Di Fabio Taormina
- L’attuazione delle decisioni della Magistratura: l’ottemperanza.
Fiat iustitia et pereat mundus (o Fiat iustitia ne pereat mundus) ?
Fiat iustitia et pereat mundus, letteralmente «Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo» era il motto di Ferdinando I d’Asburgo. La prima testimonianza della frase si rinviene nel volume Loci Communes (1563), di Johannes Manlius, che l’attribuisce all’Imperatore. La frase viene poi utilizzata da Immanuel Kant, che – in “Per la pace perpetua” – ne fa il motto dell’uomo politico fermo nei suoi princìpi, traducendola e commentandola così: “‘Regni la giustizia, dovessero anche per essa perire tutti assieme gli scellerati che esistono nel mondo, è un principio di diritto coraggioso, che taglia le vie tortuose tracciate dall’inganno e dalla violenza…». Hegel la corresse in “Fiat iustitia ne pereat mundus, vale a dire “Sia fatta giustizia perché non perisca il mondo”.
Nella dialettica hegeliana degli opposti, la violazione è la negazione del diritto e la sanzione la negazione della violazione: la sanzione, pertanto, risolvendosi nella negazione di una negazione diviene il modo per pervenire all’affermazione del diritto. Sebbene specificamente riferita alla pena criminale, è agevole riscontrare che la tesi costituisce efficace chiarimento della necessità indefettibile dell’attuazione delle pronunce giurisdizionali.
Giunti (talvolta faticosamente) ad un “giudicato” siccome definito nella sua portata sostanziale dall’art.2909 del codice civile, e sotto il profilo formale dall’art. 324 del codice di procedura civile è necessario che la generalità dei consociati (e per quel che più interessa in questa sede anche la pubblica amministrazione) vi si conformi.
Ove la conformazione avvenga spontaneamente, nulla quaestio.
Ma se ciò non accada, l’ordinamento giuridico deve di necessità predisporre un rimedio: altrimenti ne risulterebbe vanificato l’accertamento svolto in sede giurisdizionale e – a monte- non si vede perché i consociati che vantino una pretesa dovrebbero rivolgersi al giudice per ottenere una decisione inutile od ineseguibile.
Insomma, la storia dell’attuazione delle sentenze coincide con la ragione logica per cui nacque il diritto, inteso come insieme di disposizioni (contemplanti divieti, facoltà,ovvero di natura premiale, descrittive, etc.) da rispettare: ne cives ad arma ruant.
Afferma in tempi recenti il Giudice delle leggi[1] che: “ la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria.”; ed ancora: il giudizio di ottemperanza, (illo tempore disciplinato dal R.D. n. 1054 del 1924, art. 27, n. 4) “integra lo strumento esecutivo per assicurare l’effettività e la satisfattività della giurisdizione amministrativa, connotato costituzionalmente necessario alla completa attuazione del diritto di difesa.”. Merita anche di essere ricordato l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo: il diritto al processo (di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il diritto all’esecuzione del giudicato (“diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia”).[2]
- Cenni storici.
Una disamina in chiave storica delle ragioni sottese alla introduzione di una specifica azione a presidio della effettiva attuazione delle pronunce giurisdizionali rese nei confronti dell’Amministrazione meriterebbe una trattazione monografica: ci si limiterà pertanto ad una breve sintesi[3].
In proposito sarà sufficiente ricordare che da parte del Legislatore si ritenne necessario prevedere un’azione per imporre alle Amministrazioni di conformarsi alle decisioni rese dal Giudice civile, e che, inizialmente, ciò riguardò appunto unicamente le pronunce del (solo) Giudice Ordinario.
Come è noto, il quadro normativo dell’epoca[4] prevedeva che il Giudice Ordinario potesse disapplicare l’atto amministrativo ma non annullarlo: ne conseguiva che ove l’Amministrazione non si fosse adeguata alla pronuncia del giudice, nella sostanza il giudizio si sarebbe concluso con una pronuncia inutiliter data.
Di qui l’esigenza di introdurre il detto rimedio.
Esso venne inizialmente scolpito nell’art. 4 n. 4 della legge 31 marzo 1889 n. 5992 (c.d. Legge Crispi, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato) il cui art. 17 comunque prevedeva che, ove possibile le Amministrazioni (non fossero espropriate del potere a seguito di un annullamento ma) potessero riemanare l’atto, emendato dai vizi riscontrati dalla statuizione annullatoria.[5]
La formula utilizzata riposava nel fare “salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione” (poi ripresa sub art. 45 del R.D n. 1054/1924 e, prima, sostanzialmente traslata nel Regolamento di procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di cui al R.D n. 642/1907, artt. 65 ed 88).
In seguito l’art. 4 n. 4 della legge 31 marzo 1889 n. 5992 venne trasfuso (ed il rimedio dell’ottemperanza venne quindi disciplinato ) sub art. 27, n. 4, del R.D. n. 1054/1924 (“Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato”), ai sensi del quale il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale decide pronunciando anche in merito, tra l’altro, “dei ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”.
Per la verità nel 1924 non v’era ragione di non prevedere espressamente per via normativa che il detto rimedio giudiziale potesse comprendere (o essere “esteso”, se piace) alle decisioni del Giudice amministrativo (che, si ricorda, a quel tempo era unicamente il Consiglio di Stato, perché i Tribunali amministrativi regionali vennero istituiti soltanto quasi mezzo secolo dopo).
La spiegazione di tale “lacuna” è tanto semplice quanto banale.
Invero, all’indomani della legge n. 5992/1989 istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato v’erano stati consistenti dubbi, in dottrina, in ordine alla natura – giurisdizionale o meno- di questo neonato “organo” (taluno sosteneva trattarsi di una mera forma di “controllo amministrativo” con poteri demolitori assimilabili all’autotutela amministrativa, mentre altre voci ne affermavano la natura giurisdizionale): detti dubbi, però, erano scomparsi già nel 1907 allorchè fu espressamente affermata la natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato.
Senonchè l’ art. 27, n. 4, del R.d. n. 1054/1924 non prevedeva l’ottemperanza alle “ decisioni” del Consiglio di Stato (pur nella considerazione che il Consiglio di Stato era “Giudice”).
In sintesi:
- a) nel 1889, allorchè viene istituita la Quarta Sezione del Consiglio di Stato non è chiaro se esso incarni una autorità amministrativa ovvero un Organo giurisdizionale;
- b) se si fosse affermata la linea di opinione secondo la quale alla stessa non poteva essere riconosciuta natura giurisdizionale, sarebbe stato incongruo prevedere una forma di ottemperanza alle decisioni rese da quest’ultima, affidata peraltro alla stessa Quarta Sezione: ciò avrebbe creato una super-autorità “amministrativa” con poteri “commissariali” su tutto l’apparato statuale.
- c) nel 1907 il dubbio si risolve: alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, venne riconosciuta certa natura giurisdizionale;
- d) il testo originario, dell’art. 4 n. 4 della legge 31 marzo 1889 n. 5992 però, venne trasfuso nell’ art. 27, n. 4, del r.d. n. 1054/1924 senza integrazioni, per cui l’ottemperanza rimase “riservata” alle decisioni del Giudice civile;
- e) a detta incoerente lacuna che riservava il rimedio dell’ottemperanza unicamente alle sentenze del giudice ordinario ovviò l’opera creatrice della giurisprudenza: in particolare, va ricordata in proposito la storica decisione del Consiglio di Stato n. 181 del 2 marzo1928 che estese il detto rimedio anche alle sentenze amministrative;
- f) detto approdo giurisprudenziale (sulla cui correttezza e condivisibilità mai vennero sollevati dubbi e che quindi costituiva “diritto vivente”) trovò conferma implicita nei primi due commi dell’art.113 della Carta Fondamentale[6]: se la fase di esecuzione coattiva costituisce ineliminabile corollario della tutela “piena” sarebbe incongruo un sistema che non la consentisse “ a prescindere” da quale sia l’Organo giurisdizionale cui spetta pronunciarsi sulla controversia;
- g) dopo quasi mezzo secolo, il Legislatore si risolse a dare esplicito riconoscimento legislativo a tale intuizione della giurisprudenza: detto principio venne espressamente affermato dall’art. 37commi 2 e 3 della legge n. 1034 del 1971 (“Istituzione dei tribunali amministrativi regionali”), che disciplinava la competenza territoriale in materia[7].
h)ai sensi dell’art. 7 della stessa L. 1034/71, si prevedeva che, nei casi previsti dal citato art. 27 n. 4, del r.d. n. 1054/1924 “il tribunale amministrativo regionale esercita giurisdizione di merito”;
- i) oggi, come è noto, la materia è disciplinata dal decreto Legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (c.p.a.) agli artt. 112 – 114.
- Il significato da attribuire, in passato, alla locuzione, riservata al giudizio di ottemperanza, di “ giurisdizione estesa al merito”.
Qualificata dottrina[8] ha acutamente rilevato che pochi sostantivi hanno avuto nel linguaggio giuridico una pluralità di diversi significati, come è accaduto con il termine “merito”: nel diritto processuale si fa riferimento a questioni di merito in contrapposizione a questioni pregiudiziali (art. 41 e 276, 2° comma, c.p.c.; art. 527 c.p.p.), di giudizio di merito in contrapposizione ai procedimenti cautelari (art. 672 e 673 c.p.c.) e in contrapposizione al giudizio di cassazione (art. 388 c.p.c.) o più in generale al giudizio di annullamento anche da parte del giudice di appello (art. 24, comma 2; art. 33-octies c.p.p.). In altre norme, specificamente relative all’attività amministrativa, si faceva riferimento al controllo di merito in contrapposizione al controllo di legittimità (art. 125 Cost. nel testo originario); a motivi di merito in contrapposizione a motivi di legittimità (art. 1 d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1034); all giurisdizione di merito in contrapposizione alla giurisdizione di legittimità (art. 7 l. 6 dicembre 1971, n. 1034).
Soffermando l’attenzione esclusivamente su tale ultimo profilo, si è detto a più riprese che, per espressa previsione legislativa, nel giudizio di ottemperanza ci si trova al cospetto di una giurisdizione “estesa al merito” (rectius: alla più importante forma di giurisdizione di merito).Chiarire il significato di questa espressione può valere forse, retrospettivamente, a fornire una giustificazione (meno banale della semplice “dimenticanza” del Legislatore)alla circostanza che la espressa previsione legislativa che introdusse nel sistema il rimedio dell’ottemperanza non contemplava le sentenze amministrative tra quelle in relazione alle quali il detto presidio era esperibile.
Il “merito” coincide con valutazioni di opportunità e convenienza: è una sfera riservata” dall’Amministrazione e di regola insindacabile, in quanto sottratta al sindacato giudiziale.
Ciò accade certamente nell’ordinario giudizio di legittimità.
Occorre adesso interrogarsi in ordine alla natura del sindacato giurisdizionale nell’ipotesi di iurisdizione “estesa al merito”.
Potrebbe il Giudice amministrativo sindacare tali profili, spingendosi cioè a valutare se l’atto adottato dall’ Amministrazione in attuazione di quella certa decisione del Giudice ordinario o del Giudice amministrativo era “opportuna” e se del caso (una volta ritenutala “inopportuna”) sostituirla con una propria?
Intesa in questi termini la previsione normativa del giudizio di ottemperanza porrebbe forse non inconsistenti dubbi di coerenza sistematica (prima che di incostituzionalità) ipotizzandosi per tal via una ingerenza nei poteri affidati all’ amministrazione ex art. 97 della Costituzione ed uno straripamento del giudice amministrativo rispetto ai compiti giurisdizionali ad esso affidati. Le stesse perplessità (fors’anche maggiori per il vero) di incompatibilità sistematica avrebbero potuto porsi avuto riguardo al quadro normativo antevigente alla Costituzione.
In verità, però, così non è stato in passato, e così non è neppure ai giorni nostri.
Sebbene si continui a rinvenire in una parte consistente della manualistica tale affermazione, per tal via, in verità, come ha acutamente evidenziato qualificata dottrina[9] si cerca di dare spiegazione ad un dato normativo positivo che non corrisponde alla realtà ed all’esperienza giudiziaria.
Il dato normativo positivo cui cerca di dare spiegazione la dottrina è il seguente: come si affermava in passato, e come è stato espressamente positivizzato nell’art. 26 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, il Giudice “Se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, annulla l’atto e rimette l’affare all’autorità competente. Se accoglie per altri motivi annulla in tutto o in parte l’atto impugnato”.
Proseguiva, poi, il testo della predetta norma, prescrivendo che (il Giudice) “quando è investito di giurisdizione di merito, può anche riformare l’atto o sostituirlo, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.”.
A questo punto, il sillogismo che si rinviene in larga parte degli studi che si sono soffermati sulla tematica è il seguente:
- a) è pacifico che l’Amministrazione, allorchè emana l’atto, nel contemperare gli antagonisti e/convergenti interessi, oltre che valutazioni di legittimità rende anche valutazioni “di merito” (esemplificativamente: l’atto è opportuno, in quel dato momento e con quella forma? È conveniente? V’è rischio che si sviluppi contenzioso, ove emanato con quel dato contenuto, ed allora è meglio accogliere il suggerimento del privato? etc etc).
- b) posto che in sede di giurisdizione di merito il Giudice “può anche riformare l’atto o sostituirlo”, all’evidenza, ove a ciò si determini, dovrà anch’egli (in proprio, o come si vedrà per il tramite di un “commissario ad acta”) rendere, tra l’altro, valutazioni di opportunità e/o convenienza.
Il che significherebbe che il Giudice “diviene” in tutto e per tutto Amministrazione.
Sul piano logico, la sequenza appena esposta è ineccepibile.
In contrario senso, però, è stato posto in luce che:
- a) in numerose delle materie devolute alla giurisdizione di merito (talune ormai abrogate, talaltre quasi da subito degradate a veri e propri “relitti storici”) una valutazione giudiziale di opportunità o convenienza non era nemmeno astrattamente configurabile [10];
- b) una accurata disamina della giurisprudenza remota (quella resa dalla Sezione V del Consiglio di Stato dal 1908 al 1923) dimostra che quest’ultima intese il merito come valutazione di corrispondenza dei presupposti di fatto ai presupposti di diritto o come controllo della discrezionalità tecnica;
- c) la giurisprudenza successiva si è sempre mossa sul solco di questa tradizione: in concreto, in qualche sporadica decisione (Consiglio di Stato, VI, 12 novembre 2003, n. 7266,) si rinviene talvolta un obiter secondo cui il sindacato dovrebbe estendersi non solo a tutti gli aspetti concernenti la legittimità, ma anche ai profili relativi alla sufficienza ed alla attendibilità delle disposte istruttorie ed alla convenienza, opportunità ed equità delle determinazioni adottate: senonchè trattasi di affermazioni di principio, perché giammai risulta che il Giudice abbia esteso il proprio sindacato a simili profili;
- d) nei, fatti, quindi, il Giudice amministrativo ha esercitato un self restraint tale per cui –se intesa nel senso sinora esposto- l’affermazione risulta priva di significato concreto.
Muovendo da tali dati, si è quindi fatta apprezzare una tesi [11] alternativa.
In passato infatti, tra le forme di giurisdizione “classica” del giudice amministrativo (di legittimità ed esclusiva) e la giurisdizione di merito (eccezionale e tassativa in quanto ammessa nelle sole materie previste ex lege, ed aggiuntiva in quanto si cumula alla valutazione di legittimità: -“anche in merito”, ex art. 27, del r.d. n. 1054/1924) sussisteva una non minima differenza.
Essa riposava non soltanto nella possibilità di riformare/sostituire l’atto (affermazione di matrice giurisprudenziale, si ribadisce, positivizzata nell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034) ma in un più ampio accesso all’esame del fatto, potendo il Giudice disporre – in sede di giurisdizione di merito- di tutti i mezzi istruttori utilizzabili dal giudice civile.
Il quadro normativo pregresso (frastagliato e frutto di una stratificazione di norme successive) sul quale si innesta questa riflessione, quindi, è il seguente:
a)allorchè il giudice amministrativo giudicava in sede di giurisdizione di legittimità (in via “ordinaria” si potrebbe affermare, in quanto tale evenienza costituisce la regola generale ) esso (art. 26 del r.d. 17 agosto 1907 n. 642) poteva disporre dei seguenti, ridotti, mezzi istruttori e probatori: “richieste di documenti; richieste di schiarimenti verificazioni” (così testualmente la disposizione in ultimo citata:“le sezioni giurisdizionali possono richiedere all’amministrazione e ordinare alle parti di produrre quegli atti e documenti che credono necessari per la decisione della controversia. Possono pure richiedere che l’amministrazione faccia eseguire nuove verificazioni, fissando il termine entro cui dev’essere depositata la relazione. “”)
- b) allorchè il giudice amministrativo giudicava in sede di giurisdizione esclusiva (con cognizione estesa ai diritti soggettivi, quindi, forma di giurisdizione anch’essa da considerarsi aggiuntiva e tassativa) poteva giovarsi degli stessi mezzi attribuiti in sede di giurisdizione di legittimità[12].
- c) allorchè, invece, giudicava invece in sede di (si ribadisce: aggiuntiva ed espressamente prevista ex lege,) “giurisdizione estesa al merito”, il giudice amministrativo (art. 27 d. 17 agosto 1907 n. 642) poteva “assumere testimoni, eseguire ispezioni, ordinare perizie e fare tutte le altre indagini che possono condurre alla scoperta della verità, coi poteri attribuiti al magistrato dal codice di procedura civile e con le relative sanzioni” (art. 44 comma 2 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054: “nei giudizi di merito il Consiglio di Stato può inoltre ordinare qualunque altro mezzo istruttorio, nei modi determinati dal regolamento di procedura”).
Restavano esclusi dallo strumentario di cui poteva servirsi il giudice amministrativo, (e lo sono tutt’oggi, anche dopo le innovazioni di cui alla legge n. 205 del 2000 ed alla luce delle vigenti disposizioni del c.p.a. sia in sede di giurisdizione di legittimità, che esclusiva, che di merito,) l’interrogatorio formale ed il giuramento (la ragione di tale preclusione è evidente, in quanto in caso contrario l’Amministrazione potrebbe disporre dell’oggetto della lite)
In questo quadro normativo, quindi, si è condivisibilmente affermata la tesi –che divenne ben presto ius receptum– secondo cui la giurisdizione di merito non giammai può essere considerata una forma di controllo estesa a profili quali l’equità, opportunità, convenienza: detti profili infatti sono e devono restare esclusi dal perimetro della verifica giudiziale: pertanto la giurisdizione di merito è una forma di giurisdizione che consente od addirittura impone un più acuto e penetrante sindacato che non si fermi al vizio estrinseco eventuale dell’atto, ma si estende ad aspetti intrinseci, come dimostrato dalla circostanza che al giudice amministrativo è stato attribuito un penetrante potere di accertamento e verifica[13].
- Il significato di giurisdizione “estesa al merito” nel vigente quadro normativo: le conseguenze da trarre dalla avvenuta omogeneizzazione delle forme di giurisdizione amministrativa in punto di poteri giudiziali istruttori.
La tesi in ultimo illustrata conserva una sua validità anche ai giorni nostri.
Il sistema, però, ha subito una penetrante evoluzione.
Il quadro normativo prima esposto si è venuto profondamente modificando.
Dapprima è intervenuta la Corte Costituzionale, a più riprese, e su più versanti, sulla materia della giurisdizione esclusiva.
Quest’ultima come è noto, in via “eccezionale”[14] (si veda sul punto Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204 che ha bocciato il criterio di riparto “mobile” fondato sui “blocchi di materie”) consente al giudice amministrativo di pronunciarsi su posizioni di diritto soggettivo.
Epperò, laddove su dette posizioni i poteri accertativi e definitori del giudice amministrativo fossero rimasti depotenziati rispetto a quelli spettanti al giudice ordinario, ne sarebbe discesa una irragionevole discriminazione della posizione tutelata, in spregio all’art. 24 della Costituzione.
La problematica si stagliava evidente, ad esempio, nella più importante forma di giurisdizione esclusiva spettante al giudice amministrativo: le controversie in materia di pubblico impiego.
Il lavoratore pubblico, per il solo fatto che il proprio “statuto di impiego” era devoluto alla cognizione del giudice amministrativo, nel proporre domanda, non avrebbe potuto ottenere le tutele che la evolutiva giurisprudenza lavoristica del giudice civile attribuiva al lavoratore privato (si immagini la sperequazione di un giudizio sul pubblico impiego, laddove al giudice amministrativo era precluso assumere testimonianze etc, rispetto al processo civile sulle controversie relative ai rapporti di impiego privato introdotto innanzi al giudice ordinario del lavoro, laddove quest’ultimo poteva contare su un strumentario istruttorio completo).
La discriminazione tra le (identiche)posizioni soggettive attive era evidente a tutto svantaggio del lavoratore pubblico, che per la sola circostanza che la giurisdizione sulla propria domanda era affidata al giudice amministrativo non poteva godere delle stesse tutele processuali di cui godeva il lavoratore privato.
Con la sentenza 10 aprile 1987, n. 146 la Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità degli artt. 44, primo comma, del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 e 26 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, e 7, primo comma, della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 nei limiti in cui li richiamava, nella parte in cui, nelle controversie di impiego di dipendenti dello Stato e di enti, riservate alla giurisdizione esclusiva amministrativa, non consentivano l’esperimento dei mezzi istruttori previsti negli artt. 421, comma da 2 a 4, 422, 424 e 425, del c.p.c. novellati in virtù della L. 11 agosto 1973, n. 533.
Ad avviso del Giudice delle leggi, infatti “nelle controversie giurisdizionali in materia di pubblico impiego, l’inammissibilità di mezzi istruttori diversi da quelli descritti nell’art. 44, comma primo, del R.D. n. 1054 del 1924, e nell’art. 26, comma primo, del R.D. n. 642 del 1907, è contraria alla direttiva di razionalità e, soprattutto, alla tutela dell’azione in giudizio e alla garanzia del diritto di difesa. Peraltro, gli strumenti probatori dei quali si impone l’estensione sono non già quelli disciplinati nel libro secondo del cod. proc. civ., bensì quelli del processo del lavoro riformato dalla legge n. 533 del 1973: e ciò in linea con la tendenza (art. 31 del d.P.R., e art. 28, comma primo, della legge n. 93 del 1983 (legge quadro) ad assimilare la tutela giurisdizionale del pubblico impiego ai principi contenuti nella stessa legge n. 533 del 1973 e nella legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).”, Pertanto, sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l’art. 3 Cost. e l’art. 24 Cost., commi primo e secondo, – l’art. 44, comma primo, del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054; l’art. 26 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642; e l’art. 7, comma primo, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui, nelle controversie di impiego di dipendenti dello Stato e di enti riservate alla giurisdizione esclusiva amministrativa, non consentivano l’esperimento dei mezzi istruttori previsti nell’art. 421 c.p.c., commi secondo, terzo e quarto, e negli artt. 422, 424 e 425 cod. proc. civ., novellati in virtù della legge n. 533 del 1973.
La Corte Costituzionale, peraltro, intervenne anche sulla tutela cautelare: con la sentenza del 28 giugno1985, n. 190 dichiarò illegittimo per contrasto con gli art, 3, 1° comma e 113 cost., l’art. 21, ultimo comma, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, in quanto non prevedeva il potere del giudice amministrativo di adottare, nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d’urgenza che apparissero secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, quante volte il ricorrente avesse fondato motivo di temere che durante il tempo necessario alla prolazione della pronuncia di merito il suo diritto fosse minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile.[15]
Incentrando più in particolare l’esame alla questione dello strumentario probatorio, il rito amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva si venne quindi ad omogeneizzare (quanto a poteri istruttori e probatori) a quello della giurisdizione ordinaria ma, quel che più rileva ai limitati fini di questa illustrazione, a quello della giurisdizione di “merito”: ciò perché le criticità colte dal Giudice delle Leggi del depotenziamento di tutela quanto al pubblico impiego comportarono l’ estensione, per via giurisprudenziale, degli arresti della Corte Costituzionale a tutte le fattispecie devolute alla giurisdizione esclusiva (e non soltanto alla materia del pubblico impiego, certamente la più importante, illo tempore, tra quelle devolute alla giurisdizione esclusiva dal giudice amministrativo).
Nel frattempo, però, la Corte Costituzionale intervenne ancora una volta sul rito processuale amministrativo, con un classico esempio di sentenza “monito”.
Il tema devolutole concerneva la compatibilità costituzionale dei ridotti limiti di accertamento probatorio spettanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.
Con la decisione del 18 maggio 1989, n. 251 la Corte dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – dell’art. 26 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642 ritenendo che esorbitasse dalla propria competenza, trattandosi di atti privi di forza di legge, il sindacato di disposizioni contenute in un decreto del Governo (che sia qualificato, sia pure indirettamente, come “regolamento” dalla legge in base alla quale il decreto stesso viene emanato nella specie il R.D. 17 agosto 1907, n. 642, emanato sulla base dell’art. 16, primo comma, della legge 7 marzo 1907, n. 62) senza che tale natura regolamentare sia da altri elementi contraddetta.
Non mancò tuttavia, di fare conoscere il proprio convincimento “evolutivo”.
Infatti, pur affermando che“l’estensione di tutti o di qualcuno dei mezzi probatori, previsti dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti soggettivi, al processo amministrativo, quando questo riguardi interessi legittimi, spetta al discrezionale potere del legislatore, data l’impossibilità di un automatico trapianto, nel processo amministrativo di legittimità, del sistema probatorio proprio del processo civile, in quanto la sussistenza di quelle limitazioni peculiari del processo civile comunque richiederebbe un’operazione di adattamento che non potrebbe certo conseguire alla pronuncia additiva di questa Corte, come auspicato dal giudice “a quo”, bensì ad una articolata disciplina legislativa” implicitamente riconobbe che la discriminazione denunciata in effetti sussisteva.
Il Legislatore prese atto di tali arresti: in forza delle novelle legislative recate dall’art. 35 del d.Lgs. n. 80 del 1998 e dalla legge 21 luglio 2000 n. 205 venne introdotta la possibilità di disporre la consulenza tecnica anche in sede di giurisdizione di legittimità.
Il procedimento di assimilazione al rito civile in punto di consistenza dei poteri probatori spettanti al giudice amministrativo e di “omogeneizzazione” tra loro quanto a giurisdizione di legittimità, esclusiva (ed ovviamente di merito, laddove come si è chiarito detti poteri istruttori erano già stati attribuiti al Giudice amministrativo) si è di recente completato.
Dalla disciplina degli artt. 63 e seguenti del codice del processo amministrativo, si ricava che il giudice amministrativo sia in sede di giurisdizione esclusiva, che di giurisdizione generale di legittimità (che di merito, ovviamente) può disporre l’assunzione di tutti i mezzi di prova contemplati dal codice di procedura civile, (ad eccezione, per le già chiarite ragioni dell’interrogatorio formale e del giuramento).
A questo punto – a conclusione di tale excursus– una domanda (retorica) è d’obbligo: ma se, ad oggi, la giurisdizione di merito (nella sua forma più importante e pressoché unica: il giudizio di ottemperanza), la giurisdizione di legittimità, e quella esclusiva si equivalgono e sono quindi equiparate, quanto ai poteri accertativi del fatto spettanti al Giudice, in cosa riposa il proprium della distinzione tra di esse?
