di Michela Colistro
Il presente contributo analizza la figura della società in house in chiave problematica.
Si esamineranno, dapprima, i requisiti dell’affidamento in house providing così come stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria.
Successivamente, l’oggetto si sposterà su determinate figure giuridiche che, in base a precise caratteristiche e finalità, sembrano presentare profili sovrapponibili, in particolare, in relazione alle problematiche, alla società in house.
SOMMARIO: 1.Cenni introduttivi. – 2. Il “controllo analogo”. – 3. Il requisito dell’”attività prevalente”. – 4. La partecipazione pubblica totalitaria. – 5. Il rapporto tra in house providing e organismo di diritto pubblico. – 6. Interferenze e problematiche tra in house e partenariati pubblico-privati. Sull’ammissibilità degli affidamenti diretti a società miste. – 7. Aspetti problematici dell’in house providing con riguardo al ricorso al modello societario. – 8. La golden share: profili comuni all’in house providing e prospettive di intervento. – 9. L’azienda speciale: prospettive future di un modello “ibrido”. – 10.Riflessioni conclusive
- Cenni introduttivi
Prima di introdurre l’oggetto principale della presente trattazione, e cioè il confronto tra società in house e figure c.d. “di confine”, è necessario chiarire cosa si intende per affidamento in house providing.
Si tratta di una forma di gestione di pubblici servizi nata nella giurisprudenza comunitaria con la sentenza Teckal al fine di individuare i casi in cui una pubblica amministrazione affida un servizio pubblico nei confronti di una società equiparabile, dal punto di vista sostanziale, a una propria articolazione (in house, infatti).
L’in house providing, dunque, è un affidamento effettuato in deroga alla normativa comunitaria in materia di contratti pubblici poiché non viene esperita alcuna gara pubblica per lo stesso. Infatti, secondo la Corte di Giustizia non deve applicarsi la normativa comunitaria qualora manchi una vera e propria relazione contrattuale fra due soggetti; in particolare, i giudici affermano che la procedura ad evidenza pubblica non deve essere svolta «nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano».
I requisiti fondamentali dell’in house providing sono i seguenti:
- controllo analogo;
- attività prevalente;
- partecipazione pubblica totalitaria.
Essi verranno esaminati nel dettaglio nei prossimi paragrafi.
- Il “controllo analogo”
Il primo requisito è rappresentato dal controllo analogo.
Esso viene definito all’art. 2, comma 1, lett. c) del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica come quella situazione in cui l’amministrazione esercita «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata».
Il controllo analogo si inserisce all’interno del potere di direzione e vigilanza appartenente all’ente pubblico e si manifesta tramite strumenti di diritto societario e di diritto pubblico: i primi, in particolare, garantiscono la tipologia e l’intensità del controllo richiesti per giustificare, appunto, l’esenzione dall’obbligo di gara pubblica. Essi si configurano nei patti parasociali e nelle clausole statutarie.
I patti parasociali, disciplinati, nel codice civile, agli artt. 2341-bis e 2341-ter, rappresentano accordi tra soci che permettono all’amministrazione di nominare i propri rappresentanti all’interno degli organi di gestione e controllo delle società e, di conseguenza, esercitare, con poteri speciali, la propria influenza nell’assemblea. I patti parasociali non sono opponibili erga omnes. Tale limitazione, pertanto, può essere superata con apposite clausole statutarie che, al contrario, potendosi opporre erga omnes, garantiscono ai soci una rilevante e piena ingerenza nella gestione della società stessa mediante poteri di direzione e controllo. È rilevante affermare che attraverso i patti parasociali si vuole raggiungere la stabilità del governo della società.
Ai sensi dell’art. 2341-bis del codice civile vengono indicati quali patti parasociali i sindacati di voto, di blocco e di concertazione.
I primi consistono in accordi regolanti l’esercizio di voto nell’assemblea, con essi, dunque, i soci si impegnano a votare ciò che è stato pattuito dalla maggioranza o dalla totalità di coloro che vi hanno aderito.
Tramite i sindacati di blocco, invece, le parti si obbligano a non cedere le proprie azioni o a farlo in presenza di determinate condizioni. La finalità di questa tipologia di accordi è la stabilizzazione degli assetti proprietari al fine di lasciare inalterata il complesso della società e scongiurare l’ipotesi di nuovi soci.
I patti di concertazione, infine, vincolano i soci a consultarsi tra di loro prima del voto in assemblea.
In aggiunta ai patti parasociali, sono state menzionate, altresì, le clausole statutarie.
Si tratta di accordi che, introdotti nello statuto di una data società, riservano ai soci una specifica ingerenza nella gestione della stessa società mediante poteri di direzione e di controllo.
Anche il diritto pubblico, oltre quello societario, offre strumenti che permettano di attuare il controllo analogo. Essi vengono individuati nel contratto di servizio e nel controllo strategico.
Il primo, definito ai sensi dell’art. 14, comma 1, del Regolamento n. 1893/1991, come un «contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato membro ed un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di trasporto sufficiente», nell’ordinamento italiano si impone, nella sfera dei servizi pubblici locali, come strumento dell’ente locale per esercitare il controllo nell’ambito delle modalità di erogazione del servizio.
Nel campo delle società in house il contratto di servizio è utile per garantire un controllo costante sull’attività tramite un sistema di controlli interni: il controllo di gestione e il controllo strategico sulle società partecipate dall’ente locale.
Il primo consiste nel «verificare l’efficacia, l’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati»; il controllo strategico, invece, presuppone la presenza di una struttura con il compito di «valutare l’adeguatezza elle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti».
Il controllo di gestione si articola, almeno, in tre fasi: predisposizione di un piano dettagliato di obiettivi; rilevazione di dati relativi a costi, proventi e risultati raggiunti; valutazione dei precedenti dati. L’ultima fase, ai sensi dell’art. 198 del D.L.gs. n. 267 del 2000, consiste nel fornire ««le conclusioni del predetto controllo agli amministratori ai fini della verifica dello stato di attuazione degli obiettivi programmati ed ai responsabili dei servizi affinché questi ultimi abbiano gli elementi necessari per valutare l’andamento della gestione dei servizi di cui sono responsabili».
