A cura di Antonio Vincenzo Castorina
Sommario: 1. Dall’immunità alla responsabilità della pubblica amministrazione; .2 Il consolidamento del principio di responsabilità della p.a. per lesioni di diritti soggettivi; 3 L’art. 28 della Costituzione e il carattere diretto della responsabilità amministrativa; 4 L’ingresso degli interessi legittimi nel sistema della responsabilità
- Dall’immunità alla responsabilità della pubblica amministrazione
Il principio secondo cui chiunque agisce liberamente – compreso lo Stato – deve rispondere delle proprie azioni rappresenta un’acquisizione dovuta al passaggio, avvenuto alla fine del 1700, dallo Stato assoluto allo Stato moderno o di diritto.
L’introduzione del concetto di amministrazione responsabile trova la propria genesi nella spinta rivoluzionaria che ha condotto al riconoscimento e alla consolidazione dei principi[1] fondanti le costituzioni moderne, sicché è da tale periodo storico che occorre muovere i primi passi.
Occorre premettere che il tema della responsabilità amministrativa è, oggi, fortemente caratterizzato dall’impostazione aquiliana fornita dalla giurisprudenza della Cassazione del 1999 con la nota sentenza n. 500; più nello specifico a partire da tale data, l’amministrazione viene tradizionalmente ritenuta responsabile proprio in virtù della capacità da parte dei soggetti lesi di ottenere il risarcimento del danno derivante da illegittima compressione della loro situazione giuridica soggettiva.
Prima di procedere all’approfondimento della dicotomia responsabilità-risarcimento occorre, tuttavia, chiarire cosa si intende per responsabilità e se la sua connessione con il risarcimento sia o meno automatica.
A ben vedere l’analisi della responsabilità della pubblica amministrazione non può essere ridotta solamente al risarcimento degli interessi legittimi, rappresentando quest’ultimo un punto di partenza del dibattito moderno e non di arrivo.
Il concetto di responsabilità e, più nel dettaglio, di amministrazione responsabile rappresenta un tema sia antico che attuale; nonostante la genesi dell’istituto sia risalente, ancora oggi, anche grazie alla limitazione di sovranità del diritto interno nei confronti del diritto europeo (art. 11 Cost.) ed il conseguente obbligo conformativo, il tema necessita di momenti di ulteriore riflessione.
Ricondurre la tematica della responsabilità al solo risarcimento significherebbe, quindi, tralasciare le ragioni e l’evoluzione che hanno condotto a tale risultato. Benché la risarcibilità sia un aspetto che trova pacificamente collocazione nella più ampia tematica della responsabilità, è stata la conseguenza del modello di Stato che si è delineato nel nostro ordinamento.
Storicamente la nozione di responsabilità ha assunto vari significati, strettamente connessi al contesto storico di riferimento; la responsabilità è stata, infatti, intesa: come concetto incompatibile con la sovranità, come sindacabilità da parte della sola amministrazione, sindacabilità per la sola lesione di lesione di diritti soggettivi, controllo di legittimità-legalità, controllo di merito, strumento di tutela dei cittadini e, solo dopo il 1999, risarcibilità.
La risarcibilità degli interessi rappresenta, perciò, l’anello di congiunzione tra il dibattito tradizionale e quello moderno, ma non l’origine dell’indagine sulla responsabilità.
Conseguentemente, prima di poter associare i concetti di responsabilità e risarcibilità, occorre approfondire il percorso che ha condotto a tale binomio, considerato oggi automatico.
In altri termini è opportuno comprendere i principi che si pongono a fondamento del riconoscimento di una amministrazione responsabile ed il ruolo che la responsabilità, nelle varie fasi storiche, ha ricoperto, al cui termine si colloca anche lo specifico aspetto della risarcibilità.
Ovviamente non si intende svolgere una trattazione separata di due argomenti strettamente connessi; tuttavia, muovere le prime osservazioni dall’origine della responsabilità consentirà di comprendere meglio la bontà degli approdi più recenti, tra cui il modello risarcitorio bastato sull’illecito aquiliano.
L’esigenza di ripercorre in chiave storica la nozione di responsabilità si mostra, perciò, necessaria al fine di analizzare l’evoluzione del dibattito sul ruolo della responsabilità e ridurre i naturali condizionamenti che la storica pronuncia sulla risarcibilità degli interessi legittimi produce nell’indagine del rapporto tra responsabilità ed amministrazione.
Il tema della responsabilità muove i suoi primi passi nello Stato assoluto, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di centri di governo con al vertice il monarca, quale fonte di ogni potere politico. I sudditi sono esclusi dalla partecipazione all’amministrazione dello Stato e il monarca è l’unico deputato a tutelare gli interessi della società.
L’amministrazione rappresenta la struttura del potere esecutivo, sicché, in questo tipo di Stato, la popolazione non ha strumenti di tutela se non rivolgersi agli stessi uffici dell’amministrazione o direttamente al monarca, il quale decide in forma di placet.
Lo Stato di diritto segna il definitivo tramonto della figura del Sovrano legibus solutus, in quanto i pubblici poteri sono assoggettati a norme giuridiche, tant’è che solo in seguito alla rivoluzione francese si inizia a comporre un sistema di tutela anche contro gli atti della pubblica amministrazione[2]. I principi fondati tale modello di Stato sono perciò: l’uguaglianza, la tutela dei diritti fondamentali e la legittimazione dei governanti all’autorità[3].
Per tutto il periodo antecedente all’evoluzione della forma di Stato di diritto, tanto nei paesi di civil law che in quelli di common law, l’irresponsabilità degli organi governanti si è, quindi, basata sul principio di immunità, retto da due elementi: la natura speciale del diritto amministrativo e la pubblicità dell’interesse perseguito dalle norme governative, considerati incompatibili con ogni forma di responsabilità.
Fin dal passato, il concetto di responsabilità, civile, penale o amministrativa, ha avuto come requisito la necessaria presenza di un danno o l’esercizio di un potere o un’attività con finalità o modalità differenti da quelle prestabilite, ossia un illecito.
Gli elementi appena richiamati, ovvero i presupposti affinché si possa parlare di responsabilità, non potevano, tuttavia, rinvenirsi nello Stato assoluto, poiché il potere del monarca era ritenuto, per ciò solo, infallibile[4]; l’azione pubblica non poteva provocare il danno: “the King can do no wrong”[5].
La prima forma di pubblica amministrazione era, perciò, strumentale all’esercizio del potere del Re; di conseguenza tutte le prerogative riconosciute a quest’ultimo si estendevano anche agli atti di diretta espressione del suo potere.
Nonostante l’abbandono dei sistemi marcatamente autoritari, dovuto alle spinte liberiste di fine settecento, il principio di responsabilità dello Stato non trovò immediatamente diffusione.
La dottrina motivava tale impostazione con il carattere etico-giuridico dello Stato[6] nonché con la necessità di distaccarsi dai principi civilistici, inclusa la responsabilità, dato il differente modello che il regime pubblicistico dello Stato necessariamente implicava[7].
Si rifiutava una distinzione riguardo la natura delle varie tipologie di atti adottati dall’organo governante, poiché tutti indistintamente espressione della sovranità.
La natura pubblicistica degli atti provenienti dagli organi di governo veniva, invece, nettamente contrapposta a quella dei rapporti tra privati, tanto da riconoscere per la prima tipologia di atti regole peculiari e non mutuabili dal diritto civile.
Negli anni antecedenti all’Unità d’Italia l’esercizio del potere discrezionale e unilaterale della pubblica amministrazione era, di fatto, percepito ed equiparato ad un atto di normazione.
Al diritto amministrativo veniva riconosciuta una funzione di regolazione e disciplina dell’ordinamento, tipica dell’atto legislativo emanato dal potere sovrano, che impediva qualsiasi tipo di sindacato.
All’indomani del periodo rivoluzionario, la percezione del ruolo del diritto amministrativo rimaneva perciò in parte ancorata all’insieme delle attività “sovrane” dello Stato[8].
In tal senso sono emblematiche le parole di Giovanni Manna, giurista e politico[9] dell’Italia pre unitaria, il quale nell’interrogarsi sulla nozione di attività amministrativa la definiva come “una serie di interpretazioni che conducono mano a mano la generalità delle massime legislative nel mezzo della specialità ed individualità della vita civile…”. Da tale definizione ne derivava che l’amministrazione, intesa come l’esecutore delle leggi, nella sua attività di interpretazione del testo legislativo assumeva parte delle caratteristiche del legislatore, condividendone, perciò, i privilegi e l’inviolabilità.
Allo stesso modo, sul versante della responsabilità, né il legislatore né i delegati del potere, ossia la pubblica amministrazione, potevano essere chiamati in giudizio tutte le volte in cui l’esercizio del potere avesse riguardato un “campo così vasto da potersi paragonare ad un esercizio di bassa legislatura”[10].
L’assetto appena descritto non fu soggetto a ripensamenti o a sforzi di analisi da parte dei giuristi del periodo fino alla metà dell’Ottocento, in quanto, come anticipato, nella percezione dell’epoca era ferma e consolidata l’idea di una corrispondenza tra attività amministrativa e attività legislativa, quest’ultima caratterizzata dall’insindacabilità e irresponsabilità.
La stabilizzazione dei valori fondanti il periodo rivoluzionario ha permesso il graduale cambiamento del diritto amministrativo, nato con connotazione autoritaria e consolidatosi come privilegio e affermazione del potere esecutivo.
La diretta conseguenza del periodo di adattamento dei nuovi valori fondanti lo Stato moderno ha permesso di abbattere il dogma dell’immunità statale.
L’evoluzione della tematica in esame registra, perciò, un’iniziale chiusura, tanto da considerare la responsabilità della pubblica amministrazione come un concetto inaccettabile, seguita da un atteggiamento di diffidenza, superato dalla condivisione della possibilità di estendere le norme civilistiche sulla responsabilità anche alla p.a.
Nonostante l’iniziale atteggiamento di ritrosia verso il riconoscimento della responsabilità della pubblica amministrazione, occorre precisare che, con particolare riferimento al Regno d’Italia, forme rudimentali di giustizia amministrativa e perciò di responsabilità dell’amministrazione nell’emanazione dei propri atti iniziavano a formarsi negli Stati pre unitari[11].
Prima del 1865, ossia prima dell’emanazione della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, i cittadini trovavano tutela avverso determinati atti della pubblica amministrazione grazie ai Tribunali del contenzioso amministrativo[12], che erano, di fatto, organi interni alla stessa Pubblica Amministrazione[13].
Non si ammetteva, infatti, per via di una rigida interpretazione del principio della separazione dei poteri che l’amministrazione potesse essere parte in un processo; tuttavia, la presunzione di legittimità degli atti amministrativi, e perciò l’irresponsabilità della p.a., iniziava ad essere un concetto superato, benché l’organo chiamato a giudicare la controversia fosse la stessa amministrazione.
I cittadini potevano, quindi, tutelare la compressione della loro sfera giuridica grazie all’istituzione di tali organi, similmente al modello francese[14].
Più nel dettaglio è possibile fare riferimento al Regno di Sardegna nel periodo immediatamente precedente all’unificazione del Regno d’Italia, in quanto ha maggiormente influito sul consolidamento del sistema di giustizia pre unitario[15].
Secondo la legge sarda del 30 ottobre 1859 n. 3708 le controversie tra amministrazione e cittadini venivano ripartite attribuendo i diritti soggettivi privati o equiparati al giudice ordinario e i diritti soggettivi pubblici e semplici interessi individuali al tribunale del contenzioso amministrativo. Nella prima categoria rientravano le controversie relative ai rapporti di diritto privato o soggetti al diritto pubblico, ma espressamente attribuiti alla cognizione del giudice ordinario.
Al tribunale del contenzioso amministrativo erano devolute le controversie tra privati per danni derivanti dall’esercizio di concessioni amministrative e quelle tra cittadini e amministrazione in materia di appalti, imposte o prestazioni personali con i cittadini. Infine, allo stesso erano attribuiti anche gli interessi di fatto, la cui tutela era possibile in quanto compatibile con l’interesse pubblico.
Con riferimento alle controversie non rientranti nelle categorie indicate, restava ferma la possibilità di adire l’organo amministrativo competente, il quale componeva gli eventuali conflitti in via amministrativa[16].
Tale modello normativo comportava dei vuoti di tutela giurisdizionale, che si traducevano in ambiti di irresponsabilità per la p.a.
Il criterio per comprendere a quale soggetto rivolgersi in caso di compressione della sfera giuridica soggettiva era, quindi, basato sia sulla enumerazione di materie operate dalla legge sia sul tipo di rapporto oggetto di controversia.
Si comprende, quindi, come iniziava, già dall’epoca pre unitaria, ad avanzare l’idea che la lesione di determinate situazione giuridiche soggettive da parte dell’amministrazione comportasse l’obbligo di risponderne innanzi ad un tribunale.
Nonostante la portata innovativa rispetto alla legislazione precedente, la legge del 1859 presentava non pochi inconvenienti. L’enumerazione delle ipotesi precedentemente descritte non era idonea ad esaurire tutte le possibili controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. Mancava, inoltre, un contenzioso capace di annullare l’atto amministrativo[17].
Ciò spiega perché all’indomani della formazione del Regno d’Italia fosse già acceso il dibattito circa una riforma del contenzioso amministrativo.
Con l’unificazione nazionale proclamata il 17 marzo 1861, si pose subito il problema di disciplinare e uniformare anche la materia della giustizia amministrativa, organizzata in modi diversi negli Stati preunitari[18].
Il nuovo modello di Stato[19] iniziava a formarsi fondandosi su presupposti differenti e distanti rispetto alla concezione autoritaria, tant’è che è possibile attribuire alle costituzioni dell’Ottocento il merito di aver limitato l’attività della pubblica amministrazione attraverso il riconoscimento di valori dal carattere garantista e l’adozione di strumenti per consentirne l’osservanza.
L’irresponsabilità dello Stato iniziava sempre più ad essere percepita come contraria ai principi dell’ordinamento e, quindi, come un indebito privilegio.
Il primo trentennio dell’esperienza del nuovo Stato italiano fu caratterizzato, perciò, dall’unificazione legislativa e la conseguente costruzione di un apparato pubblico coerente con la struttura dello Stato unitario[20].
Nell’Europa continentale si era, inoltre, affermato un modello differente rispetto a quello previsto con i tribunali del contenzioso amministrativo. Con la costituzione belga del 1831[21] le controversie con l’amministrazione erano devolute, parimenti alle controversie civilistiche, al giudice ordinario[22].
Il dibattito dell’epoca si concentrò, quindi, sulle forme di tutela del cittadino avverso gli atti della p.a. e, dunque, sul mantenimento del sistema del contenzioso amministrativo o l’abolizione dello stesso in favore della devoluzione ad un unico giudice.