La risposta è agevole quanto al confronto tra giurisdizione di legittimità ed esclusiva: essa riposa nelle posizioni soggettive conoscibili ( rispettivamente: soltanto posizioni aventi consistenza di interesse legittimo, nella prima, ed anche di diritti soggettivi nella seconda).
E’ una distinzione che “tiene” anche nel momento in cui è stato attribuito al giudice amministrativo in sede di legittimità di conoscere la domanda risarcitoria[16]: quest’ultima, infatti, non integra una “nuova materia” (per cui il giudizio di legittimità diventerebbe una forma di giurisdizione esclusiva in quanto ivi si conoscerebbe del “diritto soggettivo” al risarcimento del danno): è una forma di completamento della tutela dell’interesse legittimo leso che nasce dalla “grundnorm” di cui all’art. 2043 cc[17].
La risposta diviene più sfumata allorchè si pongano a confronto la giurisdizione di legittimità e quella esclusiva, complessivamente considerate, in rapporto alla giurisdizione di merito, la cui fattispecie più importante è, rappresentata, appunto, dal giudizio di ottemperanza.
Escluso che si possa tornare all’ampiamente superata affermazione secondo cui in sede di giurisdizione estesa a merito il giudice si potrebbe spingere sino ad ingerirsi nell’azione amministrativa sindacandone opportunità e convenienza ( sfera di merito, questa, riservata ed intangibile) deve in proposito porsi in luce che il criterio distintivo riposa nella maggior latitudine di poteri dispositivi affidati al Giudice che (art. 114 comma 4 lett. a del cpa) “ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione”.
Soprattutto nei casi in cui il ricorrente in ottemperanza lamenti l’inerzia assoluta dell’amministrazione nel conformarsi al dictum giudiziale, ciò può integrare una espressa ed esplicita eccezione, – che si giustifica con la forza imperativa del giudicato formatosi (o per i provvedimenti giudiziali non regiudicati con la provvisoria esecutività di cui essi sono dotati)- al principio per cui (art. 34 c.II del c.p.a.) “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.”
La “giurisdizione estesa al merito” consente al giudice amministrativo – non solo di integrare e arricchire il giudicato medesimo, come di seguito si chiarirà- ma di potersi sostituire alla amministrazione stessa per l’adozione degli atti adempitivi del giudicato, anche eventualmente attraverso la nomina di un commissario ad acta.
- La centralità del giudizio di ottemperanza nel sistema costituzionale italiano e nel sistema sovranazionale.
Il principio dell’effettività della tutela, come noto, trova radice nell’art. 24 della Costituzione, il quale garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Diritto di azione che, come affermato nella sentenza n. 127 del 1977 della Corte costituzionale, va esercitato, accanto alle ipotesi previste dall’art. 103 Cost., “dinanzi agli organi giudiziari ordinari” (art. 102 Cost.).
L’art. 24 della Costituzione riconosce pari dignità e meritevolezza di tutela ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi, dettando un precetto di effettività e pienezza della tutela in relazione ad entrambe le situazioni giuridiche soggettive, senza possibilità alcuna di discriminazione; di converso, con specifico riferimento agli atti della pubblica amministrazione, il principio di effettività e pienezza di tutela trova fondamento nell’art 113 della Costituzione, che impone che sia sempre assicurata la tutela giurisdizionale avverso gli stessi vietando che la stessa possa essere sottoposta a limiti di qualsiasi sorta.
La stessa Corte costituzionale, nelle successive sentenze n. 419 e n. 435 del 1995, già prima richiamate, ha del resto avuto modo di affermare che “il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nel giudicato e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa” costituisce, “in base al suddetto principio di effettività della tutela, connotato intrinseco ed essenziale della funzione giurisdizionale, “nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio”.
In detta occasione, si ricorda, con due sentenze “gemelle” la Corte Costituzionale ha escluso la fondatezza della tesi della non sottoponibilità degli atti del C.S.M. alla giurisdizione estesa al merito che il giudice amministrativo esercita in sede di ottemperanza, affermando che tale opzione ermeneutica “non ha, di per sé, alcun esplicito fondamento costituzionale, né la titolarità delle specifiche competenze conferite dall’art. 105 della Costituzione può comportare, quale conseguenza automatica, franchigie dell’attività di detto organo dal sindacato giurisdizionale, in quanto funzioni svolgentesi su piani diversi”.
D’altra parte, come sostenuto in giurisprudenza ed in dottrina, ciò che connota la giurisdizione e che la rende una funzione squisitamente caratterizzante la sovranità dello Stato non è l’attività di giudizio in quanto tale (rispetto alla quale non esiste una situazione di monopolio, dal momento che l’ordinamento ammette pacificamente il ricorso a giudici privati), quanto piuttosto il fatto che ad essa soltanto compete quella forza, ossia la forza del giudicato, idonea ad esaurire ogni potestà di giudizio sullo specifico frammento di vita e a troncare in modo irreversibile e ad ogni effetto il nesso tra la fattispecie concreta e quella astratta (il c.d. monopolio della forza).
Nel vigente sistema processuale amministrativo, il principio di effettività è enunciato dall’art. 1 del c.p.a. che affida alla giurisdizione amministrativa l’obiettivo di assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.
E proprio con riferimento al diritto europeo e al diritto internazionale, il principio trova riconoscimento esplicito nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e nell’art 13 della Cedu, che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo a favore di ogni persona i cui diritti e libertà fondamentali riconosciuti dalla Convenzione stessa siano stati violati.
Detto principio di effettività della tutela trova realizzazione nell’ambito del giusto processo, altro principio fondante del sistema processuale, enunciato dall’art 2 del c.p.a, nonché dagli artt. 111 Cost e 6 Cedu.
Sebbene i concetti a volte paiano intersecarsi, può convenirsi con la perimetrazione secondo la quale il principio del giusto processo attiene alle forme della tutela, imponendo il rispetto della parità delle parti, del contraddittorio, della ragionevole durata del giudizio, il quale deve svolgersi innanzi ad un giudice terzo e imparziale, il principio di effettività attiene al contenuto della tutela, necessariamente idoneo a soddisfare la pretesa sostanziale del ricorrente: in sintesi, il principio di effettività della tutela implica che il processo sia l’idoneo strumento attraverso cui il soggetto leso possa ottenere, ciò e proprio ciò cui ha diritto in forza del diritto sostanziale e quindi la tutela specifica e più idonea ad attribuire allo stesso la concreta utilità che l’ordinamento gli riconosce: a più riprese la Corte Edu ha manifestato il proprio intendimento contrario ad ogni forma di vanificazione di una decisione irrevocabile di giustizia[18] .
L’amministrazione, quindi deve conformarsi alla statuizione giurisdizionale senza che possa invocare alcun privilegio.[19]
- Il principio di intangibilità del giudicato (art. 2909 cc) e le possibili eccezioni.
La tematica impone alcune considerazioni preliminari in punto di ricostruzione del delicato rapporto che si instaura in sede di ottemperanza tra il rispetto del principio dell’intangibilità del giudicato e la possibilità di valutazione delle sopravvenienze, giuridiche, o di fatto.
Costituisce principio a più riprese predicato dalla giurisprudenza tradizionale quello secondo cui l’esecuzione del giudicato trova ostacolo e limite nelle sopravvenienze di fatto e di diritto verificatesi anteriormente alla notificazione della sentenza, restando irrilevanti solo le sopravvenienze successive alla notificazione medesima.
Detto consolidato approdo è stato affermato soprattutto con riferimento alle sopravvenienze in materia di edilizia e urbanistica, rispetto a provvedimenti di diniego di concessione edilizia, annullati in sede giurisdizionale, e trova la sua giustificazione nella circostanza che l’interesse all’esecuzione del giudicato in materia edilizia ed urbanistica deve essere mediato con l’interesse generale al rispetto dei nuovi assetti in materia nel frattempo intervenuti[20].
Più in generale, può affermarsi che le sopravvenienze di fatto e di diritto anteriori alla notifica della sentenza costituiscono un ostacolo e un limite all’esecuzione del giudicato laddove le stesse comportino un diverso assetto dei pubblici interessi che sia inconciliabile con l’interesse privato salvaguardato dal giudicato; ove siffatta inconciliabilità non vi sia, deve invece darsi piena espansione alla regola secondo cui la durata del processo non deve andare in danno della parte vittoriosa, e la parte vittoriosa ha diritto all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’adozione degli atti lesivi caducati in sede giurisdizionale
Il tema ha sollecitato le riflessioni di dottrina e giurisprudenza soprattutto con riferimento alla evenienza che il Legislatore detti una norma puntuale (c.d. “legge-provvedimento”) di portata retroattiva (ed applicabile, quindi, alle controversie insorte antecedentemente alla entrata in vigore della legge) allo scopo di sottrarre l’Amministrazione dalle conseguenze pregiudizievoli discendenti dalla esecuzione di un giudicato sfavorevole nei confronti di quest’ultima.
La criticità di una simile situazione non necessita di sottolineature: si fronteggiano principi apparentemente inconciliabili quali la libera esplicazione del potere legislativo e la stessa essenza del potere giurisdizionale esercitato.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 94 del 2 aprile 2009, ha esaminato la questione ed ha premesso che sono ammissibili le leggi-provvedimento, “poiché non è vietata l’attrazione alla legge, anche regionale, della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa, purché siano osservati i principi di ragionevolezza e non arbitrarietà e dell’intangibilità del giudicato e non sia vulnerata la funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso.”.
Dopo aver sottolineato che “all’adozione di una determinata disciplina con norme di legge non è di ostacolo la circostanza che, in sede giurisdizionale, sia stata ritenuta illegittima quella contenuta in una fonte normativa secondaria o in un atto amministrativo, in quanto legislatore e giudice continuano a muoversi su piani diversi: il primo fornisce regole di carattere tendenzialmente generale e astratto; il secondo applica il diritto oggettivo ad una singola fattispecie” (cfr ordinanze n. 32 del 2008, n. 352 del 2006, sentenze n. 211 del 1998, n. 263 del 1994)”, la Corte Costituzionale ha affermato che nella specie non risultavano “vulnerati tali principi né quello secondo cui sono censurabili le norme il cui intento non sia quello di stabilire una regola astratta, ma di incidere su di un giudicato, in quanto la norma denunciata, priva di efficacia retroattiva, ha stabilito soltanto la disciplina applicabile per il futuro, prevedendo una regolamentazione che il legislatore ordinario ha ritenuto di attrarre, temporaneamente, alla sfera legislativa, in virtù di una scelta che neppure può ritenersi irragionevole e manifestamente arbitraria “.
Quel che più rileva, però, è che il Giudice delle leggi ha ribadito, in seno alla richiamata decisione, che “sono, invece, censurabili le norme il cui intento non sia quello di stabilire una regola astratta, ma di incidere su di un giudicato, non potendo ritenersi consentito al legislatore di risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi (sentenza n. 374 del 2000)”.
Sebbene non sia stata affermata, in concreto, la illegittimità della legge provvedimento in quella sede censurata, non può negarsi che la Corte Costituzionale abbia tracciato una precisa linea di demarcazione: neppure mercè un atto legislativo è possibile vanificare la portata “utile” del giudicato; una legge emanata (unicamente) a tal fine non si sottrarrebbe alla declaratoria di incostituzionalità[21].
Quanto invece alle sopravvenute emergenze fattuali, recenti arresti giurisprudenziali, hanno rimeditato la delicata problematica, pervenendo ad affermazioni meno perentorie e più sfumate, quantomeno con riferimento alle ipotesi in cui la posizione giuridica azionata fosse di natura pretensiva.
Il principio generale è quello – espresso nel datato quanto insuperato arresto raggiunto in sede di Adunanza Plenaria, sentenza 20 novembre 1972, n. 12 – secondo cui “quando, dopo una pronuncia giurisdizionale di annullamento di un diniego, la situazione sulla quale l’autorità deve nuovamente provvedere sia sostanzialmente cambiata, è sulla base della nuova situazione che l’autorità deve provvedere, altrimenti l’attività amministrativa, esercitata su nuovi presupposti di fatto diversi da quelli prima considerati, potrebbe trovarsi in contrasto con l’interesse pubblico, che non può che essere attuale”.
La ratio del principio di diritto riposa sulla necessità di contemperare due differenti esigenze, entrambe suscettibili di positivo apprezzamento giuridico: da un lato, l’esigenza della parte vittoriosa di vedere effettivamente eseguita la regola giudiziale posta dal giudicato; dall’altro, l’esigenza dell’amministrazione di rispettare la regula iuris in vigore al momento dell’attuazione del giudicato ovvero di valutare l’attuale situazione di fatto esistente al momento dell’esercizio del potere.
La giurisprudenza – esprimendosi sulla necessità o meno che l’esecuzione del giudicato avvenga in base allo stato di fatto e di diritto esistente al momento dell’adozione degli atti caducati in sede giurisdizionale – ha quindi ritenuto che detta necessità non sia assoluta ed inderogabile. Più in dettaglio, la giurisprudenza ha precisato che in sede di esecuzione del giudicato assumono rilievo le sopravvenienze normative o di fatto, a cui si attribuisce, perciò, la capacità di limitare o escludere gli effetti ulteriori del giudicato, imponendo al giudice, in sede di esecuzione di questo, di integrare e talora addirittura di variare le statuizioni della decisione da eseguire[22]. Perciò, al momento dell’ottemperanza alla decisione si deve indagare se il ripristino della posizione soggettiva (illegittimamente) sacrificata risulti compatibile con lo stato di fatto e di diritto medio tempore prodottosi[23].
4.1. Il sindacato “di merito” esercitato in sede di ottemperanza, non incide sulla “riserva di amministrazione”: il principio della “riserva di poteri” all’Amministrazione non ha copertura costituzionale ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione.
La tematica appena esaminata merita, però, un ulteriore approfondimento sotto il profilo dogmatico.
Proprio con riferimento alla delicata questione delle c.d. “leggi provvedimento” (laddove la asserita “riserva di poteri” all’Amministrazione sarebbe, in tesi, lesa dal Potere Legislativo) la risposta fornita dalla Corte Costituzionale è stata tranchant nell’affermare che l’articolo 97 della Costituzione non fornisce copertura alla tesi secondo la quale il sistema prevederebbe una -intangibile da altri poteri- “riserva” all’Amministrazione.
Rilevato infatti che le leggi provvedimento sono formalmente atti promanati dal potere legislativo connotati, sotto il profilo sostanziale, da una “anomalia” riposante nella assenza dei caratteri della generalità ed astrattezza (rectius: trattasi di leggi che contengono “norme-provvedimento”, in quanto incidenti su un numero determinato di destinatari ed aventi contenuto particolare e concreto, o relative ad una ben determinata fattispecie)la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina materie normalmente affidate all’Autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto, nondimeno tali leggi sono ammissibili entro limiti non solo specifici, quale quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, ma anche generali, ossia quello del rispetto del principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà [24].
Si è detto pertanto che la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento, quindi, deve essere valutata in relazione al loro specifico contenuto e, in considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio, ed è soggetta ad uno scrutinio rigoroso di costituzionalità essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore[25].
Quel che più rileva, però, in questa sede, riposa nella circostanza che la Corte Costituzionale, sotto un profilo più generale, ha supportato detto approdo ed ha riconosciuto, in linea di principio, l’ammissibilità della categoria di atti normativi in esame a fronte:
– dell’insussistenza di una riserva di amministrazione (posto che la Costituzione non garantisce ai pubblici poteri l’esclusività delle pertinenti attribuzioni gestorie)
– e dell’inconfigurabilità per il Legislatore di limiti diversi da quelli – formali – dell’osservanza del procedimento di formazione delle leggi, atteso che la Costituzione omette di prescrivere il contenuto sostanziale ed i caratteri essenziali dei precetti legislativi[26].
Posto quindi che la Costituzione non garantisce ai pubblici poteri l’esclusività delle pertinenti attribuzioni gestorie, se ne può agevolmente fare discendere il corollario che dette attribuzioni recedano di fronte all’intervenuto giudicato.
Nessuna intagibile riserva di amministrazione è ravvisabile ex art. 97 della Costituzione, quindi, e di conseguenza nessuno “straripamento” del potere giudiziario potrebbe – sotto il profilo dogmatico- ascriversi alla possibilità che si persegua l’attuazione del comando giudiziale regiudicato mercè, addirittura, la diretta adozione del provvedimento amministrativo ad opera del giudice per il tramite del commissario ad acta.
- Le (ulteriori)ragioni della centralità dell’ottemperanza nel diritto amministrativo. Un freno al principio c.d. “della inesauribilità del potere amministrativo”.
Un’ultima, breve, digressione a chiarimento di questo versante di indagine appare necessaria.
Dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che insieme alla statuizione demolitoria (pronuncia sulla domanda di annullamento) di regola la sentenza resa dal giudice amministrativo contiene una parte accertativa, può contenere una statuizione condannatoria, ed inoltre affermazioni di natura conformativa.
Queste ultime (di regola rinvenibili nella parte motiva) sono particolarmente importanti allorchè il dictum demolitorio non abbia ex se raggiunto l’effetto di consentire al ricorrente l’accesso al bene della vita cui aspirava (ma ciò,semmai, costituisca risultato raggiungibile attraverso l’intermediazione del potere amministrativo).
Ciò avviene in particolare allorchè sia attivato in giudizio un interesse legittimo di natura pretensiva.
In questi casi, la sentenza di annullamento non è autoesecutiva ma implica il riesercizio dell’attività amministrativa nel rispetto del c.d. effetto conformativo (id est: se il privato si opponeva alla chiusura del proprio esercizio, l’annullamento del provvedimento di chiusura è immediatamente satisfattorio dell’interesse oppositivo azionato; non così laddove avesse impugnato il diniego al rilascio della licenza: annullato il diniego, spetta all’Amministrazione rideterminarsi sulla istanza).
Di qui, l’avversione della dottrina e della giurisprudenza verso una prassi invalsa in passato e consistente nell’assorbimento dei motivi (si veda comunque per la espressa disciplina della fattispecie l’art. 101 comma II del cpa che regola tale delicata evenienza “si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.” che prevede espressamente detta eventualità.).
Spesso, infatti, il Giudice amministrativo di primo grado, accolto il ricorso per uno dei motivi prospettati, ed annullato quindi l’atto amministrativo gravato, non esaminava (”assorbendole” nel giudicato annullatorio) le altre censure: la più avveduta giurisprudenza e la unanime dottrina hanno aspramente criticato detto modo di procedere allorchè, trattandosi di interesse pretensivo dedotto in giudizio, l’esame dell’intero ventaglio delle censure dedotte appaia “indispensabile per un più penetrante effetto conformativo verso la p.a.”[27].
Di converso, si è affermato che [28] la tecnica dell’assorbimento dei motivi non è illegittima ogni qualvolta non sia frutto di arbitrio o casualità giudiziaria ma espressione consapevole del potere di controllo esercitato dal giudice amministrativo sull’esercizio della funzione pubblica.[29].
In ogni caso, di tale prassi ha preso atto il codice del processo amministrativo, al comma II dell’art. 101.[30]
Il principio generale è quindi quello per cui, a seguito dell’adozione di una statuizione demolitoria (soprattutto ove incidente su un interesse c.d. “pretensivo” – volto cioè al rilascio di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato) la potestà di provvedere viene restituita nuovamente all’ Amministrazione perché essa si ridetermini. E su tale nuova determinazione è consentito un controllo giurisdizionale esteso al merito, per assicurare che il giudicato sia portato a compimento.
La peculiarità del giudizio di ottemperanza nasce dal fatto che il dovere dell’amministrazione di eseguire la sentenza non riguarda solo gli effetti eliminatori e ripristinatori della pronuncia, ma anche il momento rinnovatorio, cioè del riesercizio del potere, rispetto al quale rileva particolarmente l’effetto conformativo della sentenza. In altri termini, accanto all’effetto demolitorio e ripristinatorio, direttamente derivanti dal dispositivo di annullamento, il giudicato (soprattutto quando sia stato dedotto in giudizio un interesse legittimo pretensivo) produce l’effetto conformativo della successiva attività amministrativa, in relazione al quale assume rilievo fondamentale la motivazione della sentenza.
Ove l’attività conformativa dell’amministrazione sfoci in un provvedimenti che risulti insoddisfacente per taluno dei contendenti l’impugnazione tesa a dimostrare che l’ amministrazione ha violato od eluso il giudicato, o che al contrario lo ha malinteso travalicandolo, viene devoluta alla cognizione del giudice amministrativo che esercita una giurisdizione “estesa al merito” (artt. 27, comma 1, nr. 4, r.d. 26 giugno 1924, nr. 1054, e 37, l. 6 dicembre 1971, nr. 1034, come di recente sostituiti dagli artt. 112 e segg. cod. proc. amm.).
La qualificazione del giudizio di ottemperanza come giurisdizione estesa al merito – si ripete- implica che sia consentito al giudice sostituirsi all’amministrazione rimasta (in tesi) inadempiente, o soltanto parzialmente adempiente; ciò, però, soltanto nei limiti del percorso delineato dalla motivazione contenuta nella sentenza regiudicata.
Una diversa opzione ermeneutica estensiva che si spingesse a sostenere che il giudice possa sostituirsi all’amministrazione in relazione a “tutta” l’attività amministrativa necessaria per definire la vicenda controversa ( ivi ricomprendendovi quella che non è stata oggetto di accertamento giudiziale con la sentenza passata in giudicato) implicherebbe lo scardinamento del principio di separazione dei poteri consacrato nella Costituzione ed a determinate condizioni refluirebbe negativamente sul principio del doppio grado di giudizio che – seppur per la giustizia amministrativa non espressamente consacrato nella Costituzione- è tendenziale canone interpretativo costantemente rispettato.
Come lucidamente affermato da qualificata dottrina[31] il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere esercitato comporterebbe in teoria che l’Amministrazione possa (e debba) riprovvedere in relazione alla “res” attinta da un giudicato annullatorio.
E soprattutto comporterebbe che ciò possa avvenire un numero non predeterminato di volte[32].
In via di principio nulla osterebbe a che, rideterminandosi, l’Amministrazione fosse libera di porre a sostegno del proprio convincimento elementi “nuovi”, non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato, e che per tal via riconfermasse il contenuto dispositivo annullato.
Si rammenta in proposito che la regola secondo la quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile è riferibile esclusivamente alla posizione della parte che è attributaria di una sentenza reiettiva essendo a questa precluso indicare nuovi elementi o nuove eccezioni non dedotti con la prima azione.[33]
Tale principio non può essere parimenti predicabile per l’azione futura dell’Amministrazione (come oggi espressamente consacrato nell’art. 34 c.II del c.p.a.); e, come prima rilevato, neppure sui motivi assorbiti può formarsi il giudicato.[34]
In concreto: chiamata a delibare sull’affare a seguito di un giudicato annullatorio attingente un provvedimento reiettivo di un interesse pretensivo del privato, l’Amministrazione non potrebbe ribadire il proprio diniego supportandolo con l’affermazione presa in esame dal giudice e giudicata illegittima (chè ciò osterebbe con il giudicato formatosi).
Potrebbe però nuovamente negare il provvedimento favorevole ampliativo, adducendo motivi nuovi, ovvero motivi già addotti, censurati dal privato, ma sui quali non si sia formato il giudicato in quanto “assorbiti” dal Giudice.
E’ ben ovvio, tuttavia, che potendo in teoria l’Amministrazione pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti, circostanze, ed elementi “nuovi” (in quanto non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione.
Ogni controversia sarebbe destinata, in potenza, a non concludersi mai con un definitivo accertamento sulla spettanza – o meno- del “bene della vita”.
Se quindi deve escludersi che ogni questione insorta dopo la formazione del giudicato e in esecuzione dello stesso vada sottoposta al vaglio del giudice dell’ottemperanza, tuttavia occorre che la controversia fra l’Amministrazione e l’amministrato trovi ad un certo punto una soluzione definitiva, e dunque occorre impedire che l’Amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli all’originario ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato.
La giurisprudenza amministrativa si è interrogata sulla delicata in ordine alla possibilità di conciliare dette –opposte – esigenze (garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e portata cogente del giudicato): ed il punto di equilibrio è stato individuato – in via empirica- imponendo all’Amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.
Questo principio costituisce ormai jus receptum in giurisprudenza[35]: e tale (si ripete,empirico) approdo appare equo contemperamento (o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato) tra esigenze all’apparenza inconciliabili ( la “forza” della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima; la continuità del potere amministrativo ex art. 97 della Costituzione; il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 della Costituzione).
Tale regola salve le “aperture” di recente giurisprudenza cui si è prima fatto riferimento[36] può soffrire di una limitata eccezione unicamente in relazione a rilevanti fatti sopravvenuti o che non sono stati esaminati in precedenza per motivi indipendenti dalla volontà dell’Amministrazione ovvero avuto riguardo ad una sopravvenuta disposizione legislativa (purchè essa non persegua il fine di incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, chè altrimenti si dovrebbe dubitare della compatibilità costituzionale della stessa).
Si può concludere, quindi, che (soltanto) la prima rieffusione del potere è tendenzialmente “libera”, mentre le eventuali ulteriori valutazioni che seguano ad un (secondo) giudicato demolitorio non possono giovarsi di materiale cognitivo prima non esaminato né fondarsi su motivazione “diversa”.
Nell’ ordinamento italiano, pertanto, per costante elaborazione pretoria non trova quindi riconoscimento la teoria del c.d. “one shot” ( regola, questa,viceversa ammessa in altri ordinamenti continentali, e che, come è noto, impone che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato).
Nel sistema italiano il principio è stato “temperato” accordandosi all’Amministrazione due chances: si è infatti costantemente affermato che l’annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l’amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza.[37]
Appare chiaro quindi, alla luce di quanto si è finora esposto, il motivo per cui l’istituto della ottemperanza assuma un rilevo centrale per l’intero sistema di diritto amministrativo: è innegabile infatti che tutto ciò che si è finora esposto implichi – sotto il profilo dell’analisi degli effetti – una restrizione (la più rilevante, per il vero) del potere discrezionale affidato all’Amministrazione; essa è “eventuale” in quanto non opera in sede di prima rieffusione del potere successiva al giudicato, ma soltanto laddove debba procedersi a successive manifestazioni di potere (per effetto di una ulteriore vulnerazione in sede giurisdizionale di un “secondo” provvedimento).
A seguito del giudicato demolitorio, quindi, la prima rieffusione del potere è tendenzialmente “libera”: il potere di provvedere tendenzialmente inesauribile viene restituito “integro” all’Amministrazione con il limite, ovviamente, dello specifico accertamento contenuto nella sentenza regiudicata.[38]
Le eventuali ulteriori manifestazioni che seguono ad un (secondo) giudizio demolitorio non possono giovarsi di materiale cognitivo prima non esaminato né fondarsi su motivazione “diversa”: l’Amministrazione è nella sostanza totalmente “vincolata”. Il provvedimento viene emesso da quest’ultima sotto il profilo formale, ma il contenuto e il dispositivo dello stesso è sostanzialmente “tipizzato e predeterminato” dal secondo giudicato annullatorio.
5.1. Di converso, il rito dell’ottemperanza non può essere utilizzato per condizionare la rieffusione del potere.
La polisemicità del giudizio di ottemperanza è stata a più riprese affermata dalla giurisprudenza amministrativa.