Dunque, il controllo di gestione viene esteso anche agli erogatori di servizi pubblici quali le società in house. In tal caso, il contratto di servizio deve includere l’obbligo, a carico dell’affidatario, di garantire un controllo completo allo scopo di consentire all’amministrazione di verificare la gestione del servizio con riguardo agli obiettivi prestabiliti.
Il controllo di gestione è inteso come supporto alla dirigenza al fine di migliorare la performance gestionale, il controllo strategico, invece, supporta le funzioni di indirizzo politico.
Dopo aver esaminato i tratti caratteristici della nozione di controllo analogo, nel prossimo paragrafo verrà analizzata quella di attività prevalente.
- Il requisito dell’“attività prevalente”
Anche in questo caso sono i giudici comunitari che ne specificano i contorni affermando che «le condizioni in presenza delle quali, secondo la menzionata sentenza Teckal, la direttiva 93/36 è inapplicabile agli appalti conclusi tra un ente locale e un soggetto giuridicamente distinto da quest’ultimo, vale a dire che, al contempo l’ente locale eserciti sul soggetto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che il soggetto di cui trattasi svolga la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono, hanno, in particolare, lo scopo di evitare che sia falsato il gioco della concorrenza».
In altre parole, secondo la Corte di Giustizia, si parla di affidamento in house quando le prestazioni di una determinata impresa siano primariamente destinate all’ente locale che controlla la stessa impresa e le altre attività risultino residuali.
Fatta questa doverosa premessa, bisogna stabilire quando una data attività può essere considerata prevalente.
La risposta a tale interrogativo viene offerta dall’art. 5, comma 1, lett. b), del Codice dei contratti pubblici che, recependo le novità definite dalle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE, stabilisce che l’attività del soggetto affidatario in house è considerata prevalente qualora oltre l’80% delle attività dell’amministrazione controllata è esercitato nello svolgimento di compiti a esso affidati dalla stessa amministrazione o da altre persone giuridiche controllate dall’ente affidante.
La stessa disposizione prevede, altresì, che ai fini della determinazione della percentuale dell’attività prevalente occorre prendere in considerazione «il fatturato totale medio o una misura idonea alternativa fondata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione».
In assenza dei dati appena riportati, sempre l’art. 5, al comma 8, considera sufficiente «dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile».
Sulla base di quanto riportato fin ad ora, è chiaro che il requisito dell’attività prevalente, congiuntamente a quello del controllo analogo, avvalori l’appartenenza della società in house all’organizzazione dell’ente controllante.
Il terzo e ultimo requisito delle società in house è rappresentato dalla partecipazione pubblica totalitaria.
- La partecipazione pubblica totalitaria
Per lungo tempo è stato ritenuto che la presenza di capitale privato nel modello in house impedisse il soddisfacimento degli interessi pubblici che erano, invece, considerati, la principale finalità dell’affidamento in house.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito un’inversione di rotta.
Ad esprimersi su tale questione è stata, inizialmente, la Corte di Giustizia nel 2008 .
In tal sede, i giudici hanno osservato che «per quanto riguarda il secondo argomento esposto dalla Commissione, si deve rilevare che la possibilità per i privati di partecipare al capitale della società aggiudicataria, in considerazione in particolare della forma societaria di quest’ultima, non è sufficiente, in assenza di una loro effettiva partecipazione al momento della stipula di una convenzione come quella di cui trattasi nella presente causa, per concludere che la prima condizione, relativa al controllo dell’autorità pubblica, non sia soddisfatta. Infatti, per ragioni di certezza del diritto, l’eventuale obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere ad una gara d’appalto dev’essere valutato, in via di principio, alla luce delle condizioni esistenti alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi».
Sempre sulla scorta di tale ragionamento si è espresso, altresì, il Consiglio di Stato nel 2018 il quale, dopo aver ribadito che «le società in house possono ricevere affidamenti diretti di contratti pubblici da amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati», ha aggiunto «ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata».
Dunque, secondo i giudici amministrativi «il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e sono state consentite forme di partecipazione diretta di capitali privati ma a condizione che la partecipazione dei capitali privati sia prevista a livello legislativo, in conformità dei Trattati, e non consenta l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
- Il rapporto tra in house providing e organismo di diritto pubblico
Dopo aver analizzato i requisiti dell’in house providing, questo paragrafo introduce l’oggetto principale del presente elaborato: la sovrapposizione tra in house e alcune figure c.d. di confine.
Il primo confronto riguarda l’in house in relazione all’organismo di diritto pubblico.
Quest’ultima figura viene delineata dalla giurisprudenza comunitaria per evitare che gli Stati membri dell’Unione europea (e, più precisamente le amministrazioni pubbliche europee) potessero, tramite privatizzazioni meramente formali, eludere la normativa europea riguardante le procedure di affidamento dei contratti pubblici.
L’organismo di diritto pubblico trova oggi la sua collocazione normativa all’interno del codice dei contratti pubblici (D.L.gs. n. 50 del 2016), il quale, all’art. 3, comma 1, lett. d), specifica che trattasi di qualsiasi organismo, anche in forma societaria:
- istituito per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale;
- dotato di personalità giuridica;
- finanziato in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza, è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
In altre parole, poiché nei diversi stati membri convivono molteplici figure giuridiche con caratteristiche differenti, l’organismo di diritto pubblico è nato per rendere omogeneo l’accesso alla normativa europea dei contratti pubblici.
A questo punto, di seguito viene esplicitato il motivo per il quale è nato il paragone tra questa figura e l’in house providing.
L’Unione Europea non è mai intervenuta, attraverso direttive e regolamenti, per imporre agli Stati membri e, quindi, alle loro amministrazioni, di ricorrere al mercato per la gestione dei servizi pubblici; però, qualora loro decidessero di farlo, dovrebbero rispettare le norme poste a presidio della concorrenza dall’ordinamento comunitario per garantire la parità tra operatori.