La querelle non poté, tuttavia, esaurirsi a causa della terza guerra di indipendenza[23]. Furono, perciò, concessi pieni poteri all’Esecutivo il quale approvò la legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
Il risultato cui intendeva pervenire la legge abolitrice del contenzioso amministrativo era giungere ad un punto di equilibrio tra l’emersione dei diritti da un lato e l’agire autoritativo della pubblica amministrazione dall’altro.
La concezione dello Stato liberale imponeva la coesistenza di una sfera di libertà dei cittadini, espressione dei principi di uguaglianza, con la sovranità statale. L’impostazione alla base di tale scelta era, perciò, quella di dare una tutela giurisdizionale ai diritti dei cittadini, ed in particolare alla proprietà che all’epoca rappresentava l’espressione principale dei diritti che non dovevano essere compromessi dall’amministrazione. Costruendo il sistema in tal modo, l’atto amministrativo che fosse entrato in contrasto con i diritti naturali del cittadino avrebbe dovuto perdere efficacia, proprio in virtù del valore fondamentale riconosciuto dall’ordinamento ai tali situazioni giuridiche soggettive.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’atto amministrativo, perdurando la sua funzione di soddisfazione dell’interesse pubblico, non poteva essere rimosso dall’ordinamento in quanto espressione della libertà dell’agire amministrativo. Per tali ragioni il punto di incontro tra le due opposte esigenze, da un lato la libertà dell’amministrazione e dall’altra la libertà dell’individuo, sfociò nella scelta di conferire il potere al giudice ordinario di disapplicare l’atto nel caso concreto.
La scelta di compromesso tra le opposte esigenze si concentrò sul riconoscimento di quelli che, in base alla concezione dell’epoca, erano considerati valori incomprimibili, rendendo difficoltoso l’ingresso di altre situazioni giuridiche soggettive che l’evoluzione del rapporto amministrazione- amministrato avrebbe messo in rilievo[24].
Il diritto amministrativo dei primi anni dell’Unità d’Italia muoveva, perciò, i primi passi differenziandosi dal diritto civile, in quanto, diversamente da quest’ultimo, sottoposto al controllo del giudice, era inteso come insieme di norme la cui corretta applicazione e interpretazione erano affidate alla stessa amministrazione. Tale distinzione portava, tuttavia, il rischio di dover applicare regole peculiari per il diritto amministrativo e rendere l’amministrazione irresponsabile.
All’interno del complesso dibattito circa la natura e i limiti del potere statale si è pian piano abbandonato il dogma della irresponsabilità dello Stato, dandosi rilevanza al fondamento del potere i cui atti erano espressione.
Si distinsero, infatti, le ipotesi in cui gli atti erano manifestazione del potere di sovranità dello Stato rispetto al cittadino, assoggettabili al regime speciale previsto per gli stessi, da quelli in cui vi era una condizione di equiordinazione, disciplinati dal diritto comune.
In altri termini, in specifiche materie indicate dalla legge, ossia quelle nelle quali l’amministrazione utilizzava strumenti civilistici ponendosi sullo stesso piano del cittadino e sorgeva, pertanto, un diritto soggettivo, era consentito un controllo giurisdizionale.
Diversamente, nell’esercizio del potere amministrativo di tipo unilaterale, l’agire amministrativo era esonerato dal sindacato.
La responsabilità della pubblica amministrazione, benché nella forma della sola sindacabilità dei suoi atti, diviene perciò un corollario dello Stato di diritto, in quanto punto di incontro tra la sovranità statale e il riconoscimento di taluni diritti, tra cui ricopre un ruolo decisivo quello di uguaglianza.
L’esercizio del potere venne, quindi, sottoposto a determinati limiti, rappresentati dalla legge.
Iniziava, inoltre, ad emergere in contrapposizione a quella di diritto la nozione di interesse, considerato come un quid giuridicamente irrilevante, in quanto recessivo e quindi privo di tutela rispetto agli atti di “amministrazione pura”, espressione del potere amministrativo autoritativo.
Accanto agli atti di “amministrazione pura” potevano, tuttavia, distinguersi quelli in cui l’amministrazione, ricorrendo determinati presupposti, era vincolata dalla legge o da un precedente atto amministrativo ad emanare un determinato atto. In queste ipotesi il cittadino poteva, perciò, vantare un diritto soggettivo perfetto, equiparabile a quello che il diritto civile riconosceva tra privati.
Benché nella sua forma primordiale, il concetto di amministrazione responsabile iniziava, quindi, a maturare grazie all’abbandono della presunzione di correttezza e legittimità dell’attività amministrativa e all’emersione di diritti opponibili anche all’amministrazione.
- Il consolidamento del principio di responsabilità della p.a.
Come anticipato, il dibattito circa le forme di tutela riservate ai cittadini culminò con la legge 20 marzo del 1865, n. 2248, allegato E ossia la legge abolitrice del contenzioso amministrativo[25].
Tale legge fu il risultato di due opposte forze, la prima che individuava il giudice ordinario come quello idoneo a conoscere delle controversie in cui fosse parte l’amministrazione, la seconda orientata a stabilire un sistema in cui tali controversie fossero devolute ad organi appositamente individuati e specializzati all’interno dell’amministrazione stessa.
L’art. 2 dell’allegato E disponeva espressamente che “tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico” fossero attribuite al giudice ordinario[26].
L’intento del legislatore era perciò ampliare la tutela dei diritti soggettivi, garantendone tutela giurisdizionale. In tal senso l’art. 4 della L.A.C. conferiva il potere di disapplicare il provvedimento amministrativo ritenuto lesivo del privato; il giudice non poteva, tuttavia, annullare o revocare gli atti amministrativi oggetto di controversia[27].
Occorre evidenziare che l’abolizione del contenzioso rappresentò nell’ideologia dell’epoca non la semplice devoluzione al giudice ordinario delle controversie in cui era parte l’amministrazione, ma una vera e propria innovazione che trovava il suo fondamento dell’affermazione e rafforzamento dello Stato di diritto.
La portata innovativa si può individuare nel mutamento di tecnica legislativa e nell’attribuzione delle situazioni giuridiche di cognizione del giudice civile; si passa, infatti, da un elenco di materie individuato dalla legge alla più ampia espressione “tutte le materie in cui si faccia questione di un diritto civile o politico”. Il cuore della riforma era rappresentato dalla tutela dei diritti soggettivi che in passato non trovavano garanzia giurisdizionale, ossia quelli esistenti nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. La novella prescindeva dallo schema basato sul dato soggettivo che devolveva i rapporti tra privati al giudice ordinario e quelli tra privati e pubblica amministrazione agli organi del contezioso amministrativo, ma si concentrava sulla situazione giuridica di diritto soggettivo, ammettendo tutela a prescindere dalla natura del soggetto danneggiante.
La devoluzione di tutte le controversie riguardanti i diritti soggettivi al giudice ordinario lasciava un vuoto di tutela per le controversie definite dalla stessa legge come “affari non ricompresi nell’articolo precedente“, ossia quelle situazioni giuridiche soggettive che non erano riconosciute come diritti soggettivi[28]. Tali controversie, essendo stati aboliti i tribunali del contenzioso amministrativo, potevano essere risolte solo in via amministrativa. Unica eccezione si registrava per le attribuzioni che ai sensi dall’art. 12[29] furono lasciate alla Corte dei Conti (in tema di contabiltà e pensioni), al Consiglio di Stato (riguardo i conflitti tra autorità amministrativa e giudiziaria o rapporti tra autorità civile ed ecclesiastica) e altri corpi speciali.
L’assetto previsto dal legislatore del 1865 di fatto escludeva la tutelabilità di quelle situazioni giuridiche minori che la legge qualificava come “affari”, senza alcuno sforzo definitorio.
L’assenza di una perimetrazione delle situazioni non ricomprese nei diritti civili e politici non era, tuttavia, indice della mancata conoscenza di tale categoria; tra le proposte di modifica delle leggi amministrative vi era anche quella che intendeva ripartire la competenza amministrativa da quella ordinaria in base alla dicotomia diritto-interesse[30]. Le situazioni giuridiche di interesse erano, perciò, ben conosciute all’epoca della scelta di abolire il contenzioso amministrativo e rappresentavano, benchè nella loro forma primordiale, uno strumento per esigere la legalità dell’azione amministrativa nel riconoscimento delle pretese degli amministratati non rientranti nella categoria dei diritti soggettivi. Il graduale aumento del ruolo dello Stato e della sua struttura nella cura della collettività era destinato a far maturare la nozione di interesse, prima ritenuta giuridicamente irrilevante.
Speculare al dibattito sulla tutelabilità delle situazioni giuridiche soggettive[31] proseguiva quello sulla responsabilità della pubblica amministrazione. Nello specifico, riconosciuta tutela giurisdizionale per la lesione dei diritti soggettivi cagionata dalla pubblica amministrazione, rimaneva fermo l’assetto che negava in tali ipotesi la possibilità di ottenere una tutela risarcitoria.
La tematica era complicata da arresti altalenanti della giurisprudenza[32], la quale talvolta escludeva radicalmente la responsabilità dello Stato per il danno ingiustamente provocato dai funzionari, e in altri casi l’ ammetteva[33].
In particolare il dibattito si concentrava in prima battuta sull’astratta configurabilità di una responsabilità della pubblica amministrazione e secondariamente, risolto in senso affermativo il primo problema, sull’applicabilità delle norme civilistiche (l’art. 1151 e ss del codice civile del 1865 sulla responsabilità diretta e indiretta) o sulla necessità di un adattamento, visto il passaggio dalla responsabilità privata a quella a regime pubblicistico.
Le tesi[34] che mostravano un atteggiamento di forte diffidenza verso la responsabilità della pubblica amministrazione utilizzavano, per ridurne l’ambito di applicazione, la distinzione tra atti di imperio e atti di gestione[35], muovendo dall’assunto che la gran parte degli atti amministrativi, siano essi lesivi o meno, sono espressione del potere e, quindi, esenti da responsabilità.
Secondo tale impostazione[36] sono rari i casi in cui l’amministrazione compie atti di gestione puri. Occorre tuttavia precisare che, anche all’interno della categoria degli atti di gestione, non sono sempre applicabili le norme del codice civile, in quanto lo Stato non può rispondere nei casi di negligenza e imprudenza dei propri funzionari.
Si sostenne, perciò, una separazione netta tra diritto pubblico e diritto privato[37], tanto da doversi applicare norme specifiche e peculiari all’amministrazione anche negli atti di gestione. La natura sovrana dello Stato non consentiva il riconoscimento della responsabilità, ritenendosi responsabilità e sovranità concetti opposti e inconciliabili.
La sovranità presuppone la superiorità, ossia l’imperio; diversamente la responsabilità implica l’accettazione del principio di uguaglianza[38], principio che all’indomani della legge abolitrice del contenzioso trovava difficoltà di applicazione se riferito alla pubblica amministrazione.
Lo spazio in cui residua la responsabilità dell’amministrazione consiste, perciò, nel danno derivante da una attività di diritto privato pura, ossia in materia di beni o contratti. Tale impostazione riconosceva garanzie al privato esclusivamente con riferimento all’attività amministrativa paritetica; prerogative peraltro assenti nel periodo in cui era la stessa amministrazione a decidere le controversie in cui era parte.
La parte maggioritaria della dottrina[39] avvertiva che una concezione di Stato caratterizzata da una forte sovranità e discrezionalità avrebbe ridotto al minimo i casi di responsabilità della pubblica amministrazione.
Il presupposto della concezione dell’immunità della pubblica amministrazione venne considerato erroneo, in quanto basato su un antico concetto di sovranità, intesa come potere illimitato, concezione che lo Stato di diritto intendeva abbandonare.
Il concetto di sovranità[40], nelle sue varie sfaccettature, incontra dei limiti rappresentati dal diritto.
Più nello specifico nello Stato moderno la sovranità non può essere considerata come tale se, introducendo norme che regolano i rapporti intersoggettivi, non sottopone se stessa alle medesime regole, ossia allo stesso diritto. Affinchè tale autolimitazione possa avvenire è necessario, tuttavia, che il potere sovrano non possa intervenire in modo arbitrario nel modificare l’assetto dell’ordinamento. L’applicazione di tale obiettivo si è realizzata distinguendo varie funzioni dello Stato.
La sovranità può essere definita come l’astratta possibilità di svolgere determinati comportamenti che incidono sulla sfera giuridica altrui tramite l’esercizio del potere; è possibile, quindi, pensare una suddivisione dello stesso soggetto, ossia lo Stato, da un lato quando agisce per la soddisfazione degli interessi della collettività e dall’altro come titolare di determinate posizioni giuridiche[41].
In tal senso si può distinguere una fase di enunciazione della regola di comportamento, un secondo momento di attuazione ed infine la garanzia tra l’enunciazione e l’esecuzione. A queste tre fasi di manifestazione della sovranità corrispondono, dal punto di vista del contenuto del potere, le tre funzioni dello Stato: legislativa, esecutiva e giudiziaria.
Cosi facendo si è trovato il modo di sottoporre la sovranità alla legge, tant’è che, grazie a tale suddivisione lo stesso soggetto che emana la norma giuridica non può essere chiamato ad accertare di averla violata.
Separate le varie funzioni di sovranità, individuando astrattamente tre distinti soggetti che svolgono altrettante attività, ossia la capacità di innovare l’ordinamento, di eseguire le regole e di svolgere un controllo di legittimità di tale operato, viene meno il pericolo di un accentramento di funzioni; grazie a tale meccanismo è possibile che lo stesso Stato sia sottoposto alle regole che introduce per i cittadini. Il principio di legalità diviene, quindi, corollario dello Stato di diritto, da cui deriva il riconoscimento del principio di responsabilità della pubblica amministrazione.
Grazie al principio della separazione dei poteri[42] lo Stato si divide in tre momenti (Stato-amministrazione, Stato-giurisdizione e Stato-legislazione), autolimitandosi e circoscrivendo mediante norme il proprio ambito di azione.
Il principio non è in contrasto con il concetto di sovranità e ammette che la stessa amministrazione, nell’esercizio della sua funzione, possa soggiacere alle medesime regole rivolte ai cittadini, ed essere responsabile qualora leda la situazione giuridica soggettiva altrui.
Le norme sono perciò poste come limite sia per i rapporti tra cittadini sia tra questi ultimi e la pubblica amministrazione.
Con riferimento all’attività di natura paritetica – come l’attività contrattuale – l’amministrazione, guidata dai principi di libertà ed eguaglianza, agisce come soggetto privato e non in veste di autorità. Lo Stato è, quindi, dotato di una duplice capacità[43], quella pubblicistica e quella privatistica, sicché nello svolgimento di attività equiparabili a quelle svolte dai cittadini è soggetto alle medesime regole di responsabilità. Ciò in quanto amministrare non vuol dire esercitare il potere discrezionale rimanendo esenti da responsabilità, ma anche contrarre obbligazioni.