In particolare la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 15 gennaio 2013, (dopo avere richiamato le precedenti sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’Adunanza Plenaria) ha proceduto ad un completo riepilogo del contenuto composito e variegato di detta azione.
Si è infatti ivi condivisibilmente posto in luce che il detto giudizio presenta un contenuto composito, entro il quale “convergono” azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito” (principio che si ribadisce, non ha copertura costituzionale).
La disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:
- a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2); e già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto – di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;
- b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3); in questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);
- c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato.” (art. 112, comma 3); in questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto; si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;
- d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.
Da quanto sopra si ricava, ad avviso della Plenaria, che nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il c.p.a. ha disciplinato azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ “attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza -o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.
Peraltro inquadramento autonomo va riservato al ricorso, ex art. 112, comma 5 del c.p.a., proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: quest’ultimo presenta caratteristiche che non consentono di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza.
Ciò, secondo il condivisibile avviso espresso dalla Plenaria, emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale – lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi – afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile; e tale approdo risulta anche evidente dalla circostanza che – a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile – in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla pubblica amministrazione soccombente nel precedente giudizio cognitorio).
Proprio il ricorso, ex art. 112, comma 5 del c.p.a., proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”, potrebbe in teoria sollecitare una pronuncia del Giudice su un “tratto libero” dell’azione amministrativa, finendo con il comprimere vieppiù la discrezionalità dell’Amministrazione.
La recente giurisprudenza[39] ha però precisato che:
- tale azione consente al giudice adito (solamente) di fornire chiarimenti su punti del decisum che presentano elementi di dubbio o di non immediata chiarezza, senza che possono essere introdotte ragioni di doglianze volte a modificare e/o solo integrare il proprium delle statuizioni rese con la decisione di merito (ed è altresì, ovviamente per sua natura e finalità, del tutto inidonea a far valere pretese e domande in ordine a statuizioni che hanno assunto valenza di cosa giudicata e perciò stesso intangibili);
- l’ art. 34 del cpa impedisce al Giudice di pronunciarsi in ordine a “poteri non esercitati” dall’Amministrazione;
- in ipotesi di giudicato demolitorio emesso in accoglimento di una domanda fondata su un interesse oppositivo la conformazione al contenuto della sentenza può avvenire in svariati modi dipendenti dal contenuto della sentenza e, primo fra tutti, eventualmente astenendosi dal reiterare il provvedimento annullato;
- d) di regola, ogniqualvolta l’annullamento sia avvenuto per carenza di motivazione, la possibile rieffusione del potere è amplissima;
- e) spetta alla responsabilità discrezionalità dell’Amministrazione stabilire modi e termini dell’attività da intraprendere, ed eventuali preclusioni alla rieffusione del potere senza che il Giudice possa -o debba- ingerirsi in tale attività (arg. anche ai sensi dell’art. 34 comma II del cpa) e men che meno senza che possa anticipare un convincimento circa la “esatta via da intraprendere” laddove l’Amministrazione si orienti nel senso di reiterare l’atto amministrativo annullato;
- f) ciò vale sempre – quantomeno laddove, i “quesiti” attengano ad argomenti sui quali la sentenza non si è minimamente soffermata, in quanto non devoluti in sede cognitoria, ed afferenti ad un segmento successivo ed eventuale rispetto al dispositivo demolitorio- .
Può richiamarsi sul punto, conclusivamente, l’insegnamento già da tempo enucleato dalla giurisprudenza, secondo il quale “l’amministrazione non può ex ante rinunciare all’esercizio del potere-dovere di ottemperanza, chiedendo al giudice di sostituirsi ad essa”[40].
5.2. Il giudizio sulla rieffusione del potere.
Accertato quindi che l’Amministrazione non solo può –ma addirittura deve- rideterminarsi dopo il giudicato demolitorio, conformandosi a quest’ultimo, è necessario interrogarsi su una ulteriore problematica.
Va premesso in proposito che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta sia l’inerzia della p.a. (ossia il non facere) sia il comportamento (id est: facere) che realizzi un’ottemperanza parziale o una vera e propria violazione od elusione del giudicato. Infatti, anche un’attuazione parziale o inesatta o elusiva deve essere annoverata nella nozione di inottemperanza, al pari dell’inerzia[41]. Tale principio pretorio è ormai saldamente recepito dal Codice del processo amministrativo (art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6).
Tale assunto, appare in linea con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo, nel cui ambito va iscritto il diritto di ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre che in tempi rapidi, senza la necessità di dover attivare un ulteriore giudizio di cognizione; si muove in proposito dall’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto al processo (di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il diritto all’esecuzione del giudicato (“diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia”): il diritto al giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove non vi fossero strumenti utili per dare esecuzione al giudicato, né l’ esecuzione può essere indebitamente ritardata.
Ma se nel caso in cui il ricorrente si debba confrontare con una mera condotta inerziale il compito demandato al giudice non presenta alcuna difficoltà, restando semplicemente da chiedersi (il che verrà successivamente approfondito) quale “sorte” debba attribuirsi al provvedimento attuativo del giudicato tardivamente sopravvenuto (id est: quanto già era stata incardinata l’actio iudicati) non alle stesse conseguenze deve pervenirsi allorchè l’Amministrazione abbia reso un ulteriore provvedimento, reiettivo o comunque non satisfattorio per il soggetto risultato vittorioso nel precedente giudizio
Per dirla più semplicemente: valutando la problematica nell’ottica del soggetto destinatario di una sentenza favorevole (che abbia quindi annullato un diniego oppostogli dall’Amministrazione, o comunque un atto che questi assumeva a se sfavorevole) il quale si assuma leso dalla ulteriore determinazione (sfavorevole) dell’Amministrazione, ci si deve chiedere se questi debba sempre e comunque adire direttamente il Giudice dell’ottemperanza in sede quindi di giurisdizione di merito, ovvero se vi siano ipotesi in cui sarà tenuto ad impugnare l’atto in sede di ordinario giudizio di legittimità.
La questione non è di poco momento sotto il profilo dogmatico; ma è addirittura di fondamentale importanza sotto il profilo pratico.
Quanto a quest’ultimo aspetto, a tacer d’altro, i termini di proposizione delle due azioni sono diversi: l’actio iudicati non è soggetta a termini di decadenza ma alla ordinaria prescrizione decennale (art, 2953 c.c.); mentre l’azione annullatoria di legittimità deve essere proposta entro il termine di legge (di regola 60 giorni) dalla conoscenza dell’atto sfavorevole ex art. 41 del c.p.a..
Il processo di ottemperanza si svolge con il rito camerale: non così l’ordinaria impugnazione di legittimità che si svolge con il rito ordinario [42] .
Diverso è (o meglio, potrebbe essere) il giudice competente, in quanto:
- la ordinaria impugnazione di legittimità va proposta innanzi al T.a.r. competente secondo le ordinarie regole di cui agli artt. 13-16 del c.p.a.;
- per l’ottemperanza di sentenze passate in giudicato o di provvedimenti a esse equiparate del giudice ordinario, la competenza è attribuita in base alla sede dell’organo giudiziario che ha adottato la pronuncia da eseguire, ed il ricorso va dunque proposto al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza (art. 113, co. 2, mediante il rinvio alla lett. c, co. 2, dell’art. 112 c.p.a.).
- per l’ottemperanza alle decisioni rese dal plesso giurisdizionale amministrativo l’azione di ottemperanza si propone invece al giudice individuato ex art. 113 del c.p.a.[43]: in ipotesi di sentenza riformata dal Consiglio di Stato si propone in grado unico a quest’ultimo (si è in precedenza dato conto della assenza di copertura costituzionale del principio del doppio grado di giudizio nell’ambito del processo amministrativo).
In caso di pronuncia in sede di appello la competenza è del tribunale amministrativo regionale qualora la pronuncia di primo grado sia stata confermata con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo; mentre in caso di riforma della sentenza di primo grado o di conferma ma con diversa motivazione, la competenza è del giudice d’appello, ovverosia del Consiglio di Stato.
Spetta quindi alla competenza del Consiglio di Stato l’ottemperanza nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata confermata ma con una diversa motivazione, che modifichi l’effetto conformativo della pronuncia di prime cure, mutando in sostanza il decisum contenuto nella sentenza appellata.[44]
In sostanza, sul punto, l’espressa previsione del codice ha conferito rango legislativo, ampliandola, alla tradizionale elaborazione pretoria secondo la quale “qualora la sentenza di appello del Consiglio di Stato confermi quella di primo grado del T.a.r. con una diversa motivazione, il Consiglio di Stato è competente per il giudizio di ottemperanza, ma non ogni differenza, anche solo marginale, tra la motivazione della decisione di appello e di quella di primo grado è idonea a radicare tale competenza, quanto invece solo quelle divergenze che comportano un differente contenuto precettivo delle due sentenze, che a sua volta incide sulla successiva ed alle modalità di ottemperanza, con la conseguenza che quando la sentenza di appello, confermando quella di primo grado ancorché con una diversa motivazione, non rechi un diverso contenuto e differenti modalità dell’ottemperanza dovuta dall’Amministrazione, trova piena applicazione la regola di cui all’articolo 37 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034. “[45];
Diversi sono, infine, come si è prima chiarito, i poteri spettanti al Giudice, in quanto:
- in sede di legittimità il sindacato è meno penetrante, e la verifica si incentra sulla sussistenza di eventuali vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (ulteriori, rispetto a quelli già stigmatizzati con la “prima” sentenza demolitoria) attingenti il secondo provvedimento non satisfattorio dell’interesse del privato;
a1) il giudice, ove riscontri la sussistenza di detti vizi, dovrà annullare il provvedimento ma anche in questo caso “restituirà” all’Amministrazione il potere di provvedere: è ben vero che, a questo punto, per quanto si è prima chiarito, il “nuovo” ( e terzo) provvedimento che l’Amministrazione dovrà emettere sullo stesso affare si appalesa sostanzialmente vincolato, avendo essa perso la possibilità di sollevare nuovi elementi ostativi; purtuttavia l’Amministrazione, seppur nei ristretti limiti disegnati dalla giurisprudenza, resta pur sempre dominus del procedimento;
- b) non così laddove il “secondo” provvedimento venga gravato in ottemperanza: in questa ipotesi il Giudice, ove ritenga l’atto impugnato affetto dal vizio di violazione od elusione del giudicato, lo dichiarerà nullo e potrà nominare, anche immediatamente, il commissario ad acta affinchè adotti l’atto conforme al giudicato;
- c) infatti, l’art. 114 comma IV del codice del processo amministrativo scolpisce i poteri giudiziali in questi termini: “Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso:
- a) ordina l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione;
- b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato;
- c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano;
- d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta;
- e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo.”.
Da quanto si è finora esposto, risulta evidente che laddove la parte istante in ottemperanza ritenesse erroneamente il “nuovo” provvedimento emesso dall’amministrazione in seguito a giudizio annullatorio “aggredibile” in sede di ottemperanza (mentre invece era “unicamente” sindacabile in sede di legittimità) rischierebbe di incorrere in decadenze di ogni natura (prima fra tutti quella relativa al termine di proposizione del ricorso di primo grado ove fosse rimasto inerte oltre sessanta giorni confidando nella proponibilità dell’actio iudicati nel termine di prescrizione decennale).
E’ ben vero che la giurisprudenza ha costantemente cercato di alleviare le conseguenze dell’eventuale errore, talvolta concedendo l’errore scusabile, talaltra affermando che[46] “ai sensi dall’art. 114, c. 4, lett. b), del c.p.a. il giudice dell’ottemperanza può dichiarare nulli gli atti emessi in elusione o violazione del giudicato, senza che possa assumere alcuna rilevanza la questione che il ricorso non sia stato proposto nelle forme dell’ottemperanza, atteso che la procedura ordinaria fornisce rispetto a quella camerale maggiori garanzie in ordine alla pienezza e all’effettività del contraddittorio”;
ma è altresì vero che, nella speculare ipotesi in cui fosse stato proposto con il (meno “garantito” in quanto camerale) rito dell’ ottemperanza un ricorso che, invece, si sarebbe dovuto proporre nella ordinaria sede di legittimità, ove non siano stati rispettati i termini decadenziali la conseguenza che dovrebbe discendere sarebbe quella della inammissibilità del mezzo (fatta salva, sempre, la eventuale concessione dell’errore scusabile).
La giurisprudenza,[47] infatti, aveva in passato costantemente affermato che “non è possibile, una conversione dell’azione di ottemperanza esperita dinanzi Consiglio di Stato in azione ordinaria di cognizione, perché si produrrebbe una lesione del principio del doppio grado di giudizio che, sebbene non dotato di copertura costituzionale, è un principio generale sul quale è impostato il sistema del riparto di competenza territoriale e funzionale dei T.A.R. e il meccanismo di appellabilità delle sentenze da questi adottate. In assenza quindi di un’espressa deroga legislativa, nessuna conversione può essere disposta.”
Così sinteticamente esposte le ragioni che rendono doverosa la distinzione, a monte, su quale sia il tipo di azione esperibile, appare possibile enunciare un principio, e insieme, sgombrare il campo da un possibile equivoco: il ricorrente vittorioso non è “libero” di scegliere a sua discrezione la tipologia di azione da esperire (ordinaria impugnazione di legittimità, ovvero azione di ottemperanza diretta a fare emergere la nullità del provvedimento per violazione od elusione del giudicato).
La tipologia dell’azione da esperire è strettamente condizionata dal tipo di vizio da cui si ritiene affetto il “nuovo” provvedimento reiettivo (o comunque non satisfattorio) adottato dall’Amministrazione.
La scelta del rito esperibile postula una delicata (ed a volte difficile, in quanto non priva di margini di incertezza) operazione esegetica.
Secondo l’art. 21 septies, della legge n. 241 del 1990, riprodotto nel codice del processo amministrativo (art. 114, co. 4, lett. b, d.lgs. n. 104/2010), infatti, il provvedimento violativo del giudicato è nullo. La conseguenza è che contro di esso non va attivato un nuovo giudizio di cognizione, ma il giudizio di ottemperanza nel termine di prescrizione dell’actio iudicati; a tale soluzione si era già pervenuti da parte della giurisprudenza formatasi sul pregresso quadro normativo. L’intento del nuovo codice di concentrare nel giudizio di ottemperanza tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato, in relazione alla sua esecuzione, non si spinge, però, sino al punto di affermare che qualsivoglia provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, debba essere portato davanti al giudice dell’ottemperanza; infatti il c.p.a. dispone che presupposto per il giudizio è una inottemperanza, e che ci si rivolge al giudice dell’ottemperanza oltre che in caso di inerzia totale o parziale, in caso di atti violativi o elusivi del giudicato. Laddove l’atto nuovo successivo al giudicato non sia elusivo o violativo, ma autonomamente lesivo, perché copre spazi lasciati in bianco dal giudicato, va azionato il rimedio del ricorso ordinario.[48]
Il ricorrente sarà orientato, per ovvie ragioni, a prescegliere il rito dell’ottemperanza (più rapido, più semplice, e soprattutto destinato a sfociare in una attività direttamente esecutiva per il tramite del commissario ad acta): è questa, però,una scelta, rischiosa, laddove non “accompagnata” dalla elementare misura prudenziale consistente nella proposizione dell’azione entro il termine decadenziale previsto per la impugnazione di legittimità.
In tale ultima ipotesi, ove il Giudice qualifichi diversamente il vizio che asseritamente connota il provvedimento impugnato potrà ex art. 32 comma 2 del cpa, dopo avere qualificato diversamente l’azione proposta, rimettere la parte innanzi al giudice competente per la “ordinaria” impugnazione dell’atto con il rito ordinario (mentre nella non scontata ipotesi in cui sia esso stesso competente sulla domanda annullatoria per la domanda annullatoria, la causa verrà trattata innanzi al medesimo giudice adito con la domanda di ottemperanza, ma in sede di rito ordinario); ove il termine decadenziale ex art. 41 del cpa non sia rispettato, invece, salva la concessione dell’errore scusabile il ricorso dovrà essere dichiarato irricevibile in quanto tardivo, il “nuovo” provvedimento reiettivo (ancorchè in tesi affetto da vizii) si consoliderà ed il ricorrente, seppur vittorioso in un precedente giudizio, rimarrà privo di tutela.[49].
Cercando di trarre una sintesi da quanto si è finora esposto, può affermarsi pertanto che:
- a) ai sensi dell’ art. 21 septies, della Legge 7 agosto 1990 n. 241 (aggiunto dall’ 14, L. 11 febbraio 2005, n. 15.) “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.”;
- b) il Legislatore – peraltro opportunamente accorpando ed equiparando quoad effectum le distinte ipotesi di violatività/elusività che in passato avevano dato luogo a discordi interpretazioni giurisprudenziali – ha definitivamente sposato l’opzione ermeneutica secondo la quale il provvedimento amministrativo collidente con il giudicato illegittimo non è “soltanto” illegittimo, ma radicalmente nullo;
- c) trattasi peraltro di una nullità sui generis, da tenersi distinta rispetto al corrispondente referente civilistico di cui agli artt. 1418 e segg del codice civile, sotto più profili:
I)essa, diversamente dalla previsione contenuta nel codice civile, non può essere sollevata “da chiunque vi abbia interesse” ma dal soggetto che, in ossequio al principio scolpito nell’art. 100 del c.p.c. – pienamente applicabile al processo amministrativo – abbia un diretto ed immediato interesse a farla dichiarare (soggetto normalmente coincidente con colui il quale aveva in precedenza ottenuto il giudicato favorevole);
- II) detta azione non è imprescrittibile, ma va proposta nel termine decennale coincidente con l’actio judicati ( neppure, quindi, nel termine di 180 giorni previsto dall’art. 31 comma IV del c.p.a., che, per espressa previsione ivi contenuta, concerne tutte le ipotesi di nullità diverse da quelle relative alla violazione/elusione del giudicato: “la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’ articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.”);
- d) il ricorrente che si assuma leso da tale “nuova” rieffusione del potere, non può “scegliere” a proprio arbitrio l’azione da esperire ed il giudice competente: tali elementi dipendono dalla natura del vizio che si ritiene affligga il nuovo provvedimento.
5.2.1. Le fattispecie di nullità per violazione od elusione del giudicato ed il criterio discriminante rispetto all’ “ordinario” vizio di legittimità.
La questione che si esamina, non è di puro rilevo dogmatico, ma assume risvolti eminentemente pratici, come ci si è sinora sforzati di chiarire: la risoluzione della stessa non sempre risulta agevole in quanto la linea di discrimine tra la fattispecie di illegittimità “ordinaria” e quella di nullità per violazione od elusione del giudicato costituisce, assai spesso, delicata operazione ermeneutica.
La giurisprudenza amministrativa si è a più riprese confrontata con tale problematica, nel tentativo di enucleare indici quanto più possibile affidabili per tracciare una netta linea distintiva: tale lodevole sforzo, seppur abbia ridotto i margini di incertezza, non può dirsi del tutto riuscito, e di ciò, come meglio si vedrà immediatamente di seguito ha autorevolmente preso atto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 2 del 15 gennaio 2013.
Il punto di partenza dal quale trarre le mosse è rappresentato dal consolidato principio – che costituisce ormai jus receptum – enunciato dalla giurisprudenza in tema di esecuzione del giudicato e doveri dell’amministrazione in sede di riesercizio del proprio potere a seguito di annullamento giurisdizionale: in particolare, si è più volte affermato che in tale sede l’amministrazione è tenuta non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice e a determinarsi secondo i limiti impostile dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma, anche, a prendere diligentemente in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando non solo i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull’oggetto della pretesa, all’evidente scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato[50].
Costituisce, poi, patrimonio acquisito dell’elaborazione giurisprudenziale quello per cui, affinché possa ravvisarsi il vizio di violazione o elusione del giudicato – che comporta la radicale nullità dei provvedimenti che ne sono affetti ed è deducibile direttamente indipendentemente dalla loro impugnazione nel termine di decadenza – non è sufficiente che la nuova attività posta in essere dall’Amministrazione dopo la formazione del giudicato alteri l’assetto degli interessi definito dalla pronuncia passata in giudicato, essendo invece indispensabile che:
- a) l’Amministrazione eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con il puntuale contenuto precettivo del giudicato amministrativo;
- b) essa realizzi oppure cerchi di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l’esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che la giustificano.
Di converso, è stato rilevato che non è prospettabile tale vizio qualora l’amministrazione incida sull’assetto degli interessi definiti dal giudicato, esercitando, per un fine suo proprio, un potere diverso da quello già utilizzato ovvero utilizzando un nuovo istituto giuridico al di fuori della figura del manifesto sviamento di potere[51].
La giurisprudenza amministrativa ha poi enucleato un criterio distintivo di natura empirica: è stato affermato, pertanto, che la conformazione dell’attività successiva dell’Ente pubblico al dictum del giudice dipende dalla tipologia dei vizi riscontrati nella “prima” sentenza demolitoria.
Si è quindi rilevato (con affermazione condivisibile ma tuttavia non risolutiva) che mentre l’annullamento fondato su profili formali o sulla riscontrata incompletezza o contraddittorietà della motivazione non elimina, né riduce il potere dell’amministrazione di provvedere in ordine allo stesso oggetto dell’atto annullato, la caducazione per vizi sostanziali vincola viceversa l’amministrazione ad attenersi nella successiva attività alle statuizioni del giudice[52].
Ammonisce in proposito la giurisprudenza[53], tuttavia, che detta regola non ha portata assoluta, in quanto “possono infatti ravvisarsi in teoria dei casi-limite, laddove anche se il giudicato annullatorio discenda dal riscontrato difetto di motivazione, la puntualità dell’accertamento dei vizi denunciati in sede cognitoria può condurre ad un giudizio di nullità/elusività dell’attività amministrativa successiva, di regola, però, il predetto vizio può più frequentemente ravvisarsi in ipotesi di “giudicato puntuale” per vizi sostanziali: allorché ci si trovi al cospetto di un annullamento per difetto di motivazione, infatti, ampio è il potere emendativo in sede di rieffusione, e ben difficilmente sarà ravvisabile il vizio di nullità.”.
Il referente unico, per comprendere innanzi a qual genere di patologia ci si trovi al cospetto è dato, ovviamente, dalla decisione della cui ottemperanza si tratta: l’oggetto proprio del giudizio per l’esecuzione del giudicato riposa nel verificare se la pubblica amministrazione abbia o meno adempiuto all’obbligo nascente dal giudicato, vale a dire se abbia o meno attribuito all’interessato quella utilità concreta che la sentenza ha riconosciuto come dovuta; sicché, tenuto presente che l’esecuzione deve essere esatta, il ricorso per ottemperanza è ammissibile in ogni caso qualora il petitum sostanziale attenga all’oggetto proprio del giudizio di ottemperanza, miri cioè a far valere non la difformità dell’atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale, occorrendo in tal caso esperire l’ordinaria azione di annullamento, ma la difformità specifica dell’atto sopravvenuto rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire[54].
La sentenza di accoglimento di un’azione di annullamento reca in sé un valore di accertamento costitutivo in quanto, oltre all’annullamento dell’atto impugnato produce anche effetti preclusivi e conformativi, nel senso che l’amministrazione non può riprodurre il provvedimento con gli stessi vizi e deve tenere conto, all’atto del riesercizio del potere, delle prescrizioni contenute nella sentenza; ne consegue, pertanto, che l’eventuale provvedimento – ripetitivo di quello annullato o adottato in contrasto con le prescrizioni conformative della sentenza – contiene in sé un vizio insanabile, vale a dire quello di violazione o elusione del giudicato, che, non a caso, l’art. 21 septies L. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 14 della L. n. 15 del 2005, qualifica come ipotesi tipica di nullità del stesso provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato, ed analogamente, l’art. 114, co. 4, lett. b), del c.p.a. dispone che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice dell’ottemperanza dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato.
Sebbene sotto il profilo effettuale la questione non rivesta più alcuna pratica rilevanza, la giurisprudenza ha anche fatto risaltare che, mentre il vizio di violazione del giudicato, che si attualizza quando il nuovo atto emanato dalla pubblica amministrazione riproduca i medesimi vizi già in tale sede censurati, o comunque si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla pregressa statuizione del giudice, appare meglio delineabile, è di converso più arduo definire i contorni dell’elusione del giudicato.
L’elusione infatti (fattispecie più insidiosa che può porsi al confine con la “semplice” illegittimità) configura un fenomeno diverso dall’aperta violazione del decisum, sussistendo in quei casi in cui l’Amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione ai precetti rivenienti dal giudicato, tenda in realtà a perseguire l’obiettivo di aggirarli sul piano sostanziale, in modo da pervenire surrettiziamente al medesimo esito già ritenuto illegittimo.
La non copiosa giurisprudenza che si registra in materia rileva che il vizio de quo sussiste laddove l’amministrazione, piuttosto che riesercitare la propria potestà discrezionale in conclamato contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, cerchi di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l’esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che la giustificano[55].
Non sfugge pertanto che, se nell’ipotesi di “violazione del giudicato“ (di aperto contrasto, cioè) il positivo riscontro della sussistenza della fattispecie ed al contempo il discrimen rispetto alla “ordinaria” illegittimità può non presentare insormontabili difficoltà, ben diversa è la situazione in ipotesi di (asserito) provvedimento elusivo.
Appare evidente la delicatezza della valutazione cui è chiamato il giudice amministrativo laddove si tratta di individuare gli elementi sintomatici di un ipotetico sviamento di potere – nel senso appena precisato – rispetto all’ordinario vizio di eccesso di potere. Laddove si consideri poi che spesso tale delicata delibazione si colloca all’interno di un contesto in cui le valutazioni dell’Amministrazione, almeno nell’esercizio ordinario delle proprie attribuzioni, sono connotate da amplissima discrezionalità, è evidente che residui margini di incertezza possono essere assai spesso insuperabili.
Per tali ragioni, prudenzialmente, a cagione della difficoltà concreta di verificare ex ante la avvenuta emanazione di un atto costituente effettiva ottemperanza al giudicato (seppur in tesi illegittima) ovvero emanazione di un atto elusivo/violativo del giudicato (“esecuzione apparente o ficta”) il ricorrente era indotto, nella quasi totalità dei casi, a proporre una duplice impugnazione.
In altre parole: dalla consapevolezza dello stabile orientamento della giurisprudenza amministrativa,[56] ferma nel ritenere che l’emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo sul medesimo rapporto conosciuto e definito con statuizione irrevocabile – o, comunque, esecutiva – costituisce ottemperanza al giudicato e la legittimità dell’atto sopravvenuto può essere delibata nell’ambito del giudizio di ottemperanza solo se la nuova determinazione risulti palesemente elusiva delle regole di condotta dettate nella decisione della quale viene chiesta l’esecuzione, dovendosi altrimenti denunciarne l’invalidità con autonomo ricorso nelle forme del giudizio ordinario, è discesa sino ad un recente passato la prassi cautelativa di proporre due impugnazioni, lasciando al giudice adìto il compito di individuare quale di esse fosse ammissibile (decidendo sulla detta domanda e dichiarando inammissibile o comunque improcedibile l’ulteriore impugnazione proposta).
Si era peraltro affermato che le due domande potevano essere proposte sia congiuntamente (in seno al giudizio di ottemperanza) od anche separatamente.