Qualora un’amministrazione decidesse di erogare direttamente un servizio pubblico, la stessa adopererà l’in house providing: nella circostanza appena prospettata, poiché l’amministrazione affidante è, sostanzialmente, la medesima di quella che effettivamente svolgerà il servizio, essa non dovrà rispettare le regole di concorrenza.
Al di fuori di questo caso, quando un ente sceglie di ricorrere al mercato deve rispettare la parità imposta dall’ordinamento comunitario.
In primo luogo, nell’ambito delle differenze tra le due figure, appare chiaro che, mentre l’organismo di diritto pubblico individua i casi in cui si applica, appunto, la disciplina riguardante i contratti pubblici; l’in house providing, al contrario, delinea le ipotesi sottratte a tale disciplina. Dunque, mentre la prima figura sembra essere più estensiva, finalizzata ad ampliare la sfera dei soggetti tenuti all’espletamento delle procedure a evidenza pubblica, la seconda, risulta essere più restrittiva.
In secondo luogo, con riguardo alla società in house non è rilevante possedere una personalità giuridica, essendo sufficiente che possegga una soggettività giuridica diversa dall’amministrazione aggiudicatrice. Inoltre, per il soggetto in house risulta parimenti indifferente la modalità di svolgimento dell’attività, al contrario, invece, del legame tra amministrazione e in house provider.
L’unico elemento che sembra avvicinare società in house e organismo di diritto pubblico, qui si introduce la problematica vera e propria e, quindi, la possibile sovrapposizione tra le due figure, sembra essere l’incidenza del controllo pubblico nelle stesse: il controllo analogo nella prima, l’influenza pubblica dominante nella seconda.
A questo punto occorre analizzare i singoli elementi caratterizzanti le due tipologie di controllo.
Innanzitutto, l’influenza pubblica dominante è realizzata in presenza di tre fattori alternativi:
- il finanziamento pubblico maggioritario;
- il controllo pubblico sulla gestione;
- la nomina, in mano pubblica, di più della metà dei membri degli organi di amministrazione, di direzione e di vigilanza.
Cominciando dal primo, il finanziamento pubblico maggioritario, secondo quanto stabilito dai giudici comunitari, esso sussiste esclusivamente in presenza di erogazioni concesse da un ente aggiudicatore nello svolgimento della propria attività, il tutto privo di alcun vincolo sinallagmatico posto a carico del beneficiario. Infatti, a tal proposito, i giudici hanno osservato che «non tutti i finanziamenti erogati da un’amministrazione aggiudicatrice hanno per effetto di creare o rafforzare uno specifico legame di subordinazione o dipendenza. Soltanto le prestazioni che, mediante un aiuto finanziario versato senza specifica controprestazione, finanzino o sostengano le attività dell’ente interessato possono essere qualificate come “finanziamento pubblico”».
Tale orientamento è stato confermato, di recente, dai giudici amministrativi nazionali che il finanziamento pubblico maggioritario riguarda «corresponsioni di denaro o altre erogazioni concesse da altra amministrazione svincolate da un rapporto di corrispettività nei confronti dell’organismo beneficiario, nel senso che non devono costituire remunerazione di una prestazione specifica nell’ambito dei rapporti contrattuali».
La misura rilevante del finanziamento viene intesa come più della metà, risultante dalla totalità delle entrate, comprese quelle che derivano da attività commerciali.
Infine, il lasso temporale da considerare per la stima della prevalenza del finanziamento è l’esercizio finanziario annuale.
Con riguardo, invece, al secondo dei tre fattori indizianti l’influenza pubblica dominante, il controllo sulla gestione, i giudici del T.a.r. Liguria, nella medesima sentenza sopra riportata, hanno avvalorato «la sussistenza o meno di poteri pubblici (uno o più) che abbia ad oggetto la verifica della regolare tenuta dei conti e che la gestione avvenga secondo criteri di economicità, regolarità e razionalità, con la possibilità, inoltre, di esercitare una “influenza attiva” sulla gestione medesima, incidendo cioè sulle decisioni dell’Ente».
Infine, con riferimento alla designazione pubblica di più della metà dei componenti gli organi di direzione, amministrazione o vigilanza, occorre esaminare quanto emerge complessivamente dallo statuto. Nello specifico, la natura di organismo di diritto pubblico deve emergere non solo nello specifico momento dell’espletamento della gara pubblica, ma, soprattutto in relazione al profilo temporale poiché, pur essendo possibile una variazione della composizione dell’ente, non deve essere modificato il controllo in questione che, diversamente, farebbe diventare incerta la natura dell’ente stesso.
Dopo aver analizzato l’influenza pubblica dominante, è necessario fare un passo indietro e specificare meglio la nozione di controllo analogo.
La storica sentenza Teckal, con riferimento a tale nozione, ha stabilito che l’influenza esercitata dall’ente sulla società in house non deve essere identica a quella esercitata sui propri servizi, desumendosi, dunque, che sia sufficiente un’attinenza con quest’ultima.
Infatti, solo qualora un’amministrazione diventi autonoma al punto tale da porre l’ente aggiudicatore nell’impossibilità di far valere i propri interessi all’interno di essa, non potrà parlarsi di controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. A tal proposito, assumono rilevanza le conclusioni dell’Avv. Gen. Kokott nella sentenza Parking Brixen nella parte in cui osserva che «determinante è piuttosto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico. Solo quando un’impresa concretamente si emancipa (si rende autonoma) al punto da mettere l’amministrazione aggiudicatrice nell’impossibilità di far valere i propri interessi all’interno dell’impresa suddetta non si potrà parlare di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi».
Sul piano normativo nazionale, il Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica ha definito il controllo analogo, all’art. 2, comma 1, lett. c), come quella situazione in cui l’amministrazione esercita un’influenza determinante sia sugli obiettivi che sulle decisioni significative della società controllante. L’influenza è determinante allorché l’oggetto del controllo non potrebbe essere definito se l’amministrazione controllante non fosse d’accordo. È opportuno dire che viene considerata determinante tanto l’influenza che conforma in positivo un’azione, quanto quella che si manifesta come potere di veto.
