RV 181084: “contempla unicamente un comportamento…. successivo all’esaurimento del reato”, con il corollario che un tale comportamento, ove il reato sia stato commesso da una pluralità di soggetti, è fuori dal concorso di persone, dissoltosi con il perfezionamento della fattispecie criminosa.

Tanto in altre parole sta a significare che la condotta riparatrice non si fonde nella struttura unitaria del reato di cui all’art. 110 c.p. e che l’art. 118 c.p., diretto a dettare per i singoli compartecipi i criteri di imputazione delle conseguenze degli elementi accidentali dell’illecito concorsuale nella sua struttura monistica, non è perciò operativo.

  1. Sotto un profilo positivo l’applicabilità al soggetto dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, anche quando nel risarcimento sia intervenuto un terzo, sia pure questi un correo, discende allora soltanto dal disposto di questa norma e cioè dal senso che si intende attribuire all’espressione “l’avere… riparato interamente il danno mediante il risarcimento… e le restituzioni” ivi impiegata e dalla possibilità di ricondurre a simile formula lo specifico risarcimento o la specifica restituzione nella specie avvenuti.

Ora è canone interpretativo comune delle norme penali che le condotte in esse previste, salvo le eccezioni espressamente indicate, debbano essere connotate da volontarietà e che vada osservato e conservato nel concreto, nel suo profilo assiomatico, il valore della locuzione impiegata dal legislatore.

E quindi “l’aver riparato”, per integrarsi, non può consistere solo nella sussistenza dell’evento, ma deve comprendere una volontà di riparazione.

Tanto più che riparazione non è locuzione neutra, quale ad esempio estinzione del debito o soddisfacimento dello stesso, ma è voce di segno positivo in funzione del grado di disvalore di cui lo specifico reato costituisce espressione.

  1. A ben vedere queste affermazioni rendono piuttosto nominalistica e si può dire “di coda” la disputa sulla natura soggettiva o oggettiva dell’attenuante, in quanto basandosi soltanto sul dato letterale, prescindono da considerazioni circa la ridotta capacità a delinquere, il ravvedimento o la resipiscenza del colpevole.

E del resto la stessa Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 138 del 1998, fondandosi sull’evento richiesto e sull’interesse dell’offeso, ha preso una decisa posizione per la natura oggettiva della circostanza, precisa che è pur sempre necessario che l’intervento risarcitorio sia “comunque riferibile all’imputato”.

Riserva indotta dalla necessità di preservare la condotta volontaristica che la norma in esame indica nell'”aver riparato” e, con essa, il quid di merito della riparazione.

  1. Quid che, nei reati colposi, il criterio di ragionevolezza impone di rilevare, per una visione socialmente adeguata del fenomeno, anche nell’aver stipulato un’assicurazione o nell’aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall’attività pericolosa.

Ma che nei reati dolosi richiede invece “una concreta, tempestiva, volontà di riparazione del danno cagionato”, in modo che, se uno dei correi ha già provveduto in via integrale, l’altro, per esempio, dovrà nei tempi utili rimborsare il complice più diligente (…) o comunque dimostrare di aver avanzato una seria e concreta offerta di integrale risarcimento.

Ne deriva che in ogni caso l’estensione dell’attenuante al colpevole non può discendere dal semplice soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria ad opera del coobbligato solidale e dalle norme che presidiano l’estinzione delle obbligazioni da illecito, come invece vorrebbe il ricorrente Pagani, con riguardo a quanto è avvenuto nella specie.

Art. 62-bis

Circostanze attenuanti generiche

 

❶ Nel giudizio sulla concedibilità delle attenuanti generiche nel caso di reato continuato, il giudice ha il più ampio potere discrezionale, nell’esercizio del quale può prendere in considerazione le caratteristiche del singolo fatto-reato isolatamente considerato, se si tratti di circostanze riguardanti specificamente ed esclusivamente il singolo fatto; in caso contrario, ben può procedere a una valutazione globale del complesso dei fatti in continuazione, essendo anzi evidente che è tale valutazione globale a consentire di accertare aspetti fondamentali ai fini del menzionato giudizio, come la capacità a delinquere, l’intensità del dolo, la condotta del reo antecedente, contemporanea e susseguente al singolo fatto, e così via dicendo: elementi tutti rilevanti nell’individuazione della congrua pena per il “fatto più grave” ex art. 81, comma 2°, c.p. e per i fatti in continuazione. (Cass. S.U. 24 gennaio 1996, Panigoni)