L’art. 32 del codice del processo amministrativo consente infatti il cumulo di domande da proporsi nell’ambito dello stesso giudizio: e riferendo detta prescrizione al giudizio di ottemperanza, già in un remoto passato avveduta giurisprudenza di primo grado aveva rilevato che “deve ammettersi la possibilità di cumulo, nello stesso atto introduttivo, di una domanda di annullamento dell’atto amministrativo, che si assuma in contrasto col giudicato, e di ottemperanza rispetto al medesimo giudicato; in tale ipotesi di “pretesa mista”, il giudice potrà usare in un’unica sentenza tutti i suoi poteri, cassatori e sostitutivi, ciascuno limitatamente alle aree di competenze.”[57].
Tale prassi, si legava alla difficoltà concreta di verificare ex ante la avvenuta emanazione di un atto costituente effettiva ottemperanza al giudicato (seppur in tesi illegittima) ovvero la emanazione di un atto elusivo/violativo del giudicato, ed elideva a monte il pregiudizio che il soggetto che si assumeva leso avrebbe rischiato di subire (una declaratoria di inammissibilità del gravame idonea a pregiudicarlo definitivamente) laddove avesse esperito una sola domanda giudiziaria che per avventura il giudice adito avesse ritenuto essere stata erroneamente proposta, in virtù di una non condivisa qualificazione del vizio incidente sulla attività espletata dall’Amministrazione[58].
Ammesso il cumulo, a fortiori non poteva negarsi la proposizione di due distinte azioni: anche laddove il ricorrente avesse cautelativamente intrapreso più vie giudiziarie in via teorica alternative (e pur tra esse contrapposte sotto il profilo logico), quindi, si riteneva non si profilasse alcuna inammissibilità semmai rientrando nei poteri del giudice adito valutare la possibilità e/o convenienza od opportunità, ove possibile, di riunire le impugnazioni proposte per poi contestualmente vagliare quale sia “pertinente”.
Il ricorso per l’ottemperanza veniva ritenuto ammissibile, non potendo ostare a tale giudizio di ammissibilità la contemporanea proposizione di una ordinaria impugnazione di legittimità.
E’ superfluo sollecitare l’attenzione sull’ inutile spreco di risorse e tempo che tale prudente (e tutto sommato giustificata, alla luce dei gravi rischi sopportati dal ricorrente) attività defensionale comportava: sia per il ricorrente medesimo, ma anche per l’amministrazione giudiziaria (gravata dalla proposizione di due ricorsi, sebbene uno soltanto fosse quello “esattamente” proposto).
5.2.2. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato interviene sulla prassi della doppia impugnazione.
La prassi della doppia impugnazione, in due sedi diverse, del medesimo provvedimento reso successivamente ad un giudicato demolitorio, ha provocato l’intervento dell’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la decisione n. 2 del 15 gennaio 2013, ha affrontato – e compiutamente risolto – il tema relativo alla necessità del cumulo di azioni (la questione era stata rimessa alla Plenaria dalla Sesta Sezione con ordinanza collegiale n. 2024 del 5 aprile 2012: in detta fattispecie il giudicato annullatorio aveva investito un concorso universitario).
Lo stabile assetto cui è giunto il massimo consesso della giustizia amministrativa è stato il seguente.
Innanzitutto ci si è chiesti se la scelta della sede cui fare ricorso per la verifica della corretta esecuzione del giudicato potesse essere rimessa alla scelta della parte vittoriosa in sede di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce all’azione della p.a. successiva al giudicato (violazione/elusione del giudicato o autonoma violazione) o se occorra dare prevalenza all’esigenza di frustrare i comportamenti formalmente rinnovatori, ma in realtà meramente reiterativi della precedente determinazione in relazione alla quale si è formato il giudicato (e si è pervenuti alla risposta per cui la scelta dell’azione da esperire scaturisca da referenti oggettivi, e non già meramente soggettivi).
Secondariamente, si è espresso il convincimento per cui “l’instaurazione di due distinti giudizi – che è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione della tipologia dell’azione.”
Da ciò si è tratto l’ulteriore corollario per cui il detto esame non potrebbe utilmente avvenire “se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande, ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di cognizione l’altro di ottemperanza.”
Si è poi dato atto della circostanza che il c.p.a. mostra un favor per la concentrazione nell’alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione: senonchè – in armonia con i pregressi approdi giurisprudenziali – è stato ritenuto che tale favor non potesse spingersi al punto “di poter affermare che qualsiasi provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice dell’ottemperanza “ (con ciò ribadendosi la validità dell’insegnamento per cui ove il nuovo atto successivo al giudicato non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma autonomamente lesivo, poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato, l’azione corretta da esperire, è quella del ricorso ordinario di cognizione[59]).
Si è quindi innanzitutto stabilito che, per consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte (unicamente, ed una sola volta) davanti al giudice dell’ottemperanza, in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza (ma anche in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità ex art. 21 septies della legge generale sul procedimento amministrativo).
Il giudice adito (che deve essere quindi quello dell’ottemperanza) è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori.
Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, -dichiarandone così la nullità- a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda (ed ontologicamente subordinata) domanda (quella, cioè volta a sollecitare un giudizio di “semplice” illegittimità dell’atto gravato) .
Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione ex art. 32, co. 2, cpa.
Giova ribadire che l’Adunanza Plenaria ha anche opportunamente precisato che condizione indispensabile perché possa aver luogo la conversione riposa nella necessità che l’azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), ma entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa.
E’ questo un punto fermo che – senza avere carattere risolutivo- costituisce un ulteriore tassello che concorre alla semplificazione processuale di tale delicata materia.
Conserva attualità, quindi l’insegnamento giurisprudenziale secondo il quale il provvedimento tardivo satisfattorio determina la cessazione della materia del contendere, mentre quello non satisfattorio può essere gravato con motivi aggiunti soltanto laddove se ne denunci la nullità in quanto violativo od elusivo del giudicato.
Esso invece dovrebbe essere gravato in sede di legittimità qualora non lo si ritenga affetto da tali patologie ma dalla decisione dell’ Adunanza Plenaria, 15 gennaio 2013, n. 2, si ricava l’onere di adire direttamente ed in prima battuta il giudice dell’ottemperanza che, se non riterrà il provvedimento nullo, dovrà dichiarare la cessazione della materia del contendere quanto alla domanda tesa a far constare l’assoluta inerzia e rigettare la domanda di nullità del provvedimento sopravvenuto proposta con i motivi aggiunti, disponendo poi la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione ex art. 32, co. 2, cpa.[60]
- I provvedimenti giurisdizionali suscettibili di essere portati ad esecuzione mediante giudizio di ottemperanza.
Si è detto in precedenza, allorchè si è esaminata la tematica sotto il profilo “storico”, che il giudizio di ottemperanza venne in origine introdotto per portare ad esecuzione coattiva le sentenze dei giudici civili e dapprima per via giurisprudenziale, e soltanto successivamente, con espressa prescrizione di legge, venne esteso alle sentenze del giudice amministrativo.
La gamma di provvedimenti giurisdizionali suscettibili di esecuzione coattiva mediante ottemperanza ha subito, nel corso del tempo, modifiche di ogni genere, sia in senso estensivo che in senso restrittivo.
Oggi, l’art. 112 del cpa, al comma II così dispone:“l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione:
- a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato;
- b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
- c) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato;
- d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione;
- e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.”.
La domanda può essere rivolta ad ottenere: “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del Giudice Amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal Giudice Amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza”.
La espressa dizione della lett. [61]b) del comma II dell’art. 112 del cpa, poi, (“sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;”) implica il mantenimento della possibilità (già prevista nella vigenza della legislazione precedente) di attivare il rito dell’ottemperanza per ottenere la conformazione dell’ autorità amministrativa alle sentenze di primo grado impugnate ma non sospese, o per le quali non sia scaduto il termine di proposizione dell’impugnazione, e “degli altri provvedimenti esecutivi” del giudice amministrativo (id est, soprattutto rese ex art. 55 del cpa: le ordinanze cautelari).
Resta ferma, alla luce delle prescrizioni contenute nel c.p.a. (che nulla immutano sul punto) la praticabilità del risalente principio secondo il quale ”il ricorso al Consiglio di Stato per ottenere l’esecuzione di una decisione giurisdizionale dello stesso Consesso è ammissibile anche quando la citata decisione sia stata impugnata con ricorso in revocazione per errore di fatto o per contrasto di giudicati”: ciò in quanto la sola circostanza che sia stata proposta domanda di revocazione, non comporta che sia venuto meno il giudicato.
6.1. Casistica (incompleta).
La formulazione dell’art. 112 del c.p.a. –sulla quale di qui a breve ci si soffermerà in dettaglio- giunge quale sintesi di una lunga elaborazione giurisprudenziale.
In passato la giurisprudenza:
- aveva positivamente risolto – sulla scorta della considerazione che il giudizio di ottemperanza aveva carattere generale e poteva trovare applicazione in qualsiasi controversia con la pubblica amministrazione- la questione relativa alla possibilità di adire il giudice amministrativo per ottenere l’ottemperanza dei provvedimenti emessi da giudici speciali (Corte dei Conti, Giudice Tributario) purchè passati in giudicato, e non semplicemente esecutivi.
L’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la importante decisione del 4 novembre 1980, n. 43 pur nel silenzio della legge ciò aveva ammesso (in particolare, con riferimento ai ricorsi per l’esecuzione di giudicati della corte dei conti in materia pensionistica) stabilendo, però che fosse competente a conoscere di tali giudizi il Consiglio di Stato in unico grado (in quanto non attribuiti espressamente alla cognizione dei Tribunali amministrativi regionali).
Oggi, in seguito all’introduzione di analoghi rimedi specifici (art. 70 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; art. 10, comma 2, l. 21 luglio 2000, n. 205) ciascuno di questi giudici “speciali” (Giudice Tributario e Corte dei Conti) conosce dell’ottemperanza alle proprie decisioni e, pertanto, la domanda non è più proponibile innanzi al giudice amministrativo: è indubitabile infatti che per effetto della disposizione introdotta dall’art. 10 comma II della L. 21 luglio 2000 n. 205, il giudizio di ottemperanza per le decisioni della Corte dei Conti deve essere ormai proposto dinanzi allo stesso giudice contabile che ha emesso la sentenza della cui ottemperanza si discute, in ragione di una interpretazione estensiva della disposizione medesima, quale espressione di una volontà normativa intesa all’attuazione del principio di unità ed esclusività della giurisdizione contabile e pensionistica, con assegnazione allo stesso giudice della fase ulteriore della concreta ed effettiva attribuzione alla sfera giuridica della parte vittoriosa del bene della vita sul quale si è incentrata la fase cognitoria;
- b) quanto ai provvedimenti del giudice ordinario, si affermava – la prescrizione normativa in proposito è sempre stata inequivoca – che si dovesse trattare di sentenze passate in giudicato, e non semplicemente provvisoriamente esecutive (impugnate ma non sospese, ovvero in relazione alle quali erano ancora in corso i termini per proporre impugnazione) dovendosi ritenersi preclusa, quindi, la valida attivazione del rimedio dell’ottemperanza, con riferimento a sentenze del giudice ordinario prive dell’autorità propria della cosa giudicata (al momento della proposizione del ricorso o, anche, secondo un altro orientamento, a quello della sua decisione).
La Corte Costituzionale, con la sentenza dell’ 8 febbraio 2006, n. 44 aveva dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 24, 97, 111 e 113 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 della legge n. 1034 del 1971, nella parte in cui non consentiva l’utilizzazione del giudizio di ottemperanza anche con riguardo alle sentenze del Giudice ordinario esecutive, ma non ancora passate in giudicato.
La previsione dell’eseguibilità, nelle forme proprie dell’ottemperanza, delle sentenze amministrative di primo grado non sospese dal Consiglio di Stato (contenuta al comma 5 dell’art.33 della L. n. 1034 del 1971, introdotto dall’art.10 della legge 21 luglio 2000, n.205) ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente [62]non autorizzava l’estensione del relativo rimedio, per via ermeneutica, alla diversa fattispecie dell’attuazione delle sentenze del Giudice ordinario non passate in giudicato (ancorché immediatamente esecutive). Il Giudice delle leggi, con la citata decisione n. 44 del 2006 ha confermato che la correttezza di tale approccio ermeneutico;
b1)l’art. 112 comma II lett. c del c.p.a. ribadisce, oggi, detta espressa limitazione;
- c) di converso, si è sinora costantemente sostenuto che in considerazione della circostanza che in capo al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare grava l’onere di controllare l’attuazione delle misure cautelari e le modalità di esecuzione delle stesse, (art. 669 duodecies c.p.c.) e considerata la inattitudine a passare in giudicato dei provvedimenti cautelari, il ricorso presentato al giudice amministrativo, al fine di ottenere l’ottemperanza a quanto statuito in una ordinanza dal giudice del lavoro, in accoglimento di un ricorso ex 700 c.p.c., dovesse essere considerato inammissibile;[63];
- d) sotto altro profilo, il giudice amministrativo ha a più riprese affermato che si potesse agire in ottemperanza per ottenere l’esecuzione dei provvedimenti del giudice ordinario equiparati alle sentenze regiudicate: si è detto pertanto che “il decreto ingiuntivo, divenuto esecutivo per mancata impugnazione nei termini di legge, è equiparabile al giudicato, con conseguente ammissibilità del giudizio di ottemperanza.”[64].
la casistica è imponente, ma è sufficiente in proposito dare conto dell’orientamento secondo il quale l’art. 112, co. 2, c.p.a. ha inteso codificare il consolidato approdo giurisprudenziale secondo cui il decreto di condanna emesso ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 (per eccessiva durata del processo) ha natura decisoria in materia di diritti soggettivi ed è, sotto tale profilo, equiparato al giudicato, con conseguente idoneità a fungere da titolo per l’azione di ottemperanza.[65];
parimenti si è convenuto che sia azionabile mediante giudizio di ottemperanza a decreto ingiuntivo non opposto il credito vantato dal consulente tecnico d’ufficio in relazione a un procedimento giurisdizionale civile, in quanto dal disposto degli artt. 11, l. 8 luglio 1980 n. 319 e 29, l. 13 giugno 1942 n. 794 si deduce che il provvedimento di liquidazione del compenso agli ausiliari del giudice ha carattere giudiziale, suscettibile di acquistare valore di giudicato in caso di mancata opposizione nel termine stabilito dalla legge.”[66]
- e) già in un remoto passato, era stata riconosciuta l’ammissibilità “del ricorso previsto dall’art. 27, n. 4, del D. 26 giugno 1924 n. 1054, per l’esecuzione – consistente nel rilascio, da parte della P.A., dell’immobile locatole – di una sentenza della A.G.O., passata in giudicato, che ha pronunciato la risoluzione del contratto di locazione.”[67];
- f) e parimenti da tempo risalente era stato riconosciuto che il giudizio di ottemperanza fosse esperibile anche nei casi in cui il giudicato comportasse lo svolgimento di attività a carattere discrezionale da parte dell’Amministrazione[68]: la circostanza che fosse necessaria la spendita di potere discrezionale per dare attuazione al comando giudiziale, non è stata ritenuta ostativa,infatti, all’esperimento della suddetta azione;
- g) dopo numerose incertezze è stata risolta in senso positivo la problematica, speculare a quella prima illustrata, in ordine alla ammissibilità di un ricorso al giudice dell’ottemperanza per ottenere l’esecuzione di una condanna al pagamento di una somma di denaro (laddove, quindi, non può ravvisarsi alcuna spendita di potere discrezionale in capo all’Amministrazione); come è noto, in passato la giurisprudenza civile di legittimità aveva espresso un orientamento decisamente contrario a tale evenienza[69]affermando che: “a seguito della sentenza di condanna della Pubblica Amministrazione al pagamento di una somma di denaro -pronunciata dal giudice ordinario o dal giudice amministrativo-, il concreto versamento della somma medesima integra un atto dovuto, cui corrisponde una posizione di diritto soggettivo del creditore. La tutela di tale diritto, anche nella disciplina del contenzioso amministrativo introdotta dalla legge 6 dicembre 1971 n. 1034, esula dal cosiddetto giudizio d’ottemperanza -riguardante il diverso caso in cui l’attuazione del giudicato richieda un’attività provvedimentale dell’Amministrazione- e può essere ottenuta con azione esecutiva dinanzi al giudice ordinario, mediante il pignoramento di beni che non appartengano al demanio o non siano comunque vincolati ad una pubblica funzione, restando devoluta al medesimo giudice ordinario la risoluzione delle questioni attinenti alla ricorrenza in concreto di tali requisiti per la pignorabilità dei beni aggrediti dal creditore.”.
Tale possibilità era quindi stata negata sulla base di due convergenti riflessioni:
- a presidio di una tale pretesa vi sarebbe stata l’azione esecutiva ordinaria, di guisa che il ricorso al giudice dell’ottemperanza diveniva un inutile duplicato;
- il rito dell’ottemperanza era finalizzato ad ottenere una conformazione da parte dell’Amministrazione che comportasse un quid pluris rispetto a condotte meramente materiali già puntualmente specificate nella sentenza cognitoria (quale indubbiamente era la condanna al pagamento di una somma di denaro).
In seguito, però, la giurisprudenza amministrativa ha in contrario senso affermato che la proposizione del giudizio di ottemperanza non poteva essere preclusa dalla sussistenza di ulteriori e diversi strumenti di tutela, anche davanti ad altri giudici [70];
per il vero era già stato precisato in passato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione del 9 marzo 1973 n. 1,in relazione alla procedura ex art. 27 n. 4 T.U. 26 giugno 1924 n. 1054 che il giudizio di ottemperanza dovesse essere ritenuto esperibile anche per l’esecuzione di sentenze di condanna al pagamento di somma di denaro, alternativamente rispetto al rimedio dell’esperimento del processo di esecuzione civile; la Suprema Corte di Cassazione, ha in seguito condiviso detto approdo giungendo ad affermare –inoltre- che le due azioni potessero essere esperite anche congiuntamente:[71] da allora in poi la contemporanea praticabilità del giudizio di ottemperanza e dell’ordinaria procedura esecutiva, costituisce lo stabile approdo ermeneutico a tutt’oggi praticabile.
Si è in proposito rilevato che l’Amministrazione, in via generale, è sempre tenuta ad eseguire il giudicato e per nessuna ragione, di ordine pubblico, di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica, può sottrarsi a tale obbligo, non avendo in proposito alcuna discrezionalità per quanto concerne l’an ed il quando, ma al più, e non necessariamente, una limitata discrezionalità per il quomodo, per cui non può invocare asserite difficoltà finanziarie per sottrarsi alla necessità del puntuale adempimento delle obbligazioni pecuniarie nascenti a suo carico dal giudicato[72] : il rito l’ottemperanza, in simili ipotesi, si affianca alla ordinaria procedura esecutiva e presenta margini di maggiore utilità allorchè –ad esempio- le amministrazioni debbano effettuare stanziamenti di bilancio.
- h) come precisatosi in giurisprudenza, usualmente e restano esclusi dal perimetro della ottemperanza (sia che si tratti di comandi giudiziali contenuti in decisioni rese dal Giudice Amministrativo, che discendenti da sentenze rese dal Giudice Ordinario) i meri adempimenti esecutivi e le attività materiali[73] ;
ciò, però costituisce mera evenienza statistica, non in grado di essere elevata a principio giurisprudenziale: è stato rilevato, infatti che detto rimedio può anche tendere alla coattiva esecuzione di attività materiali[74] (Consiglio di Stato Sez. V, 12 ototbre 2009, n. 6241): ” il giudizio di ottemperanza mira all’esecuzione di una sentenza obbligando l’autorità amministrativa a conformarsi alla pronuncia e, di conseguenza, a porre in essere le relative operazioni materiali o le attività provvedimentali necessarie.”;
Si è quindi precisato, che il rimedio del giudizio di ottemperanza, secondo consolidati principi (riconosciuti a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 9 marzo 1973, n.1), può essere esperito sia in relazione alla fase provvedimentale, in cui sia necessario emettere atti autoritativi necessari alla conformazione al giudicato, sia nella fase meramente esecutiva di obblighi, consistenti in operazioni materiali o atti giuridici di stretta esecuzione (quale ad esempio, l’emissione di mandato di pagamento), indispensabili a soddisfare il privato;
il detto principio, come lucidamente colto dalla giurisprudenza, è l’unico che appare rettamente interpretare, in pieno spirito e lettera, il rinnovato art. 111 della Costituzione: colliderebbe infatti con il generale principio della ragionevole durata del processo una difforme interpretazione che obbligasse il ricorrente ad esperire due azioni (l’una, di ottemperanza, innanzi al giudice amministrativo per ottenere la conformazione “giuridica” e l’altra, innanzi al giudice ordinario civile per ottenere materialmente il bene della vita cui aspira) per soddisfare un unico diritto;
- i) la giurisprudenza usualmente suole ripetere l’affermazione per cui l’ottemperanza sarebbe inesperibile (perché inutile) con riferimento alle sentenze (del giudice ordinario, ma anche del giudice amministrativo) c.d. “autoesecutive”[75]: ciò, in quanto funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza è quella di adeguare la realtà giuridica e materiale al giudicato; per suo mezzo il Giudice accerta la violazione da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi alla pronuncia giurisdizionale e dispone le misure necessarie a realizzare gli stessi effetti che deriverebbero dall’adempimento di quell’obbligo; quando è la medesima sentenza a realizzare come effetto suo proprio l’adeguamento della realtà sopra menzionato, cosicché non v’è necessità di alcuna ulteriore attività amministrativa per rendere attuale il deciso, non può darsi ingresso ad un giudizio che l’ordinamento appresta a quel fine esclusivo; ne mancherebbe, invero, il presupposto essenziale costituito dalla difformità tra realtà e giudicato;
si è detto in proposito che l’inammissibilità del ricorso in ottemperanza di una sentenza “autoesecutiva” il cui effetto giuridico si realizza già ed esclusivamente attraverso l’emanazione da parte del giudice amministrativo della statuizione di annullamento discende da esigenze di ordine logico, prima che sistematico; deve essere in proposito precisato che può dirsi “autoesecutiva” solo la sentenza di annullamento da cui derivi il pieno soddisfacimento della pretesa azionata, ovvero allorchè la mera eliminazione dal mondo giuridico del provvedimento illegittimo con effetto ex tunc valga a ripristinare lo status quo ante rispetto alla lesione dell’interesse fatto valere; di regola – ma sul punto si tornerà di qui a poco- ciò può avvenire in ipotesi di sentenza annullatoria di provvedimento incidente su un interesse legittimo oppositivo, ma non anche allorchè venga annullato un provvedimento impingente su un interesse legittimo c.d. “pretensivo”.
Nell’esperienza giudiziaria,però, sono state ben rare le sentenze che hanno dichiarato l’azione inammissibile perché proposta in relazione a sentenza autoesecutiva; deve manifestarsi condivisione pertanto, all’orientamento giurisprudenziale estensivo, a tenore del quale dalla multiformità ed adattabilità del giudizio di ottemperanza a situazioni diverse deve discendere che esso ricomprenda[76] una pluralità di configurazioni – in relazione alla situazione concreta, alla statuizione del giudice ed alla natura dell’atto impugnato -, assumendo, di volta in volta, natura: a) di semplice giudizio esecutivo, complementare ed aggiuntivo ai mezzi espropriativi del codice di procedura civile, rispetto alle sentenze di condanna al pagamento di somme esattamente determinate; b) di strumento per l’adozione di operazioni materiali o atti giuridici di più stretta esecuzione della sentenza; c) di rimedio per conseguire dall’Amministrazione l’emissione di una attività provvedimentale e per ottenere effetti ulteriori e diversi rispetto al provvedimento oggetto dell’originaria impugnazione; d) di meccanismo utilizzabile, nelle materie devolute alla giurisdizione amministrativa, per giungere a definire la prestazione della pubblica Amministrazione anche quando il contenuto relativo non sia completamente individuato (in ciò differenziandosi dall’ordinaria esecuzione forzata attribuita al giudice ordinario).”;
più di recente, il principio della inconciliabilità ontologica tra giudizio di ottemperanza e sentenza c.d.”autoesecutiva” viene limitato alle fattispecie di sentenza demolitoria, incidente su interesse oppositivo ed a condizione che per rendere effettiva la tutela non sia rimessa all’Amministrazione alcuna altra attività [77] ;
- l) si rammenta inoltre che restano del pari escluse fuori dal perimetro dell’ottemperanza le sentenze rese nei confronti della p.a. con contenuto c.d. di mero accertamento: in proposito, la giurisprudenza ha ritenuto che “la sentenza pronunciata dal giudice amministrativo nei confronti della p.a. (ma la questione non muta se la pronuncia di cui trattasi è del giudice ordinario), con contenuto c.d. di mero accertamento, non consente la proposizione del ricorso per la sua ottemperanza innanzi al giudice amministrativo, sia in quanto manca una pronuncia di condanna, ancorché generica, sia per ciò che concerne l’eventuale obbligo dell’amministrazione, scaturente dalla pronuncia dichiarativa, di attivare determinati procedimenti, essendo necessaria a tal fine la proposizione di apposita istanza all’amministrazione e, una volta constatatane l’inerzia, proporre l’ordinario giudizio cognitorio” [78].
6.2. La condanna al pagamento di somme di denaro. Integrazione.
Nel previgente regime la scarna disciplina contenuta agli artt. 90 e 91, R.D. n. 647/1907, (recante il regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) si limitava a prevedere che il ricorso dovesse essere preceduto da un atto di diffida e messa in mora.
Quest’ultimo, ad avviso della giurisprudenza, non consisteva in una mera intimazione ad adempiere, essendo invece un atto preparatorio dell’intera procedura di ottemperanza avente la specifica funzione di informare l’amministrazione del proposito del diffidante di proporre ricorso per ottemperanza e consentire, quindi, l’esecuzione spontanea.
Da ciò, se ne faceva discendere la (invero formalistica) conclusione che il medesimo atto non poteva essere surrogato da un atto di precetto o da una raccomandata e, soprattutto, doveva essere notificato esclusivamente presso il domicilio effettivo delle amministrazioni e non invece presso il domicilio legale (presso l’avvocatura dello Stato o legale privato).
Tanto,[79] “all’evidente fine di evitare l’intervento del giudice e, nel contempo, di tutelare in tal modo sia l’interesse di chi ha avuto una sentenza favorevole ad evitare l’instaurazione di un nuovo giudizio, sia quello dell’amministrazione ad evitare un’ulteriore soccombenza, sia quello generale alla deflazione del contenzioso.”.
Da quanto esposto discendeva necessariamente, secondo la giurisprudenza, che se prima del deposito del ricorso per l’ottemperanza l’amministrazione diffidata adempieva, il ricorso non poteva che essere dichiarato inammissibile, in mancanza del presupposto stesso della relativa azione, costituito dall’inottemperanza. Doveva difatti escluso che, “in presenza di tale circostanza, potesse essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, con conseguente soccombenza della parte tardivamente adempiente, perché in realtà in tal caso, la materia del contendere era da ritenersi già cessata al momento stesso dell’esecuzione dell’adempimento, sicché il diffidante doveva astenersi dal deposito del ricorso, mentre per le ragioni anzidette nessun rilievo in senso contrario rivestiva la circostanza che l’adempimento fosse avvenuto dopo la notifica dell’atto di diffida e messa in mora.”.[80]
Per il vero tale approdo non appariva rispettoso delle esigenze del ricorrente, che veniva ingiustamente onerato dell’espletamento di una attività che non gli veniva poi riconosciuta (in ipotesi di tardiva conformazione al giudicato da parte dell’amministrazione) in sede di liquidazione delle spese legali.