Inoltre, sempre l’art. 2, sopra citato, stabilisce che l’influenza determinante deve interessare gli obiettivi strategici e le decisioni significative della società soggetta a controllo: i primi consistono in linee guida che l’organo amministrativo della stessa società dovrebbe perseguire per realizzare l’oggetto sociale di essa; le decisioni significative, invece, concernono materia di rilevanza fondamentale per la società.
Dunque, dopo aver specificato le nozioni di influenza pubblica dominante e controllo analogo, è necessario indicare in base a cosa si differenziano e perché non è possibile sovrapporre le due tipologie di controllo pubblico.
Ed invero, il controllo analogo sembra essere più pregnante e intenso rispetto all’influenza pubblica dominante poiché, il primo, facendo assumere all’amministrazione affidataria la natura di longa manus di quella controllante, si spinge ben oltre quanto richiesto, sotto il profilo del controllo, ai fini della configurazione della natura di organismo di diritto pubblico.
A ulteriore riprova di ciò è utile aggiungere che il controllo analogo si manifesta tramite il controllo sull’attività e il controllo strutturale: il primo si configura quando l’ente aggiudicatore è titolare del potere di indirizzo e direttiva e ha, altresì, facoltà di annullare o autorizzare gli atti più rilevanti della società; il controllo strutturale, riconosce all’amministrazione affidante il potere di nomina e di revoca della maggioranza dei componenti dell’organo di gestione, di amministrazione e di controllo e, quindi, risulta essere di gran lunga più intenso rispetto a quello chiesto per l’organismo di diritto pubblico.
- Interferenze e problematiche tra in house e partenariati pubblico-privati. Sull’ammissibilità degli affidamenti diretti a società miste
Nell’ambito della collaborazione tra pubblico e privato, il Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati e al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni, emanato dalla Commissione europea nel 2004, costituisce il punto di partenza.
In esso, infatti, è stato affermato che «il termine partenariato pubblico-privato (“PPP”) non è definito a livello comunitario. Questo termine si riferisce in generale a forme di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio».
La nozione di Partenariato pubblico-privato era contenuta all’art. 3, comma 15-ter, del D.L.gs. n. 163 del 2006, che definiva i contratti di partenariato come «contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti […]».
Con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, l’art. 3, comma 1, lett. eee), stabilisce che il partenariato è «il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell’ammortamento dell’investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connesso all’utilizzo».
Nel corso degli anni, l’in house providing è stato considerato un limite esterno al PPP, nel senso che, il primo, poggiandosi sull’internalizzazione di un dato servizio o di una data attività, rappresenta una riduzione degli spazi riservati alla libertà di concorrenza e, quindi, alle forme di PPP che costituisce, a sua volta, una modalità di attuazione di quegli appositi spazi.
In particolare, la maggiore problematica che ha investito i rapporti tra in house providing e PPP riguarda la società mista, rientrante nelle forme di PPP istituzionalizzati (i quali presuppongono la creazione di un organismo terzo, generalmente, appunto, una società di capitali a partecipazione mista), fortemente influenzata dalla giurisprudenza comunitaria in materia di in house providing.
Nello specifico, i giudici comunitari escludevano la presenza di controllo analogo qualora, nel capitare della società, partecipasse, anche in forma minore, un partner privato che, perseguendo una finalità diversa da quella propria della parte pubblica, non poteva conciliarsi con essa.
A riprova di ciò nella sentenza Stadt Halle si è affermato che «in conformità della giurisprudenza della Corte non è escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio ancorché la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Ciò si verifica nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano […]. Occorre ricordare che, nel caso sopra menzionato, l’entità distinta era interamente detenuta da autorità pubbliche. Per contro, la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi».
Riassumendo, secondo la giurisprudenza comunitaria, una società in house aperta alla partecipazione di capitale privato non poteva essere considerata quale struttura interna dell’amministrazione aggiudicatrice. Questo orientamento è stato confermato anche dalla successiva sentenza Anav in cui i giudici hanno osservato che «gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE, nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione sulla base della nazionalità e di trasparenza non ostano a una disciplina nazionale che consente ad un ente pubblico di affidare un servizio pubblico direttamente ad una società della quale esso detiene l’intero capitale, a condizione che l’ente pubblico eserciti su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente che la detiene».
Dunque, è evidente che le società miste non venivano considerate affidatarie dirette di servizi pubblici, al contrario delle società in house.
Nell’ambito giurisprudenziale italiano sul tema, invece, vi erano due orientamenti contrapposti.
Il primo, sostanzialmente contrario alla possibilità di affidamento diretto a nei confronti di società miste, è stato fatto proprio dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia.
In tal sede i giudici amministrativi, nel pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 113, comma 5, del D.L.gs. n. 267 del 2000, così come modificato dall’art. 14, del D.L. n. 263 del 2003, hanno stabilito che «l’erogazione del servizio pubblico avviene secondo le modalità delle discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
- a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di procedure ad evidenza pubblica;
- a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
- a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».
È chiaro che è rilevante, in questa sede, quanto stabilito al punto sub b).
La procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla scelta del socio privato non è sovrapponibile a quella esperita per l’affidamento del servizio poiché oggetto di contenuto e finalità differente.
La prima, infatti, riguarda la scelta del privato circa requisiti tecnici e organizzativi, la seconda, al contrario, è finalizzata alla scelta del soggetto per la gestione del servizio.
Il secondo orientamento, più estensivo rispetto a quello appena analizzato, è stato condiviso dal T.a.r. Campania il quale ha aperto all’affidamento diretto di servizi pubblici a società miste, a condizione che la scelta del privato avvenga con procedure ad evidenza pubblica.
È altresì rilevante l’orientamento assunto dal Consiglio di Stato con parere n. 456 del 18 aprile 2007.
In esso infatti i giudici amministrativi utilizzano per la prima volta un ragionamento del tutto differente a quello fin ad ora adottato.
In particolare, essi considerano la società mista del tutto non riconducibile alla società in house.
La conclusione cui si è appena giunti, però, sempre secondo quanto stabilito dal Consiglio di Stato, non esclude totalmente la compatibilità tra le due figure societarie che si può rinvenire «alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di Giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni […] – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo».