❷ Ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta l’imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito. (Fattispecie nella quale il diniego delle predette circostanze attenuanti era stato motivato evidenziando il censurabile comportamento processuale dell’imputato, improntato a reticenza ed ambiguità). (Cass. S.U. 24 maggio 2012, P.G. e Biondi)

Art. 63

Applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena

 

❶ Ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare previsti dall’articolo 303 c.p.p., nel caso concorrano più circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o circostanze a effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell’art. 278 c.p.p. e dell’art. 63, comma quarto, c.p., della pena stabilita per la circostanza più grave aumentata di un terzo; tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi che mantengono la loro natura. (Cass. S.U. 8 aprile 1998, Vitrano)

❷ Per la determinazione della pena agli effetti dell’applicazione di una misura cautelare personale e, segnatamente, della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell’ulteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell’art. 63 comma quarto, c.p., per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi. (In motivazione la Suprema Corte ha precisato che il criterio di calcolo di cui all’art. 63, comma quarto, c.p. non opera nella diversa ipotesi di concorso di più aggravanti ad effetto speciale per le quali l’incremento sanzionatorio è autonomamente indicato “ex lege”, trovando in tal caso applicazione il criterio cumulativo di calcolo a fini cautelari, previsto dall’art. 278, comma primo, c.p.p.) (Cass. S.U. 27 novembre 2014, Ventrici)

❸ Ai fini della determinazione del tempo necessario per la prescrizione del reato, le circostanze c.d. indipendenti che comportano un aumento di pena non superiore ad un terzo non rientrano nella categoria delle circostanze ad effetto speciale. (Cass. S.U. 27 aprile 2017, Stella) 

NOTA del MASSIMARIO

Con la sentenza Sez. U, n. 28953 del 27/4/2017, Stella, RV 269784, le Sezioni Unite hanno fornito una indicazione definitiva sulla questione, mai sopita nella giurisprudenza di legittimità, relativa alla qualificazione in termini di circostanza ad effetto speciale delle aggravanti c.d. “indipendenti” che comportano un aumento di pena non superiore ad un terzo ed alla concreta incidenza dell’opzione affermativa sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere, atteso che per le circostanze ad effetto speciale il relativo calcolo si opera sulla pena edittale massima prevista per l’ipotesi aggravata.

Il quesito posto dal Collegio rimettente, con ordinanza, Sez. 3, n. 6875 del 14/02/2017, si articolava nei seguenti termini: «se ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, le circostanze c.d. indipendenti debbano essere considerate circostanze ad effetto speciale, ai sensi dell’art. 63, comma 3, c.p. anche in caso di aumento non superiore ad un terzo».

La questione riguarda l’ipotesi, che rappresenta un unicum nel panorama delle norme incriminatrici, della circostanza aggravante di cui all’art. 609-ter, comma 1, c.p. che, pur determinando la pena in maniera indipendente («da sei a dodici anni di reclusione») da quella prevista dalla ipotesi semplice («da cinque a dieci anni»), prevede un aumento non superiore ad un terzo, quindi al di sotto della soglia di rilevanza prevista dall’art. 63, comma 3, c.p. per le circostanze ad effetto speciale.

In via più generale, il quesito riguarda i rapporti tra le circostanze con determinazione della pena in misura indipendente (c.d. circostanze “indipendenti”), tra le quali deve certamente ricomprendersi l’aggravante di cui all’art. 609-ter c.p., e le “circostanze ad effetto speciale”, come definite dal rinnovato testo dell’art. 63, comma 3, c.p.

Lungi dal manifestarsi come questione di vuota qualificazione, la corretta individuazione della natura della circostanza aggravante in esame assume rilievo con riferimento al regime della prescrizione in concreto applicabile.

L’art. 157 c.p., infatti, pone un principio generale di irrilevanza, ai fini della prescrizione del reato, delle circostanze aggravanti ed attenuanti, facendo salve, in via derogatoria, solo «le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria» e «quelle ad effetto speciale». In tali casi «si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante».