Peraltro, come segnalato dalla maggioritaria dottrina, l’obbligo di inoltro della diffida sembrava costituire un inutile incombente, a fronte di un obbligo di conformazione che nasceva già ex lege (e che, potrebbe aggiungersi, costituisce precipitato ineliminabile della effettività del giudicato).
Come è noto, l’onere di previa messa in mora è venuto meno con il codice del processo amministrativo: attualmente, l’art. 114, co. 1, c.p.a., prevede che l’azione si propone, anche senza previa diffida, con ricorso notificato alla pubblica amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal lodo arbitrale da eseguire (nei confronti dei quali la sentenza azionata spiega effetti di cosa giudicata), successivamente depositato, dal 1.1.2017 in via telematica, entro 15 giorni dalla notifica.
Tuttavia per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, prima di poter agire in sede di ottemperanza, è necessario provvedere alla notifica all’amministrazione del titolo da azionare in forma esecutiva e attendere il passaggio di 120 giorni dalla notifica, senza che senza che la p.a. abbia adempiuto. Ciò ai sensi dell’art. 14, del d.L. 31 dicembre 1996, n. 669, che, sebbene formalmente si riferisca ai procedimenti di esecuzione forzata processual-civilistici, viene considerato applicabile anche al giudizio di ottemperanza[81].
Non è, quindi, sufficiente la notifica della sentenza azionata ma è necessario che sia presente sulla stessa l’apposizione della formula esecutiva.
L’iniziale opinamento della giurisprudenza di primo grado[82] secondo il quale l’ottemperanza è esperibile indipendentemente da ogni disposizione concernente l’esecuzione civile (ad es. combinato disposto degli artt. 1 ter della L. n. 181 del 2008 e 1 della L. n. 313 del 1994, ovvero art. 14 del D.L. n. 669 del 1996), attesa la totale diversità ontologica delle due azioni, risulta quindi superato da una tesi, “mediana” secondo la quale:
- a) la formula esecutiva apposta in calce alla sentenza del giudice amministrativo non costituisce presupposto o requisito dell’azione di ottemperanza; sul punto è insuperabile il dato testuale della dell’art. 115, co. 3, c.p.a., secondo cui « 3. Ai fini del giudizio di ottemperanza di cui al presente Titolo non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva»; in contrario non possono invocarsi le ulteriori norme sancite dai commi 1 e 2 del menzionato art. 115, perché esse si limitano a stabilire che i provvedimenti del giudice amministrativo, che dispongono pagamenti di somme di denaro, possono essere portati ad esecuzione con le forme previste dal Libro III del c.p.c. e costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca: a questo solo scopo è possibile, su richiesta di parte, attribuire loro la c.d. formula esecutiva[83];
- b) nel giudizio di ottemperanza, l’applicabilità del termine dilatorio di 120 giorni sancito dall’art. 14 cit. decorre dalla notificazione della sentenza o di altro titolo esecutivo recante il pagamento di somme di denaro, ancorché non sia munito della formula esecutiva, e comporta, molto semplicemente, che il creditore non può portare ad esecuzione il titolo medesimo prima del decorso del termine e che il relativo giudizio è improcedibile fino alla sua infruttuosa scadenza[84].
La notifica del titolo in forma esecutiva deve essere effettuata nel domicilio dell’Amministrazione anche quando la stessa è assoggettata al patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, a differenza della notifica del ricorso che in quel caso va notificata all’avvocatura erariale.
La legge di stabilità 2016, modificando l’art. 5-sexies della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cosiddetta legge Pinto), ha introdotto una serie di adempienti preliminari per le sole condanne per irragionevole durata del processo. In particolare, prima di poter agire per l’ottemperanza il creditore deve rilasciare alla P.A. una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà (ex artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), attestante la non avvenuta riscossione di quanto dovuto e altri dati e documenti inerenti al pagamento; il creditore deve quindi attendere sei mesi dall’esatto espletamento dell’indicata formalità, entro i quali l’amministrazione è tenuta provvedere al pagamento; soltanto decorso inutilmente tale semestre, il creditore può agire in sede di ottemperanza (o in alternativa dinanzi al giudice civile dell’esecuzione).
La norma dispone, infatti, che prima che sia decorso quest’ultimo termine, i creditori non possano procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento (comma 7).
Ai sensi del co. 2 dell’art. 114 c.p.a., ricorso va, quindi, depositato insieme alla copia autentica della pronuncia fatta valere e, qualora si tratti di decisioni per la cui ottemperanza è richiesto il passaggio in giudicato (come ad esempio le sentenze del giudice ordinario), insieme alla prova che quest’ultimo sia intervenuto.
La prova del passaggio in giudicato è ovviamente necessaria per le sentenze del giudice ordinario e le altre decisioni a queste equiparabili, come, ad esempio, per i decreti ingiuntivi o i decreti decisori di liquidazione di un equo indennizzo per irragionevole durata del processo
Non è necessaria la presentazione dell’istanza di fissazione di udienza in quanto l’udienza di camera di consiglio viene fissata d’ufficio ex art. 87, co. 2, lett. d) c.p.a. (il giudizio di ottemperanza è soggetto al rito camerale con l’abbreviazione dei termini processuali rispetto al rito ordinario).
6.3. La domanda di risarcimento del danno.
Ammessa la proponibilità dell’azione risarcitoria da lesione dell’interesse legittimo ed attribuita la competenza a conoscere della detta domanda al giudice amministrativo (mentre è sempre stato pacifico che l’azione risarcitoria discendente da lesione di un diritto soggettivo attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo pertenesse a detto ultimo plesso giurisdizionale), la giurisprudenza si interrogò in ordine alla possibilità che l’azione risarcitoria venisse proposta, per la prima volta, in sede di giudizio per l’ottemperanza del giudicato.
L’orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario propendeva per la tesi negativa: avveduta giurisprudenza, infatti, si era a più riprese espressa in ordine all’impossibilità che l’azione risarcitoria fosse proposta per la prima volta in sede di ottemperanza, allorché essa avesse ad oggetto non già il danno derivante dal mero ritardo nell’esecuzione del giudicato, ma anche il pregiudizio discendente ab initio dall’illegittima azione della p.a. oggetto del pregresso giudizio[85].
Il principale inconveniente che la giurisprudenza aveva colto nell’ipotesi di azione risarcitoria proposta in sede di ottemperanza, riposava nella obliterazione del necessario giudizio cognitorio in pregiudizio della parte intimata: si affermò quindi la tesi secondo la quale il petitum risarcitorio discendente dalla asserita illegittimità dell’azione amministrativa dovesse essere accertato nel corso di un “ordinario” giudizio di cognizione (e con la piena garanzia, per parte intimata, del doppio grado di giudizio) mentre in seno al giudizio di ottemperanza fosse possibile chiedere solamente il risarcimento dei danni che si fossero verificati successivamente alla formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia irretrattabile[86] (ex aliis Consiglio di Stato sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70).
La giurisprudenza, tuttavia, aveva cercato di mitigare le criticità di un tale modo di procedere, che si risolveva in uno svantaggio per il soggetto asseritamente leso, costretto ad intentare ben tre giudizi per ottenere la completa restaurazione della propria posizione giuridica (al giudizio per l’annullamento del provvedimento illegittimo, seguiva quello di ottemperanza nei confronti dell’Amministrazione riottosa e poi, eventualmente, un terzo giudizio a natura risarcitoria, ove la detta domanda non fosse stata proposta congiuntamente all’azione di annullamento): di regola, quindi, allorchè fosse stata presentata una domanda risarcitoria (non limitata ai danni “propri” dal ritardo nell’attuazione del giudicato ma estesa alla illegittimità dell’azione amministrativa) congiuntamente a quella di ottemperanza il giudice adito non ne dichiarava l’inammissibilità[87] ma ne disponeva lo stralcio e la trattazione in una futura pubblica udienza (ciò risultava impossibile, invece, ove la domanda fosse stata presentata innanzi al Consiglio di Stato quale giudice dell’ottemperanza in grado unico chè altrimenti sarebbe stato obliterato un grado di giudizio).
Il codice del processo amministrativo, all’art. 112 comma IV aveva tradotto in legge le istanze maggiormente “aperturiste”, in ossequio ad una esigenza di concentrazione della tutela: era stato ivi espressamente affermato, infatti, che “nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’ articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.”.
In sede di ottemperanza, dunque, per la prima volta, poteva essere proposta nel termine decadenziale di centoventi giorni, l’azione autonoma di condanna al risarcimento del danno, prevista dall’art. 30 del codice.
La giurisprudenza, inizialmente, aveva accolto con favore detta “novella” rilevando che “dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, doveva ritenersi non più applicabile il principio giurisprudenziale per il quale in sede di ottemperanza era possibile formulare richiesta di risarcimento, ma solo per i danni verificatisi in seguito alla formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia, mentre il risarcimento dei danni riferibili al periodo precedente al giudicato doveva essere richiesto con un giudizio cognitorio da proporsi davanti al giudice di primo grado, atteso che ai sensi dell’art. 112, comma 4, di detto codice è ora ammessa la proposizione, nel giudizio di ottemperanza, di una azione risarcitoria anche per i danni riguardanti periodi precedenti al giudicato; peraltro, tale possibilità deve intendersi contenuta nei limiti temporali e sostanziali dettati dal precedente art. 30 e, in tal caso, il giudizio si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.” [88].
Detto comma è stato tuttavia abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. cc), n. 2), del d.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195.
Con il predetto “correttivo” al codice è stato altresì interpolato il testo dell’originario comma III dell’art. 112 aggiungendovi l’inciso di cui all’ultima parte del comma medesimo (“Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”).
La ratio giustificativa dell’abrogazione si rinviene nella necessità di evitare che profili nuovi (e talvolta complessi) quale quelli connessi all’esame della richiesta risarcitoria, potessero essere esaminati per la prima volta in sede di ottemperanza (rito che si celebra in forma camerale, in termini ristretti, e destinato a concludersi con una pronuncia semplificata) e che –ove l’azione fosse stata proposta direttamente innanzi al Giudice d’appello – ne conseguisse la violazione del (tendenziale) principio del doppio grado di giudizio.
Ne consegue che, attualmente, l’azione di risarcimento del danno correlata all’azione di annullamento può essere proposta, dopo il giudicato, esclusivamente in sede di giudizio ordinario di cognizione: se proposta in sede di ottemperanza, detta domanda va dichiarata inammissibile.
L’unica azione risarcitoria proponibile in seno al rito dell’ottemperanza è quella volta ad ottenere la liquidazione dei “danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”: azione, questa, tipicamente esecutiva che si riferisce ad eventi successivi al giudicato strettamente correlati al dovere di esecuzione della sentenza.
Insomma, si è ritornati al tradizionale insegnamento secondo il quale in sede di giudizio di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato, non potendo essere neppure proposte domande che non siano contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire[89] con le uniche eccezioni tassativamente codificate, nell’art. 112, comma 3, c. p.a., come sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera cc), numero 1), del d.Lgs.15 novembre 2011 n. 195.
La giurisprudenza[90] si è prontamente adeguata a tale mutato quadro normativo, affermando che “il dato testuale dell’art. 112 comma 3 nel testo novellato dal D.Lgs. n. 195 del 2011 e la contemporanea soppressione del comma IV della medesima disposizione rendono palese che l’ eccezione al principio del doppio grado di giurisdizione per il petitum risarcitorio proponibile direttamente in ottemperanza è limitata esclusivamente alla domanda prospettata quale conseguenza diretta della supposta elusione/violazione/mancata esecuzione del giudicato e che la sede dell’ottemperanza non può essere considerata un “contenitore” ove fare affluire le istanze risarcitorie relative alla fase precedente il formarsi del giudicato medesimo.” (in detta occasione si è osservato che la articolazione della domanda risarcitoria, in quanto relativa -non già alla supposta elusione del giudicato ma – alla originaria asserita illegittimità dell’ azione amministrativa culminata nel provvedimento annullato in sede cognitoria avrebbe quindi dovuto essere proposta in sede di ordinario giudizio di legittimità e, pertanto essa è stata dichiarata inammissibile).
- La risoluzione della controversa problematica relativa alla esperibilità del rimedio della ottemperanza con riferimento al decreto decisorio del ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Per completezza, sebbene la tematica esuli dallo specifico oggetto, si segnala altresì che l’ampia previsione contenuta nell’art. 112 del c.p.a. ha consentito di risolvere alcune delle questioni rimaste insolute (o che avevano ottenuto risposta negativa) in costanza dell’antevigente quadro normativo.
In particolare, come è noto, in passato si negava che l’azione esecutiva fosse esperibile per ottenere l’ottemperanza al decreto decisorio del ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Con la sentenza n. 3141 del 1953 le Sezioni unite della Corte di Cassazione, cassando per difetto di giurisdizione la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza in relazione a decreti di accoglimento di ricorsi straordinari rimasti inadempiuti, avevano ritenuto, (a conferma dell’insegnamento tradizionale), ostativa alla esperibilità di detto giudizio, la natura amministrativa del provvedimento e, pur senza escludere l’obbligo della p.a. di uniformarsi ad esso, ne avevano inferito che un tale obbligo non avesse il carattere assoluto e vincolante proprio del giudicato, connaturato con le caratteristiche proprie dell’attività giurisdizionale, discendendo invece dalla posizione di preminenza o di supremazia che spetta al Capo dello Stato, sì che la sua efficacia doveva essere circoscritta nell’ambito della stessa sfera dell’amministrazione, senza avere rilevanza esterna e senza dare luogo a quella forma tipica di coercizione in via eteronoma che è costituita dall’esecuzione in via giurisdizionale.
La questione si era nuovamente proposta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia 16 ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96, che aveva dato ingresso alle questioni di interpretazione di norme comunitarie, sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere reso sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, riconoscendo natura di “giudice nazionale” a detto organo anche in tale sede.
Medio tempore, la Corte Costituzionale aveva espresso un orientamento contrario rispetto a quello manifestato dalla Corte di Giustizia: essa infatti aveva più volte affermato che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica costituiva istituto singolare, anomalo, che univa a spiccati caratteri amministrativi un procedimento contenzioso sui generis finalizzato alla risoluzione non giurisdizionale di un conflitto concernente la legittimità di atti amministrativi definitivi [91]; parimenti escludeva la natura giurisdizionale del detto “rimedio”; di conseguenza, -in ultimo con le sentenze n. 254 del 2004, ed ord. nn. 357 e 392 del 2004 – aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato: “ciò appunto in ragione del fatto che la questione era stata sollevata da un organo non giurisdizionale, la cui natura amministrativa era evidenziata dal fatto che il D.P.R. n. 1199 del 1971, art. 14, comma 1, prevedeva che, ove il ministro competente intendesse proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, dovesse sottoporre la questione alla deliberazione del Consiglio dei ministri (provvedimento, quest’ultimo, evidentemente non giurisdizionale, per la natura dell’organo da cui promanava).”.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15978 del 2001, avevano ribadito il precedente orientamento (non intaccato dall’opinione della Corte di Giustizia cui si è prima fatto riferimento) escludendo che i decreti con i quali erano decisi i ricorsi straordinari avessero natura giurisdizionale e potessero essere assimilati alle sentenze passate in giudicato, (le uniche, come ribadito dalla Corte di Cassazione) passibili di esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza.
E’ interessante evidenziare le motivazioni sottese a tale –riaffermato- diniego.
Affermava in proposito la Corte regolatrice della giurisdizione che “il procedimento promosso con il ricorso straordinario ha per protagonista un’autorità amministrativa, che non è neppure vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato, potendo anche risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto, così venendo a mancare i requisiti indefettibili dei procedimenti giurisdizionali, cioè il loro celebrarsi dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, oltre che soggetto esclusivamente al diritto vigente (art. 111 Cost., comma 2, e art. 101 Cost., comma ; il meccanismo dell’alternatività, che regola il rapporto fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, non comporta la natura giurisdizionale del primo rimedio, poichè la portata del principio di alternatività è notevolmente attenuata dalla preferenza espressa dal Legislatore per il rimedio giurisdizionale, con la previsione che i controinteressati possano far venire meno la procedibilità del ricorso straordinario notificando al ricorrente e all’autorità che ha emanato l’atto impugnato la richiesta di trasporlo in sede giurisdizionale (D.P.R. n. 1199 del 1971, art. 10, comma 1,); c) non significativa è la previsione della revocabilità del decreto (art. 15 del citato D.P.R.), poichè la revocazione è comunemente ammessa anche per i ricorsi amministrativi ordinari, mentre, in particolare, la revocazione per l’ipotesi prevista dall’art. 395 c.p.c., n. 5, (richiamato dal predetto art. 15) deve intendersi come riferita al contrasto con una precedente decisione di ricorso straordinario, dal momento che, invece, la sentenza passata in giudicato prevale comunque sulla difforme decisione del ricorso straordinario.”.
Quanto alla “novità assoluta” rappresentata dalla citata sentenza della Corte di Giustizia16 ottobre 1997, nelle cause riunite C-69/96 e 79/96, , le Sezioni Unite avevano osservato che la nozione di giurisdizione nazionale, in quanto prevista dall’art. 234 del Trattato CE e modellata in via interpretativa ai soli fini della ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, interpretativi e di validità, non rilevava quando si tratta di interpretare disposizioni di diritto processuale nazionale al differente fine di ammettere, o meno, il giudizio di ottemperanza nei confronti di decisioni su ricorsi straordinari rimaste ineseguite dalla p.a.; questa non necessaria coincidenza fra le due nozioni di giurisdizione integrava un aspetto erroneamente non considerato nelle ordinanze delle sezioni consultive del Consiglio di Stato che avevano ritenuto di poter fondare sulla richiamata sentenza della Corte di Giustizia la legittimazione del Consiglio di Stato, in sede di parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, a sollevare questioni di legittimità costituzionale.
Più di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2065 del 28 gennaio 2011, con un deciso revirement rispetto ai precedenti approdi, hanno affermato che in tema di ricorsi amministrativi, l’evoluzione del sistema normativo – di cui erano indici significativi, da un lato, l’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, laddove prevede l’incidente di costituzionalità da parte del Consiglio di Stato chiamato ad esprimere il parere sul ricorso straordinario ed abolisce la facoltà del Ministro di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato, e, dall’altro lato, l’art. 112 dell’allegato 1 del d. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che alla lettera b) prevede l’azione di ottemperanza per le sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo – conduceva a configurare la decisione resa su ricorso straordinario qual “provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio di ottemperanza”; e tale evoluzione doveva essere estesa alla decisione resa dal Presidente della Regione siciliana, in quanto l’analogia del procedimento che lo regolava sottendeva un’identità di natura e di funzione con il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Ne consegue che è ammissibile il giudizio di ottemperanza anche con riguardo al decreto del Presidente della Regione Siciliana che abbia accolto il ricorso straordinario.
Il Legislatore ciò non aveva affermato espressamente: e purtuttavia, l’ampia disposizione di cui alla lett. b) del comma II dell’art. 112 del cpa (“delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo”) consentiva e consente di ricomprendervi il decreto decisorio del ricorso straordinario.
Per altro verso, l’esclusione di tale rimedio giustiziale sarebbe risultata addirittura incomprensibile, laddove si consideri che ai sensi della successiva lett. e) del comma II dell’art. 112 del cpa l’ottemperanza era ammissibile anche in relazione ai “ lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato.”.
Neppure i lodi arbitrali, ovviamente, provengono da organi giurisdizionali: ammettere la praticabilità del rimedio dell’ottemperanza per questi ultimi, e negarla per il decreto decisorio del ricorso straordinario avrebbe comportato una inspiegabile contraddizione sistematica
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (la giurisprudenza amministrativa già da tempo sollecitava detta inversione di rotta da parte delle Sezioni Unite) con la decisione del 6 maggio 2013, n. 9 nel confermare la correttezza di tale approdo, ha affrontato il problema del giudice competente alla delibazione della relativa domanda (attribuendola al Consiglio di Stato in grado unico). E’ stato pertanto ivi affermato che “il decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, reso in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo e, quindi, è suscettibile di ottemperanza sulla scorta dei lineamenti normativi enucleati dagli artt. 112 e seguenti del codice del processo amministrativo. Tale decreto, pertanto, deve essere collocato nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lett. b) dell’art. 112, comma secondo, c.p.a., con la conseguenza che il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell’art. 113, comma primo, c.p.a., dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta. Il riconoscimento della competenza in unico grado del Consiglio di Stato anche in sede di ottemperanza scongiura l’anomalia logica della previsione di un giudizio di esecuzione in doppio grado finalizzato all’attuazione di uno iussum iudicis perfezionatosi all’esito di un giudizio semplificato in grado unico.”;
Tale affermazione non deve destare stupore: deve sul punto rammentarsi che la Corte Costituzionale ha chiarito che l’art. 125, comma secondo, della Costituzione, prevedendo, nella Regione, l’istituzione di organi di giustizia amministrativa di primo grado, ha costituzionalizzato il principio che vieta di «attribuire al T.A.R. competenze giurisdizionali in unico grado e la conseguente necessaria appellabilità di tutte le sue pronunce, e, quindi, una garanzia del doppio grado riferita alle controversie che il legislatore ordinario attribuisca agli organi locali della giustizia amministrativa». La stessa Corte Costituzionale ha aggiunto che «solo in tal senso assume rilevanza costituzionale» il principio del doppio grado di giudizio, «non potendo, l’art. 125 della Costituzione comportare l’inverso, perché nessun’altra norma della Costituzione indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado». [92]
Rimangono tuttavia talune (non modeste) differenze: è stato di recente rilevato, in proposito,[93] che “nel processo amministrativo, ai sensi degli artt. 112 comma 2 lett. b) e 113 comma 1, c.p.a. il ricorso per l’ottemperanza é consentito unicamente nei confronti del decreto presidenziale con il quale il ricorso straordinario viene deciso, vale a dire su decisioni o atti ad esse assimilabili, e non anche nei confronti di provvedimenti cautelari adottati nel corso del procedimento svoltosi a seguito della presentazione di tale ricorso.”.
- La richiesta di ottemperanza ai provvedimenti del Giudice amministrativo ed a quelli del Giudice ordinario. Caratteri distintivi e tratti unificanti.
Come si è sinora chiarito le sentenze del giudice amministrativo di primo grado non sospese (e pertanto provvisoriamente esecutive ex art. 33 comma II del cpa) e gli altri provvedimenti (anche di natura cautelare) del giudice amministrativo sono coattivamente eseguibili mediante il rito dell’ottemperanza.
La granitica giurisprudenza amministrativa sottolinea in proposito che l’Amministrazione è tenuta ad eseguire spontaneamente i detti provvedimenti finchè non chieda –ed ottenga – la sospensione della provvisoria esecutività, pur se ciò non integra acquiescenza al dictum ivi contenuto (l’esecuzione spontanea non può quindi provocare la inammissibilità del ricorso successivamente da essa presentato e/o la improcedibilità di quello già proposto).
Si è puntualmente rilevato in proposito che[94] “l ‘esecuzione spontanea della sentenza di primo grado, pur in assenza di limitazioni o condizioni apposte al provvedimento, costituisce, per l’Amministrazione, atto dovuto in ottemperanza all’ordine del giudice, dal quale non può desumersi l’acquiescenza e la manifestazione di una volontà di segno contrario a quella resa evidente dalla coltivazione dell’appello avverso la pronuncia giurisdizionale dalla quale è scaturito l’obbligo di provvedere.”.
Le “sentenze del giudice ordinario ed i provvedimenti ad esse equiparati”, invece –come si è prima posto in luce – non sono coattivamente eseguibili sino al passaggio in giudicato, e del pari – si ribadisce- il rimedio dell’ottemperanza continua a non essere praticabile per i provvedimenti cautelari del Giudice ordinario a cagione della efficacia interinale degli stessi, dell’inattitudine ad acquisire la definitività del giudicato ed in ossequio al principio per cui ogni autorità giurisdizionale che abbia emanato un provvedimento a natura cautelare deve essere competente all’attuazione del medesimo.
Questa distinzione, tuttavia, lungi dall’essere un “capriccio” del Legislatore, od una mera forma di rispetto ed ossequio verso le sentenze provenienti da un diverso plesso giurisdizionale, è indice di una considerazione più profonda che differenzia il giudizio di ottemperanza relativo ai provvedimenti resi dal giudice amministrativo da quello relativo ai provvedimenti resi dal giudice ordinario.
Secondo una felice intuizione della dottrina e della giurisprudenza, infatti (sul tema si tornerà più diffusamente di qui a poco) il giudizio di ottemperanza assume la prospettazione di giudizio misto (di cognizione ed esecuzione al contempo): ma ciò nei soli casi in cui si tratta dell’esecuzione di sentenze del giudice amministrativo, e non anche nel caso di sentenze del giudice ordinario.
Ove si agisca invece per la ottemperanza di sentenze del giudice ordinario i tratti del processo di ottemperanza sono quelli del processo esecutivo, e solo minimamente di un giudizio cognitorio.
Qualificata dottrina [95] ha invece sostenuto che nel giudizio per la ottemperanza di sentenze del giudice ordinario i tratti del processo di ottemperanza sono necessariamente quelli del processo cognitorio, e solo minimamente di un giudizio esecutivo.
L’affermazione – apparentemente inconciliabile con quella precedente- merita un chiarimento: nel giudizio relativo alla ottemperanza della sentenza del giudice civile lo sforzo giudiziale maggiore è quello di chiarire, interpretandoli, gli esatti contorni del giudicato formatosi; in tal senso il momento cognitorio è indefettibile.
Posto poi che le sentenze rese dal giudice civile contengono di regola con maggiore precisione tutti gli elementi (di regola condannatori) destinati a transitare nel processo esecutivo, appare evidente che l’affermazione del Nigro, Maestro assoluto del diritto processuale amministrativo è senz’altro condivisibile.
Se, invece, ci si pone nell’ottica della possibile integrazione del comando contenuto nella sentenza regiudicata, non v’è dubbio che il giudice amministrativo incontri limiti maggiori allorchè la ottemperanza riguardi una la sentenza del giudice civile, rispetto a quelli afferenti alla attuazione di un giudicato “amministrativo”.
Si è detto infatti, in giurisprudenza, che il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che è insito nella struttura stessa di ogni giudizio di esecuzione, e, quindi a maggior ragione del giudizio di ottemperanza, allorchè tale giudizio attenga ad un giudicato formatosi davanti a giudice diverso dal giudice amministrativo non può esercitarsi che sulla base di elementi interni al giudicato ottemperando e non sulla base di elementi esterni allo stesso, la cui valutazione, se ancora ammissibile, rientrerebbe in ogni caso nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza.
Segnatamente, quindi, in tema di giudizio di ottemperanza di una sentenza di condanna emessa dal giudice ordinario, il giudice amministrativo, dovendone individuare il contenuto e la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione, con esclusione di elementi esterni, non può integrare la pronuncia carente o dubbia con il riferimento a regole di diritto o ad un determinato orientamento giurisprudenziale[96].