Sulla base delle argomentazioni appena riportate è evidente che i giudici amministrativi hanno stabilito la non necessarietà della doppia gara.
In seguito, sul medesimo argomento, si è espressa l’Adunanza Plenaria con decisione del 3 marzo 2008, n. 1.
In tal sede i giudici amministrativi hanno ritenuto la soluzione sopra prospettata come una delle tante e, dunque, non l’unica. Infatti, essi hanno affermato che la società mista «rappresenta una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all’affidamento del servizio alle stesse, anche se in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non è allo stato elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista».
Tale pronuncia, però, poiché pubblicata il 3 marzo 2007 e, successivamente, deliberata il 10 dicembre dello stesso anno, non ha potuto tenere conto della comunicazione della Commissione europea del 5 febbraio 2008 che, dovendo fornire risposte più precise sulla partecipazione dei privati nei partenariati, ha valutato non realizzabile l’alternativa che poneva l’esigenza di espletare una doppia gara, poiché ciò avrebbe potuto provocare, per i privati, una sfiducia nell’apporto di capitale in una società mista.
Dunque, è chiaro che si considera sufficiente l’espletamento di un’unica procedura ad evidenza pubblica che abbia ad oggetto sia la scelta del partner privato, sia l’affidamento allo stesso del servizio pubblico per cui era stata costituita la società.
La Commissione europea ha, infine, aggiunto che «la Corte di Giustizia ha rilevato che le società aperte, anche parzialmente, al capitale privato non possono essere considerate come strutture di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito degli enti pubblici che le detengono».
Sul versante nazionale, si ritiene, altresì, rilevante la sentenza n. 1028 del 15 marzo 2016 emanata dai giudici di Palazzo Spada che hanno individuato nella diversa funzione della società in house e della società mista la loro principale differenza.
Ed invero, la prima si atteggia, sostanzialmente, a organo dell’amministrazione; la seconda, viceversa, comporta la creazione di un nuovo soggetto in cui coabitino interessi pubblici e privati.
Quanto appena detto risulta confermato dalle disposizioni del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
Nel primo, le società miste vengono disciplinate disgiuntamente rispetto al quelle in house. Le prime trovano la loro collocazione normativa all’art. 17, comma 6, lett. c), il quale stabilisce che «alle società di cui al presente articolo, che non siano organismi di diritto pubblico, costituite per la realizzazione di lavori o opere o per la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di concorrenza, per la realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificatamente costituite non si applicano le disposizioni del decreto legislativo n. 50 del 2016, se ricorrono le seguenti condizioni:
- la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure ad evidenza pubblica;
- il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal decreto legislativo n. 50 del 2016 in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita;
- la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo».
Le società in house, invece, sono disciplinate all’art. 16, comma 1, il quale riconosce la partecipazione di capitale privato nella società «ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata».
In conclusione, è chiaro che le società miste e le società in house, seppur in un primo momento considerate, dalla giurisprudenza comunitaria, come unica figura societaria, oggi sono definitivamente ritenute due modelli contrapposti e profondamente diversi e, di recente, il Consiglio di Stato ha voluto nuovamente marcare le differenze tra esse così come emergono dagli artt. 16 e 17 del Testo Unico sopra riportati, aggiungendo che «più precisamente l’articolo 16 stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni aggiudicatrici che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure ad evidenza pubblica a norma dell’articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l’acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l’affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell’attività della società mista».
Le differenze tra società mista e società in house emergono in relazione alla modalità di affidamento del contratto e alla diversa importanza del socio privato. In particolare, nella società mista, da una parte, l’art. 17, comma 2, stabilisce che «il socio privato deve possedere requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita»; dall’altra è noto che l’affidamento diretto di un servizio pubblico possa essere affidato alla stessa esclusivamente tramite una gara a doppio oggetto. Nella società in house, invece, il partner privato non deve assumere un ruolo fondamentale e l’affidamento diretto di servizi pubblici è ammesso in presenza dei requisiti sopra indicati ampiamente.
- Aspetti problematici dell’in house providing con riguardo al ricorso al modello societario
In tema di società in house e, in generale, di società partecipate, vi era un’ulteriore problematica rappresentata dalla presenza di numerose deroghe, previste dalla disciplina nazionale, al diritto societario.
Infatti, il Testo unico ha introdotto, nel caso di società in house ma, anche di società miste, chiare deroghe al diritto societario riguardanti la corretta realizzazione dell’assetto societario mediante controllo analogo: la possibilità di prolungare la durata dei patti parasociali oltre quella prevista (cinque anni) dall’art. 2341-bis, comma 1, del codice civile o la possibilità di attribuire all’assemblea dei soci o al socio pubblico poteri diversi relativamente a quelli previsti dal diritto comune riguardo le competenze degli organi sociali.
Anche con riferimento alle società quotate è opportuno conoscere, prima di tutto, l’ambito di riferimento.
Poiché l’ambito di esenzione dalla normativa del Tusp non era del tutto chiaro, diversi enti pubblici hanno chiesto al legislatore di chiarire se i sistemi di negoziazione (ad esempio ExtraMot e AIM Italia) rientrassero nella nozione di mercato regolamentato.
Il dubbio è stato chiarito dall’orientamento fornito dal Dipartimento del Tesoro e del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha fatto riferimento alla nozione stabilita nel TUF, che, all’art. 1, lett. w-ter, lo ha definito come «il sistema multilaterale amministrato e/o gestito da un gestore del mercato, che consente o facilita l’incontro, al suo interno e in base alle sue regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti relativi a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione conformemente alle sue regole e/o ai suoi sistemi, e che è autorizzato e funziona regolarmente e conformemente alla parte III».
Secondo quanto stabilito dal MEF, l’esclusione delle società quotate dalla disciplina di cui al Tusp, «risponde all’esigenza di evitare distorsioni del mercato di negoziazione dei titoli già quotati e penalizzazioni per le società a partecipazione pubblica che si confrontano nei mercati regolamentati con società concorrenti».
In materia di società quotate è intervenuto anche il Decreto correttivo (D.L.gs. n. 100, del 17 giugno 2017) del Tusp, il quale modifica, parzialmente, la nozione di “quotate”: le disposizioni del Tusp si applicano ad esse e alle loro partecipate solo se espressamente previsto «salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche».