La persona giuridica dello Stato deve essere intesa nel senso privatistico, dovendo garantire l’uniformità di trattamento ai privati che vengono in rapporto con la pubblica amministrazione. Non sono, perciò, ammessi privilegi[44].
Anche il rapporto tra pubblica amministrazione e i suoi agenti si ritiene possa essere configurato come un normale rapporto civilistico, nello specifico di mandato.
Se diritto pubblico e diritto privato sono due aspetti dello stesso insieme di regole, ne deriva che il rapporto tra funzionari e la pubblica amministrazione deve essere considerato e definito dal punto di vista di questo unico diritto comune. Ritagliare privilegi rappresenterebbe una spinta favorevole ad un nuovo dispotismo.
Naturale conseguenza è che la responsabilità della pubblica amministrazione deve essere definita accettando del tutto il postulato della soggezione dello Stato alle regole civilistiche, altrimenti si rischierebbe di contraddire l’organizzazione dello Stato moderno, basata sul principio di legalità e, quindi, sull’uguaglianza fra tutti i soggetti giuridici.
Il dato positivo a cui si fa riferimento sono gli art. 1151[45] e ss. del codice civile del 1865, il quale trova applicazione non solo nei rapporti tra privati, ma in base ai principi richiamati anche nei confronti dell’amministrazione, da considerarsi come soggetto giuridico.
La norma esprime un generale principio di responsabilità, che trova fondamento nel nuovo Stato di diritto, in cui la tutela dei diritti non può essere compromessa, neanche dalla p.a[46].
A ben vedere uno degli argomenti ostativi alla configurabilità di una responsabilità per la pubblica amministrazione si basava sull’assunto che l’art. 1153 c.c., inerente la responsabilità indiretta del committente per danni provenienti dai propri sottoposti e commessi, non sarebbe applicabile nei confronti della p.a. per i danni provenienti dai funzionari. Ciò perché il rapporto tra lo Stato e i dipendenti non è paragonabile al rapporto tra committenti e commessi. Veniva, inoltre, aggiunto che la responsabilità indiretta di cui l’art. 1153 c.c. si fonderebbe sulla culpa in eligendo e culpa in vigilando, rispettivamente nello scegliere i propri commessi e nel vigilare sul corretto adempimento dei compiti affidati. Lo Stato, invero, seleziona e controlla i propri funzionari con tutte le cautele che la legge prescrive, non essendo configurabile un difetto di diligenza nella scelta e nella vigilanza.
A tale critica è stato replicato che il legislatore ha usato questa espressione in un significato amplissimo[47], intendendo comprendervi tutte le ipotesi in cui si hanno soggetti incaricati da altri ad operare e svolgere una funzione nell’interesse dei primi.
Il rapporto tra Stato e dipendente, comunque lo si voglia qualificare, si sostanzia in un legame grazie al quale i funzionari operano in virtù e per conto dello Stato, attuandone le finalità in conformità alle attribuzioni ricevute; ne consegue che tale rapporto può essere ricondotto nel concetto ampio e generico di commissione di cui l’art. 1153 c.c.
L’attività esplicata dalle persone fisiche che integrano gli organi dell’amministrazione deve essere giuridicamente imputata direttamente all’ente, tanto da poter considerare i danni che siano derivanti dall’azione amministrativa come danni da fatto proprio rispetto alla pubblica amministrazione, generando così una forma di responsabilità diretta della stessa.
Non si pone, perciò, una problema di applicabilità dell’art. 1153 (oggi 2049 c.c.), ma dell’art. 1151 (oggi 2043 c.c.)[48].
L’amministrazione era direttamente responsabile per i fatti illeciti dei propri dipendenti, in virtù del rapporto organico; al contrario si riteneva che non fosse responsabile laddove il dipendente avesse agito con dolo, in quanto tale condotta comportava la rottura del rapporto di immedesimazione organica.
Venne inoltre criticata[49] la distinzione tra atti di imperio e atti di gestione per distinguere le ipotesi in cui l’amministrazione può essere oggetto di responsabilità.
Come è stato anticipato, l’esercizio del potere è vincolato da una serie di limiti sostanziali e formali individuabili nei diritti soggettivi. Tali diritti non hanno valore solo nei rapporti tra privati, quindi l’amministrazione anche nella veste di autorità può essere responsabile se li comprime[50].
All’indomani della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, l’orientamento prevalente non trovava difficoltà ad ammettere la responsabilità della pubblica amministrazione per attività paritetica (nello specifico responsabilità contrattuale). L’inadempimento dell’obbligazione non coinvolgeva nessun altro soggetto oltre a quello tenuto all’adempimento, ossia l’amministrazione[51].
Allo stesso modo, si riteneva che la violazione di un diritto da parte dell’amministrazione nella propria attività di diritto pubblico avrebbe prodotto la conseguenza di rispondere del danno causato. Anche la pubblica amministrazione, al pari di ogni soggetto, era tenuta ad osservare il generale principio del neminem laedere che rappresenta il limite di qualsiasi attività, sia essa di imperio o di gestione.
Da quanto sin qui esposto si evince come il sistema di tutela delle situazioni giuridiche soggettive delineato dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo ammettesse la responsabilità della pubblica amministrazione per la sola lesione dei diritti soggettivi.
Il cittadino leso da un atto della pubblica amministrazione poteva adire il tribunale ordinario, il quale, ritenuta fondata la domanda, aveva il potere di disapplicare l’atto amministrativo e di risarcire l’indebita compressione del diritto soggettivo.
L’atto amministrativo non poteva, tuttavia, essere annullato. Nonostante la conclusione del processo che avesse riconosciuto la lesione del diritto soggettivo, l’atto amministrativo, disapplicato nel caso concreto, rimaneva in vita.
Il quadro teorico e pratico dell’epoca aveva come sfondo le pronunce del Consiglio di Stato, organo deputato a dirimere i conflitti di attribuzione tra tribunale ordinario e gli organi amministrativi, volte a ridurre notevolmente la portata della riforma del 1865.
Il Consiglio di Stato, infatti, riconobbe spesso la competenza dell’autorità amministrativa a discapito del tribunale ordinario[52].
Si distinse la competenza dell’amministrazione per l’adozione di atti discrezionali e la competenza del tribunale per i rimanenti atti, di fatto contrastando la lettera della legge abolitrice del contenzioso amministrativo che attribuiva la cognizione dei diritti soggettivi, prescindendo dal tipo di potere di cui l’atto era espressione, al giudice ordinario.
Dal punto di vista della responsabilità ciò comportava l’impossibilità di chiedere tutela risarcitoria non solo per quelle situazioni giuridiche che sarebbero state qualificate nei successivi anni come interessi legittimi, ma per tutte le controversie inerenti la lesione di diritti soggettivi devolute, a causa dell’interpretazione precedentemente richiamata del Consiglio di Stato, all’amministrazione.
In tale contesto emerse l’inadeguatezza del sistema di tutela di situazioni giuridiche soggettive che non avevano la dignità di diritto soggettivo, ma allo stesso tempo non potevano essere considerate interessi di mero fatto.
Iniziarono, quindi, a crescere e a trovare sempre maggiore spazio i c.d. “affari non ricompresi nell’articolo precedente“ della L.A.C. e conseguentemente si pose il problema della loro tutela.
La scelta del legislatore del 1865 si mostrò poco attuale[53] anche alla luce dell’evoluzione e sviluppo dell’attività amministrativa[54] che dava luce a frequenti conflitti tra interesse pubblico e interessi dei privati[55].
Tutto ciò che non fosse rientrato nella categoria dei diritti soggettivi era rimesso all’amministrazione, i cui atti in quanto insindacabili erano suscettibili di arbitrio. In altri termini, tramite la devoluzione delle controversie attinenti ai diritti soggettivi al giudice ordinario l’amministrazione era, di fatto, esonerata dal riprodurre i canoni di legalità, espressione dello Stato di diritto, nel suo agire procedimentale e, quindi, nell’atto amministrativo incidente su interessi.
Occorre evidenziare che il sistema del giudice unico non era astrattamente incompatibile con la tutela di situazioni giuridiche minori. Come anticipato, anche il sistema presente in Belgio era ancorato alla devoluzione delle controversie inerenti diritti civili e politici al giudice ordinaro, ma ciò, senza provocare un contrasto con i principi dello Stato democratico, generò esiti differenti; il concetto di diritto soggettivo venne interpretato in modo estensivo, facendolo coincidere con ogni violazione di legge che avesse provocato un danno al cittadino, non ponendosi, quindi, il problema della presenza di un giudice amministrativo[56].
Si fosse adottata una interpretazione maggiormente ampia di diritto soggettivo in Italia la storia della responsabilità avrebbe potuto condurre ad esiti differenti, ciò, tuttavia, non avvenne principalmente poiché il concetto di diritto soggettivo era fortemente legato alla proprietà; inoltre la componente assolutistica del diritto amministrativo era ancora presente, risultando inconcepibile che le norme amministrative potessero tutelare interessi privati, costituendo diritti.
Una prima soluzione venne fornita nel 1889 con la legge n. 5882, c.d. Legge Crispi, con cui venne modificata la struttura del Consiglio di Stato, tramite l’istituzione della IV sezione[57].
A ben vedere la forma primordiale di giustizia amministrativa fu concepita principalmente come strumento per porre un argine all’influenza dei partiti politici sull’amministrazione; ovviamente, di riflesso, ne avrebbero beneficiato anche le situazioni giuridiche soggettive. Ciò che si voleva risolvere era, perciò, l’intromissione partitica nella emanazione degli atti amministrativi, i quali, prima della riforma Crispi, rimanevano esenti da sindacato.
La legge attribuiva al Consiglio di Stato la competenza a decidere i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o per violazione di legge contro gli atti e provvedimento dell’autorità amministrativa aventi ad oggetto interessi di individui o enti morali giuridici. Al sindacato di legittimità si accompagnava il sindacato di merito, tra cui rientrava il caso in cui l’amministrazione non si fosse adeguata al giudicato del giudice ordinario.
La legge Crispi attribuiva, tuttavia, il solo potere di annullare l’atto illegittimo; se la controversia riguardava interessi era possibile esperire l’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo; se riguardava diritti soggettivi era possibile proporre l’azione di accertamento e di condanna al risarcimento del danno[58] al giudice ordinario.
L’attribuzione del potere di annullamento fu un importante passo in avanti verso la responsabilizzazione della pubblica amministrazione, poiché i tribunali del contenzioso amministrativo, nonostante la loro natura amministrativa, componevano le controversie in via interpretativa non essendo dotati di tale potere caducatorio[59].
Si realizzarono, quindi, più risultati con una medesima legge, ossia: permettere il ricorso avverso un atto amministrativo illegittimo; allargare l’ambito di cognizione del Consiglio di Stato; scandire le varie fasi del processo amministrativo. La novella, più che la semplice devoluzione delle controversie al Consiglio di Stato, concretizzava dal punto di vista della tutela degli interessi la riforma fondata sul principio di legalità iniziata nel 1865.
Il Consiglio di Stato assumeva inizialmente più che la connotazione di giudice dei rapporti tra amministrazione e cittadini quella di giudice all’interno dell’amministrazione. Il cittadino, tutelando il proprio interesse, specularmente tutelava l’amministrazione dalle intromissioni dei partiti, perciò, l’interesse che emergeva in giudizio, in realtà, non si contrapponeva con l’interesse pubblico, ma era a questo legato[60].
Si andava delineando una giurisdizione obiettiva, ossia volta a tutelare la legittimità e legalità dell’azione amministrativa.
Cambiò, quindi, sia il potere di cognizione del giudice, esteso agli interessi, che il potere di decisione, tramite l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo.
La legge non approfondiva, tuttavia, la nozione di interesse; ciò è spiegabile da un lato nella scarsa maturità dell’elaborazione della nozione dell’epoca, e dall’altro sulla possibilità di definirlo in negativo rispetto al diritto soggettivo.
Più nello specifico, era ritenuto sufficiente affermare che gli interessi di cui trattava la legge Crispi non erano diritti soggettivi.
All’indomani della riforma legislativa[61] che permetteva la sindacabilità degli atti amministrativi, emersero tuttavia le differenze tra le garanzie riconosciute ai diritti soggettivi e agli interessi, in quanto i mezzi di tutela non erano cumulabili. L’atto amministrativo lesivo di interessi poteva, infatti, solo essere annullato, rimanendo preclusa l’azione di risarcimento.
Il dibattito in esame trovò, tuttavia, un punto di rallentamento nel periodo delle guerre, caratterizzato, però, da una imponente legislazione di settore[62], la quale avrebbe inciso sul rapporto tra pubblica amministrazione ed amministrati.
- L’art. 28 della Costituzione e il carattere diretto della responsabilità amministrativa
Nel periodo che ha preceduto l’entrata in vigore della Costituzione, dottrina e giurisprudenza concordavano sull’ammissibilità di una responsabilità della pubblica amministrazione comunque considerata per i danni cagionati ai singoli mediante la sua attività amministrativa.
Responsabilità di natura contrattuale ed extracontrattuale, rispettivamente per i danni derivanti da attività di diritto privato e per i danni derivanti dall’attività sottoposta al diritto pubblico.
Il quadro antecedente all’entrate in vigore della Costituzione era fondato su determinati principi che trovavano l’avallo della Cassazione[63]; la responsabilità della p.a. per i fatti illeciti dei propri dipendenti era ascritta direttamente in capo alla stessa come responsabilità per fatto proprio, in quanto, in virtù del rapporto organico, l’azione del dipendente si confondeva e univa con quella riferibile alla pubblica amministrazione. Da ciò emergeva la non applicabilità alla p.a. dell’art. 1153 del c.c. del 1865 che configurava la responsabilità dei padroni e committenti per fatti dei propri dipendenti o sottoposti come responsabilità indiretta.
Ciò non significava una completa immunità per il dipendente; era, infatti, ammessa un’azione di rivalsa autonoma rispetto a quella oggetto di risarcimento, proponibile alla Corte dei Conti[64] nei confronti di quest’ultimo per il rimborso delle spese sostenute.
Requisito affinché si potesse concretizzare la responsabilità della pubblica amministrazione era perciò il danno, sia pure materialmente riferibile alla pubblica amministrazione, connesso alla violazione di un diritto soggettivo.
Tali punti fermi raggiunti in Italia si collocavano in un contesto europeo in cui era invece il funzionario a dover rispondere di fronte al terzo[65]. Di conseguenza l’assemblea costituente nel redigere la Costituzione si trovò di fronte ad una pluralità di esperienze.