In tal senso, quindi si comprende la tralaticia affermazione giurisprudenziale secondo cui allorchè la ottemperanza riguardi una sentenza del giudice civile il momento “esecutivo” è prevalente su quello “cognitorio”: il comando giudiziale reso dal giudice civile non può essere integrato in sede di ottemperanza, a differenza da ciò che avviene laddove la sentenza da eseguire sia stata resa dal giudice amministrativo
Come è stato osservato in giurisprudenza, la natura di giudizio misto vale solo per la seconda delle ipotesi soprarichiamate (ottemperanza alle sentenza del giudice amministrativo) in primo luogo per motivi “ontologici”, connaturati, cioè, alla natura strutturale delle sentenze amministrative.
Spesso, infatti, la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita, elastica, incompleta, che spetta al giudice dell’ottemperanza completare ed esplicitare. Sia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[97] hanno ritenuto che il giudice dell’ottemperanza, in caso di sentenze del giudice amministrativo – diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine – ha il potere di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (e idonei a giustificare anche l’emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell’adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso[98].
Nel giudizio di ottemperanza il g.a. può quindi adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che sarebbero comunque devoluti alla propria giurisdizione, “ma non potrebbe invece esercitare analoghi poteri di integrazione allorché la sentenza da eseguire sia stata adottata da un giudice appartenente a un diverso Ordine giurisdizionale e la questione rientri nella giurisdizione di quest’ultimo.”[99] .
Anche quando esercita detto potere integrativo (con esclusivo riferimento ad un provvedimento reso dal medesimo giudice amministrativo, come chiarito) il giudice amministrativo incontra dei limiti incidenti sulla propria giurisdizione estesa al merito, idonea a giustificare anche l’emanazione di provvedimenti discrezionali.
Detti limiti divengono vieppiù penetranti allorchè si attui un giudicato proveniente da un plesso giurisdizionale diverso: in tali ipotesi detto potere integrativo non può infatti sottrarsi ai limiti esterni della giurisdizione propria del giudice amministrativo quando la cognizione della questione controversa, la cui soluzione sia necessaria ai fini della verifica dell’esatto adempimento da parte della pubblica amministrazione obbligata, risulti devoluta ad altro giudice.
Pertanto, il potere di interpretare il giudicato, insito nella natura stessa di ogni giudizio di esecuzione e quindi anche del giudizio di ottemperanza, quando il giudizio si riferisca ad un giudicato formatosi dinanzi ad un giudice diverso da quello amministrativo, non può che esercitarsi in base ad elementi interni e non esterni al giudicato ottemperando, in quanto la valutazione di questi ultimi rientra nella giurisdizione del giudice che ha emesso la decisione.
Se il potere interpretativo commesso al giudice dell’ottemperanza potesse estendersi anche in relazione ad elementi esterni, la valutazione andrebbe inammissibilmente ad impingere nella giurisdizione (e nella valutazione) del giudice che ha emesso la sentenza nella sede propria del giudizio di esecuzione della stessa.
Ciò non esclude, tuttavia, che le prescrizioni che il giudice dell’ottemperanza è chiamato a dettare affinché alla sentenza dell’A.G.O. sia data integrale esecuzione possano essere utili anche ai fini della risoluzione di questioni di merito non esaminate dalla eseguenda sentenza, essendo questo un effetto che si riconnette a qualsiasi pronuncia del giudice.
Nel giudizio di ottemperanza a decisione di Giudice appartenente a diversa giurisdizione (ormai, per quel che si è prima chiarito, soltanto alla giurisdizione ordinaria ed alle Sezioni specializzate di questa quale il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche) il G.A. è chiamato comunque, sia pure nei limiti interni al giudicato, alla puntuale verifica dell’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione: tale verifica deve essere condotta nell’ambito dello stesso quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione e implica una delicata attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, attività da compiersi esclusivamente sulla base della sequenza “petitum”, “causa petendi”, motivi e “decisum”; oltre a tale verifica, poi, il giudice dell’ottemperanza, e sempre entro detti limiti, deve anche apprezzare le eventuali sopravvenienze di fatto e/o di diritto per stabilire in concreto se il ripristino della situazione soggettiva, sacrificata illegittimamente, come definitivamente accertato in sede di cognizione, sia compatibile con lo stato di fatto e/o diritto prodottosi “medio tempore”.
In sintesi: l’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione[100]; per la costante giurisprudenza amministrativa il multiforme atteggiarsi del detto giudizio (ribadito ancora di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 2 del 15 gennaio 2013), finalizzato ad assicurare l’adempimento del dictum cognitorio può spingersi sino ad integrare e chiarire aspetti rimasti sottovalutati in sede cognitiva.
In tali casi, con felice espressione, la dottrina e la giurisprudenza ricorrono al concetto di formazione progressiva del giudicato[101]: “la tradizionale affermazione secondo cui il giudicato amministrativo è un “giudicato a formazione progressiva” e che il giudizio di ottemperanza non ha natura meramente esecutiva, ma anche cognitiva, vuole esprimere il principio secondo cui la regola di comportamento che deriva dal giudicato in capo all’Amministrazione non è solo quella scolpita nel dispositivo. Si tratta, al contrario, di una regola più ampia, dotata di margini di elasticità e suscettibile di essere puntualizzata e concretizzata dal giudice dell’ottemperanza. L’individuazione del reale contenuto di tale regola è così oggetto di un processo di formazione progressiva, nel senso che essa viene definitivamente esplicitata proprio nel giudizio di ottemperanza, il quale, quindi, non è meramente esecutivo, ma anche cognitivo, dovendo il giudice dell’ottemperanza anzitutto delimitare la reale portata della regola conformativa derivante dal giudicato ottemperando.”.
È incontroversa, quindi, in giurisprudenza, la possibilità per il giudice dell’ottemperanza di precisare e meglio definire la portata della sentenza cognitoria regiudicata;[102] è stato infatti affermato in proposito che “il giudizio di ottemperanza ha, secondo l’impostazione tradizionale, natura mista di cognizione e di esecuzione: il giudice, infatti, concorre alla definizione della regola del caso concreto dando luogo appunto a quella che viene definita formazione progressiva del giudicato.”.
Ciò però riguarda unicamente l’ottemperanza alle sentenze ed agli altri provvedimenti resi dal giudice amministrativo.
Al concetto di integrazione del giudicato civile, non può invece farsi riferimento, se non in termini ristrettissimi: in questi casi l’azione di ottemperanza assume una valenza quasi esclusivamente esecutiva e minimamente cognitoria.[103]
Questa strutturale differenza –si ripete- sta alla base della determinazione del Legislatore a consentire l’esperibilità dell’ ottemperanza ai provvedimenti del giudice civile soltanto allorchè l’assetto di interessi ivi disciplinato abbia raggiunto definitività (salve le impugnazioni straordinarie ex artt. 395 e 396 c.p.c. e 404 c.p.c.) attraverso la formazione del giudicato: coerentemente quindi è stata legislativamente ribadita la impraticabilità del rimedio per le sentenze del giudice ordinario non regiudicate, ancorchè esecutive.
Per concludere su questa tematica, va infine dato atto dell’orientamento formatosi in costanza del quadro normativo antevigente, secondo il quale proprio tale ambivalente natura del giudizio di ottemperanza sollecitava una distinzione in punto di appellabilità delle relative decisioni rese dai T.a.r..
Si era quindi affermato[104], in passato che “le decisioni adottate in sede di ottemperanza sono inappellabili nella sola ipotesi in cui contengano disposizioni meramente attuative del giudicato, mentre qualora risolvano anche questioni di natura cognitoria, in rito o in merito, sono soggette ad appello”.
Tale orientamento è stato ribadito di recente, nella vigenza del c.p.a., essendosi rilevato che “sono pacificamente impugnabili le sentenze emesse in sede di ottemperanza, quando l’ ottemperanza richiesta non investa mere questioni esecutive, e con effetto devolutivo pieno quando, in appello, debbano risolversi questioni giuridiche in rito e in merito in relazione alla regolarità del rito instaurato, alle condizioni soggettive ed oggettive dell’azione e alla fondatezza della pretesa azionata.”[105].
8.1. I corollari della non integrabilità del decisum del giudice ordinario.
Coerentemente con le soprarichiamate affermazioni, si è fatto discendere in giurisprudenza la inesperibilità del rito dell’ottemperanza per ottenere la conformazione dell’amministrazione ad una condanna generica resa dal Giudice Ordinario.
E’ stato rilevato, infatti, in proposito che[106] “in sede di ottemperanza davanti al giudice amministrativo di sentenze definitive del giudice civile, secondo quanto previsto dall’art. 112, comma 2, lett. c), cod. proc. amm., e con riferimento alla richiesta di pagamento di somme di denaro, il creditore può certamente agire davanti al giudice amministrativo per l’ottemperanza di una sentenza di condanna, non generica, del giudice civile passata in giudicato. Tuttavia, mentre la sentenza di condanna che non contiene l’esatta determinazione della somma dovuta costituisce titolo esecutivo solo a condizione che dal complesso delle informazioni rinvenibili nel dispositivo e nella motivazione possa procedersi alla quantificazione con un’operazione meramente matematica, in assenza di tali requisiti, la domanda di esecuzione davanti al giudice amministrativo di una condanna generica, relativa cioè al pagamento di una somma non determinata nel suo ammontare e non determinabile in modo pacifico, risulta inammissibile, trattandosi di sentenza che non costituisce valido titolo esecutivoapparendo precluso al giudice amministrativo, investito dell’ottemperanza, effettuare nuove valutazioni in fatto e in diritto su questioni che non sono state specificamente dedotte o trattate nel giudizio definito con la sentenza del giudice civile da ottemperare, la cui cognizione, nel caso di perdurante contrasto fra le parti, spetta al giudice ordinario.”.
Tale orientamento è conforme a quello espresso dalla Corte di Cassazione, secondo cui la sentenza, con la quale il giudice abbia dichiarato il diritto del lavoratore o dell’assicurato a ottenere spettanze retributive o pensionistiche e abbia condannato il datore di lavoro o l’ente previdenziale al pagamento dei relativi arretrati “nei modi e nella misura di legge” oppure “con la decorrenza di legge”, senza precisare in termini monetari l’ammontare del credito complessivo già scaduto o quello dei singoli ratei già maturati, deve essere definita generica e non costituisce valido titolo esecutivo (per difetto del requisito di liquidità del diritto portato dal titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.), qualora la misura della prestazione spettante all’interessato non sia suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche, eseguibili sulla base di elementi di fatto contenuti nella medesima sentenza, e debba essere effettuata per mezzo di ulteriori accertamenti giudiziali, previa acquisizione dei dati istruttori all’uopo necessari, non potendo il creditore, in tal caso, agire in executivis ma dovendo richiedere la liquidazione in un distinto giudizio dinanzi al giudice munito di giurisdizione[107].
E’ evidente che onerare la parte ricorrente ad intraprendere un nuovo giudizio è evenienza che sarebbe preferibile scongiurare e che non appare peraltro in linea con le prescrizioni contenute nell’articolo 111 della Costituzione in punto di ragionevole durata del processo; la giurisprudenza amministrativa di primo grado ha talvolta tentato di evitare tale conseguenza: con una recente decisione[108] ha ritenuto ammissibile l’azione di ottemperanza avendo ravvisato una fattispecie di c.d. condanna implicita, (nella quale, al di là dell’aspetto puramente formale del titolo, l’esigenza di esecuzione della sentenza scaturiva dalla stessa funzione che essa era destinato a svolgere, senza peraltro richiedere al g.a. alcuna integrazione della statuizione) laddove nel titolo portato ad esecuzione fosse contenuto il riconoscimento del diritto di credito, certo in tutti i suoi elementi identificativi che sono i soggetti e l’oggetto del rapporto obbligatorio: ciò però a condizione che quest’ultimo fosse liquidabile sulla scorta di mere operazioni aritmetiche. [109]
Un possibile correttivo a tale impasse potrebbe – forse- essere strutturato nel seguente modo: muovendo dal pacifico presupposto che alla condanna generica consegua comunque indefettibilmente l’onere dell’amministrazione di conformarvisi determinando il quantum debeatur si potrebbe affermare che, al fine di ottenere tale determinazione la parte possa esperire il rito dell’ottemperanza: si determinerebbero quindi le condizioni per cui -laddove la determinazione da essa resa sia satisfattoria- non insorga l’esigenza di proporre una nuova domanda specificatoria restando inteso che (soltanto) laddove non si raggiunga un accordo tra le parti, sorgerà in capo alla parte ricorrente l’onere di adire nuovamente il giudice civile, restando il provvedimento determinativo dell’Amministrazione (ovviamente “confermabile dal giudice civile, ove ritenuto corretto) improduttivo di conseguenze giuridiche.
- Giudizio di ottemperanza ed azione esecutiva civile. Cumulabilità dei rimedi. Differenze ed analogie.
Si è prima dato atto dello stabile assetto opinioni raggiunto, in forza del quale, per ottenere l’esecuzione della sentenza passata in giudicato resa da un giudice ordinario, la parte vittoriosa ben può cumulare le azioni esecutive innanzi al giudice ordinario (dell’esecuzione) con il giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo competente[110].
È, tuttavia, anche vero che, pur nell’autonomia delle due azioni, il giudice amministrativo non può non tener conto di ciò che avviene nel parallelo giudizio di esecuzione civile, sussistendo a carico di quest’ultimo, sia il dovere di prevenire, ove possibile, la formazione di un conflitto di giudicati, sia il dovere di evitare che il cumulo delle procedure (innanzi al giudice ordinario ed innanzi al giudice amministrativo), faccia conseguire al ricorrente due volte le stesse somme.[111]
Infatti, seppure la parte titolare dell’ actio judicati, può cumulare i mezzi di tutela giurisdizionale offerti dall’ordinamento, onde conseguire il risultato favorevole della sentenza, essa non può ottenere una duplice decisione (in sede di esecuzione civile e di ottemperanza), né, tanto meno, richiedere, in sede di esecuzione di giudicato, al giudice amministrativo di ordinare all’amministrazione, ciò che nel parallelo giudizio civile, l’a.g.o ha negato.
È stato pertanto osservato dalla giurisprudenza, che una cosa è avere la possibilità di percorrere contemporaneamente entrambi i mezzi processuali per ottenere l’esecuzione di un giudicato (attraverso il ricorso al G.A. per l’ottemperanza e al G.O. con l’esecuzione civile), altro è, invece, chiedere al G.A. di intervenire, attraverso l’ottemperanza, nell’ambito della pendente esecuzione civile.[112]
La stessa giurisprudenza che ha affermato la possibilità di proporre il giudizio di ottemperanza congiuntamente all’ordinaria procedura esecutiva (data la loro concorrenza nel tutelare le garanzie del creditore nei confronti dell’amministrazione e per la diversa modalità propria di ciascuno dei due rimedi) è stata poi costretta a riconoscere che in forza degli inconvenienti che il parallelo esperimento dei due rimedi porrebbe “per criteri di generale applicazione l’identità totale degli elementi di più cause” (incardinate davanti all’AGO per l’esecuzione forzata e davanti al GA per l’ottemperanza, ossia per ottenere lo stesso identico risultato) sarebbe auspicabile che esse venissero “ decise dallo stesso giudice (o meglio da un unico giudice) al fine di evitare possibili discordanze di giudicati e, non ultimo, inutili ripetizioni di attività processuale”[113].
Il giudice di primo grado ha affermato che ricorrerebbe ” in questo caso una ipotesi di litispendenza, essendo state proposte le due cause, senza dubbio alcuno identiche nei loro elementi soggettivi ed oggettivi, davanti a giudici diversi.
Si tratta in realtà di una causa sola, che ha dato origine a due processi (pur se riconducibili a giudici appartenenti a differenti plessi giurisdizionali).
Per eliminare questa sconveniente duplicità sarebbe necessario far cessare uno dei due processi e, precisamente, quello iniziato dopo, che non aveva ragione di sorgere;la eventuale dichiarazione di litispendenza non sarebbe legata a motivi di riparto della giurisdizione (ipotesi questa insussistente, essendo pacificamente riconosciuta l’alternatività dei due rimedi) ma ad una questione di competenza – astrattamente riconosciuta in capo ad entrambi i giudici – dipendente dalla (inutile) duplicazione dei mezzi processuali a disposizione.”
Ciò avrebbe condotto alla conseguenza che i due rimedi siano in realtà alternativamente ma non anche cumulativamente esperibili, e così, mentre il giudice adito preventivamente, continuerebbe ed essere investito della causa, a quello adito successivamente non resterebbe che dichiarare l’improcedibilità del ricorso per l’ottemperanza.”.
Detto filone giurisprudenziale non ha avuto tuttavia seguito.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato si è attestata sull’affermazione secondo cui[114] “la disciplina del giudizio di ottemperanza è racchiusa nelle disposizioni dettate dagli artt. 112-115 c.p.a. e ad esse, in linea generale, non si applicano le disposizioni dell’esecuzione civile stabilite dal c.p.c., dal che discenderebbe che ove la stessa causa risulti proposta davanti a giudici appartenenti a diversi uffici giudiziari, trova applicazione l’istituto della litispendenza (e della continenza, art. 39 c.p.c.): a condizione, però i due giudici aditi appartengano allo stesso plesso giurisdizionale; infatti la contemporanea presenza della stessa causa dinanzi al giudice ordinario ed a quello amministrativo esula dalla nozione di litispendenza, integrando piuttosto una questione di giurisdizione.”.
Nell’ipotesi di contemporaneo esperimento dell’azione di ottemperanza e di quella esecutiva civile, vertenti su identico (od anche parzialmente coincidente) oggetto, la soluzione per disinnescare conflitti di giudicati, ovvero per evitare che in sede di ottemperanza si solleciti un sindacato su provvedimenti emessi dal Giudice civile in sede di esecuzione, sarebbe quindi (unicamente) quella della sospensione del processo avviato successivamente (art. 295 c.p.c. art. 337, comma 2, c.p.c.,)
Si rammenta peraltro che –sotto un profilo generale- quanto al sistema processuale amministrativo, è certamente ivi predicabile il principio del ne bis in idem, in virtù del quale è vietato al giudice di pronunciarsi due volte sulla medesima controversia; detto principio in questione è ricavabile dagli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo in virtù del rinvio “esterno” contenuto nell’art. 39, comma 1, c.p.a. poiché espressivo di esigenze comuni a qualsiasi ordinamento processuale, consistenti nel prevenire la inutile ripetizione di attività processuali e possibili contrasti di giudicati [115].
Il divieto di giudicare due volte sulla medesima regiudicanda si traduce quindi nell’onere per il ricorrente di dedurre in giudizio il dedotto ed il deducibile, e cioè di formulare tutte le domande necessarie a tutelare la posizione giuridica azionata, sulla quale è destinato a formarsi il giudicato ai sensi del citato art. 2909 cod. civ.
Conseguentemente, in applicazione del divieto in questione è preclusa non solo la riproposizione di domande già definite con la sentenza passata in giudicato, ma anche la proposizione per la prima volta di quelle che di tale giudicato costituiscono il presupposto logico e indefettibile e come tali assoggettate all’effetto previsto dal citato art. 2909 cod. civ.[116] .
E’ stato inoltre condivisibilmente chiarito che il divieto di ne bis in idem è estensibile anche all’azione di ottemperanza.[117] Come infatti chiarito dall’Adunanza plenaria nella sentenza 15 gennaio 2013, n. 2, l’azione di ottemperanza non è inquadrabile nello schema della mera azione esecutiva di sentenze o altri provvedimenti equiparabili, ma presenta profili di carattere cognitorio che arricchiscono il contenuto della domanda ( e come prima chiarito, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che il giudice dell’ottemperanza esercita gli ampi poteri conferiti dalla legge, integrando l’originario disposto della sentenza impugnata dinanzi ad esso, con determinazioni che non ne costituiscono una mera esecuzione, ma una “attuazione” in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato “a formazione progressiva”).
La giurisprudenza amministrativa, muovendo dalla differenza che intercorre tra il processo di ottemperanza e l’ordinaria azione esecutiva civile, in quanto contiene sia elementi di quel tipo di giudizio, sia (almeno in riferimento alle sentenze amministrative) elementi del giudizio di cognizione,[118] ne ha fatto discendere che “per quanto riguarda l’addebito delle spese difensive del giudizio – condanna che in via generale si riferisce al concreto esercizio e sviluppo della difesa tecnica processuale – di base vi è ostacolo ad applicare lo speciale principio proprio del giudizio civile di esecuzione, secondo cui l’onere delle spese segue non quell’esercizio ma semplicemente la posizione di soggezione del debitore all’esecuzione (art. 95 Cod. proc. civ., a norma del quale le spese sostenute dal creditore precedente sono a carico di chi ha subito l’esecuzione; v. altresì artt. 611 e 614).[119]
Si è evidenziato inoltre, nella medesima pronuncia, che al giudizio di ottemperanza alla sentenza amministrativa, posta questa sua configurazione, va adattato piuttosto il generale e ordinario principio della soccombenza degli artt. 91 e ss. del c.p.c. il quale, ai fini della condanna alle rifusione delle spese difensive, postula non una mera posizione statica rispetto all’interesse azionato bensì un esercizio attivo del diritto di difesa mediante l’eccezione, o comunque un’attività sostanzialmente espressiva di contraddittorio, come ad es. può avvenire in quel particolare processo mediante la presentazione di osservazioni confutative alla domanda contenuta nel ricorso.
Deriva da questo assetto che, in caso di mancato effettivo esercizio di un qualche concreto contraddittorio da parte dell’amministrazione chiamata ad ottemperare alla sentenza amministrativa, il giudice dell’ottemperanza non può addebitarle le spese processuali di quel medesimo giudizio: né, a fortiori, può condannarla alla rifusione a favore del difensore antistatario a norma dell’art. 93 Cod. proc. civ..
Inoltre, si è affermato che[120] “nel giudizio di ottemperanza, l’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., ha esteso il raggio d’azione delle penalità di mora a tutte le decisioni di condanna. La norma in analisi non ha, infatti, riprodotto il limite, stabilito della legge di rito civile nel titolo dell’art. 614-bis, della riferibilita’ del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.”
Costituisce infine, principio saldamento applicato dalla giurisprudenza[121], quello secondo il quale “nel giudizio di ottemperanza le ulteriori somme richieste in relazione a spese, diritti ed onorari successivi al decreto ingiuntivo sono dovute solo in relazione alle spese necessarie ad ottenere la defìnitività del decreto (richiesta ed estrazione di copie, notificazione, apposizione della dichiarazione di definitività da parte della cancelleria), alla pubblicazione, all’esame e alla notifica del medesimo, alle spese relative ad atti accessori, nonché le spese e i diritti di procuratore relative all’atto di diffida, in quanto hanno titolo nello stesso provvedimento giudiziale; non sono dovute, invece, le spese non funzionali all’introduzione del giudizio di ottemperanza quali quelle di precetto, che riguardano il procedimento di esecuzione forzata disciplinato dagli artt. 474 e ss. c.p.c., poiché l’uso di strumenti di esecuzione diversi dall’ottemperanza al giudicato è imputabile alla libera scelta del creditore e ciò in considerazione del fatto che egli può scegliere liberamente di agire, o in sede di esecuzione civile, ovvero in sede di giudizio di ottemperanza e, una volta scelta questa seconda via, non può chiedere la corresponsione delle spese derivanti dall’eventuale notifica al debitore di uno o più atti di precetto“.
Talvolta l’intersecarsi dei due procedimenti produce situazioni-limite: una di esse è quella sulla quale è intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione 10 aprile 2012 n. 2.
In tale decisione – muovendo dalla constatazione che il giudice ordinario[122], riconosce pacificamente che l’ordinanza di assegnazione del credito adottata dal giudice dell’esecuzione civile ai sensi dell’art. 553 c.p.c. (il cui primo comma recita: “Se il terzo si dichiara o è dichiarato debitore di somme esigibili immediatamente o in termine non maggiore di novanta giorni, il giudice dell’esecuzione le assegna in pagamento, salvo esazione, ai creditori concorrenti”), nonostante la natura del provvedimento come conclusivo del processo esecutivo, è dotata di autonomo valore e forza di titolo esecutivo azionabile nei confronti del terzo esecutato- è stato affermato che “l’ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell’art. 553 c.p.c., emessa nei confronti di una Pubblica Amministrazione, avendo portata decisioria dell’esistenza, dell’ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutate, nonché attitudine al giudicato, una volta divenuta definitiva per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione mediante giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 112, comma 3, lett. C, ed art. 7, comma 2, c.p.a.”.
- La parola fine alla vexata quaestio della natura giuridica del commissario ad acta: esso è un ausiliario del Giudice, e non invece un organo straordinario dell’Amministrazione; il regime di impugnabilità degli atti da questi emessi.
E’ bene avvertire che poche questioni hanno affascinato la dottrina ed impegnato la giurisprudenza, quanto quella che costituisce il titolo del paragrafo.
Quasi coevamente alla introduzione del rimedio dell’ottemperanza del sistema giuridico italiano, infatti, si affermò la prassi di natura giurisprudenziale volta a “delegare” ad un commissario ad acta appositamente nominato dal Giudice il compito di adottare gli atti amministrativi necessari per la compiuta conformazione al giudicato che l’Organo di amministrazione attiva non aveva emanato.
E ciò, sia in ossequio ad esigenze eminentemente pratiche (quelle di evitare che il giudice rimanesse “coinvolto” nell’espletamento di –a volte lunghi e defatiganti – compiti di vera e propria amministrazione attiva) che teoriche (si voleva evitare qualsiasi sospetto di “straripamento” da parte del potere giudiziario in pregiudizio del potere esecutivo evitando che l’atto amministrativo venisse adottato direttamente dal Giudice).
La prassi divenne regola consuetudinaria costantemente adottata: tanto che è ben disagevole rinvenire precedenti giurisprudenziali sfociati nella diretta emanazione, ad opera del giudice del provvedimento amministrativo (unico caso rinvenibile: la sentenza della quinta sezione del Consiglio di Stato, 30 maggio 1908 n. 282 che dispose l’accesso sui luoghi per accertare le caratteristiche di una certa opera, incaricando all‘uopo il consigliere istruttore).
E’ bene sottolineare, però, che la nomina di un commissario ad acta da parte del Giudice costituisce soltanto una evenienza statisticamente imponente, ma non è obbligatoriamente prescritta da alcuna disposizione[123], ed anzi ha sempre costituito una mera eventualità; essa tale è anche nel vigente regime normativo: il codice del processo amministrativo in nulla ha innovato sul punto, ed ivi si prevede all’art. 114 c.II lett. d che il giudice nomina, “ove occorra, un commissario ad acta”.
Resta quindi confermato l’insegnamento rinvenibile nella decisione dell’ Adunanza Plenaria 30 luglio 2008 n. 9, laddove si era precisato che nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo può adottare “tutte le misure necessarie ed opportune per dare esatta ed integrale esecuzione alla sentenza”, e che ciò può fare “direttamente o per il tramite di un commissario” [124]; il principio era peraltro già ricavabile dalla decisione della Corte Costituzionale n. 75 del 1977 che si era espressa nei seguenti termini: “al giudice amministrativo non sarebbe possibile disconoscere, nell’esercizio dei poteri giurisdizionali attribuitigli dall’art. 27, n. 4, del testo unico n. 1054 del 1924, una prudente discrezionalità, sia nel determinarsi per l’uno o per l’altro mezzo di esecuzione del giudicato, sia nella scelta (eventuale) del commissario ovvero dell’organo al quale demandarla”.