Dunque, le deroghe introdotte dal Testo sono giustificate da maggiori controlli (derivanti dal mercato e dai mercati finanziari) cui le stesse società vengono sottoposte e, inoltre, dalla garanzia, a favore degli investitori, dell’applicazione di un regime univoco per ciascun investimento finanziario.
Prima di analizzare le società a statuto singolare e il loro rapporto con l’in house, è necessario definire cosa sono.
Esse vengono appositamente costituite tramite legge e si distinguono in: coattive, obbligatorie e autorizzate.
Le prime sono costituite ex novo (Sviluppo Italia S.p.A., Coni Servizi S.p.A.) o dalla trasformazione di enti preesistenti (Anas S.p.A. e Acquedotto pugliese S.p.A.); nelle società obbligatoria rientrano quelle istituite da soggetti determinati in esecuzioni di un obbligo legislativo (Gme S.p.A.); infine, le società autorizzate sono costituite, in forma autonoma, da soggetti nell’esercizio di una facoltà attribuita loro dal legislatore (Infrastrutture S.p.A.).
Ciò che in questa sede occorre sottolineare è che le società di diritto singolare non rientrano nella disciplina del Tusp poiché considerata incompatibile con le norme di diritto singolare.
Le società in house, al contrario, sono destinatarie delle disposizioni di tale testo normativo e a riprova di ciò l’art. 1, comma 3 stabilisce che «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».
Il maggior dubbio che riguardava le società di diritto singolare era rappresentato dalla mancanza di una definizione precisa delle norme stesse che giustificava l’introduzione della suddetta deroga. Ciò sembrava comportare una sovrapposizione tra società di diritto singolare e società in house sul presupposto che entrambe fossero titolari di funzioni pubbliche e godessero della previsione di una disciplina specifica.
Tale problema è stato risolto dall’orientamento emanato dalla Struttura di monitoraggio e controllo delle partecipazioni pubbliche del Ministero dell’Economia e delle Finanze in cui è stato precisato che le norme di diritto singolare presenti nel Testo Unico riguardano soggetti determinati e determinabili e la deroga concerne unicamente società costituite da interventi legislativi ad hoc per la gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una missione di interesse pubblico.
Le società a statuto singolare sono le une diverse dalle altre perché ognuna presenta elementi derivanti da specifici atti legislativi che dettano per essere una disciplina individuale.
È evidente, dunque, dopo aver esaminato i principali dubbi che hanno afflitto le società partecipate, che il legislatore abbia, semplicemente, inteso introdurre determinate deroghe, sempre giustificate da interessi pubblici, alla disciplina di diritto comune al fine di costituire un disegno normativo chiaro e omogeneo.
Ciò nonostante, permangono numero problematiche in relazione a questa tipologia di società riguardanti, ad esempio, la definizione di “controllo”, di “fatturato”, di “mercato regolamentato”.
Dunque, la conclusione cui si è arrivati è la seguente: sebbene il legislatore sia intervenuto per razionalizzare la materia assai disomogenea e frastagliata, sono le società destinatarie del testo normativo ad aver un ruolo fondamentale nella corretta applicazione delle norme a loro dedicate.
L’auspicio, quindi, si sposta da una fase di riforma ad una fase applicativa.
- La golden share: profili comuni all’in house providing e prospettive di intervento
Prima di avviare il tema centrale del presente paragrafo, è opportuno analizzare la figura della golden share che è stata oggetto di una lunga evoluzione normativa.
La golden share rappresenta uno strumento finanziario introdotto in Italia con D.L. n. 332 del 1994 e, successivamente, convertito in L. n. 474 del 1994, tramite il quale uno Stato, durante o dopo un processo di privatizzazione di un’azienda pubblica, si riserva, indipendentemente dal numero di azioni che possiede, alcuni poteri speciali in settori strategici (l’energia, la difesa).
Tali poteri speciali, però, sono stati fin da subito considerati incompatibili con la libera circolazione di capitali poiché dissuasivi nei confronti dell’investimento di operatori di Stati membri nelle imprese in cui vi era presenza di golden share.
La disciplina è stata, quindi, modificata con Legge finanziaria del 2004, commi 227 e 231 che hanno introdotto alcuni limiti all’esercizio dei suddetti poteri speciali per evitare ulteriori condanne da parte della giurisprudenza comunitaria.
Eppure, la nuova disciplina non ha impedito quanto si temeva.
Ed infatti, nel 2005, la Commissione europea ha emanato un parere motivato in cui, pur riconoscendo che la nuova riforma «sostituisce la precedente procedura […] con un diritto di opposizione meno restrittivo», ha considerato, allo stesso tempo, «ingiustificati i restanti controlli sull’assetto proprietario delle società privatizzate e sulle decisioni di gestione», chiedendo all’Italia di modificare la legislazione appena criticata.
A tal fine, è intervenuto il legislatore con D.L. n. 21, del 15 marzo 2012 (convertito, con modifiche, in L. n. 56 dell’11 maggio 2012) che ha tentato di rendere maggiormente compatibile con l’ordinamento comunitario la disciplina italiana sulla golden share ed evitare ulteriori condanne da parte della giurisprudenza comunitaria, così come era avvenuto, ad esempio, con sentenza del 26 marzo 2009 in cui i giudici avevano condannato l’Italia a causa delle disposizione di cui all’art. 1, comma 1, del D.P.C.M. 10 giugno 2004 che aveva attuato la normativa generale e recava la definizione dei criteri per l’esercizio dei poteri speciali.
La nuova disciplina riconosce a tutte le società, sia pubbliche che private, le quali svolgono attività di rilevanza strategica, l’esercizio di poteri speciali: ciò, non limita il potere normativo alle società privatizzate o a quelle in mano pubblica. Inoltre, la nuova normativa stabilisce che i nuovi golden powers debbano prevedere diverse discipline in ordine al singolo settore di appartenenza.