Originariamente l’ambito di applicazione dell’art. 28 della Costituzione era pensato per sanzionare esclusivamente le condotte dolose o colpose dei funzionari dello Stato che avessero violato i diritti riconosciuti dalla Carta Costituzionale; tuttavia si decise di estenderlo a tutti i funzionari degli enti pubblici e a tutti i diritti, trasformando una norma a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini in un principio generale[66] di responsabilità.
La norma testualmente recita: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.”
La portata della disposizione sembrava, ad una prima lettura, introdurre profonde innovazioni nel sistema italiano, prevedendo il dato testuale la responsabilità diretta del dipendente per i fatti illeciti commessi, stravolgendosi, perciò, il sistema descritto.
All’indomani della introduzione della novella, diversi orientamenti si sono, tuttavia, registrati sul fondamento di tale responsabilità, potendosi distinguere tra chi forniva una interpretazione della norma evolutiva rispetto all’impostazione tradizionale e chi riteneva l’art. 28 meramente ricognitivo dei principi che fino a quel momento erano stati applicati dalla giurisprudenza.
Distinguere tra responsabilità indiretta o diretta dell’amministrazione è un interrogativo la cui soluzione conduce a rilevanti conseguenze; riconoscere una responsabilità diretta ex art. 2043 c.c. vuol dire imporre l’individuazione anche dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), attribuire rilevanza indiretta significa far riferimento ad un illecito oggettivo ex 2049 c.c.[67]
Tra i primi commenti della norma si registrava l’orientamento secondo il quale[68] la disposizione avrebbe distinto due tipi di responsabilità: la prima, diretta, del funzionario e la seconda, indiretta, della pubblica amministrazione. Grazie a tale modello, affiancandosi le due responsabilità, sarebbe stata garantita una maggiore tutela della lesione dei diritti soggettivi. Il fondamento dell’art. 28 Cost., ricavabile attraverso il rinvio espresso che la norma fa alla legge ordinaria, era ritenuto essere l’art. 2049 del codice civile[69], norma a cui sembra fare riferimento la Costituzione tenuto conto del rapporto tra committente e commesso, speculare a quello tra pubblica amministrazione e funzionario pubblico.
In tale ottica l’innovazione sarebbe stata quella di introdurre il principio di rango costituzionale di responsabilità diretta del dipendente, maggiormente coerente con la necessità di abbattere i privilegi che residuavano dal passaggio dallo Stato assoluto a quello di diritto.
La strada della doppia responsabilità sembrava emergere dalla norma; muovendo dal presupposto che gli enti agiscono tramite i loro dipendenti, si riteneva[70] che non fosse possibile ammettere contestualmente sia per la p.a. che per il funzionario la medesima responsabilità diretta per uno stesso fatto, sicché dovendosi tra i due soggetti individuare quale fosse indirettamente responsabile, la scelta non poteva che cadere sulla pubblica amministrazione.
La natura indiretta della responsabilità della pubblica amministrazione era desunta dal rapporto organico tra individuo e p.a.;. non ritenendosi applicabile l’art. 2043 c.c., ossia la responsabilità diretta per la p.a., ma l’art. 2049 c.c., ovvero la responsabilità indiretta per culpa in vigilando o in eligendo.
Venne messo in evidenza lo stretto legame tra la prima parte della norma (disciplinante la responsabilità dei funzionari e dei dipendenti) e la seconda (riguardo la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici)[71], la quale sembrava fare riferimento alla circostanza che in tanto l’ente è considerato responsabile in quanto ci sia una responsabilità del funzionario.
Non si sarebbe trattato, quindi, di una responsabilità della persona giuridica parallela[72] a quella della persona fisica, ma di un obbligo che nella prima trovava il proprio fondamento.
I requisiti della prima responsabilità sarebbero condivisi dalla seconda, tuttavia ciò non permetteva di parlare di un’unica responsabilità, poiché quest’ultima non poteva essere estesa da persona fisica a persona giuridica. Il rapporto si generava, invece, tra le due obbligazioni di risarcire il danno, ed aveva carattere obiettivo; il semplice fatto dell’esistenza di una obbligazione del funzionario realizzava un requisito affinché si configurasse anche un obbligazione dell’ente.
Da ciò emergeva che la responsabilità enunciata dalla disposizione costituzionale in esame aveva carattere indiretto.
Tale ricostruzione presentava degli elementi di criticità[73]; a ben vedere la ratio della norma non era rivolta a far venir meno la responsabilità diretta della pubblica amministrazione, la quale trovava fondamento nell’art. 113 della Costituzione e sul generale dovere del neminem leadere.
Un profilo di innovazione non poteva rinvenirsi nel riconoscimento dell’obbligo dell’ente di rispondere dell’operato del dipendente, in quanto già presente l’art. 2049 c.c.
Da tali premesse si giunse a riconoscere, oltre ad una responsabilità diretta, anche l’estensione all’ente della responsabilità per gli atti della persona fisica che, pur non integrando l’organo dell’ente, sono legate in modo tale da giustificare uno spostamento di responsabilità.
La pubblica amministrazione, grazie alla clausola prevista dall’art. 28 Cost., sarebbe stata chiamata a rispondere dell’operato del dipendente in via indiretta nel caso di danni derivanti da fatti che non fossero esternazione dell’esercizio del potere pubblico. Gli atti che non erano ascrivibili alla responsabilità della p.a. in modo diretto venivano, perciò, attribuiti in base al principio ubi commoda ibi incomoda. L’elemento soggettivo non escludeva, inoltre, la responsabilità dell’ente, potendo invece incidere sul tipo di responsabilità. Qualora il soggetto avesse agito per un fine personale e cagionato un illecito l’amministrazione sarebbe stato responsabile indirettamente; considerazioni opposte nel caso in cui il soggetto avesse agito per un fine pubblico, nonostante la coscienza dell’illegalità. L’art. 28 della Costituzione avrebbe, quindi, permesso di aggiungere e non sostituire la responsabilità indiretta della pubblica amministrazione a quella diretta.
L’impostazione fondata su due tipologie di responsabilità entrò in crisi con l’entrata in vigore del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3 (T.U. degli impiegati civili dello Stato), che delineò l’illecito dei dipendenti come soggettivo, differenziandolo, tuttavia, dal 2043 c.c. Ai sensi degli art. 22 e ss. del T.U.[74] l’impiegato avrebbe dovuto risarcire il danno cagionato solo in caso di dolo o colpa grave. Il dato normativo era indice di una chiara intenzione di superare i contrasti sorti sulla corretta interpretazione dell’art. 28 Cost. ossia la configurabilità di due forme di responsabilità, diretta per il dipendente e indiretta per la pubblica amministrazione, o due responsabilità entrambe dirette.
Nel sancire un illecito soggettivo, tuttavia, la norma si differenziava dal tradizionale art. 2043 c.c., introducendo un secondo limite rispetto al già presente filtro dell’ingiustizia del danno. L’art. 23 chiariva che l’ingiustizia del danno, ossia la violazione della situazione giuridica meritevole di tutela, per qualificarsi come tale, doveva essere caratterizzata da dolo o colpa grave.
L’interpretazione che risulta, oggi, maggiormente condivisibile[75], e recepita dalla giurisprudenza, non attribuisce all’art. 28 della Costituzione una portata innovativa, rimanendo fermo il principio della responsabilità diretta della pubblica amministrazione, a cui si affianca quella del funzionario, anch’essa diretta[76]. Tali considerazioni sono il risultato del principio di immedesimazione organica, secondo cui l’amministrazione avvalendosi dei funzionari per l’esercizio delle sue attività, tanto pubblicistiche che privatistiche, è il soggetto a cui riferire la responsabilità in caso di illegittima compressione dei diritti.
Ne consegue che l’amministrazione è chiamata a rispondere per fatto proprio dell’operato dei suoi agenti sia nell’esplicazione dell’attività amministrativa che in quella materiale.
La responsabilità dell’amministrazione resta invece esclusa quando l’attività compiuta da un pubblico funzionario sia al di fuori della attività amministrativa[77].
Alla dottrina[78] avversa ad una duplice responsabilità diretta per un medesimo fatto, si è replicato da un lato che il legislatore avrebbe potuto astrattamente introdurre due responsabilità solidali, entrambe dirette, e dall’altro che la portata dell’art. 28 Cost. è apprezzabile nell’introduzione nel nostro ordinamento del principio della responsabilità diretta anche del funzionario, che ha agito quale organo dell’amministrazione.
Si è così dato rilievo, anche sul versante della responsabilità, al rapporto di immedesimazione tra funzionario e p.a.
La logica sottesa all’art. 28 Cost. si pone, inoltre, in discontinuità con quella prevista dall’art. 2049 c.c. Come precisato, la norma costituzionale sancisce la responsabilità diretta dei pubblici dipendenti; al contrario l’art. 2049 c.c. ha come caratteristica quella di spostare la responsabilità del preposto in capo al padrone, ascrivendo la responsabilità ad un soggetto diverso rispetto a colui che ha commesso l’azione pregiudizievole.
Associare i significati delle due norme vorrebbe dire, perciò, svuotare di significato una delle due[79]. Lo scopo dell’art. 28 della Costituzione è porre ancora più in rilievo la responsabilità della pubblica amministrazione a garanzia del danneggiato. Quest’ultimo, infatti, ha tutto l’interesse a proporre l’azione di risarcimento verso il debitore maggiormente solvibile, ossia l’amministrazione.
Tramite il richiamo alle leggi, la Costituzione conferma il fondamento della responsabilità della pubblica amministrazione nel codice civile, distinguendosi in responsabilità da inadempimento e responsabilità aquiliana. Con riferimento alla responsabilità dei dipendenti l’art. 28 Cost. stabilisce la tendenziale corrispondenza tra responsabilità dell’amministrazione e dipendente pubblico. Occorre chiarire, però, che la legge può derogare al principio secondo cui sia la pubblica amministrazione che i suoi dipendenti rispondono di responsabilità civile come tutti i soggetti dell’ordinamento, prevedendo delle eccezioni, contenute principalmente nel c.d. statuto del pubblico impiego[80].
Mentre il funzionario è responsabile solo per dolo o colpa grave[81], all’amministrazione può essere imputata la responsabilità anche in tutti i casi in cui l’azione contro il singolo funzionario non è ammessa, come i casi di colpa lieve. Il fondamento della responsabilità della p.a. per danno causato dal dipendente deve rinvenirsi nell’art. 2043 c.c.[82]
L’ambito di responsabilità della pubblica amministrazione è, quindi, più ampio rispetto a quella del dipendente.
Le due responsabilità, diretta dell’agente e diretta della p.a., non sono in rapporto di sussidiarietà o tantomeno in rapporto di cumulabilità, ma di solidarietà[83], ossia concorrenza alternativa. L’amministrazione se ha provveduto al risarcimento ha azione di regresso nei confronti del suo dipendente nei limiti fissati dalla legge. Il richiamo alle leggi civili operato dalla Costituzione deve intendersi come rinvio alle norme del codice civile che disciplinano la responsabilità e, nello specifico, all’art. 2043 c.c. che stabilisce il principio, valido sia per i cittadini che per la pubblica amministrazione, che chiunque abbia commesso un illecito deve risarcire il danno.
Nonostante le varie oscillazioni da parte della dottrina, la giurisprudenza[84] si è mostrata maggiormente uniforme sulla tematica in esame, aderendo alla tesi della duplice responsabilità diretta, sia del dipendente che della p.a.
La Cassazione[85] ha chiarito che la responsabilità della pubblica amministrazione nei confronti dei terzi, dovuta alla condotta del proprio dipendente, è diretta, ovvero disciplinata dall’art. 2043 c.c. e non dall’art. 2049 c.c. (responsabilità obiettiva ed indiretta).
La pubblica amministrazione, nell’esercizio delle proprie funzioni e per il raggiungimento dell’interesse pubblico, si avvale dei propri organi e ciò è stato ritenuto sufficiente ad ammettere l’obbligo della p.a. di rispondere direttamente allorché l’attività di questi ultimi leda una situazione giuridica altrui.
Tale circostanza non esclude che talora l’attività produttiva del danno non sia riferibile alla p.a[86]. Ciò avviene nel caso in cui l’azione del dipendente sia un atto personale dell’agente o, altresì, nell’ipotesi in cui l’atto sia viziato da incompetenza assoluta o, ancora, nel caso in cui l’atto sia posto in essere dal dipendente fuori dall’esplicazione delle funzioni pubbliche previste dalla legge.
Poiché l’operato degli organi dello Stato e degli enti pubblici, nella esplicazione delle funzioni che sono loro proprie, è da considerarsi come operato della p.a. la quale non può raggiungere i suoi fini se non attraverso i suoi organi, l’amministrazione è tenuta a risponderne. Si genererà, perciò, un rapporto di solidarietà tra funzionario e p.a.
La portata dell’art. 28 della Costituzione è quella di prevedere, accanto alla responsabilità della pubblica amministrazione, quella diretta del funzionario[87]. Si può affermare, perciò, che l’intento del legislatore costituente non fu quello di estendere la responsabilità degli agenti alla pubblica amministrazione, ma l’opposto[88]. L’assoggettamento a tutti i soggetti alle medesime norme sulla responsabilità, ovvero quelle civili, segna il definitivo tramonto del principio che ammetteva esenzioni e privilegi per la pubblica amministrazione.
La ratio sottesa all’art. 28 Cost. è stata stimolare la diligenza dei dipendenti e, più in generale, coordinare il principio di responsabilità con quello del buon andamento della p.a.[89], previsto dall’art.97 della Costituzione; si disincentiva l’inerzia che potrebbe derivare dalla preoccupazione di incorrere in responsabilità, escludendo la responsabilità diretta del dipendente per colpa lieve.
Affinché la norma non sia eccessivamente rigida nei confronti della p.a., si è ritenuto che il dolo del dipendente interrompesse il rapporto organico tra dipendente e p.a., escludendo la responsabilità dell’ente pubblico di riferimento.
In definitiva l’assetto della responsabilità della pubblica amministrazione, arricchito dalla clausola dell’art. 28 della Costituzione, è orientato non esclusivamente alla ricerca di un debitore maggiormente solvibile per il privato leso, ma a dare un impulso al corretto funzionamento dell’apparato pubblico. L’art. 28 Cost. deve essere letto e arricchito con i principi che regolano l’agire amministrativo.
Un corretto assetto dei principi precedentemente enunciati a tutela del cittadino non può ammettere una tutela dimezzata, sicché il ruolo propulsivo della responsabilità amministrativa, associato alle crescenti istanze di tutela di situazioni giuridiche soggettive, hanno permesso di chiarire, coerentemente con la Carta costituzionale, il perimetro e l’ambito soggettivo di applicazione della responsabilità.