Le Sezioni Unite, dopo aver esaminato le ragioni delle divergenti interpretazioni dell’art. 63, comma 3°, c.p. alla luce di una ricostruzione storico-filologica della disposizione, hanno fornito un riscontro negativo al quesito posto con l’ordinanza di rimessione sul contrasto giurisprudenziale rilevato, esprimendo piena condivisione della tesi interpretativa maggioritaria, ritenuta più coerente e rigorosa, che, alla luce del dato letterale dell’art. 63, comma 3°, individua le circostanze ad effetto speciale in ragione della sola variazione aritmetica significativa della pena. L’anzidetta disposizione fornisce, infatti, una precisa definizione delle circostanze ad effetto speciale, come «quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo».

Chiaro ed univoco appare alle Sezioni Unite il significato del combinato disposto dell’art. 157 e 63 c.p., tanto con riferimento alla individuazione delle circostanze rilevanti od irrilevanti ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, quanto per la limitata applicabilità della disciplina derogatoria alle sole circostanze aggravanti c.d. “autonome” ed a quelle ad effetto speciale che comportano un aumento di pena superiore ad un terzo.

Il principio di “neutralizzazione” degli effetti delle circostanze (attenuanti o aggravanti) ai fini del calcolo del tempo di prescrizione, come espresso dal testo novellato dell’art. 157 c.p., prevede una esplicita deroga per le sole aggravanti autonome e ad effetto speciale.

Il perimetro è individuato in via di eccezione alla regola generale per il calcolo del tempo di prescrizione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, tale da includere in ogni caso nella previsione in deroga le circostanze con determinazione della pena in maniera indipendente con una variazione aritmetica della pena inferiore ad un terzo.

Né tale effetto estensivo può essere fondato su una interpretazione teleologica dell’art. 63, comma 3°, c.p. che denuncia «l’inammissibile smembramento delle circostanze indipendenti in due categorie», a seconda della variazione quantitativa della pena, ritenendo privo di plausibile significato il «limitare le circostanze ad effetto speciale alle sole circostanze indipendenti che comportano una variazione frazionaria della pena superiore ad un terzo».

Una siffatta ricostruzione teleologica porta, anzi, l’interprete a «forzare la chiara e univoca lettera del dato normativo in una materia che è governata dal principio di legalità».

Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno risolto la questione loro sottoposta affermando il seguente principio di diritto: “Ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, le circostanze c.d. indipendenti che comportano un aumento di pena non superiore ad un terzo (nella specie quella di cui all’art. 609-ter, primo comma, c.p.) non rientrano nella categoria delle circostanze ad effetto speciale.”

  1. Circostanze “indipendenti” e circostanze “ad effetto speciale”.

Per una più agevole comprensione dei rapporti classificatori tra le c.d. circostanze “indipendenti” e quelle “ad effetto speciale” occorre premettere una breve analisi dell’evoluzione storica del dato normativo di riferimento.

L’art. 63, comma 3°, c.p., nel testo anteriore alla modifica disposta con l’art. 5 della l. 31 luglio 1984, n. 400. equiparava, ai fini della individuazione della pena sulla quale operare il calcolo per il concorso di altre circostanze, le circostanze “autonome”, per le quali «la legge stabilisce una pena di specie diversa» alle circostanze c.d. “indipendenti”, per le quali la legge «determina la misura in modo indipendente dalla pena ordinaria del reato».

Parallelamente, l’art. 69, comma 4°, c.p., nel testo previgente alla riforma del d.l. 11 aprile 1974 n. 99, conv. con modificazioni in l. 7 giugno 1974, n. 220, stabiliva che le disposizioni in tema di bilanciamento delle circostanze non si applicassero, tra le altre, alle suddette circostanze “autonome” e a quelle “indipendenti”.

Il dato normativo prevedeva, dunque, due distinte categorie di circostanze – “autonome” e “indipendenti” – in relazione alle modalità di determinazione in concreto della pena (art. 63 c.p.) e al giudizio di bilanciamento, dal quale erano escluse ai sensi dell’art. 69, comma 4°, c.p.

Per entrambe le ipotesi di reato così circostanziato, gli artt. 63, commi 3°, 4° e 5°, 66 e 67, ultimo comma, c.p. dettavano una disciplina differenziata, derogatoria al regime ordinario, che rendeva non neutralizzabile nel giudizio di comparazione la pena unitaria autonomamente determinata per il reato circostanziato, non solo per evidenti motivi di politica criminale, ma anche per ragioni connesse alla logica interna del sistema originario delle circostanze.

Le suddette circostanze costituivano due sotto-nozioni della categoria delle circostanze “ad efficacia speciale”, non definita normativamente, ma frutto di elaborazione dottrinale, per la particolare tecnica di previsione della pena edittale e per la peculiare “resistenza” dell’aumento della pena da esse previsto nel caso di concorso con altre circostanze.