Pertanto, le nuove norme sui golden powers sono riuscite a rendere uniforme la disciplina nazionale rispetto al principio comunitario in base al quale, anche qualora alcune quote azionarie, all’interno di un’azienda privata, versino in mano pubblica, il socio (pubblico) deve comportarsi come un investitore privato senza utilizzare privilegi che rischierebbero di alterare la concorrenza.
Infine, un’ultima precisazione sull’evoluzione normativa nazionale.
Con l’intento di contrastare l’attuale emergenza COVID-19, il legislatore ha emanato un nuovo Decreto Legge con cui ha esteso l’ambito di intervento dei suddetti golden powers al settore finanziario, creditizio, assicurativo, delle infrastrutture e delle tecnologie critiche tra cui l’energia, il settore dei trasporti, idrico, della sicurezza alimentare, il settore relativo all’accesso a informazioni sensibili, quello dell’intelligenza artificiale, della robotica e dei semiconduttori, il settore relativo alla cyber sicurezza, quello delle nanotecnologie e delle biotecnologie.
A questo punto viene introdotto il vero nodo critico del paragrafo: il confronto tra golden share e in house providing.
Innanzitutto, prima di affrontare la maggiore criticità che entrambe presentano, e cioè quello delle deroghe al diritto societario, è opportuno chiarire che si tratta di figure del tutto diverse. Infatti, la golden share attribuisce al socio pubblico la facoltà di riservarsi il controllo su determinate decisioni degli organi sociali di aziende che hanno subito un processo di privatizzazione: vi sono, pertanto, in mano al pubblico, alcuni frammenti di azioni o di quote sociali connesse a dei privilegi. L’in house providing, al contrario, costituisce un vero e proprio surrogato dell’ente per il quale opera e da cui è interamente controllata. È proprio quest’ultima caratteristica a rendere evidente la differenza tra le due figure: mentre nell’in house non vi è una trasformazione da ente pubblico a privato perché essa nasce privata e svolge la sua attività a servizio dell’ente pubblico; la golden share, al contrario, scaturisce da una privatizzazione di un ente originariamente pubblico.
Anche in questo caso, come già affrontato in precedenza rispetto alle società partecipate, la principale problematica riguardava le copiose deroghe al diritto societario.
Così come per l’in house providing è intervenuto il Testo unico al fine definire le suddette deroghe, anche per la golden share la razionalizzazione è stata affidata al legislatore. Dall’analisi sopra compiuta delle diverse discipline nazionali è emerso che i nuovi golden powers assicurano la concorrenza dell’impresa in situazioni ordinarie poiché, permettendo allo Stato di intervenire solo in caso di necessità, lo pongono all’esterno della compagine sociale.
Sebbene, dunque, la nuova disciplina sembra essersi uniformata ai principi comunitari, permane ancora una forte disomogeneità tra norme nei diversi stati membri dettata dal fatto che l’Unione Europea, fino ad ora, si è preoccupata, impedendo agli stati di creare monopoli nazionali, di indicare criteri verso l’interno, omettendo di imporre regole comuni a tutti gli Stati.
- L’azienda speciale: prospettive future di un modello “ibrido”
L’azienda speciale presenta un quadro normativo datato poiché l’unica disposizione è l’art. 114 del D.L.gs. n. 267 del 2000, il quale ha recepito la disposizione di cui all’art. 23 della L. n. 142 dell’8 giugno 1990.
Tre sono le caratteristiche indicate dalla disposizione sopra citata:
- a)l’azienda speciale gode di personalità giuridica: è iscritta al registro delle imprese, è, altresì, assoggettata al regime fiscale e alla disciplina civile riguardante l’impresa e i rapporti di lavoro dei dipendenti; possiede autonomia patrimoniale rispetto all’amministrazione di appartenenza;
- b)è ente strumentale dell’ente locale di riferimento: ciò significa che l’attività dell’azienda speciale è totalmente finalizzata allo scopo (benessere e sviluppo della collettività) dell’ente che l’ha istituita. L’azienda, dunque, nonostante l’ampia autonomia che le è riconosciuta, mantiene il carattere pubblico giustificato dai fini che persegue;
- c)l’azienda speciale gode di autonomia imprenditoriale. Essa è assoggettata all’osservanza del principio di economicità, di efficienza, di efficacia e di pareggio del bilancio: dunque, l’azienda speciale rimane assoggettata alle norme di diritto pubblico e la negoziazione privatistica in cui è coinvolta è regolata da atti amministrativi, procedure di diritto pubblico, deliberazioni che manifestano la volontà dell’ente locale istituente. Infine, l’azienda è dotata di un proprio statuto.
Al pari della società in house, dunque, anche l’azienda speciale è considerata come articolazione strumentale dell’ente locale di riferimento ma, rispetto alla prima, è stata pochissimo utilizzata. Infatti, il legislatore ha sempre preferito lo strumento societario nella gestione dei servizi pubblici a sfavore di istituti più tradizionali come, appunto, l’azienda speciale.
Quest’ultima, nel corso degli anni, è stata messa ai margini da vari interventi legislativi che ne hanno imposto la trasformazione in società per azioni non contemplando, invece, l’operazione inversa. L’azienda speciale, tuttavia, non è mai scomparsa in modo definitivo e, nel 2014, la Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con deliberazione n. 2 ha ammesso la trasformazione eterogenea delle società di capitali in aziende speciali in quanto compatibile con le disposizioni contenute nel codice civile. In particolare, i giudici hanno affermato che ««la prefigurata operazione di trasformazione possa trovare giustificazione, pur in mancanza di una previsione espressa nell’art. 2500-septies c.c., nel richiamato principio di continuità di cui all’art. 2498 c.c. Tale principio, che è in stretta correlazione con lo stesso significato dell’operazione trasformativa, assume, a seguito della riforma, un significato polivalente». Tale osservazione è stata, altresì, condivisa da parte della dottrina che hanno stabilito come «tale operazione di modifica della “veste giuridica” è stata ritenuta compatibile sia con le norme del Codice civile, considerato che entrambe le tipologie di soggetti giuridici sono dotate di autonomia patrimoniale perfetta, a tutela dei creditori e dei terzi, sia con le disposizioni pubblicistiche, in quanto sia le società che le Aziende Speciali sono sottoposte al rispetto dei medesimi vincoli di finanza pubblica, come affermato dalla stessa Corte dei Conti».