4 L’ingresso degli interessi legittimi nel sistema della responsabilità
Trascorso il periodo bellico, la rinnovata attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza verso gli interessi e la loro risarcibilità fu immediata, in quanto si registrò il passaggio degli stessi da situazione giuridica soggettiva priva di tutela giurisdizionale (in base alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo) a criterio per comprendere a quale giudice rivolgersi e quali rimedi fossero attuabili, grazie al riconoscimento di natura giurisdizionale della funzione contenziosa del Consiglio di Stato e alla parificazione costituzionale del concetto di diritto soggettivo ed interesse legittimo.
La prassi derivante dalla applicazione delle funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato permise di spostare l’attenzione dall’interrogativo sulla tutelabilità delle situazioni giuridiche minori al ruolo di tale giudizio sugli interessi, ovvero se esso dovesse essere considerato un controllo di mera legittimità del provvedimento impugnato o un processo il cui oggetto fosse la tutela della pretesa del ricorrente.[90]
In tal senso[91] si osservò che l’esigenza di legalità non avrebbe escluso che contemporaneamente fosse tutelata anche la pretesa del privato. Il giudizio sulla legittimità dell’atto amministrativo avrebbe prodotto un sindacato preordinato alla tutela del privato e dei suoi interessi. Diversamente, accedendo alla teoria del giudizio amministrativo come mero controllo di legittimità dell’atto impugnato, la distinzione tra diritto ed interesse diverrebbe irrilevante, essendo quest’ultimo mera legittimazione processuale.
La dottrina maggioritaria dell’epoca riteneva che la nozione di interesse a cui la legge isititutiva della IV sezione del Consiglio di Stato faceva riferimento dovesse essere ampliata, escludendosi il ruolo di mero controllo della legalità. Ad un aumento della presenza dell’amministrazione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, derivando maggiori possibilità di sviamento dai canoni di imparziali e buon andamento cristallizzati in Costituzione all’art. 97, doveva corrispondere una ampliamento oggettivo e soggettivo della nozione di interesse[92].
La portata che doveva essere attribuita alla legge Crispi era completare le previsioni inserite nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo, arricchendo il sistema di tutela previsto dalla legge del 1865, ovvero dando spazio alla categoria degli “affari non ricompresi nell’articolo precedente”.
Il controverso ruolo del Consiglio di Stato, sospeso tra controllo di legittimità dell’atto amministrativo e giudizio volto a garantire l’interesse del privato, spinse all’indagine sulla nozione di interesse a cui la legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato faceva riferimento.
Ulteriore elemento che ha contribuito all’indagine sulla nozione di interesse giuridicamente rilevante fu il comma primo dell’art 24 della Costituzione che espressamente recita: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.”. Altrettanto rilevante è il comma primo dell’art. 113 Cost. il quale prevede che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
Le norme, nonostante non siano esplicative della nozione delle due situazioni giuridiche soggettive, definiscono per la prima volta in un testo normativo l’interesse come legittimo, attribuendogli dignità costituzionale parificata al diritto soggettivo.
La collocazione dei diritti e degli interessi nella Costituzione mostrò l’incapacità degli strumenti fino a quel momento conosciuti per tutelare in modo pieno e parificato tali situazioni giuridiche soggettive.
Sancire nell’art. 97 della Costituzione il principio di imparzialità dell’amministrazione ha definitivamente fatto tramontare la natura imperativa dell’azione amministrativa, la quale si rivolgeva invece verso la parità dei rapporti.
Nonostante la presenza delle norme costitituzionali che facevano emerge l’esigenza di una maggiore garanzia delle situazioni giuridiche soggettive e mostravano la necessità di un imminente modificazione dell’assetto dei rimedi azionabili, numerose norme rimasero inattuate.
In particolare l’istituzione dei tribunali amministrativi regionali avvenne solo nel 1971, rimanendo, quindi, inattuato per molti anni il principio sancito dell’art. 113 c. 2 della Costituzione del doppio grado di giurisdizione, il quale avrebbe permesso di rimediare ad eventuali errori del sindacato dell’atto amministrativo, garantendo una maggiore tutela.
In altri termini si evidenziava che la ragione del doppio grado di giurisdizione non era semplicemente una diversa organizzazione territoriale della giustizia, ma un profondo cambiamento del sistema. La lettera dell’art. 113 Cost, rimandando alla legge la previsione degli organi a cui attribuire il potere di annullamento, induceva a ritenere l’assenza di una necessaria correlazione tra giudice amministrativo e annullamento, sicché il ruolo che la dottrina[93] auspicava potesse ricoprire il giudice locale, al fine di ottenere un sistema di piena giustizia, era quello di un giudizio sul rapporto, capace di conoscere i fatti e non la semplice conformità tra l’atto e la legge.
Oltretutto la condizione per esperire l’azione innanzi al Consiglio di Stato, ossia la definitività del provvedimento impugnato, incideva notevolmente sulla possibilità di ottenere una tutela celere, specialmente nei casi in cui il provvedimento doveva ottenersi da un ricorso gerarchico[94].
Le criticità evidenziate si mostravano sempre più evidenti, anche alla luce del dettato Costituzionale che sanciva espressamente la tutelabilità degli interessi, situazioni giuridiche che trovavano la resistenza della giurisprudenza al loro riconoscimento come situazioni di carattere sostanziale.
Il periodo successivo all’attribuzione al Consiglio di Stato del potere di annullare gli atti amministrativi è stato caratterizzato dal dibattito sulla nozione di interesse legittimo. Tale querelle pose le basi per l’elaborazione di diverse teorie che coinvolsero la dottrina amministrativistica per lunghi anni.
Non potendo in questa sede ripercorrere il complesso dibattito[95], con riferimento al quale si rinvia ai contributi di autorevole dottrina, si intende concentrare l’attenzione sui motivi che ostacolavano la configurazione di una responsabilità patrimoniale per lesione di interessi legittimi[96].
La difficoltà da parte della giurisprudenza[97] e della dottrina a riconoscere la tutela risarcitoria per lesione di interessi legittimi era data tanto dalla concezione dell’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva “minore”, quanto dall’assenza di un espresso potere in capo al giudice amministrativo di pronunciarsi sulle domande di risarcimento.
Parte della dottrina[98] riteneva che l’interesse legittimo avesse solo rilevanza processuale; era perciò inteso come legittimazione del cittadino a ricorrere per verificare la correttezza o meno dell’atto amministrativo. Si escludeva, conseguentemente, la possibilità di reclamare un pregiudizio patrimoniale.
Alle medesime conclusioni giungeva chi[99], pur riconoscendo la portata sostanziale dell’interesse legittimo, negava la risarcibilità. Il titolare di tale situazione giuridica soggettiva, differentemente dal diritto soggettivo, non ha garanzie di soddisfazione del proprio interesse, sicchè l’eventuale accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento dell’atto illegittimo non avrebbe garantito il bene a cui il soggetto tende, sottoposto dopo la caducazione ad una nuova valutazione discrezionale dell’amministrazione; conseguentemente non avrebbe avuto motivo di esistere una tutela risarcitoria, riservata ai casi di in cui la situazione giuridica non è subordinata alla valutazione dell’amministrazione circa la compatibilità con l’interesse pubblico, ossia ai soli diritti soggettivi.
Ulteriore dato ritenuto decisivo per escludere la tutela risarcitoria era la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c. Nello specifico si riteneva che la clausola introdotta dal legislatore imponesse la presenza dell’ingiustizia del danno escludendo la possibilità di riferire tale norma alla pubblica amministrazione.
Il danno previsto dalla disposizione sulla responsabilità extracontrattuale richiede che la condotta sia non iure e contra ius, ossia posta in essere in violazione di una norma di condotta e in violazione di un diritto soggettivo. Circoscrivendo l’ingiustizia del danno alla lesione del diritto soggettivo, rimanevano automaticamente non risarcibili le lesioni di interessi legittimi[100].
A rafforzare tale lettura era anche l’art. 28 della Costituzione che, nel disciplinare la responsabilità diretta dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, utilizza l’espressione “violazione di diritti”, escludendo perciò le situazioni giuridiche soggettive minori.
Sempre con riferimento all’art. 2043 c.c. la giurisprudenza aveva affermato[101], oltretutto, l’impossibilità di ricostruire un rapporto di causalità tra il fatto antigiuridico e il danno; altrettanto non percorribile era l’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito, specialmente nell’attività discrezionale.
Un ulteriore ostacolo di carattere formale era rappresentato dal sistema dualistico presente nel nostro ordinamento. In altri termini si riteneva che il diverso criterio di riparto di giurisdizione e i differenti poteri attribuiti al giudice ordinario e al giudice amministrativo fossero esplicativi della volontà legislativa di non consentire al giudice amministrativo di avere la giurisdizione sulle domande di risarcimento del danno.
Il giudice amministrativo, pur competente in materia di interessi legittimi, non avrebbe avuto strumenti per soddisfare la domanda del ricorrente; allo stesso modo il giudice ordinario pur potendo pronunciarsi sul risarcimento, non poteva conoscere degli interessi legittimi[102].
Il problema del risarcimento, inoltre, non si sarebbe dovuto porre, in quanto l’annullamento dell’atto amministrativo lesivo avrebbe avuto quale effetto l’eliminazione retroattiva dell’atto illegittimo, sicché la situazione giuridica si intende ripristinata fin dall’origine.
L’orientamento della Cassazione, ferma nel ritenere inammissibili le domande risarcitorie degli interessi legittimi per difetto di giurisdizione, aprì il dibattito sul concetto di ingiustizia del danno.
Si possono registrare, infatti, sia pronunce che rigettavano radicalmente la domanda risarcitoria per difetto di diritto, sia statuizioni che, scendendo maggiormente nel dettaglio, affermavano che la lesione di un interesse legittimo non rappresentasse un danno ingiusto.
Nonostante l’esito dei due approcci sia comune nel ritenere irrisarcibili gli interessi legittimi, il cambio di prospettiva è particolarmente rilevante, poiché mentre il primo orientamento si limitava ad escludere l’esistenza del diritto al risarcimento del danno, il secondo puntualizzava il requisito per ottenere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., ossia la presenza della lesione di una situazione giuridica meritevole di tutela, vale a dire il danno ingiusto.
La netta divisione tra le modalità di tutela delle situazioni giuridiche soggettive era data anche dalla preoccupazione che se si fosse consentito di azionare una domanda risarcitoria per gli interessi legittimi, sarebbe stata tutelata più quest’ultima situazione giuridica che il diritto soggettivo.
Numerose furono le critiche alle tesi restrittive.
In particolare le argomentazioni favorevoli alla tutela aquiliana si fondavano principalmente sulla rivisitazione della nozione di interesse legittimo, come interesse ad un bene della vita, e conseguentemente sulla parificazione dal punto di vista qualitativo al diritto soggettivo.
Il mutamento che ha coinvolto l’amministrazione ed in particolare il riconoscimento della possibilità ai destinatari del provvedimento amministrativo di poter dialogare con l’amministrazione prima della emanazione dell’atto definitivo, ha portato a ritenere l’interesse legittimo[103] come situazione giuridica presente già nella fase procedimentale. La collocazione dell’interesse come potere di reazione al provvedimento, ossia come legittimazione processuale, risultava non più adeguata a descrivere un fenomeno che si radicava già nella fase procedimentale. Esclusa la natura processuale, l’interesse doveva essere inteso come la posizione di vantaggio che l’ordinamento attribuisce a un soggetto. Tale situazione di vantaggio si sarebbe concretizzata nel potere di influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione della sua utilità. Diritto soggettivo ed interesse legittimo trovano un punto di contatto nell’interesse al conseguimento di un bene della vita; tuttavia si distinguono per il grado della loro tutela: immediata e diretta per il diritto soggettivo, non subordinato ad una valutazione di compatibilità con l’interesse pubblico; mediata e indiretta per l’interesse legittimo, in quanto situazione giuridica che dialoga con l’esercizio del potere ammnistrativo. Non rilevandosi differenze circa la natura delle due situazioni giuridiche, escludere la tutela risarcitoria avrebbe significato trattare in modo differenziato situazioni sostanzialmente uguali.
A supporto della nozione sostanziale degli interessi legittimi è stato richiamato il dettato costituzionale. L’art. 28 della Costituzione è collocato nel titolo I relativo ai rapporti civili e sostanzialmente ai diritti di libertà, sicché l’espressione diritti non deve essere intesa in senso letterale, ma come situazione giuridica soggettiva protetta[104]. Si è precisato che l’art. 28 Cost. non si riferisce anche alle ipotesi in cui la responsabilità dell’amministrazione sussiste indipendentemente da quella dei suoi dipendenti, sicché non è a tale norma che deve farsi riferimento. Interpretare l’art. 28 della Costituzione nel senso di escludere la tutela degli interessi legittimi vorrebbe dire contrastare il testo costituzionale e reintrodurre un privilegio per la p.a.
Da punto di vista sostanziale, era stato inoltre osservato che la lesione di un interesse legittimo fa nascere in capo al soggetto un autonomo diritto soggettivo al risarcimento del danno[105]. Coerentemente con la tendenza della giurisprudenza civile dell’epoca che aveva allargato il concetto di ingiustizia del danno tanto da ricomprendervi anche la mera lesione dell’integrità patrimoniale o la chance, in tale clausola doveva collocarsi anche la lesione degli interessi legittimi. Nello stesso periodo la giurisprudenza aveva, infatti, inserito nella clausola dell’ingiustizia del danno la lesione degli interessi legittimi di diritto privato[106], estendendo, quindi, la portata della norma.
Riguardo all’impossibilità di ricostruire il nesso di causalità, si è osservato che la giurisprudenza ha accolto la tesi della risarcibilità del danno indiretto, purché rappresenti una conseguenza normale dell’illecito; il danno non occorre che sia ai sensi del 1223 c.c. necessariamente diretto, risultando agevole ricostruire il nesso di causalità anche all’interno dell’apparato amministrativo.
Con riferimento all’accertamento dell’elemento soggettivo, si è sottolineato che anche in caso di lesione di interessi legittimi è accertabile il dolo o la colpa dell’agente e la valutazione almeno potenziale da parte di quest’ultimo degli interessi individuali pregiudicati dal comportamento illecito.
Nonostante la giurisprudenza negasse una automatica responsabilità risarcitoria per lesione di interessi legittimi vi sono stati vari tentativi da parte della dottrina di fornire ricostruzioni che potessero abbattere tale dogma.
Si è sostenuto[107] che l’azione risarcitoria possa derivare non dall’atto illegittimo in sé considerato, ma dalla sua permanenza tra le norme di diritto. In tale modo si riteneva che nei casi in cui l’amministrazione non avesse eseguito il giudicato di annullamento sarebbe stata esperibile l’azione per il risarcimento del danno.