L’intervento del legislatore del 1984, con la riformulazione del testo dell’art. 63, comma 3°, c.p., ha da un lato contemplato espressamente nella previsione normativa le circostanze ad effetto speciale che «importano un aumento e una diminuzione della pena superiore ad un terzo», dall’altro ha fatto sorgere una nuova questione interpretativa nel momento in cui ha omesso qualsivoglia riferimento alle circostanze indipendenti.

La lettura del nuovo testo della norma evidenzia, infatti, una polarizzazione della categoria delle circostanze “ad effetto speciale” verso il mero dato della quantificazione della variazione frazionata della pena, che pare prescindere dalle modalità di determinazione autonoma o indipendente della pena. La differenza tra circostanze ad effetto speciale e circostanze ad effetto comune viene, dunque, operata dal legislatore su un nuovo criterio aritmetico che ha riguardo alla entità della variazione della pena rispetto all’ipotesi di reato semplice.

L’art. 6 del d.l. 11 aprile del 1974, n. 99, conv. in l. 7 giugno 1974, n. 220, nel modificare l’art. 69 c.p., ha, inoltre, esteso alle circostanze indipendenti l’applicabilità del meccanismo di bilanciamento.

La modifica del dato normativo fa, dunque, sorgere la necessità di valutare se le circostanze indipendenti, tra le quali è compresa l’aggravante di cui all’art. 609-ter c.p., abbiano perso la propria autonomia e le peculiarità del regime giuridico corrispondente.

In particolare ci si è chiesto se il legislatore del 1984 abbia voluto attuare uno smembramento della categoria delle circostanze indipendenti sul piano della classificazione a seconda della incidenza della variazione di pena per esse prevista, ricomprendendo nell’ambito delle circostanze ad effetto speciale solo quelle la cui pena, determinata in modo indipendente, risponda ad un parametro quantitativo di variazione superiore ad un terzo rispetto alla pena ordinaria. 

  1. La proposta interpretazione storico-dogmatica dell’art. 63, comma 3°, c.p.

Il contrasto interpretativo si è riproposto di recente con riferimento all’ipotesi aggravata di cui all’art. 609-ter, comma 1°, c.p. che, pur stabilendo la pena in misura indipendente da quella ordinaria (art. 609-bis c.p.), non realizza una variazione frazionaria in aumento superiore ad un terzo.

Secondo un orientamento della Corte, rimasto per lunghi tratti latente, la circostanza di cui all’art. 609-ter, comma 1°, n. 1, c.p., stabilendo la pena in misura indipendente da quella ordinaria prevista dall’art. 609-bis c.p., ha natura di circostanza ad effetto speciale, con la conseguenza che di essa deve tenersi conto nel calcolo della prescrizione (Sez. 3, n. 31418 del 23/3/2016, T., RV 267467; Sez. 3, n. 05597 dell’8/7/2016, dep. 2017, R.H.).

La medesima classificazione viene proposta da Sez. 1, n. 4964 del 21/1/2010, Magnera e altri, ai fini della determinazione della competenza ex art. 4 c.p.p. e da Sez. 4, n. 15133 del 6/2/2003, Bellani, RV 224754, con riferimento alla incidenza delle circostanze ad effetto speciale sulla determinazione della pena, ai fini dell’individuazione dei termini di durata massima di fase della custodia cautelare, ai sensi degli artt. 278 e 303 c.p.p.

La tesi giurisprudenziale accredita, nella specie, una omogenea categoria di circostanze “ad effetto speciale”, comprensiva di tutte le circostanze operanti con un meccanismo di variazione della pena diverso da quello ordinario dell’aumento o della diminuzione fino a un terzo. In funzione di tale omogeneità viene prospettata una interpretazione dell’art 63, comma 3°, c.p. in chiave storico-dogmatica o teleologica che muove dalla analisi della situazione normativa precedente alla riforma del 1984 e colloca nella categoria ad “efficacia speciale” le circostanze indipendenti (o cd. «a variazione indipendente»), senza distinzione dell’entità della variazione della pena ordinaria del reato, perché significative di una sorta di “nuova valutazione” legislativa del disvalore dell’intero fatto in presenza dell’elemento circostanziale, quali elementi di determinazione legale della pena. In tal senso, al di là del dato normativo, deponeva l’indicazione proveniente dalla Relazione al Progetto definitivo del codice del 1930 (in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, 2, Roma, 1929, p. 121).