Sebbene non sia una scelta obbligata, quindi, la nomina del commissario ad acta costituiva (e costituisce tuttora) una costante dei processi di ottemperanza non definiti con il sopravvenuto adempimento da parte dell’Amministrazione all’obbligo di conformazione.
In ragione di ciò la giurisprudenza si è a lungo interrogata in ordine alla natura giuridica di tale “organo” (problematiche simili, come si preciserà immediatamente di seguito concernono tale figura ove nominata in seno al rito del silenzio).
Tre possibili approdi ermeneutici erano sul tappeto[125]:
- secondo una tesi che poi risultò minoritaria, ma che all’inizio riscosse grande successo, l’attività del commissario ad acta non poteva rivestire natura giurisdizionale (come quella svolta dall’organo che agisce come mero ausiliario del giudice) ma implicava un discrezionale esercizio di una potestà amministrativa, pur senza che venisse a costituirsi un rapporto di immedesimazione organica con l’Amministrazione: una situazione, questa, che non rendeva individuabile la legittimazione dell’Amministrazione ad impugnare, con ordinario ricorso giurisdizionale, o comunque a contestare l’atto del commissario ad acta nominato in sua sostituzione ciò in quanto si doveva inquadrare quest’ultimo quale “organo straordinario dell’Amministrazione” (si faceva da ciò discendere la inammissibilità di un ricorso presentato dall’Amministrazione avverso gli atti commissariali, trattandosi, in ultima analisi di atti alla stessa riferibili)[126];
- ad avviso di altra corrente giurisprudenziale invece, occorreva distinguere:
- gli atti adottati dal commissario ad acta in sede di ottemperanza del giudicato potevano essere impugnabili con l’ordinario ricorso giurisdizionale, soltanto allorquando il giudicato avesse lasciato margini di discrezionalità all’Amministrazione, sì che l’attività svolta dal commissario potesse considerarsi espressione di un potere amministrativo, come tale sindacabile in sede di impugnazione ordinaria;
- II) al contrario, laddove non fosse residuato alcun margine di discrezionalità nel compito affidato al commissario, allora competente a conoscere della esatta esecuzione del giudicato sarebbe stato soltanto il giudice della ottemperanza;
- per altra, e più radicale opzione ermeneutica (che, alla fine, risultò maggioritaria)[127] il commissario ad acta è –sempre e comunque– organo del Giudice dell’ottemperanza e le sue determinazioni vanno adottate esclusivamente in funzione dell’esecuzione del giudicato, e non in funzione degli interessi pubblici il cui perseguimento costituisce il normale canone di comportamento dell’Amministrazione sostituita; da ciò consegue che i suoi provvedimenti sono immediatamente esecutivi e non sono assoggettati all’ordinario regime dei controlli (interni ed esterni) degli atti dell’Amministrazione presso la quale lo stesso si insedia, ma vanno sottoposti unicamente all’immanente controllo dello stesso Giudice.
Il principio da ultimo enunciato è oggi consacrato espressamente nella nuova formulazione del comma VI dell’ art. 114 del d.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (comma così sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. dd, n. 2 del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195): “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta. Avverso gli atti del commissario ad acta le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell’ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni.”(si ricorda peraltro che la legge di stabilità 2016 ha, previsto una specifica disposizione normativa per le nomine del commissario ad acta relative all’esecuzione delle decisioni di condanna per irragionevole durata del processo -legge Pinto-: il comma 8 del neo-introdotto art. 5-sexies della legge 24 marzo 2001, n. 89, dispone che, in questi casi, venga nominato commissario ad acta un dirigente della stessa amministrazione ministeriale inadempiente, con alcune esclusioni per le figure apicali -capi dipartimento e dirigenti generali-o dirigenti che, comunque, ricoprono incarichi governativi ed ha, inoltre, espressamente disposto che in questi casi, il commissario ad acta non percepisca alcun compenso aggiuntivo, rientrando lo svolgimento di questo compito nell’ambito della sua “ordinaria” retribuzione da considerarsi omnicomprensiva).
Della correttezza di tale approdo costituisce formidabile conferma, sul piano del diritto positivo, l’art. 57 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) dedicato proprio alla “equiparazione del commissario ad acta agli ausiliari del magistrato”,in quanto ivi si è previsto che “al commissario ad acta si applica la disciplina degli ausiliari del magistrato, per l’onorario, le indennità e spese di viaggio e per le spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”.
Accertato che il commissario ad acta nominato nel rito dell’ottemperanza è un ausiliario del Giudice, le parti interessate possono e devono quindi rivolgersi al giudice (proponendo reclamo) affinché venga verificata la rispondenza dei provvedimenti adottati dal commissario ad acta medesimo (si noti: il codice non menziona i provvedimenti adottati direttamente dallo stesso giudice dell’ottemperanza, a comprova della circostanza che quest’ultima costituisce evenienza tutt’affatto teorica) alle disposizioni impartite in sede di ottemperanza, nonché ai principi vigenti in materia; può concludersi che l’attività del commissario ad acta, non ha natura prettamente amministrativa, perché si fonda sull’ordine del giudice, ed è la stessa che avrebbe potuto realizzare direttamente il giudice.
Quanto si è sinora esposto costituisce la regola generale, e riguarda le parti nei cui confronti si è formato il giudicato ( che sono quindi anche le parti del giudizio di ottemperanza); il reclamo deve essere notificato ai controinteressati e depositato nel termine di 60 giorni; la fase introduttiva del reclamo è connotata, quindi, dalla peculiare caratteristica della previsione di un solo termine (60 giorni) entro il quale il ricorso deve essere notificato e depositato.
Detta regola generale soffre però di una importante eccezione, opportunamente contenuta nell’ultima parte del citato art. 114 comma VI laddove si prevede che “gli atti emanati dal giudice dell’ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato ai sensi dell’articolo 29, con il rito ordinario”.
La regola generale, quindi, vale per le parti del processo di ottemperanza; per i terzi estranei che si assumano lesi dalle determinazioni del commissario, invece, l’attività commissariale medesima è “res inter alios”: laddove si fosse imposto anche a questi ultimi di impugnare le determinazioni del commissario mediante reclamo al giudice dell’ottemperanza si sarebbe rischiato di immotivatamente infrangere il tendenziale principio del rispetto del doppio grado di giudizio (ove il giudice competente per l’ottemperanza fosse stato il Consiglio di Stato) ma, più ancora di ledere il diritto di difesa delle parti medesime; una simile previsione non si sarebbe potuta sottrarre da censure di incostituzionalità sotto il profilo della violazione dell’art. 24 della Costituzione; ne discende che i terzi che non siano parti del giudizio di ottemperanza in seno al quale l’atto commissariale è adottato, quindi, devono impugnarlo ex art. 29 c.p.a., come se si trattasse di un atto amministrativo proveniente dall’Amministrazione.
Per altro verso, deve ritenersi che la previsione dell’impugnabilità degli atti del commissario ad acta da parte dei terzi con ricorso ordinario, comporti la possibilità da parte degli stessi di utilizzare, in via alternativa, lo strumento del ricorso straordinario al Capo dello Stato, (ancorché l’art. 114, co. 6, c.p.a., non contempli espressamente tale opzione, riferendosi al solo ricorso ordinario); il termine di impugnazione inizia a decorrere dalla data della comunicazione dell’atto commissariale alla parte destinataria che di esso intenda dolersi[128].
Ciò conferma che l’attività commissariale rimane comunque di disagevole inquadramento: il medesimo atto ha veste di “ordinario provvedimento dell’amministrazione” ove contestato da terzi rimasti estranei al giudicato formatosi (ed al processo di ottemperanza); integra invece atto “giurisdizionale”, in quanto ascrivibile ad un ausiliario del giudice, ove contestato da una delle parti del giudizio di ottemperanza.
Sotto il profilo della latitudine dei poteri spettanti al commissario ad acta, conserva immutata validità il tradizionale orientamento secondo il quale “gli stessi poteri della pubblica amministrazione appartengono al giudice dell’ottemperanza, e in seconda battuta, al commissario da questi eventualmente nominato”. Infatti, i poteri del giudice in sede di ottemperanza si modulano in relazione ad “una pluralità di fattori” fra i quali emergono:
- a) la consistenza della situazione giuridica soggettiva posta a base della domanda;
- b) la natura oppositiva o pretensiva dell’interesse azionato;
- c) il tipo di vizio accertato dalla sentenza di annullamento;
- d) il carattere vincolato o discrezionale del potere amministrativo in contestazione;
- e) le peculiarità della nuova situazione di fatto sopravvenuta.[129]
La giurisprudenza amministrativa[130] ha infine avuto cura di precisare che mentre con riguardo alla figura del commissario ad acta nominato in sede di giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato, di cui agli artt. 112 ss. cod. proc. amm., deve di necessità prevalere la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice, diverso inquadramento va attribuito alla figura del commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’amministrazione, ai sensi delle disposizioni processuali di cui agli artt. 31, comma 3, e 117, commi 2, 3 e 4 cod. proc. amm.
Infatti, si è affermato che laddove sia stata esperita azione volta all’accertamento dell’obbligo di provvedere e della fondatezza della pretesa, nonché alla condanna ad emanare il provvedimento richiesto, ed essa sia stata accolta, con contestuale nomina del commissario ad acta incaricato di adottare i provvedimenti in questione (di natura ripristinatoria e sanzionatoria), ai sensi dell’art. 117, comma 3, cod. proc. amm. non ci si troverebbe, infatti, al cospetto di un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che il codice del processo amministrativo non rinvia alle norme su tale tipo di giudizio, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta.
E’ stato in proposito rilevato che la specialità della previsione normativa in ultimo citata, risiederebbe nelle seguenti circostanze:
- a) si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza necessità di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio e legandosi dunque, sotto un profilo procedurale, alla fase di cognizione sull’inadempimento dell’amministrazione, senza soluzione di continuità, la successiva fase esecutiva;
- b) l’attività del commissario ad acta, posta in essere in esecuzione della sentenza che rimuova la situazione di inerzia imputabile alla pubblica amministrazione, non si limita – come nel vero e proprio giudizio di ottemperanza – al completamento e all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma si atteggia come attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente ed è collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima;
- c) l’attività del commissario ad acta, munito di piena autonomia decisoria, appare, dunque, qualificabile come sostitutiva rispetto a quella dell’amministrazione, piuttosto che di stretto ausilio al potere esecutivo del giudice, il quale potrà esclusivamente vagliare l’effettivo adempimento finale da parte del commissario in relazione all’ordine contenuto nella pronuncia giudiziale (con la precisazione che, qualora si verta in fattispecie di accertamento della fondatezza della pretesa, i margini di autonomia dell’attività commissariale si presentano più ristretti rispetto all’ipotesi in cui il giudice si sia limitato a dichiarare l’obbligo di provvedere);
- d) la previsione dell’art. 117, comma 4, cod. proc. amm., secondo cui il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario, va intesa nel senso che il giudice risolve tutti gli incidenti di esecuzione in senso stretto, dando le direttive e le istruzioni per la corretta esplicazione dei compiti del commissario, e non anche nel senso che il provvedimento del commissario debba senz’altro essere impugnato davanti al giudice del silenzio.
Da quanto sopra discenderebbe, per un verso, che l’accertamento contenuto nella sentenza dichiarativa della fondatezza della pretesa fatta valere dalla parte privata nel giudizio sul silenzio, in difetto d’impugnazione della sentenza stessa, è munito dell’autorità di cosa giudicata sostanziale ex art. 2909 cod. civ. in ordine alla sussistenza (per l’accertata esistenza dei relativi fatti costitutivi) della pretesa azionata contro il silenzio-rifiuto della pubblica amministrazione, e, per altro verso, che i provvedimenti commissariali sono, in tesi, contestabili con l’ordinario ricorso impugnatorio, e non già con lo strumento del reclamo dinanzi al giudice dell’ottemperanza (peraltro, come sopra esposto, l’esecuzione coattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del silenzio-rifiuto, dell’obbligo di provvedere e della dichiarazione di fondatezza della pretesa fatta valere nel giudizio sul silenzio, non è configurata dal codice come vero e proprio giudizio di ottemperanza, bensì come fase esecutiva collegata, senza soluzione di continuità, al giudizio che definisce il ricorso avverso il silenzio-rifiuto e volta a vigilare sulla corretta esplicazione dell’attività del commissario ad acta, a sua volta attuativa del dictum della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del silenzio, in sostituzione dell’amministrazione rimasta inerte).
- Questioni aperte.
La centralità sistematica dell’istituto, e, probabilmente, il “vizio di origine” rappresentato da una disciplina normativa scarna ed essenziale cui ha fatto da contraltare una produzione giurisprudenziale imponente, fanno sì che l’interprete debba confrontarsi con problematiche che sono lungi dal potersi considerare risolte.
Sebbene in questa sede si possa dedicare poco più di un cenno, senza alcuna pretesa di completezza, costituiscono argomenti sui quali il dibattito è lungi dall’essere sopito:
a)la questione relativa alla effettiva latitudine dei poteri commissariali; recentemente l’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 9 febbraio 2016, n. 2 ha affermato il principio per cui il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’art. 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur, e dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al citato art. 42-bis, ricollegando detta potestà alla investitura giudiziale laddove il giudice amministrativo, adito in sede di cognizione ordinaria ovvero nell’ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga all’amministrazione di decidere – ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell’ovvio rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate – se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42bis ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni consentite dall’ordinamento (restituzione del fondo, di un accordo transattivo, etc);
- b) l’ampiezza del sindacato del Giudice regolatore della Giurisdizione sulle decisioni rese in sede di ottemperanza ed il concetto di straripamento dei limiti esterni: si rammenta in proposito che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la recente decisione 1 febbraio 2016, n. 1836 hanno affermato che “la sentenza del Consiglio di Stato che ordini alla P.A. in sede di ottemperanza di provvedere “ora per allora” malgrado l’impossibilità di svolgere un’istruttoria retroattiva deve essere cassata per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, attesa la totale carenza dei presupposti di emanazione di un legittimo provvedimento di ottemperanza”;
- c) il concreto atteggiarsi in sede di ottemperanza della interpretazione del giudicato formatosi in seno al giudizio civile; si consideri in proposito che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la recente decisione 14 dicembre 2016, n. 25625 hanno ritenuto che “il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che è insito nella struttura stessa del giudizio di ottemperanza in quanto giudizio di esecuzione, allorché attenga ad un giudicato formatosi davanti ad un giudice diverso da quello amministrativo, non può che esercitarsi sulla base di elementi interni al giudicato da ottemperare e non su elementi esterni, la cui valutazione rientra in ogni caso nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza. Pertanto, ove il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza di una sentenza definitiva del giudice ordinario (nella specie, di accertamento del diritto di taluni pubblici dipendenti di godere di un congedo ordinario aggiuntivo di 15 giorni lavorativi, ai sensi dell’art. 5 CCNL Comparto sanità), abbia effettuato un sindacato integrativo – individuando, in tal modo, un diverso contenuto precettivo del giudicato (nella specie, conformandosi ad una sentenza della Corte di cassazione che aveva stabilito un diverso criterio per il computo delle ferie aggiuntive), con una pronuncia sostanzialmente autoesecutiva – ciò si traduce in un eccesso di potere giurisdizionale sindacabile ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., inteso quale esorbitanza dai limiti esterni che segnano l’ambito della sua giurisdizione”;
- d) il rilievo da attribuire alle “sopravvenienze” rispetto al giudicato civile;[131]
Un ulteriore aspetto, sul quale si concentra l’attenzione degli operatori, è rappresentato dalle problematiche pratiche discendenti dal contemporaneo esperimento del rito dell’ottemperanza e dell’azione esecutiva civile, laddove la parte ricorrente azioni diversi diritti di credito, fondati sullo stesso fatto costitutivo.
Simile questione – che non è di poco momento allorchè le domande siano state proposte innanzi allo stesso Plesso giurisdizionale – solleva ancor più rilevanti interrogativi allorchè dette distinte domande siano proposte innanzi a Giudici (egualmente competenti, come si è prima chiarito) appartenenti a diversi plessi giurisdizionali.
Come è noto, sul punto sono di recente intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che con la recente decisione del 16 febbraio 2017 n. 4090 hanno affermato il principio secondo cui “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benchè relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata”;
ciò in quanto (tra l’altro) “l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia”; ivi è stato contemporaneamente rilevata ”l’esistenza di un sistema che contempla la trattazione unitaria di processi promossi in tempi diversi e davanti a giudici differenti, ove, pur non escludendo la separata trattazione, prevede meccanismi tesi ad evitare la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda, ad evitare di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito”.[132]
La ricerca del punto di equilibrio tra tali contrapposte esigenze è resa più delicata, nella ipotesi di contemporaneo esperimento del rito dell’ottemperanza e dell’azione esecutiva civile, dalla assoluta necessità di evitare conflitti di giudicati in sede esecutiva.
Si può fondatamente dubitare che l’accorgimento della sospensione facoltativa del parallelo processo iniziato successivamente, sia l’unico idoneo a scongiurare i predetti inconvenienti: la difficoltà, però, di individuare rimedi più incisivi permane; sarebbe auspicabile una sorta di concordato giurisprudenziale che, pur tenendo conto del granitico orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (a più riprese affermato anche nella fase del “passaggio” al G.O. del contenzioso in materia di pubblico impiego) secondo cui le problematiche in punto di connessione non possono riverberarsi sulla individuazione del Giudice fornito di giurisdizione, addivenisse alla formulazione della regola pratica secondo la quale ove uno spicchio del medesimo rapporto sia stato già offerto alla cognizione del Plesso giurisdizionale od amministrativo, anche le ulteriori domande seguano la stessa sorte in forza di un’attrazione lato sensi riconducibile alla “connessione”.
Per altro verso, soffermando l’attenzione al novero dei provvedimenti del giudice civile coercibili con il rito dell’ottemperanza neppure possono essere trascurate le spinte di qualificata giurisprudenza di primo grado, intese a perseguire il principio di effettività della tutela giurisdizionale ampliando il novero dei provvedimenti degli giudice civile coercibili con il rito dell’ottemperanza[133] sino a ricomprendervi” alla luce del disposto dell’art. 702 quater c.p.c., l’ordinanza, non impugnata, emessa a seguito di procedimento sommario di cognizione”.
E’ il caso di precisare in chiave storica, in proposito, che la materia del giudizio di ottemperanza è quella, forse, dove maggiormente le istanze “aperturiste” della giurisprudenza di primo grado hanno trovato definitivo accoglimento, a dispetto di reiterati pronunciamenti contrari dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, per cui non sembra improbabile che ulteriori revirement siano prospettabili in futuro.[134]
Tutto ciò, lungi dal disorientare l’interprete, deve essere accettato quale sintomo della attualità dell’istituto e della vivacità del dibattito che esso continua da più di un secolo a stimolare, alla ricerca di equilibri maggiormente avanzati tesi a scongiurare che la parte vittoriosa ottenga una utilità non del tutto corrispondente a quella riconosciutagli dal giudicato.
Di Fabio Taormina
Il presente elaborato costituisce rielaborazione in forma organica della relazione svolta all’incontro di studio “Le decisioni del giudice civile tra esecuzione forzata ed ottemperanza” tenutosi in Roma Palazzo Spada il 30 novembre 2017
Note:
[1] cfr. Corte Costituzionale sentenze n. 419 e 435 del 1995;
[2] per Cass. Pen., sez. VI, 26 maggio 1999 n. 9400, l’inottemperanza a una decisione del giudice amministrativo, al di là di un termine ritenuto congruo, costituisce rifiuto di atto dovuto per ragioni di giustizia e integra pertanto il reato di rifiuto di atti di ufficio;
[3] per una analisi di assoluta completezza si fa rinvio a M. Nigro,” Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza” in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, pagg. 195 e segg;
[4] art. 4 e 5 L.A.C. –legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. E abolitiva del contenzioso amministrativo;
[5] si veda anche art. 25 n. 6 R.D. 2 giugno 1889 n. 6166
[6] art. 113 Cost.“Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.”
[7] commi II e III : “quando i ricorsi siano diretti ad ottenere lo adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa, la competenza è del Consiglio di Stato o del tribunale amministrativo regionale territorialmente competente secondo l’organo che ha emesso la decisione, della cui esecuzione si tratta. La competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello.”;
[8] Presidente Giovanni Vacirca, “La giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici” in Sito della Giustizia Amministrativa;
[9] per una completa ricostruzione anche storica della giurisdizione di merito del giudice amministrativo, laddove si esclude che ivi, ed in particolare nel giudizio di ottemperanza possano sindacarsi i profili di opportunità e convenienza degli atti adottati si veda F. G. Scoca, “Giustizia Amministrativa”, Giappichelli, 2003 Torino, pagg. 101 e segg)
[10] Vacirca, op.cit;
[11] M.S.Giannini, Istituzioni di Diritto Amministrativo, pagg. 380 e segg.
[12] così il testo originario dell’ art. 44 comma 1 del r.d. 26 giugno 1924 n. 1054:” se la sezione, a cui è stato rimesso il ricorso riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati nell’atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documenti, può richiedere all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti: ovvero ordinare all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni, autorizzando le parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti”;
[13] pienamente esplicativa, in proposito appare la massima che segue, relativa alla sentenza del T.A.R.per il Piemonte Sez. II, 18 novembre 1995, n. 612:“il processo amministrativo di legittimità conosce, sotto l’aspetto istruttorio, la sola verificazione che, a differenza della perizia, consentita nella sola giurisdizione di merito, è volta all’acclaramento di fatti, senza la possibilità di effettuare valutazioni”.
[14] si veda sul punto Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204 che ha bocciato il criterio di riparto “mobile” fondato sui “blocchi di materie”;
[15] nella richiamata decisione la Corte Costituzionale affermò in proposito che “non è giustificata la differenza di trattamento tra dipendenti pubblici e privati esistente riguardo alla tutela in via cautelare e d’urgenza, non essendo attribuiti al giudice amministrativo poteri analoghi a quelli spettanti al giudice del lavoro in virtù del testo, novellato dalla legge 11 agosto 1973 n. 533, dell’art. 423, comma secondo, cod. proc. civ., di guisa che viene a determinarsi a carico dei pubblici dipendenti una condizione d’inferiorità rispetto agli altri lavoratori subordinati, ai quali è consentito di conseguire in corso di causa ordinanza di pagamento, laddove l’intervento d’urgenza del giudice amministrativo è limitato alla mera sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato. D’altro canto, non va dimenticato che in ogni caso è da rispettare il principio per il quale la durata del processo non deve giammai risolversi in un pregiudizio per l’attore.”
[16] art. 7 comma 4 cod. proc. amm.: “Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma.”;
[17] doveroso, in tal senso, appare il richiamo alle decisioni n. 500 e 501 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione;
[18] tra le tante, si veda Cedu 23 febbraio 2006 Stere contro Romania, 20 novembre 1995 Compagnia Pressos contro Belgio sez. V 26 aprile 2006 Zubko contro Ucraina; 18 novembre 2004, Zazanis;
[19] la nozione di “pubblica amministrazione” deve essere ricavata dalle indicazioni offerte dall’art. 7, comma 2, c.p.a., secondo cui «per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo»: è pacifico in giurisprudenza che ., detta nozione è “senz’altro comprensiva degli enti pubblici economici che svolgono attività di impresa” (T.A.R. Catanzaro, Calabria, sez. I, 13 dicembre 2012, n. 1178) ovvero degli A.T.O (T.A.R. Catania, Sicilia, sez. I, 5 settembre /2014, n. 2393);
[20] tra le tante: Consiglio di Stato, sez. VI, 22 ottobre 2002 n. 5816;3 novembre 2010, n.7761; Consiglio di Stato, sez. VI, 17 giugno 2010, n.3851; Consiglio di Stato, Sez. III, 26 agosto 2011, n. 4816.
[21]si veda anche, sull’argomento, la prima richiamata sentenza della Corte Costituzionale 27 luglio 2000, n. 374 che ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 41, comma 5, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nella parte in cui fa divieto di corrispondere al personale non rientrante nelle disposizioni di cui al comma 4, al quale, a seguito di sentenza passata in giudicato sia stato attribuito il trattamento economico ex art. 4-bis del decreto legge 28 agosto 1987, n. 356, convertito con modificazioni dalla legge 27 ottobre 1987, n. 436, le relative somme.”; si è affermato in particolare nelladetta decisione in ultimo richiamata che, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte, “in linea generale è da escludere che possa integrare una violazione delle attribuzioni spettanti al potere giudiziario una disposizione di legge che appare finalizzata ad imporre all’interprete un determinato significato normativo, ma se il legislatore, come nella specie, oltre a creare una regola astratta, prende espressamente in considerazione anche le sentenze passate in giudicato, che attribuiscono un trattamento economico al personale, incidendo direttamente ed esplicitamente su di esse, rivela in modo incontestabile il preciso intento di interferire su questioni coperte da giudicato, non rispettando, in modo arbitrario, la diversa condizione di chi abbia avuto il riconoscimento giudiziale definitivo di un certo trattamento economico rispetto a chi non lo abbia ottenuto, e conseguentemente violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale nonché le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi.”.
[22] Consiglio di Stato sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6849;
[23] Consiglio di Stato sez. V 4 ottobre 2007 n. 5137;Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1300; Consiglio di Stato, sezione IV, 25 giugno 2013, n. 3457;
[24] Corte Costituzionale, sentenze 4 maggio 2009 n. 137, 2 aprile 2009 n. 94, 13 luglio 2007 n. 267;
[25] cfr. la citata sentenza della Corte Costituzionale 4 maggio 2009, n. 137, che richiama, tra le altre, le sentenze nn. 241 del 2008 e 429 del 2002;
[26] Corte Cost., 25 maggio 1957, nn. 59 e 60; 21 marzo 1989, n. 143; 16 febbraio 1993, n. 62; 24 febbraio 1995, n. 63; 21 luglio 1995, n. 347;
[27] ex aliis T.A.R. Lazio sez. III, 7 giugno 2000, n. 4742;
[28] Consiglio di Stato Sez. IV, 11 settembre 2012, n. 4827;
[29] per una specifica ipotesi –allorchè il ricorso sia accolto per il vizio di incompetenza -in cui, anzi, a parere della giurisprudenza è auspicabile che avvenga l’assorbimento, si veda: Cons. Giust. Amm. 6 marzo 2012 n. 273;
[30] art. 101 c. II c.p.a. “si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.”
[31] M.S. GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 420 ss; G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2006 )
[32] sulla trasversalità dell’affermazione relativa alla “inesauribilità” del potere, si veda Consiglio di Stato sez. VI, 23 novembre 2011, n. 6162 :“nonostante l’art. 15, comma 2, della legge n. 241 del 1990 non menzioni in modo espresso il comma 4 dell’art. 11 -in tema di esercizio del potere di recesso da parte della P.A. dagli accordi- fra le disposizioni applicabili anche agli accordi fra amministrazioni pubbliche di cui all’art. 15, nondimeno è da ritenersi che la effettiva sussistenza di tale potere di recesso emerga quale corollario del principio di inesauribilità del potere pubblico, che caratterizza l’esercizio delle pubbliche funzioni. Il provvedimento che sia espressione di un tale potere di recesso va adeguatamente motivato, tenendo conto delle circostanze avvenute e delle esigenze di spesa, e se del caso anche della illegittimità della originaria determinazione, ma comunque valutando gli interessi pubblici -e privati- sui quali si va ad incidere.”;
[33] il principio è stato a più riprese affermato dalla giurisprudenza amministrativa, tra le tante, si veda Consiglio Stato, sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2920: “ai sensi dell’art. 2909 c.c., il giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il “titolo” della stessa azione ed il “bene della vita” che ne forma oggetto; entro tali limiti, il giudicato copre il “dedotto ed il deducibile “, cioè non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione e, comunque, esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni che, pur non dedotte in giudizio, costituiscano un presupposto logico ed indefettibile della decisione stessa, restando salva ed impregiudicata soltanto la “sopravvenienza di fatti e situazioni nuove”, verificatisi dopo la formazione del giudicato.”).