Ulteriore ipotesi di responsabilità[108] – la quale anticipava di svariati anni quelli che saranno gli approdi della giurisprudenza sulla responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione-, si riteneva configurabile quando il comportamento della p.a. fosse contrario al principio di buona fede e correttezza.
La dottrina piu attenta[109] era, perciò, concorde nel ritenere anacronistica la preclusione della risarcibilità degli interessi legittimi, tant’è che la prolificazione dei centri di produzione degli atti amministrativi e dei compiti, anche sociali, della pubblica amministrazione implicava una rivisitazione del concetto di responsabilità[110].
L’assetto normativo degli anni antecedenti all’intervento della Cassazione del 1999 si presentava, perciò, connotato da una forte lacuna sul piano della tutela giurisdizionale, essendo di immediata evidenza che il solo annullamento dell’atto amministrativo, nonostante la portata retroattiva della pronuncia demolitoria, non era sempre in grado di riparare il danno patito dal privato. Emblematico era il caso del privato che ricevuto il diniego di una licenza di commercio, una volta dichiarata illegittima, non avrebbe ricevuto la soddisfazione del proprio l’interesse, riconosciuto in ritardo.
La tesi dell’irrisarcibilità era tanto radicata che la giurisprudenza preferì trasformare la categoria degli interessi legittimi oppositivi in diritti soggettivi e quindi risarcirli. Tale trasformazione è avvenuta grazie alla tesi dei c.d. diritti afflievoliti, volendosi con tale termine indicare i diritti soggettivi che erano stati incisi e degradati ad interesse legittimo a causa di provvedimenti amministrativi.
La Cassazione ammise la possibilità di risarcire tali situazioni giuridiche soggettive sul presupposto che, una volta pronunciata la sentenza di annullamento, avente effetto retroattivo, il diritto degradato si sarebbe riespanso in un diritto soggettivo perfetto, capace di conoscere tutela risarcitoria innanzi al giudice per il periodo in cui è stato illegittimamente compresso.
In un primo momento la tecnica della degradazione era ritenuta applicabile ai c.d. diritti originari, ossia ai diritti perfetti (come il diritto di proprietà) incisi da un provvedimento amministrativo limitativo del suo esercizio.
La portata retroattiva della sentenza di annullamento avrebbe permesso la possibilità per il diritto compresso di essere nuovamente esercitato, ammettendosi l’azione risarcitoria per il periodo di illegittima degradazione.
Con riferimento ai diritti c.d. derivati (come ad esempio la concessione o le licenze di commercio), caratterizzati per la derivazione da un atto ampliativo della pubblica amministrazione, la giurisprudenza ha inizialmente negato la risarcibilità del danno dell’atto di ritiro del titolo abilitativo successivamente annullato, sul presupposto che tali tipologie di situazioni giuridiche fossero condizionate al perseguimento dell’interesse pubblico.
Anche in tale settore, tuttavia, si è registrata una graduale aperura, ritenendosi[111] che non vi fosse ragione per distinguere i diritti derivati (interessi legittimi pretesivi) dai diritti originari (interessi legittimi oppositivi[112]) poiché in entrambi casi si sarebbe trattato di diritti risolutivamente condizionati, ossia destinati ad affievolirsi[113] al verificarsi dell’esercizio del potere e a riespandersi con efficacia retroattiva dopo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo.
Seppur tramite il meccanismo dell’affievolimento e della riespansione, veniva superata la critica che sosteneva l’inutilità della questione risarcitoria grazie all’effetto retroattivo dell’annullamento dell’atto illegittimo. A ben vedere la questione si poneva nel momento in cui si evidenziava che l’efficacia ex tunc dell’annullamento non fosse idonea a soddisfare i pregiudizi che si erano realizzati nell’attesa dell’esito del giudizio. L’obbligazione risarcitoria non era riconosciuta per lesione dell’interesse legittimo, ma attraverso il meccanismo delineato per il diritto soggettivo.
Benchè le aperture della giurisprudenza fossero significative, risultava, ancora un principio fermo l’irrisarcibilità degli interessi legittimi.
L’evoluzione della tematica condusse la rigidità della posizione della giurisprudenza a mostrare ulteriori momenti di flessibilità[114]. Analizzando alcune fattispecie è possibile notare come, nonostante resti ferma l’enunciazione del principio in base al quale il danno è ingiusto solo quando lede un diritto soggettivo, i giudici pervennero a risarcire situazioni giuridiche diverse dai diritti. Nello specifico si trattò dei c.d. interessi legittimi di diritto privato[115], ossia quelle situazioni giuridiche che si sostanziano nella pretesa al raggiungimento di un interesse che può essere soddisfatto da un soggetto privato, ma negato da quest’ultimo. La realizzazione di tale interesse non è garantita dall’ordinamento, essendo, appunto, rimessa ad un altro privato; non è quindi protetta espressamente dall’ordinamento.
È evidente la differenza tra le due figure dell’interesse legittimo come interesse che dialoga con il potere e l’interesse legittimo di diritto privato che, invece, si rapporta con un potere privatistco.
Ciò che accomuna le due figure è, invece, la possibilità di qualificarle entrambe in negativo, come non appartenenti ai diritti soggettivi. La giurisprudenza, tuttavia, escluse il risarcimento degli interessi legittimi in quanto non qualificabili come diritti soggettivi, ma ammise la risarcibilità di situazioni diverse dai diritti soggettivi come, appunto gli interessi legittimi di diritto privato.
In altri termini si vuole mettere in evidenza la tendenza della giurisprudenza ad allargare, in taluni casi, la nozione di ingiustizia del danno, permettendo l’ingresso di situazioni giuridiche minori, gradualmente abbattendo l’impostazione che trovava proprio nel 2043 c.c. la preclusione dalla risarcibilità degli interessi legittimi.
L’interpretazione estensiva del filtro dell’ingiustizia del danno non coinvolse solo gli interessi legittimi di diritto privato, ma registrò un’apertura anche con riferimento all’aspettativa, al potere di godimento o allo status[116].
Una ulteriore tendenziale apertura verso la riconoscibilità della tutela aquiliana per lesione di interessi legittimi è stata dovuta a determinati interventi normativi[117], che rappresentano i primi elementi che porteranno la giurisprudenza al riconoscimento della responsabilità da lesione di interessi legittimi.
La direttiva 89/665/CEE incidendo su situazioni giuridiche aventi rango di interessi, in tema di appalti pubblici, ha imposto agli Stati membri di introdurre forme di tutela adeguata per i danni subiti in violazione del diritto comunitario. L’ordinamento italiano ha recepito tale direttiva con la l. n. 142 del 1992, stabilendo che i soggetti lesi a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in tema di appalti, lavori, servizi e forniture possono chiedere all’amministrazione il risarcimento del danno.
Occorre precisare che la direttiva non incise immediatamente sul sistema di responsabilità, in quanto la giurisprudenza, contrariamente alla parte maggioritaria della dottrina[118], individuava nella espressa previsione di risarcibilità degli interessi legittimi in uno specifico settore la conferma dell’eccezionalità del rimedio risarcitorio per gli interessi stessi; la regola continuava essere la non risarcibilità[119], ammettendosi eccezioni per espressa previsione legislativa.
Un’ulteriore indicazione in favore della risarcibilità degli interessi legittimi è giunta grazie alla l. n. 493 del 1993. L’art. 4, prevedeva che decorso inutilmente il termine previsto dalla legge, il responsabile del procedimento e il soggetto competente all’adozione del provvedimento rispondessero per i danni arrecati dal loro comportamento inadempiente.
Un ruolo decisivo è stato inoltre ricoperto dal d.lgs n. 80 del 1998 che all’art. 35 ammetteva la possibilità per il giudice amministrativo nelle materie di edilizia, urbanistica e servizi pubblici, di disporre il risarcimento del danno ingiusto[120].
Analoga spinta verso il risarcimento degli interessi legittimi fu data dalle pronunce della Corte di Giustizia che ha costantemente ribadito che gli ordinamenti nazionali devono rispettare e garantire il principio di effettività della tutela. Si è affermato non solo che per le situazione giuridiche soggettive tutelate dal diritto comunitario devono essere garantite forme di tutela equiparabili a quelle nazionali e in concreto non eccessivamente difficoltose da esercitarsi, ma che la tutela risarcitoria è lo strumento di protezione riconosciuto dal diritto europeo. Non conoscendosi la differenza tra diritti soggettivi e interessi legittimi in ambito sovranazionale, la risarcibilità degli interessi legittimi era stata già affermata dalla Corte di Giustizia[121].
L’irrisarcibilità degli interessi legittimi è stata definitivamente superata dalla nota sentenza n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione. La Corte ha ribaltato le critiche che avevano fino a quel momento ostacolato la risarcibilità, aderendo alle posizioni della dottrina favorevole.
Con riferimento all’art. 2043 del c.c. si è chiarito che la clausola dell’ingiustizia che si riferisce al danno intende sanzionare con l’obbligo di risarcimento tutte le condotte non iure. L’illecito aquiliano trova il suo ambito di applicazione in tutti i danni non iure, ossia privi di una norma che autorizzi o facoltizzi un determinato comportamento, sicché la disposizione ha carattere atipico riferendosi non alla sola lesione di diritti soggettivi, ma a tutte le situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela e protezione.
L’art. 2043 c.c. non è una norma secondaria, ossia rivolta a sanzionare la violazione di norme primarie, ma anch’essa norma primaria volta a fornire un rimedio al danno subito.
L’enumerazione degli interessi meritevoli di tutela non è possibile, ma sarà il giudice a dover dare attuazione alla clausola dell’ingiustizia del danno, volutamente atipica, comparando l’interesse del danneggiante e quello del danneggiato. Nel caso di contrapposizione tra interessi del privato e interessi della pubblica amministrazione occorre osservare che quello pubblico può prevalere rispetto a quello privato solo se il suo esercizio è conforme ai principi di legalità della p.a.
Chiarito che la norma sulla responsabilità ha funzione di riequilibrio del danno illegittimamente subito dal danneggiato, prescindendo dalla dignità della qualificazione giuridica soggettiva, risulta superata la tesi che nega la risarcibilità fondandola proprio sull’art. 2043 c.c.
La lesione dell’interesse legittimo non è tuttavia da sola sufficiente ad ottenere il risarcimento del danno, risultando necessario che sia leso anche il bene della vita[122] al quale il soggetto tende.
Si nega perciò un’automatica conseguenza risarcitoria dovuta all’illegittimità dell’atto amministrativo lesivo, richiedendosi che sia compresso illegittimamente il bene della vita correlato all’interesse del soggetto.
Dal punto di vista processuale si è osservato che l’azione risarcitoria fosse proponibile innanzi al giudice ordinario, coerentemente con i poteri attribuiti dalla legge a tale giudice. Ottenuto l’annullamento dell’atto amministrativo poteva perciò essere esercitato il diritto al risarcimento del danno.
Un definitivo assestamento del sistema di responsabilità della pubblica amministrazione si è avuto con l’estensione della competenza a risarcire il danno, oltre che alla giurisdizione esclusiva, anche alla giurisdizione di legittimità tramite la legge 205 del 2000, ossia ben centotrentacinque anni dopo l’ingresso degli “affari non ricompresi nell’articolo precedente” nel nostro ordinamento.
Antonio Vincenzo Castorina
[1]L’emersione dei diritti fondamentali impongono sia obblighi che divieti all’esercizio del potere, infatti, si ritiene che con la soggezione del diritto alla tutela e realizzazione del paradigma della democrazia costituzionale, viene meno anche la presunzione di regolarità degli atti compiuti dal potere Cfr. L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali: un dibattito teorico, Laterza, Bari, 2001, p. 18 e ss.
[2] Se da un lato l’affermazione del principio di separazione dei poteri ha sottratto il sindacato del giudice ordinario sull’attività amministrativa, inteso come ingerenza nel potere esecutivo, dall’altro ha permesso la creazione di un sistema interno alla stessa amministrazione, composto dai tribunali del contenzioso amministrativo. Nell’ordinamento francese esso si componeva dei Consigli di Prefettura a livello locale e nel Consiglio di Stato a livello centrale.
[3] Negli ultimi anni del 1700 il potere viene assunto dalla borghesia che governa assieme al monarca, il quale è fortemente limitato dalla presenza di documenti costituzionali. In tal senso giova richiamare la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America emanata dal Congresso di Filadelfia nel 1776: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness“in T. MARTINES, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2005 p. 122.
[4] L. TORCHIA, La responsabilità della pubblica amministrazione, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di Cassese, II, Milano, 2000, p. 1649 e ss .
[5]A.V. DICEY, Introduction to the study of the Law of the Constitution, London, Macmillan, 1961, p 328.
[6] G. MANTELLINI, Lo Stato e il codice civile, I, Firenze, 1880, p. 130.
[7] G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1940, p. 377e ss.
[8] L.MANNORI B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Laterza, 2001, p. 225 e ss.
[9] A. CICCONE, Elogio storico di Giovanni Manna, Napoli, 1867.
[10] G. MANNA, Il diritto amministrativo del Regno delle Due Sicilie Saggio teorico storico e positivo, Napoli, 1840, p. 431.
[11] In tal senso giova ricordare che a Napoli era stata istituita la Regia Camera della Sommaria che svolgeva funzioni di tribunale amministrativo della monarchia meridionale. L’invasione napoleonica permise, tuttavia, l’introduzione in Italia degli istituti del contenzioso amministrativo vigenti in Francia. Nel 1805 vennero creati, similmente al sistema francese, il Consiglio di Stato e i Consigli di Prefettura. Cfr. M. SALVATI, La formazione degli atti della pubblica amministrazione borbonica negli anni della Restaurazione, in Studi in memoria di Nino Cortese , Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1976, p. 468.
[12] Il termine “tribunale” non deve essere inteso come organo dotato di potestà giurisdizionale, dovendosi invero fare riferimento ad organismi dell’amministrazione, di derivazione regia, dotati di poteri nei confronti di talune tipologie di atti amministrativi.
[13] In tal senso per una completa ricostruzione del sistema di giustizia prima dell’unificazione del Regno d’Italia Cfr. A. ROMANO, Commentario breve alla giustizia amministrativa, Padova, 2001, p. 5 e ss.
[14] F. G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Giappichelli, Torino, 2009, p. 4.
[15] Nel regno di Sardegna dal 1842 furono attribuite ai Consigli di Interdenza le funzioni di giudici ordinari del contenzioso amministrativo, le cui decisioni erano appellabili alla Camera dei Conti.
[16] E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova, 1957 p. 46.
[17] Particolarmente vasta era la competenza dei Tribunali del contenzioso amministrativo, i quali collocandosi nell’organizzazione del potere esecutivo non fornivano le medesime garanzie di indipendenza, indispensabili per l’esercizio del potere giurisdizionale.