Inoltre, il suddetto orientamento è stato confermato anche dai giudici di Palazzo Spada che affermato che «il passaggio c.d. regressivo da società di capitali ad azienda speciale è considerato ammissibile, sia per la non tassatività delle fattispecie elencate nell’art. 2500 septies cod. civ. […] sia per la compatibilità con le disposizioni pubblicistiche, che tendono ad uniformare il regime delle società in house e delle aziende speciali quanto al rispetto dei vincoli di finanza pubblica e di controllo da parte della p.a. di riferimento».
Le aziende speciali, contrariamente alle società in house, non rientrano nella disciplina di cui al Testo Unico, benché appaiano sostanzialmente identiche sulla sfera adempimentale. Infatti, entrambe rappresentano enti strumentali all’ente di riferimento e sono caratterizzate da ampia autonomia.
Tuttavia, mentre le aziende speciali sono enti pubblici economici, le società in house sono società a controllo pubblico.
Con riguardo alla governance societaria, per le società in house il Tusp ha stabilito che «l’organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, di norma, da un amministratore unico»; le aziende speciali, al contrario, prevedono il consiglio di amministrazione.
Con riguardo alla responsabilità, entrambe sono soggette alla giurisdizione della Corte dei Conti per danno erariale.
In conclusione, quindi, nonostante qualche differenza, le due figure appaiono, dal punto di vista adempimentale, molto simili; tuttavia, le aziende speciali sfuggono ai vincoli di razionalizzazione previsti per le società in house e, in generale, per le società partecipate.
Per tale motivo, quindi, è possibile oggi considerare l’azienda speciale come “ibrido” o, semplicemente, come modello a metà tra precedente e nuova disciplina che ha riconosciuto alle stesse la possibilità di essere adoperate per la gestione dei servizi pubblici.
L’auspicio, in conclusione, è un intervento del legislatore per razionalizzare il quadro normativo di riferimento delle aziende speciali, così come avvenuto in precedenza per le società partecipate, che possa aprire la strada ad un loro maggiore utilizzo.
Riflessioni conclusive
- Il presente elaborato ha voluto affrontare le società in house da un punto di vista differente rispetto ad un’analisi sostanzialmente nozionistica e descrittiva.
È emerso, dal rapporto tra in house e società di confine, che non esiste una problematica comune.
Innanzitutto, la prima questione esaminata concerne l’utilizzo del modello societario, cui spesso ricorrono le pubbliche amministrazioni, per la gestione dei servizi pubblici. Tale situazione presuppone la difficile convivenza tra disciplina pubblica e privata e comporta, dunque, difficoltà applicative notevoli che ricadono, principalmente, sulla sfera delle deroghe al diritto comune.
Tale problema che ha, negli anni, fatto sì che moltiplicassero i modelli societari, è stato, per la maggior parte, risolto con l’entrata in vigore del Testo unico sulle società a partecipazione pubblica. Quest’ultimo ha razionalizzato il quadro normativo che, costituito da molteplici e diverse discipline settoriali, si presentava assai disomogeneo.
In particolare, il legislatore ha scelto di disciplinare singolarmente le deroghe appartenenti a ciascuna figura esaminata, giustificate, di volta in volta, da interessi pubblici diversi.
Nonostante tale riforma normativa, permangono ancora oggi alcune criticità in relazione alla convivenza tra interessi pubblici e interessi privati. Per tale motivo, infatti, si auspica che, in futuro, siano le stesse amministrazioni a ridurre gli spazi di incertezza ancora presenti nell’applicazione della disciplina. Come detto nel corso della trattazione, infatti, l’attenzione si deve spostare sul piano applicativo, abbandonando, per un momento, quello legislativo.
In secondo luogo, con riguardo alla società mista, a lungo accostata all’in house providing, sono emerse alcune rilevanti differenze tra le due.
Innanzitutto, la società mista comporta la creazione di un soggetto terzo all’amministrazione che racchiuda interessi pubblici e privati; la società in house, invece, è considerata una longa manus dell’amministrazione affidante. Secondariamente, nella società mista l’affidamento diretto di un servizio pubblico deve avvenire in seguito a una gara pubblica con doppio oggetto.
In terzo luogo, è stata analizzata la golden share (oggi golden powers).
Tale figura ha trovato la propria origine in seguito alle privatizzazioni compiute dagli Stati membri dell’UE per assicurare, agli stessi, alcuni poteri speciali all’interno di determinate imprese pubbliche. Ciò comportava, naturalmente, che gli stessi Stati godessero di poteri più rilevanti rispetto a quelli, generalmente, posseduti dagli azionisti normali e, per tale motivo, deroganti rispetto alle norme del diritto societario.
Dunque, dopo numerose censure da parte della Corte di Giustizia nei confronti dello Stato italiano, è intervenuto il legislatore per ristabilire la compatibilità tra disciplina nazionale e comunitaria.
Tuttavia, permane ancora oggi una forse disomogeneità tra le disposizioni vigenti nei diversi Stati membri. Infatti, l’Unione europea si è unicamente preoccupata di indicare criteri verso l’interno che impedissero la creazione di monopoli nazionali, dimenticandosi, tuttavia, di dettare linee guida rivolte a tutti gli Stati, considerati oggi gli unici baluardi di difesa nazionale.
Infine, è stata posta l’attenzione sull’azienda speciale.
Tale figura, il cui utilizzo è stato scarsissimo, appare, dal punto di vista adempimentale, uguale agli organismi societari che, come la società in house, vengono adoperati per svolgere servizi pubblici.
L’azienda speciale è stata esclusa dalla sfera dei destinatari del Tusp e, per tale motivo, sfugge ai vincoli di finanza pubblica previsti dallo stesso.
Perciò, l’azienda speciale è considerata un “ibrido” tra vecchia e nuova disciplina.
In questo senso l’auspicio è che intervenga il legislatore per razionalizzazione del quadro normativo di riferimento e, altresì, per scongiurare il rischio di elusione dei vincoli suddetti.