La ratio legis della riforma del 1984 è quella di dare soluzione al dibattito dottrinale sviluppatosi intorno alla possibilità di ricomprendere nell’ambito del genus delle circostanze ad effetto speciale che comprendeva ex lege le circostanze indipendenti, anche le circostanze frazionarie qualificate da una escursione della pena superiore ad un terzo rispetto a quella ordinaria.

La riforma, qualificando implicitamente le circostanze indipendenti come ad effetto speciale, ha dato soluzione al dibattito insorto. Viene riproposta una classificazione unitaria della categoria delle circostanze “ad effetto speciale”, di cui le circostanze indipendenti costituiscono una species, già espressa in passato, pur con riferimento a fattispecie circostanziate differenti da quella di cui all’art. 609-ter c.p. e a fini diversi da quello dell’incidenza sul termine di prescrizione. Si evidenzia che la polarizzazione della nuova definizione testuale delle “circostanze ad effetto speciale” verso la quantificazione dell’aumento o diminuzione della pena superiore ad un terzo produce un inammissibile smembramento delle circostanze indipendenti in due categorie a seconda della variazione della pene, valorizzando un parametro quantitativo che, per la ratio stessa che sorregge tali circostanze, non avrebbe significato plausibile.

La mancata previsione delle circostanze “indipendenti” nel nuovo testo normativo dell’art. 63, comma 3°, c.p. viene, dunque, interpretata come l’effetto di una “svista” del legislatore, che dava per scontata la permanente qualificazione delle circostanze indipendenti quali circostanze ad effetto speciale.

Come detto, l’orientamento giurisprudenziale è stata ribadito anche successivamente alla riforma della l. 28 luglio 1984, n. 398.

Il riferimento alle circostanze indipendenti è, del resto, presente nell’art. 69, comma 4°, c.p., in tema di giudizio di comparazione, anche dopo la novella della legge n. 251 del 2005.

L’art. 63, comma 3°, c.p., per evidenti ragioni di ordine applicativo, avrebbe dunque recepito le spinte della dottrina che, in via interpretativa, omologava le circostanze ad “effetto speciale” alle circostanze autonome o, in presenza di pene della stessa specie, a quelle “indipendenti”, riconosciute ope legis nella previgente versione.

Tutte le circostanze indipendenti, a prescindere dalla loro incidenza sul piano dell’escursione sanzionatoria, richiedono logicamente l’applicazione della regola prevista dall’art. 63 per l’ipotesi di concorso con circostanze comuni, onde evitare l’effetto di “neutralizzazione” della cornice edittale della pena determinata in modo indipendente.

Ancor più nel caso in cui la circostanza indipendente che comporta una variazione inferiore al terzo concorra con una circostanza ad effetto speciale, come nel caso della recidiva qualificata ex art. 99, comma 2°, c.p. non operando la previsione del comma 4° dell’art. 63.

L’indicata equiparazione consentirebbe, del resto, di superare le evidenziate criticità applicative nel caso di concorso tra circostanze indipendenti e tra queste e circostanze “ad effetto comune” ritenendo applicabile alle prime il criterio di calcolo previsto dall’art. 63, comma 4°, c.p., ovviando alla assurda conseguenza che in caso di concorso di queste ultime con circostanze ad effetto speciale o per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria, il trattamento sanzionatorio, non mitigato dal criterio moderatore di cui all’art. 63, comma 4°, c.p., sarebbe addirittura più grave di quello applicabile in caso di concorso di più circostanze ad effetto speciale (Sez. 3, n. 5597/2017, R.H., cit.; nello stesso senso, Sez. 3, n. 38614, dell’8/6/2017, Z. D., secondo cui la « circostanza aggravante di cui all’art. 609-ter c.p., comma 1°, n. 1, […] ha natura di circostanza ad effetto speciale, con la conseguenza che di essa deve tenersi conto nel calcolo della prescrizione»).