[18]I. RIGNANO, Diritto pubblico interno della Toscana, Firenze 1857, p. 157.
[19]Lo Stato conservava la sua sovranità, legittimata dal popolo, divenendo, perciò, organo di tutela dei valori riconosciuti all’individuo. L’interesse pubblico si era spostato dalla volontà del sovrano alla tutela della estrinsecazione dei diritti del popolo. Il cittadino diventava, perciò, l’oggetto di tutela dello Stato, non potendo ricevere indebite compressioni delle sue prerogative da soggetti terzi o dallo stesso Stato.
[20]L’amministrazione risultava necessaria a rafforzare un senso di appartenenza allo Stato ancora debole, tuttavia, allo stesso tempo i tribunali del contenzioso amministrativo presentavano non poche criticità sia per ragioni di indipendenza che di forme di tutela dei cittadini.
[21]Tale modello non individuava nella pubblica amministrazione un soggetto a cui dover applicare un diritto speciale e una giurisdizione diversa da quella ordinaria. L’emersione di poteri capaci di incidere unilateralmente nella sfera dei destinatari non fu accompagnata da strumenti specifici di tutela. Occorre tuttavia precisare che vennero istituiti i “justices of the peace”, con competenza di carattere locale. In ultima istanza, le controversie in cui era parte l ’amministrazione venivano attribuite al tribunale ordinario. Cfr. E. MAROTTA, La giustizia amministrativa in Inghilterra, a cura di G. RECCHIA, Ordinamenti europei di giustizia amministrativa, Cedam, Padova 1996, 654 ss.
[22] Si tratta del modello monistico con prevalenza del giudice ordinario ispirato ad una differente visione del liberalismo. Tale scelta è stata storicamente interpretata come reazione al sistema dualistico imposto dalla Francia. Cfr. G. SANTANIELLO, Trattato di diritto amministrativo, vol XXV, Padova, 1996, p.481.
[23] La guerra contro l’impero austro-ungarico del 1866.
[24] Cfr F. BENVENUTI, Mito e realità nell’ordinamento amministrativo italiano, in Unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti, Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, Neri Pozza, 1968, p. 1174
[25] La legge rappresentò la scelta di un’organizzazione della giustizia amministrativa nel nuovo Stato Italiano, nello specifico “di un’organizzazione, anziché dell’organizzazione, perché si abbia ben presente che essa rappresentò una scelta tra quelle possibili, e che tale scelta potrebbe anche non essere stata quella adatta”. L’Italia pre unitaria si caratterizzava per un pluralità di esperienze giuridiche nei vari Stati che la componevano. Il Sistema del contenzioso esisteva, infatti, in Piemonete, Lombardia, Marche e nel Regno di Napoli; diversamente il Sistema di giurisdizione unica era presente in Toscana, Romagna, Umbria Cfr G. MIELE, La giustizia amministrativa, in Atti del congresso celebretivo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, Neri Pozza editore, 1968, p. 11
[26]Con l’espressioni “diritto civile e politico” si intendeva ricomprendere tutto ciò che riguardasse i diritti di famiglia e di proprietà disciplinati dal codice civile e la facoltà del cittadino di partecipare all’esercizio del potere pubblico.
[27]L’art. 4 della legge abolitrice del contenzioso si ritiene essere stato ripreso dall’art. 107 della Costituzione belga, il qual recita “Le Corti ed i tribunali non applicheranno gli ordini ed i regolamenti generali, provinciali e locali, se non in quanto saranno conformi alle leggi”.
L’art. 4 testualmente prevede che: ”Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.
L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”.
[28] Per la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive diverse dai diritti soggettivi occorrerà attendere la riforma del 1889 con cui venne istituita la IV sezione del Consiglio di Stato. Per una attenta analisi dell’iter legislativo Cfr. A. ZITO, La legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato ed i relativi problemi giuridici nelle relazioni del procuratore generale presso la cassazione, in Dir. Proc. Amm., 1990, p. 315 e ss.
[29] Art 12 L.A.C.: “Con la presente legge non viene fatta innovazione né alla giurisdizione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato in materia di contabilità e di pensioni, né alle attribuzioni contenziose di altri corpi o collegi derivanti da leggi speciali e diverse da quelle fin qui esercitate dai giudici ordinari del contenzioso amministrativo.”
[30] Cfr il progetto di legge Peruzzi 29 maggio 1863 in Atti parlamentari, Camera dei Deputati. Sessione 1863-64 II ed. Documenti n.9.
[31] Il carattere parziale della riforma apparve evidente, in quanto la circoscrizione ai soli diritti soggettivi portava ad una incompleta tutela giurisdizionale Cfr. F. SCOCA, Giustizia amministrativa, op. cit., p.5.
[32] Per un approfondimento delle varie decisioni Cfr. R. CARANTA, La responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, in Responsabilità Civile e Previdenza, Giuffrè, Milano, 1993 p. 7 e ss.
[33] C.F. GABBA, Dalla responsabilità civile dello Stato per danno dato ingiustamente ai privati da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro attribuzioni, Fano, 1881 p.10.
[34] In tal senso è particolarmente rilevante il contributo di MANTELLINI, Stato e Codice Civile, I, p 59 e ss; GIORGI, Teoria delle obbligazioni, Torino, 7ma ed. 1909, p. 558 e ss.
[35] Distinzione introdotta da Bonasi per restringere la categoria degli atti di imperio Cfr. A. BONASI, La responsabilità dello Stato per gli atti dei suoi funzionari, Riv. It. sc. I, 1886.
[36] Per una completa analisi delle varie tesi sostenute Cfr. G. REBUFFA, La formazione del diritto amministrativo in Italia, Mulino, 1981, p. 135 e ss.
[37]Alla base della difficoltà di riconoscere l’amministrazione come responsabile si pongono anche ragioni di carattere economico, in quanto l’attività amministrativa spesso sposta equilibri ed interessi economici provocando pregiudizio per i privati. Riconoscendo l’impossibilità di mantenere confini immutabili ai rapporti economici privati l’autore individua una mobilità pienamente legittima se derivante dall’azione amministrativa Cfr. MANTELLINI, Lo Stato e il codice civile, I, Firenze, 1880, p. 65.
[38] Per una analisi critica delle varie teoria che escludevano la responsabilità della pubblica amministrazione Cfr ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Giuffré, Milano, 1939, p. 57 e ss.
[39] MEUCCI, Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 1892, p. 175 e ss.
[40] Il termine sovranità può essere inteso in una molteplicità di significati: come capacità dello Stato di porsi come soggetto all’interno dell’ordinamento, come idoneità ad essere titolare di posizioni giuridiche ed infine come soggetto capace di modificare la sfera giuridica propria ed altrui.
[41] F BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo, V Ed, Padova, Cedam, 1987, p. 27 e ss.
[42] Suddivisione nata in Inghilterra ad opera di Montesquieu che elabora il principio grazie al quale ogni funzione materiale deve essere attribuita ad un Potere indipendente dall’altro.
[43] RANELLETTI, Pricipi Dir. Amm. I, p. 397.
[44] Esiste anche una ragione di carattere pratico a fondamento della equiparazione della pubblica amministrazione ad un soggetto privato nello svolgimento dell’attività di gestione. È evidente che nessun privato contrarrebbe con la pubblica amministrazione nell’ipotesi in cui fosse sicuro che in caso di inadempimento non potrebbe adire il tribunale per ottenere il risarcimento del danno subito. Si ritenevano, altresì, non condivisibili le tesi che limitavano la responsabilità della pubblica amministrazione per danni derivanti da attività sociale della pubblica amministrazione o nel caso di danni derivanti da attività statuali in cui è presente l’interesse economico dell’ente pubblico. Cfr. R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Giuffre, Milano, 1930, p. 47.
[45] Art. 1151: “Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno agli altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto a risarcire il danno”; Art. 1152: “Ognuno è responsabile del danno che ha cagionato non solamente per un fatto proprio, ma anche per propria negligenza o imprudenza”; Art. 1153: “Ciascuno parimente è obbligato non solo per danno che cagiona per fatto proprio, ma anche per quello che viene arrecato col fatto delle persone delle quali deve rispondere, o colle cose che ha in custodia (..).
[46]Ulteriore conferma della tesi della responsabilità della pubblica amministrazione è rinvenuta anche nella L.A.C., che prevede la comparizione della pubblica amministrazione “comunque interessata” in qualità di convenuta davanti al giudice ordinario. Da tale considerazione deriva che, pronunciandosi il giudice ordinario sulla responsabilità di colui che ha violato il diritto soggettivo, emerge la configurazione di una responsabilità dell’amministrazione “comunque cosiderata” per l’attività di diritto pubblico. Il fondamento della responsabilità rimane tuttavia la norma del codice civile, norma di carattere generale applicabile anche alla p.a. Cfr. R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Giuffre, Milano, 1930, p. 53.
[47] Cfr. GIAQUINTO, La responsabilità degli enti pubblici, vol 3, S. Maria C. V, 1912, p. 216.
[48] ROMANO, Corso di diritto amministrativo, 1932, p. 312.
[49] Cfr. CAMMEO, Comm., p. 813.
[50] R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1939, p. 53 e ss.
[51] PRESUTTI, Isitutzioni di diritto amm. italiano, Messina, 1933, p. 67.
[52] Dal luglio del 1865 all’aprile del 1877 furono sollevati 500 conflitti di attribuzione, dei quali solo 111 furono attribuiti al tribunale ordinario. In seguito all’istituzione del sistema monista la resistenza a sottoporre gli atti amministrativi al controllo giurisdizionale era radicata, tant’è che anche dopo la legge n. 3761 del 1877, la quale attribuiva alla Cassazione la competenza a dirimere i conflitti di attribuzione, si continuava a riconoscere al giudice ordinario competenza prevalentemente per l’attività di diritto privato della p.a. Cfr. MANTELLINI, I conflitti di attribuzione in Italia, Firenze, 1978, p. 33.
[53] B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale. La formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, Giuffre`, 1985, p. 190-191.
[54] Il periodo che va dal 1865 al 1915 coincise con una forte espansione del diritto amministrativo che corrispose con l’avanzamento industriale del Paese Cfr S. CASSESE e G. MELIS, Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880-1920), in Riv. trim. dir. pubbl., 1990, p. 333 ss.
[55] Celebre è il discorso di Spaventa pronunciato il 7 maggio 1880 di cui si riporta un significativo estratto “Ho creduto poter provare come l’abolizione dei tribunali amministrativi, da noi fatta nel 1865, non risolvé punto questo problema, col sistema di sottoporre alla autorità giudiziazia ordinaria tutte le controversie giuridiche dell’amministrazione. Che, anzi, per alcuni rispetti, ha aggravato la condizione delle cose, cosí per se stessa come col lasciar aumentare con leggi speciali, pubblicate contemporaneamente, il potere discrezionale dell’amministrazione pura, e abbandonando a questa tutt’i rapporti di diritto pubblico con le amministrazioni locali. Vi ho esposto le conseguenze di questo sistema e la condizione presente delle nostre principali amministrazioni sotto il punto di vista del grado di garentia giuridica che vi si riscontra: il cui difetto predominante nella pratica della polizia preventiva si riverbera su tutte le altre sfere amministrative. Ho soggiunto che a questi disordini del nostro diritto pubblico non è rimedio sufficiente la responsabilità politica dei ministri; ma vi occorre un riordinamento della giurisdizione amministrativa, come si fa oggi dappertutto, e massime in Germania, il cui movimento legislativo in proposito brevemente vi ho descritto, accennando ciò che, senza sconvolgere le nostre amministrazioni, da noi si può fare, allo stesso scopo, con poche riforme nelle attribuzioni del Consiglio di Stato e col perfezionamento di altri organi della giurisdizione amministrativa attuale, colla legge della responsabilità degli amministratori e con quella sullo stato degli impiegati” in S. SPAVENTA, La politica della Destra. Scritti e discorsi, Laterza, Bari 1909,pp. 53 e ss; M. NIGRO, Silvio Spaventa e la giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., XX, 1970, p. 715e ss; PUBUSA, Il dibattito dottrinale prima delle leggi 1889-90, in Le riforme crispiane, Milano, 1990, p. 234.
[56] In Belgio una piu marcata distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi si registrò solo al momento della attribuzione al Consiglio di Stato di maggiori competenze a partire dal 1946 Cfr GIRON, Droit administratif de la Belgique, Bruxelles, 1881, Vol I.
[57] Per il riconoscimento della natura giurisdizionale si aspettò il 1907 con la legge n. 62. Occorre evidenziare che prima di tale data furono le Sezioni Unite nel fissare il criterio di riparto tra giudice ordinario e competenze della Quarta Sezione del Consiglio di Stato a permettere il mutamento di quest’ultima da organo amministrativo a giurisdizionale.
[58] Per una ricostruzione del sistema di giustizia amministrativa Cfr. F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Seconda ed., Giappichelli, Torino, 2006 , p. 3 e ss.
[59]Cfr. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 1998, p. 16.
[60] Ciò spiega anche la sottrazione dell’atto politico al sindacato del giudice amministrativo, poiché si riteneva non ammissibile un giudizio volto a difendere l’amministrazione dal potere politico nel caso in cui il fine dell’atto fosse proprio quello di realizzare il potere, non avvertendosi l’esigenza di legalità, rivolta, invece, agli atti amministrativi.
[61] Nel periodo tra il 1890 e il 1915 si può registrare una radicale cambiamento nel diritto amministrativo nazionale, grazie allo sviluppo dei servizi pubblici. La legislazione dell’epoca si caratterizza per regolare fenomeni fino ad allora trascurati. In particolare lo Stato estese il proprio ambito di intervento, utilizzando strumenti compatibili con i vari interessi che di volta in volta venivano in rilevo nei vari settori. Si possono, quindi, rilevare tre aspetti ricorrenti nella legislazione dell’epoca: la tendenza a riconoscere la diversità di situazioni e rispondere in modo differenziato; la presenza di vari testi normativi di carattere tecnico; la scelta di affidare gli interventi speciali a soggetti periferici rispetto ai Ministeri. Ovviamente in tale contesto il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale fu proclamata nel 1907, ebbe un ruolo di primo rilievo nella interpretazioni del quado normativo che si andava consolidando. Cfr M.S. GIANNINI, Problemi dell’amministrazione delle regioni insufficientemente sviluppate, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, p. 552; G. LANDI, La funzione consultiva del Consiglio di Stato: passato, presente e futuro, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1981, p. 1283
[62] Tra le principali legislazioni dell’epoca si può ricordare: la legge sul pubblico impiego (1923), i testi unici sulla pubblica sicurezza (1931), testo unico sulla previdenza (1935), la legge sull’edilizia popolare ed economica (1938), la legge urbanistica (1942). Tra il 1922 e il 1942 nacquero, inoltre, 350 enti pubblici, dando luogo ad un fenomeno di contatto tra interessi pubblici, fino a quel momento non considerati tali in numerosi settori, ed interessi privati. Cfr G. MELIS, Il diritto amministrativo tra le due guerre, in AA.VV., Il diritto amministrativo negli anni Trenta Bologna, Il Mulino, 1992, p. 22 e ss.
[63] Cass. Civ. 25 luglio 1940, in foro.it, 1940, I, c. 1148.
[64] D.P.R. n. 3 del 1957, T.U. sugli impiegati civili dello Stato, art. 19.
[65] Nell’ordinamento francese con il famoso arret Blanco del 1873 si afferma la natura speciale della responsabilità della pubblica amministrazione. Cfr G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo , Giapichelli, Torino, 2013, p. 418. In Inghilterra è con il Crown proceedings Act che supera il principio The king can do no wrong, Cfr. CASSESE, Trattato di diritto amministrativo, La costruzione del diritto amministrativo: Francia e Regno unito, Giuffrè, Milano, 2003 e pag 55; Medesimo ruolo ha svolto il federal tort claims act del 1946 per quanto riguarda gli Stati Uniti e il Reichsbeambenhaftungsgesetz del 1910 e successivamente il paragrafo 131 della Costituzione di Weimar per la Germania.
[66] ESPOSITO, La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici secondo la Costituzione, Padova, 1954, p. 341.
[67] Cfr. M. BENVENUTI, Commento all’art. 28 Cost., in AA. VV, a cura di R. BIFULCO-CELOTTO-OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, p. 58; MERUSI- CLARICH, Commento all’art. 28 Cost., in AA.VV., Commentario alla Costituzione. Rapporti civili, Roma-Bologna, 1991, p. 356
[68] ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1958, p.344.
[69]A. COLZI, In tema di responsabilità dello Stato ex art. 28 della Cost, In foro.it 1951, IV, p. 171 e ss.
[70] CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, 261.
[71] CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, op. cit.
[72] La pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere anche laddove una responsabilità del dipendente non sorge. Nello specifico l’amministrazione può essere chiamata a risarcire il danno anche quando la condotta del dipendente sia esente da responsabilità, ossia nei casi di colpa lieve. Cfr. Cass. S.U. 20 gennaio 1964 n. 126.
[73] ALESSI, La responsabilità della p.a., Milano, 1951, p.178 e ss.
[74] Di seguito si riportano l’art. 22 e 23 del T.U. degli impiegati civili dello Stato: Art. 22. Responsabilità verso i terzi: “L’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato.
L’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale agendo contro quest’ultimo a norma degli articoli 18 e 19. Contro l’impiegato addetto alla conduzione di autoveicoli o di altri mezzi meccanici l’azione dell’Amministrazione è ammessa solo nel caso di danni arrecati per dolo o colpa grave.”; Art. 23, Danno ingiusto : “È danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti.
La responsabilità personale dell’impiegato sussiste tanto se la violazione del diritto del terzo sia cagionata dal compimento di atti od operazioni, quanto se la detta violazione consista nell’omissione o nel ritardo ingiustificato di atti od operazioni al cui compimento l’impiegato sia obbligato per legge o per regolamento.”.
[75] SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, II, 13a ed. Napoli, 1982, p. 1020 e s.; G. DUNI, Lo Stato e la responsabilità patrimoniale, Milano,1968, p. 185 e ss.
[76] CLARICH, La responsabilità civile della pubblica amministrazione nel sistema italiano, in Riv. Trim Dir. Pubb., 1989.
[77] Più nello specifico si fa riferimento ad attività personale, viziata da incompetenza assoluta o compiuta dolosamente in violazione di norme proibitive.
[78]CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, op. cit.
[79] Cfr. GARRI, La responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1995, p. 6.
[80] S. CASSESE, Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, p.528 e ss.
[81] D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23.
[82] Il rapporto di immedesimazione organica, il quale induce a trovare il fondamento e la disciplina della responsabilità amministrativa nell’art. 2043 c.c., non implica che, in talune specifiche ipotesi, non si possa riconoscere il fondamento della responsabilità dell’art. 2049 c.c. Per una analisi di tale possibilità Cfr. A PIAZZA, Responsabilità civile ed efficienza amministrativa, Giuffrè, Milano, 2001, p. 22 e ss.
[83] Il danneggiato può proporre l’azione di risarcimento contro il dipendente o la p.a. Cfr. Cass, 5 gennaio 1979 n. 31; Cass. 29 gennaio 1964 n. 223.
[84] S.U. Cass, n. 2700 del 1970; Cass. n. 7631 del 1865; Cass. n. 9935 del 1993; Cass. Sez. III, n. 15930 del 2002.
[85]In in tal senso sono chiare le indicazioni della Cassazione, la quale chiarisce che “La pubblica amministrazione risponde quindi immediatamente e direttamente (e non indirettamente, per rapporto institorio) per i fatti illeciti dei suoi funzionari e dipendenti – secondo un’accezione onnicomprensiva – quali che siano le mansioni espletate (di concetto o d’ordine, intellettuali o materiali). L’art. 28 della Costituzione, invero, non ha inteso immutare la natura della responsabilità diretta dell’amministrazione e sanzionare il principio della responsabilità indiretta, non riferibile istituzionalmente alla p.a., ma ha solo voluto sancire accanto ad essa quella propria degli autori dei fatti lesivi delle situazioni giuridiche altrui. Perché ricorra tale responsabilità della p.a. non basta, ovviamente, il semplice comportamento lesivo del dipendente; deve sussistere, infatti, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso.” Cass. Sez, II, 4 maggio 2000, n. 10803 in dejure.it in V. TENORE, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Giuffrè, Milano, 2010, p. 8.
[86] Cfr Cass. 17 settembre 1997, n. 9260; 6 dicembre 1996 n. 10896; Cass. 13 dicembre 1995 n. 12786, Cass. 7 ottobre 1993 n. 9935, Cass. 3 dicembre 1991 n. 12960.
[87] S. CASSESE, Dizionario di diritto pubblico, vol. V Giuffrè, Milano, 2006, p. 5126.
[88] G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Sesta ed., Giappichelli, Torino, 2013 p. 421.
[89] Per un approfondimento del rapporto tra responsabilità e buon andamento dell’amministrazione Cfr MERCATI, Responsabilità amministrativa e principio di efficienza, Torino, 2002; p. 301.
[90] Cfr: GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 1963, p.100; PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, Milano, 1962, p. 233 e ss.
[91] G. MIELE, La giustizia amministrativa, In Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Neri Pozza, I, Vicenza, 1968, P.31; GIANNINI-PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enc. Dir. XIX, Milano, 1970, p.261.
[92] Per una analisi critica dei risultati a cui ha condotto la legge abolitrice del contenzioso amministrativo. Cfr. G. MIELE, La giustizia amministrativa, op. cit, p. 11 e ss.
[93] Cfr BENVENUTI, Mito e realità nell’ordinamento amministrativo italiano, in Unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti, Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Neri Pozza,Vicenza, 1968, p. 2015.
[94] A tali difficoltà si aggiungevano le scarse garanzie in ordine contraddittorio, all’istruttoria e al contenuto della decisone. Era inoltre escluso il potere di condannare all’adempimento dell’obbligazione patrimoniale ed agli eventuali danni subiti.
[95] Per una completa analisi dell’evoluzione della nozione dell’interesse legittimo Cfr. E. CANNADA BARTOLLI, Il diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1953, p. 334; B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale: la formazione della nozione di interesse legittimo, 1985, Milano, Giuffrè; F. SCOCA, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Collana di studi giuridici Luiss, 1990, Milano, Giuffrè; F. LEDDA, Agonia e morte ingloriosa dell’interesse legittimo, in Il Sistema della giustizia amministrativa dopo il decreto legislativo n. 80/98 e la sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 500/99 : atti dell’Incontro di studio svoltosi a Roma, Palazzo Spada, 18 novembre 1999, Milano, Giuffrè, 2000, p. 263; M S. GIANNINI, Scritti, Giuffrè, 2006, p. 28.
[96] La tematica della risarcibilità degli interessi legittimi è stata oggetto di attento approfondimento da parte della dottrina Cfr. SATTA, Responsabilità della pubblica amministrazione, in Enc, Dir., vol 39, 1988, p. 1369; CARANTA, Responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi e diritto comunitario, in Riv. It. dir. pubbl. communit., 1991, p. 1081; TASSONE, Ancora sul risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, in Giur. it., 1992, p. 303; FRANZONI, Risarcimento per lesione di interessi legittimi, in Contr e impr.,1993 p. 274; ADORNO, Il risarcimento del danno cagionato dalla pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 1994, p. 87.
[97] Celebre è l’espressione di Nigro che definisce “pietrificata” la giurisprudenza sull’irrisarcibilità degli interessi legittimi Cfr. NIGRO, Introduzione alla tavola rotonda di Roma del 24 aprile 1982 su “La responsabilità per lesione di interessi legittimi” in Foro amm. 1982, p. 1674.
[98] E. GUICCIARDI, Concetti tradizionali e principi ricostruttivi nella giustizia amministrativa, in Arch. Dir. Pubbl, 1937, p. 53.
[99] Per un approfondimento delle varie impostazioni Cfr M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 3a ed.; Bologna, 1983, p.129.
[100] Cass. S.U. n. 3183 del 1989.
[101] Cass. S.U. n. 5256 del 1987; Cass. S.U. n. 2041 del 1991; Cass. S.U. n. 303 del 1992.
[102] Cfr. SATTA, La lesione di interessi legittimi: variazioni giurisprudenziali sull’inammissibilità del risarcimento e principi comunitari, in Giur. it. 1993, p. 1795.
[103] M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, p. 96 e ss.
[104]R. SCOGLIAMIGLIO, Atti del convengo nazionale sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi, Napoli 1963, p. 327.
[105] Tesi oggi superata dal riconoscimento del risarcimento come strumento di tutela e non come diritto.
[106] La giurisprudenza considerava già danno ingiusto quello cagionato nei rapporti tra privati agli interessi legittimi di cui i singoli sarebbero titolari nei confronti dalle c.d. autorità private. Si è ammesso che, in materia di lavoro privato, in caso di esclusione illegittima da un concorso, il soggetto leso non sia titolare del diritto all’assunzione ma di un interesse legittimo di diritto privato. Cfr. RESCIGNIO, Gli interessi legittimi nel diritto privato, in Raccolta di scritti in memoria di A. Lener, Bologna, p.883.
[107] L. MONTESANO, Sulla riparazione dei sacrifici patrimoniali imposti da atti amministrativi illegittimi, In Foro Ital., 1963, IV, 41.
[108] M.S. GIANNINI, Atti del convengo nazionale sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi, Napoli 1963, p. 519.
[109] U. FRAGOLA, Osservazioni alla “introduzione al tema” del prof. Giovanni Miele, in atti del Convegno Napoli, 1963 p 167.
[110] In tal senso Nigro evidenziava che “l’autorità si è frantumata in mille centri: regioni comuni, enti compresori, consigli vari, unità sociali etc.. Essa è scesa dal suo elevano scanno spesso si è fatta addirittura impresa, in genere si è avvicinata al cittadino tecnicizzandosi e umanizzandosi… un problema di responsabilità della pubblica amministrazione, anzi delle pubbliche amministrazioni, al di fuori del ristretto ambito contrattuale, non scandalizza piu, in un ambiente politico e giuridico in cui la difesa della personalità dell’uomo e dei valori a questa connessi è l’altra faccia del pluralismo organizzativo” NIGRO, Trasformazione dell’amministrazione e tutela giurisdizionale differenziata, in Atti del XIII Convegno Nazionale fra gli studiosi del processo civile, Catania 28-30 Settembre 1979. La tutela giurisdizionale differenziata, Milano, 1981, p. 109.
[111] Cass. Sez. Un. 20 aprile 1994, n. 3732.
[112] La distinzione tra interesse alla conservazione del bene (interesse legittimo oppositivi) e al conseguimento di un bene (interesse legittimo pretensivo) deve essere ricondotta a Nigro, Cfr M. NIGRO, Giustizia amministrativa, op. cit. p. 113.
[113] O. RANELLETTI, Scritti giuridici scelti – II La giustizia amministrativa, Napoli, Jovene, 1992, p. 3.
[114] Cass. S.U., 2 novembre 1979 n. 5688 in Giur.it 1980, I, 440 e ss.
[115] M. BESSONE, Saggi di diritto civile, Milano, 1979, p.299 e ss.
[116] Cfr D. DE MARTINI, I fatti produttivi di danno risarcibile, Padova, 1984, p164.
[117] Il dibattito dell’epoca sulla risarcibilità degli interessi legittimi era acceso, tanto che si registra la proposta di legge n. 702 della XII Legislatura, conclusa nel nulla, la quale prevedeva, nel modificare l’art. 2043 del c.c., l’introduzione dell’inciso “è ingiusto anche il danno derivante da lesione di interesse legittimo” Cfr M. TUCCI, L’amministrazione tra pubblico e privato e il principio di legalità dall’antichità ai giorni nostri, Giuffrè, Milano, 2008 p. 299.
[118] CARANTA, Responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi e diritto comunitario, in Riv. It. dir. pubbl. communit., op. cit.
[119] Cfr Cass. S.U. n. 2667 del 1993 che espressamente chiarisce: “se il legislatore ha sentito la necessità di prevedere il risarcimento dei danni per lesione di posizioni giuridiche soggettive (…) riconducibili agli interessi legittimi, ciò significa che per questi ultimi, allo stato, non esiste in linea di principio tale tutela”.
[120] La norma pose tuttavia il problema del suo ambito di applicazione. Nello specifico ci si interrogò sulla possibilità di estendere la competenza risarcitoria a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva o circoscriverla alle materie indicate espressamente dalla legge che attribuiva tale potere.
[121] Corte di Giust. CE, C-6/90 e C-9/90 del 19 novembre 1991, Francovich; Corte di Giust. Ce, C-13/ 68 del 19 dicembre 1966, Salgoil, in www.curia.europa.eu.
[122] Numerose sono state le critiche alla pronuncia della Cassazione. In particolare si è evidenziato che il giudizio prognostico sul bene della vita risulta contrastante con la riserva amministrativa di valutazione e ponderazione dell’interesse pubblico. Nelle materie dotare di ampi spazi di discrezionalità la pronuncia del giudice amministrativo sul bene della vita rischierebbe di intromettersi nella valutazione spettante alla p.a. La logica della spettanza del bene della vita escluderebbe inoltre gli interessi di carattere procedimentale. Cfr SCOCA, Risarcibilità dell’interesse legittimo, in Dir. Pubbl., 2000, p. 37.