  1. La natura di circostanza ad effetto comune dell’art. 609-ter c.p.

Le Sezioni Unite hanno, di contro, condiviso l’orientamento giurisprudenziale consolidato (Sez. 3, n. 41487 del 25/09/2013, D. N., RV 257292; Sez. 3, n. 28638 del 9/06/2009, Crivellari, RV 244592; da ultimo, Sez. 3, n. 10487 del 10/12/2013, dep. 2014, A. G.), ritenuto più rigoroso ed aderente al dato normativo secondo il quale la fattispecie di cui all’art. 609-ter c.p. è una circostanza indipendente, ma, ai sensi dell’art. 63, comma 3°, c.p., ad effetto comune, in quanto l’aumento – sia pur determinato in maniera indipendente mediante la previsione di innalzamento di entrambi i margini edittali – non è superiore ad un terzo rispetto alla pena ordinaria, non assumendo rilevanza ai fini del tempo necessario a prescrivere ai sensi dell’art. 157, comma 2°, c.p.

Si ritiene fallace la proposta interpretazione teleologica dell’art. 63, comma 3°, c.p. sulla base del chiaro dato letterale della norma: le circostanze che, pur implicando l’applicazione di una nuova “cornice edittale”, non comportano, tuttavia, una variazione frazionaria, in aumento o diminuzione di pena superiore ad un terzo, sono da qualificarsi ad effetto comune; di contro, sono circostanze indipendenti ad effetto speciale tutte quelle che comportano un aumento o una diminuzione di pena superiore ad un terzo (quale, ad esempio, l’aggravante prevista dall’art. 625 c.p.).

La categoria delle circostanze “indipendenti” ricomprende, nella specie, «tutte quelle circostanze che implicano una nuova “cornice edittale”, a prescindere dal fatto che la stessa si ponga in rapporto aritmetico superiore ovvero inferiore ad “un terzo” rispetto alle pene previste per il reato-base». Le circostanze che incidono sulla pena del reato semplice in misura non superiore ad un terzo, già individuate dalla norma come “indipendenti”, devono, dunque, essere ritenute ad effetto comune e assoggettate alla relativa disciplina, ivi compresa la determinazione del tempo necessario a prescrivere per il rinvio all’art. 63, comma 3°, disposto dall’art. 157, comma 2° (nel senso della esclusione della configurabilità di circostanze “indipendenti” come ad effetto speciale, Sez. 6, n. 41233 del 24/10/2007, Attardo).

Tale opzione interpretativa si ispira alle posizioni largamente prevalenti nel dibattito della dottrina che esaltano il dato letterale del nuovo testo dell’art. 63, comma 3°, c.p., univocamente espressivo della volontà del legislatore di prevedere una nuova distinzione tra circostanze “ad effetto speciale” e circostanze ad effetto comune, spostando l’elemento differenziale dalla tecnica normativa (previsione di una pena “autonoma”, di specie diversa, ovvero determinata in maniera “indipendente”) verso un criterio puramente aritmetico del superamento della soglia frazionaria di un terzo.

Né a tale rinnovata classificazione ostano pretese ragioni di carattere teorico-dogmatico che ricondurrebbero il meccanismo di computo per le circostanze ad effetto comune previsto dall’art. 63, comma 1°, c.p. al piano teorico della commisurazione giudiziale della pena in contrapposizione al criterio di determinazione legale della pena propria delle circostanze ad effetto speciale.

Tale contrapposizione tra circostanze autonome e indipendenti e circostanze frazionarie non ha più ragion d’essere anche perché l’art. 69, comma 4°, c.p. opera un esplicito riferimento alla categoria delle circostanze che determinano la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato.

Il criterio aritmetico introdotto dal nuovo testo è oggettivo e consente sempre una verifica, sia pure ex post, della corretta qualificazione di una circostanza indipendente come “ad effetto speciale”, superando i dubbi sulla pretesa eterogeneità delle due tipologie di classificazione.

Appare, del resto, ininfluente da punto di vista matematico l’ordine con cui si applicano determinati aumenti o diminuenti frazionari nel concorso di circostanze, con elisione del paventato rischio di “neutralizzazione” dell’effetto retributivo delle circostanze indipendenti. Eventuali inconvenienti applicativi del citato criterio aritmetico possono essere facilmente superati attraverso una operazione di tramutamento della circostanza indipendente nella circostanza frazionaria che prevede un aumento fisso (nel caso dell’art. 609-ter c.p., ad esempio, di un quinto), con la possibilità di applicare le concorrenti circostanze senza un predeterminato ordine.

Anche qualora concorra una sola circostanza con effetti modificativi indipendenti, in alternativa al meccanismo di conversione in chiave frazionaria dei termini di variazione desumibili dalla cornice edittale dell’ipotesi circostanziata rispetto a quella semplice, il calcolo per gli aumenti o le diminuzioni della pena per il concorso delle altre circostanze omogenee può essere effettuato direttamente sulla cornice edittale determinata in modo indipendente.

La riformulazione dell’art. 63, comma 3°, cit., deve, dunque, essere interpretato secondo un puro criterio letterale, rigoroso ed aderente al principio di legalità che sovrintende alla tematica delle circostanze e della determinazione del tempo necessario a prescrivere che individua nella variazione matematica l’unico criterio valido per la classificazione delle circostanze ad effetto speciale.

La soluzione si mostra, del resto, coerente con il principio in precedenza espresso dalle medesime Sezioni Unite (Sez. U, n. 20798 del 24/2/2011, Indelicato, RV 249664) con riferimento alla qualificazione in termini di circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva, quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo, che pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell’applicazione della pena prevista per la circostanza più grave.

In senso conforme, Sez. 5, n. 34137 dell’11/5/2017, Brji, RV 270678, ha affermato la rilevanza della circostanza della recidiva implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato.

  1. Principio di legalità e termini di prescrizione.

Le circostanze indipendenti che prima della riforma rientravano nell’ambito applicativo dell’art. 63, comma 3°, c.p., devono essere riclassificate secondo il nuovo criterio “aritmetico”, distinguendosi in circostanze indipendenti “ad effetto comune” e “ad effetto speciale” a seconda se la nuova cornice edittale sia in rapporto inferiore/pari o superiore ad un terzo della pena prevista per il reato base all’esito dell’operazione aritmetica di ragguaglio.

La definizione normativa di circostanza “ad effetto speciale”, cui sono assimilabili, tra le circostanze indipendenti, solo quelle che comportano una variazione della pena superiore ad un terzo, opera, dunque, su di un piano diverso rispetto alla tradizionale classificazione delle circostanze “indipendenti”, in cui rientrano tutte le ipotesi in cui sia disegnata una nuova cornice edittale rispetto al reato base, prescindendo dalla misura dell’escursione sanzionatoria.

Una diversa soluzione, che privilegi una interpretazione in chiave teleologica il testo normativo del combinato disposto degli artt. 157 e 63, comma 3°, c.p., vìola il principio di legalità.

Chiaro ed univoco è il richiamo delle Sezioni Unite al principio di legalità che governa la materia: la proposta estensione del genus delle circostanze ad effetto speciale alle circostanze indipendenti si presenterebbe praeter legem, se non contra legem, anche ove si consideri che la riforma dell’art. 63, comma 3°, è intervenuta successivamente alla novella dell’art. 69 c.p., effettuata nel 1974.

Tale principio impone, infatti, di individuare un separato regime per le c.d. circostanze “indipendenti” che comportano una variazione rilevante della cornice di pena prevista per il reato-base.

L’art. 63, comma 3°, nell’introdurre il solo criterio della variazione frazionaria rilevante, sembra prescindere dalla eventuale modalità di determinazione della pena in maniera indipendente, facendo riferimento generico al termine “circostanze” e alla loro incidenza rispetto alla pena base.

L’attuale disciplina della prescrizione del reato ricollega la durata massima dei termini alla misura della pena massima prevista per il reato.

L’art. 157, comma 2°, c.p., facendo esclusivo riferimento alle aggravanti «per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale», opera un esplicito rinvio alla definizione posta dal citato art. 63, comma 3°, c.p., con la conseguenza che restano escluse dall’eccezione di incidenza della fattispecie circostanziale tutte quelle circostanze “indipendenti” che non comportano un aumento di pena superiore ad un terzo.

Per la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione, il regime derogatorio ed eccezionale previsto per le circostanze ad effetto speciale non consente di far ricorso al criterio della estensione in via analogica, che, per le aggravanti opererebbe in malam partem per l’effetto pregiudizievole per l’imputato che deriverebbe dall’incremento del termine di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno riconosciuto la coerenza sistemica di una siffatta delimitazione normativa del perimetro di incidenza sulla prescrizione, riservata alle sole circostanze ad effetto speciale che prevedono una variazione aggravante in termini frazionari rilevanti della pena, siano essi realizzati nell’ambito di una cornice edittale indipendente o meno.

Il regime derogatorio per la prescrizione in tali casi trova fondamento nel maggior disvalore delle condotte aggravate, che risponde ad un oggettivo criterio di ordine matematico, dettato dall’art. 63, comma 3°, c.p. che richiede il superamento “del terzo” della pena edittale per il reato base.

Solo in questi termini la scelta legislativa in deroga al regime ordinario di operatività della prescrizione appare rispondente ai criteri di ragionevolezza che giustificano la differente più rigorosa disciplina per le circostanze aggravanti ad effetto speciale. 

  1. Le ricadute sulla giurisprudenza della Corte.

Immediate sono state le ricadute della pronuncia Sez. U, n. 28953 del 27/4/2017, Stella, RV 269784, sulla giurisprudenza della Corte, che si è uniformata al principio di diritto espresso a composizione dell’esaminato contrasto interpretativo.

In particolare, si segnalano le sentenze Sez. 3, n. 38959 del 7/07/2017, R.D. e Sez. 3, n. 39463 del 7/07/2017, F.A.

Le citate pronunce richiamano il principio espresso dalle Sezioni Unite a soluzione del contrasto, secondo cui le circostanze c.d. indipendenti, che comportano un aumento di pena non superiore a un terzo, non rientrano, ai fini del calcolo della prescrizione, nella categoria delle circostanze ad effetto speciale.

Nella specie, in applicazione del suddetto principio, la Terza Sezione ha ritenuto assorbente l’eccezione di prescrizione del reato formulata nell’interesse dell’imputato, con riferimento alla fattispecie di reato aggravata di cui agli artt. 609-bis e 609-ter c.p., n. 1, disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Nelle pronunce si evidenzia, in particolare, che la diposizione di cui all’art. 609-ter c.p. non prevede una ipotesi di circostanza aggravante a effetto speciale, «posto che la stessa comporta, a fronte della pena ricompresa tra i cinque e i dieci anni di reclusione di cui all’art. 609-bis c.p., una pena da sei a dodici anni di reclusione, in tal modo non opera l’aumento superiore ad un terzo richiesto dall’art. 63, comma 3°, c.p. e che, appartenendo la stessa al novero delle c.d. circostanze indipendenti, non deve essere calcolata per determinare il tempo a prescrivere».

 

 

Art. 69

Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti

❶ In tema di cognizione del giudice di appello, l’art. 597, comma 5, c.p.p., nello stabilire, tra l’altro, che “può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione tra circostanze”, a norma dell’art. 69 c.p., ha attribuito al giudice d’appello non un ulteriore potere d’ufficio, ma solo il compito, conseguenziale all’applicazione di nuove attenuanti, di fare, nuovamente o per la prima volta (se in precedenza erano state applicate solo circostanze aggravanti), il giudizio di comparazione, come si evince appunto dall’uso dell’inciso “quando occorre”. Ne deriva che il potere di effettuare il giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69 c.p. è subordinato all’applicazione d’ufficio da parte del giudice d’appello di circostanze attenuanti. (Cass. S.U. 16 marzo 1994, Magotti)

❷ Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo. 69, quarto comma, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Cost., nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, prevista dall’articolo 99, quarto comma, c.p. Le censure formulate trovano la loro comune premessa sull’assunto che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto. Questa non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo, potendo dalle nuove previsioni desumersi che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale. Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte – l’inammissibilità delle questioni sollevate. (C. cost. 14 giugno 2007, n. 129)

❸ L’attenuante ad effetto speciale della cosiddetta “dissociazione attuosa”, prevista dall’art. 8, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 (NDR: ora art. 416-bis.1, terzo comma, c.p.), non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze. Qualora sia riconosciuta la circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta “dissociazione attuosa”, prevista dall’art. 8, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 e ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, soggette al giudizio di comparazione, va dapprima determinata la pena effettuando tale giudizio e successivamente, sul risultato che ne consegue, va applicata l’attenuante ad effetto speciale. Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Cass. S.U. 25 febbraio 2010, Contaldo)

❹ La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, ma che incide sul trattamento sanzionatorio, comporta una rideterminazione della pena in sede di esecuzione, vincendo la preclusione del giudicato; nella specie la questione riguardava gli effetti della sentenza n. 251 del 2012 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 69, comma quarto, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, c.p. e la Corte ha precisato che il giudice della esecuzione, ferme le vincolanti valutazioni di merito espresse dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, ove ritenga prevalente sulla recidiva la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini della rideterminazione della pena dovrà tenere conto del testo di tale disposizione come ripristinato a seguito della sentenza Corte cost. n. 32 del 2014, senza tenere conto di successive modifiche legislative. (Cass. S.U. 29 maggio 2014, Gatto)