[34] ex aliis Cons. Giust. Amm. Sic., 29 febbraio 2012, n. 225 “nel processo amministrativo, il giudicato può formarsi solo in relazione a capi di sentenza che si pronunciano sui motivi, e non può formarsi, invece, laddove i motivi di ricorso non vengano esaminati perché assorbiti.”;
[35] tra le tante, si veda Consiglio di Stato Sez. VI, 9 febbraio 2010, n. 633; per completezza espositiva e rigore logico si segnala altresì Consiglio di Stato sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134, laddove, intervenendosi sul tema del difetto di motivazione e del giudicato, si è ritenuto che una volta passata in giudicato la sentenza di annullamento di un diniego di concessione edilizia, non è ammesso il ricorso per l’esecuzione del giudicato se l’amministrazione abbia rinnovato il diniego sulla base di diversa motivazione, affermando comunque che “è onere dell’amministrazione, dopo il giudicato, esaminare la pratica nella sua interezza, con la conseguenza che, una volta rinnovato il diniego, non può più assumere ulteriori provvedimenti sfavorevoli per profili non ancora esaminati.”;
[36]Consiglio di Stato sez. V 4 ottobre 2007 n. 5137; Consiglio di Stato, sez. IV, 22marzo 2017, n. 1300; Consiglio di Stato, sezione IV, 25 giugno 2013, n. 3457;
[37] ex multis,T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 23 aprile 2009, n. 4071;
[38] Consiglio di Stato Sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4829 “a seguito di un primo giudicato di annullamento, in ragione della c.d. inesauribilità del potere amministrativo, scaturisce il dovere della pubblica amministrazione di riesaminare una seconda volta l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione -per l’avvenire e in sostanza, una terza volta- di tornare a decidere sfavorevolmente in relazione a circostanze non esaminate.”;
[39]Consiglio di Stato, sez. IV, 12maggio n. 1908; Consiglio di Stato, sez. IV, 3 marzo 2015, n. 1036;
[40] Consiglio di Stato, sez. VI, 25 ottobre 2012, n. 5469;
[41] cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011 n. 6501;
[42] si veda T.A.R. Umbria Perugia sez. I, 10 aprile 2013, n. 223 “ai sensi dell’art. 87, commi 2 e 3, del c.p.a. (nei giudizi di ottemperanza tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. Il deposito del ricorso in ottemperanza, avvenuto dopo la scadenza del termine dimezzato di quindici giorni dalla notificazione comporta l’inammissibilità del gravame.”; Consiglio di Stato Sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1603 “l‘art. 114, comma 9 del c.p.a., rinvia, quanto al regime dei termini per la proposizione delle impugnazioni nel giudizio di ottemperanza, alla disciplina contenuta nel Libro III del codice, ossia alla disciplina generale delle impugnazioni, talché, nell’ipotesi di notificazione della sentenza, deve ritenersi applicabile il termine breve ordinario di sessanta giorni. La dimidiazione dei termini, sancita dall’art. 87, comma 3, CPA per i procedimenti in camera di consiglio -tra cui i giudizi di ottemperanza-, invece si applica ai termini diversi da quelli di proposizione del ricorso – con la precisazione che per “proposizione” del ricorso si intende solo la sua notificazione, ma non anche il deposito – e dunque ai termini di deposito e per memorie, documenti e repliche in vista dell’udienza, ma non anche al termine per la proposizione – id est notificazione – del ricorso in appello, attesa la richiamata disposizione speciale dettata dal comma 9 dell’art. 114 CPA.”; Consiglio di Stato Sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5246“il termine per il deposito del ricorso in appello avverso la sentenza resa secondo il rito dell’ottemperanza è quello dimezzato di 15 giorni sancito dal combinato disposto dell’art. 87, comma 3, dell’art. 94, comma 1, e dell’art. 114, comma 8 e 9, del codice del processo amministrativo. Ciò sia prima che dopo la novella dell’art. 87, comma 3, c.p.a. recata dal primo correttivo al codice del processo amministrativo -art. 1, co. 1, lett. s, n. 2, D.Lgs. n. 195 del 2011–.”- ;
[43] art. 113 del c.p.a. :“il ricorso si propone, nel caso di cui all’ articolo 112, comma 2, lettere a) e b), al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta; la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”;
[44] di recente, si veda Consiglio di Stato, sez. VI, 2 luglio 2014, n. 3331, e soprattutto Consiglio di Stato, sez. IV, 1 febbraio 2017, n. 409 “nel processo amministrativo il giudice competente nel giudizio di ottemperanza va individuato, nel caso di conferma della sentenza di primo grado da parte del Consiglio di Stato, con riguardo all’indice testuale contenuto nel dispositivo della sentenza di secondo grado, indipendentemente dal suo percorso argomentativo, cui è connaturale uno sviluppo non meramente ripetitivo della sentenza di primo grado; ne consegue che, ove il dispositivo comporti una statuizione di rigetto dell’appello, vi è certamente identità di contenuto dispositivo tra i provvedimenti di primo e secondo grado, con conseguente attribuzione della competenza al Tar delle questioni sull’ottemperanza; ma, ove il dispositivo in appello contenga statuizioni che evidenzino uno scollamento dal percorso motivazionale e, conseguentemente, dal dispositivo della decisione di primo grado gravata e, quindi, nei casi in cui emergano formule come « respinto con diversa motivazione », allora la competenza per il giudizio di ottemperanza si radica presso il Consiglio di Stato; ancora più precisamente, quanto alle pronunce di appello con la formula « conferma con diversa motivazione » e, al fine di individuare il giudice competente ex art. 113 c.p.a. per il successivo giudizio di ottemperanza, occorre fare riferimento alle ragioni o meglio, al motivo di impugnazione che, una volta accolto dal giudice di appello, determina la conferma della pronuncia di primo grado; ed infatti, se la diversa motivazione di conferma si sostanzia in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado, il contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento di primo grado non può dirsi mutato, con conseguente individuazione del giudice competente nel Tar; invece, ove la sentenza di appello pervenga alla conferma dell’esito dispositivo della sentenza di primo grado, ma in base all’accoglimento di un diverso motivo di impugnazione -ad esempio, riproposto con appello incidentale, ovvero modificando il contenuto del dispositivo di condanna-, il contenuto dispositivo o conformativo della sentenza di appello si presenta indubbiamente come differente rispetto a quello della sentenza di primo grado, con conseguente competenza del Consiglio di Stato per il successivo giudizio di ottemperanza.”;
[45] Consiglio di Stato sez. IV, sent. n. 638 del 11 giugno 1997;
[46] tra le tante, si veda T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, 8 maggio 2012, n. 510;
[47] Cons. Stato sez. V, 4 novembre 2013, n. 5301;
[48] in termini, si veda Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 3078 del 23 maggio 2011;
[49] arg. ai sensi di Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15 gennaio 2013, n. 2 sulla quale di seguito ci si soffermerà ampiamente;
[50] tra le tante, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 27 maggio 2010, nr. 3382; Consiglio di Stato, sez. V, 13 marzo 2000, nr. 1328;
[51] tra le tante, si veda T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 9 febbraio 2012, n. 44; T.A.R. Puglia Bari Sez. III, 27ottobre 2010, n. 3842;
[52] Consiglio di Stato, sez. IV 24 maggio 2005 n. 2630; sez. IV 3 maggio 2005 n. 2094;
[53] Cons. Stato Sez. IV, 25 febbraio 2013, n. 3439;
[54] ex multis: Consiglio di Stato,sez. V, 23 novembre 2007, n. 6018, che richiama Consiglio di Stato, sez.V, 5 dicembre 2005, n. 6963;
[55] cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28 febbraio 2006, nr. 861; Consiglio di Stato, sez. IV, 6 ottobre 2003, nr. 5820; id., 15 ottobre 2003, nr. 6334;
[56] Consiglio di Stato sez. V, 10 settembre 2012, n. 4781; Consiglio di Stato Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638;
[57] T.A.R. Sicilia Catania, 14 dicembre 1995, n. 2675;
[58] Consiglio di Stato, sez. V, 10 settembre 2012, n. 4781: “l’emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo sul medesimo rapporto conosciuto e definito con statuizione irrevocabile -o, comunque, esecutiva- costituisce ottemperanza al giudicato e la legittimità dell’atto sopravvenuto può essere delibata nell’ambito del giudizio di ottemperanza solo se la nuova determinazione risulti palesemente elusiva delle regole di condotta dettate nella decisione della quale viene chiesta l’esecuzione, dovendosi altrimenti denunciarne l’invalidità con autonomo ricorso nelle forme del giudizio ordinario.”; si veda anche Consiglio di Stato sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638: “l’accertamento della violazione o dell’elusione del giudicato, in quanto costituenti il presupposto dell’ottemperanza, deve essere condotto con i parametri del giudizio di legittimità con la conseguenza che, solo ove essa conduca ad un positivo riscontro, può passarsi all’esame del merito con i poteri dell’ottemperanza. Sicché nella prima fase il giudice esercita un’attività meramente esegetica del giudicato -posizione della regola- verificando la conformità, anche sostanziale, del comportamento successivo dell’amministrazione alla regola così ricavata. Ove, a seguito dell’esame, sia ravvisabile elusione o violazione, il gravame è da considerare ammissibile e può essere scrutinato nel merito a mezzo dei poteri sostitutivi del giudice dell’ ottemperanza. Sicché nella prima fase il giudice esercita un’attività meramente esegetica del giudicato -posizione della regola- verificando la conformità, anche sostanziale, del comportamento successivo dell’amministrazione alla regola così ricavata. Ove, a seguito dell’esame, sia ravvisabile elusione o violazione, il gravame è da considerare ammissibile e può essere scrutinato nel merito a mezzo dei poteri sostitutivi del giudice dell’ ottemperanza.””;
[59] si veda, in questo senso, anche la giurisprudenza immediatamente successiva alla entrata in vigore del cpa: Consiglio di Stato sez. VI, 15 novembre 2010 n. 8053;
[60] la giurisprudenza più recente ha tuttavia edulcorato detta ultima considerazione: si vedano in proposito, tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2016, n. 2536, e Consiglio di Stato, sez. V, 1 ottobre 2015, n. 4604, che al condivisibile fine di evitare la declaratoria di incompetenza in ordine all’azione ordinaria di legittimità proposta dalla parte che ha contemporaneamente esperito l’azione di ottemperanza, hanno statuito che “nel processo amministrativo come è ammissibile la contemporanea proposizione, nei confronti del medesimo provvedimento, dell’azione di ottemperanza per violazione o elusione del giudicato, in unico grado davanti al Consiglio di Stato, e di impugnazione ordinaria davanti al Tar competente, secondo le regole ordinarie, così è del pari consentito devolvere nella medesima impugnativa un’azione di ottemperanza ed una di legittimità, e in questa seconda ipotesi il giudice adito è chiamato innanzitutto a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori, ed in particolare disponendo, in caso di rigetto della domanda di nullità, la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.”;
[61] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 21 marzo 1969, n. 10, ma si veda anche Consiglio di Stato, sez. V, 25 ottobre 1974, n. 430 e Consiglio di Stato, sez. IV, 26 giugno 1992 n. 645 : “il ricorso per l’ottemperanza può essere proposto anche se la decisione del Consiglio di Stato di cui si chiede l’esecuzione sia stata impugnata con ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione, o con istanza di revocazione.”; si è ivi rilevato in particolare che “conformemente a concordi indirizzi giurisprudenziali, l’esperimento del rimedio ex art. 27, n. 4, del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054, per l’esecuzione di una decisione del Consiglio di Stato, è ammissibile anche quando la stessa sia stata impugnata con ricorso in revocazione.”; tale ultima affermazione risulta coerente sotto il profilo sistematico con l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale (Cassazione civile, sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 272 :“in tema di condono fiscale, l’art. 39, comma 12, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nel consentire la definizione delle liti fiscali pendenti ivi individuate, ha riguardo alle sole controversie eventualmente definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, senza che rilevi l’astratta esperibilità della revocazione straordinaria o la mera proposizione della relativa domanda avverso le sentenze passate in giudicato, laddove non seguita dalla pronuncia rescindente di revocazione, atteso che solo a decorrere da quest’ultima si ha reviviscenza della pendenza della lite fiscale fino al passaggio in giudicato della statuizione che definisce il giudizio di revocazione”;
[62] Consiglio di Stato sez. V, sent., 21 gennaio 2011, n. 408;
[63] tra le tante, si segnalano Consiglio di Stato, sez. V, 8 giugno 2011, n. 3476; Cons. Giust. Amm. Sic., 7 febbraio 2013, n. 158;
[64] giurisprudenza pacifica: ex aliis Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2015, n. 1609;
[65] Consiglio di Stato sez. IV, 16 marzo 2012. n. 1487;
[66] T.A.R. Lazio,- Latina – sez. I, 15 luglio 2010 , n. 1163);
[67] si veda Consiglio di Stato, Adunanza. Plenaria, 1 giugno 1983 n. 15 che ha positivamente risolto il delicato problema dell’ammissibilità di una condanna ad un facere specifico in pregiudizio dell’Amministrazione;
[68] Consiglio di Stato, sez. IV, 30 gennaio 1984. n. 33;
[69] ex aliis Cass. Civ. Sez. Unite, 14 febbraio 1987 n. 1609;
[70] Consiglio di Stato, sez. IV 16 aprile 1994 n. 527;
[71] Cass. SS. UU. 13 maggio 1994 n. 4661;
[72] Consiglio di Stato, sez. IV 7 maggio 2002 n. 2439;
[73] Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3444;
[74] Consiglio di Stato, sez. V, 12 ottobre 2009, n. 6241: ” il giudizio di ottemperanza mira all’esecuzione di una sentenza obbligando l’autorità amministrativa a conformarsi alla pronuncia e, di conseguenza, a porre in essere le relative operazioni materiali o le attività provvedimentali necessarie.”;
[75] ex aliis si vedano Consiglio di Stato, sez. III, 26 gennaio 2012, n. 345; Consiglio di Stato, sez. IV 12 maggio 2016 n. 1908; Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 4 dicembre1998, n. 8 ; Consiglio di Stato sez. V, 9 ottobre 2006, n. 5995; Consiglio di Stato, sez. V, 10 agosto 2010 , n. 5549;
[76] Consiglio di Stato sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3444;
[77] Consiglio di Stato, sez. IV, 12 maggio 2016 n. 1908 cit.;
[78] Consiglio Stato, sez. IV, 27 febbraio 1996, n. 198; Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3871;
[79] si vedano, tra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 27 novembre 2000 n. 6300, 14 luglio 1997 n. 721 e 29 gennaio 1996 n. 70;
[80] ex aliis Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2010, n. 6516;
[81] ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1772; Consiglio di Stato, sez. V, 26 maggio 2015, n. 2667; Consiglio di Stato, sez. V, 9 marzo 2015; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 maggio 2014, n. 2654;Consiglio di Stato, sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 751
[82] si veda T.A.R. Umbria Perugia sez. I, 3 agosto 2013, n. 416; cfr. in termini T.A.R. Umbria, 4 ottobre 2012, n. 405;
[83] Consiglio di Stato, sez. V, 13 aprile 2017, n. 1766; Consiglio di Stato, sez. V, 6 maggio 2015, n. 2257;
[84] cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3280; Cons. giust. amm., 27 luglio 2012, n. 725; Consiglio di Stato sez. IV, 12 maggio 2008, n. 2160;
[85] Consiglio di Stato sez. IV, 31 luglio 2008, n. 3851;
[86] ex aliis Consiglio di Stato sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70;
[87] cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, 31 luglio 2008, n. 3851 cit.;
[88] Consiglio di Stato sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2171; Consiglio Stato, sez. V, 23 novembre 2010 , n. 8142;
[89] cfr. in tal senso Consiglio di Stato, sez. VI, 14 dicembre 2009 n. 7809;
[90] tra le tante, si veda Consiglio di Stato, sez. IV,7 gennaio 2013, n. 23;
[91] cfr. anche Corte Costituzionale sent. n. 282 del 2005 ord. nn. 56 e 301 del 2001;
[92] Corte Costituzionale, ordinanza n. 395 del 1988; sentenza n. 8 del 1982; da ultimo sentenza n. 108 del 2009;
[93] Consiglio di Stato, sez. V, 28 novembre 2016, n. 4999;
[94] ex aliis Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 2013, n. 4252;
[95] Mario Nigro, op. cit.;
[96] Cassazione civile Sez. Unite, 27dicembre 2011, n. 28812, ma si veda anche Cassazione civile sez. lav. 14 gennaio 2003 n. 445; Cassazione civile sez. lav. 1 giugno 2004 n. 10504;
[97] si vedano, rispettivamente, Cassazione civile Sez. Unite 30 giugno 1999, n. 376, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 15 marzo 1989 n. 7;
[98] per una puntuale analisi, si veda altresì Consiglio di Stato, sez. VI, 16 ottobre 2007 , n. 5409;
[99] Consiglio di Stato, sez. IV, 21 gennaio 2013, n. 320;
[100] Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 1997, n. 1108; sez. IV, 15 aprile 1999, n. 626; 17 ottobre 2000, n. 5512;
[101] si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 17 maggio 2013, n. 2680;
[102] ex multis, si veda Consiglio di Stato, sez. VI, 19 giugno 2012, n. 3569; si veda anche Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15 giugno 1998 n. 3 laddove è stato affermato che il giudice adito in sede di ottemperanza può pronunciarsi per la prima volta sulla determinazione degli interessi compensativi e della rivalutazione monetaria, sebbene non liquidati dal Giudice della cognizione;
[103] E costituisce profilo problematico -ad avviso di chi scrive- se alla predicata c.d. “eterointegrabilità” del titolo esecutivo civile di cui alle decisioni delle Sezioni Unite nn. 11066 e 11067 del 2 luglio 2012 possa procedere il Giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza;
[104] Consiglio di Stato, sez. V, 14 giugno 2010, n. 3727 (nel caso di specie si era al cospetto della ottemperanza “particolare” incardinata sul rito del silenzio e l’esposto principio aveva indotto ad affermare “l’appellabilità della decisione del Giudice Amministrativo di primo grado, nella specie impugnata, in quanto avente ad oggetto la declaratoria di improcedibilità del ricorso ex art. 21-bis, comma secondo, legge n. 1034 del 1971, per sopravvenienza di provvedimento espresso ritenuto conclusivo del procedimento. In tal senso, invero, recando la decisione del T.A.R. la definizione del ricorso-istanza per ottemperanza proposto dall’ appellante, di fatto pronunciava su un sopravvenuta condizione impeditiva dell’azione esecutiva e dunque risolveva una questione cognitoria di rito.”);
[105] Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2013, n. 635;
[106] Consiglio di Stato, sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1952;
[107] Consiglio di Stato, sez. VI, 21 dicembre 2011 n. 6773;
[108] T.A.R. Lazio,7 novembre 2016 ,n. 11000;
[109] si veda: Consiglio di Stato, sez. III, 12 aprile /2016, n. 1429 “con il ricorso per l’esecuzione del giudicato del giudice civile, anche quando si tratti dell’esecuzione di un decreto ingiuntivo, si può chiedere che, nella sede della giurisdizione di merito, siano emesse le misure volte alla esecuzione unicamente di quanto risulta espressamente dal giudicato; non possono essere invece proposte ulteriori domande su aspetti ancora controversi (ad esempio sulla spettanza di interessi e sulla loro decorrenza), per le quali non può che sussistere la giurisdizione del giudice civile.”;
[110] Consiglio di Stato, Adunanza. Plenaria, 9 marzo 1973 n. 1; Consiglio di Stato, sez. VI, 29 gennaio 2002 n. 480; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 8 ottobre 2004 n. 1878; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 25 ottobre 2006 n. 1962;
[111]ex multis T.A.R. Lazio, sez. II, 8 luglio 2009 n. 6667;
[112] ex multis T.A.R Sicilia, Palermo, sez. I 5 luglio 2006 n. 1575;
[113] T.A.R. Lecce, Puglia, sez. I, 9 ottobre 2008, n. 2800;
[114] tra le tante, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4727; Consiglio di Stato, sez. V, 16 febbraio 2015, n. 806; Consiglio di Stato, sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1952; Consiglio di Stato, sez. V, 13 aprile 2017, n. 1766;
[115] in questi termini: Consiglio di Stato sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3657; Consiglio di Stato sez. V, 4 novembre 2013, n. 5301, Consiglio di Stato sez. V 28 ottobre 2013, n. 5197;
[116] in questo senso: Consiglio di Stato sez. V sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1580; Consiglio di Stato sez. IV 5 dicembre 2006, n. 7112; Consiglio di Stato sez. V, 12 dicembre 2008, n. 6189; Consiglio di Stato sez. V 2 febbraio 2010, n. 438; Consiglio di Stato sez. VI, 17 febbraio 2009, n. 873, Consiglio di Stato sez. VI 10 febbraio 2015, n. 722;
[117] per una applicazione del principio, si veda Consiglio, di Stato sez. V, 16 febbraio 2015, n. 806; si vedano inoltre Consiglio di Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1558 e Consiglio di Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 362;
[118] cfr. Consiglio di Stato Stato, Ad. plen., 17 gennaio 1997, n. 1; Consiglio di Stato sez. IV, 3 marzo 2008, n. 796; Consiglio di Stato sez. IV 22 settembre 2008, Consiglio di Stato sez. IV n. 4563; ma si veda anche Cassazione Civile SS.UU., 30 giugno 1999, n. 376;
[119] Consiglio di Stato, sez. VI, 28 marzo 2012, n. 1845;
[120] tra le tante si veda T.A.R. Firenze, Toscana, sez. I, 21maggio 2015, n. 799;
[121]ex multis, Consiglio di Stato, V, 8 aprile 2014, n. 1645; Consiglio di Stato, sez. V, 31marzo 2017, n. 1498;
[122] cfr.: Cass. civ., III, 14 maggio 2013, n. 11566, 20 novembre 2012, n. 20310, 24 febbraio 2011, n. 4505;
[123] Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 30 luglio 2008, n. 9;
[124] in termini, si veda Consiglio di Stato,Adunanza Plenaria 14 luglio 1978 n. 23 laddove si afferma che la nomina di un commissario è “meramente eventuale”, e che il giudice dell’ottemperanza può “esercitare direttamente”, oltre che tramite un commissario, gli ampi poteri a lui riconosciuti;
[125] si tenga presente la pressochè assoluta assenza di referenti normativi, sulla questione: l’unica disposizione di legge che, antecedentemente alla legge n. 205 del 2000 avesse in qualche modo disciplinato la figura si rinveniva sub art. 159 del T.U.E.L (decreto Legislativo 18 agosto 2000, n.267 recante “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) il cui comma V così prevede: “I provvedimenti adottati dai commissari nominati a seguito dell’esperimento delle procedure di cui all’art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e di cui all’art. 27, comma 1, n. 4, del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, emanato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, devono essere muniti dell’attestazione di copertura finanziaria prevista dall’art. 151, comma 4, e non possono avere ad oggetto le somme di cui alle lettere a ), b ) e c ) del comma 2, quantificate ai sensi del comma 3. “;
[126] Consiglio di Stato sez. IV, 20 settembre 2006, n. 5525;
[127] cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 9 marzo 1973, n. 1; idem Adunanza Plenaria 14 luglio 1978, n. 23; idem, Consiglio di Stato sez. VI, 9 giugno 1986, n. 412; idem, Consiglio di Stato sez. V, 27 settembre 1990, n. 702; idem, Consiglio di Stato sez. V, 5 maggio 1993, n. 543; C.G.A. 25 febbraio 1981, n. 1; T.A.R. Salerno, 19 febbraio 1982, n. 76; T.A.R Napoli, Sez. 3^, 30 ottobre 1990, n. 375; T.A.R. Catania, Sezione Terza, 30 ottobre 1995, n. 2399; T.A.R. Catania, Sezione Terza 30 gennaio 1996, n. 45; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 1 febbraio 2013, n. 85;
[128] Consiglio di Stato, sez. IV, 9 giugno 2015, n. 2835;
[129] ex aliis Consiglio di Stato sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239;
[130] Consiglio di Stato, sez. VI, 15 settembre 2015, n. 4299; Consiglio di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338; Consiglio di Stato, sez. VI, 9 febbraio 2016, n. 557;
[131] si veda, in ordine al controcredito eccepito in compensazione C.G.A. Sez. Giurisdizionale 19 giugno 2017 n. 305, laddove si è fornita risposta negativa sulla scorta della considerazione che il controcredito scaturiva da una sentenza impugnata con ricorso per Cassazione e pertanto non possedeva il requisito di “certezza”: ad identica conclusione, forse, si sarebbe potuto giungere, valorizzando la circostanza che il “titolo” dedotto non rientrava tra quelli valutabili in ottemperanza, non soltanto in relazione alla qualità “non certa” del controcredito, ma, anche,in quanto non trattandosi di sentenza civile regiudicata ne era comunque preclusa la esaminabilità in sede di ottemperanza.
[132] si rammenta in proposito che le Sezioni Unite avevano in ultimo affermato con la decisione 22 dicembre 2009 n. 26961, (si veda anche Cassazione sez. Lavoro 10 maggio 2013 n. 11256) che fosse vietato l’indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un “unico rapporto obbligatorio”; ciò, sulla scia della nota decisione delle Sezioni Unite, 15 dicembre 2007 n. 23726 ove si affermò che fosse contrario a buona fede e quindi non consentito al creditore di una determinata somma di denaro, (dovuta in forza di “un unico rapporto obbligatorio”) frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, con unilaterale aggravamento della posizione del debitore, e che tale condotta collidesse del pari con il principio costituzionale del giusto processo, in quanto la parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si traduceva in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offriva alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale;
[133] si veda T.A.R. Genova, Liguria, sez. I, 11 febbraio 2016, n. 135, secondo cui la estensione (agli altri provvedimenti equiparati) contenuta sub art. 112 c.p.a. “non può limitarsi alla mera equiparazione formale, garantita in via letterale ed espressa dalla norma processuale, dovendo estendersi al caso in cui la statuizione giudiziale sia divenuta esecutiva ed abbia assunto caratteri di definitività, in quanto non impugnata, come nel caso dell’ordinanza predetta”
[134] emblematico, in proposito, il contrasto in ordine alla coercibilità con il rito dell’ottemperanza delle sentenze di primo grado non sospese: l’art. 33 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 stabiliva che esse fossero “esecutive” ma al contempo non indicava lo strumento processuale posto a presidio di tale esecutività: con due distinte decisioni, 23 marzo 1979 n.12 e 1 aprile 1980 n. 10 l’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ne escluse l’eseguibilità per mezzo del rito dell’ottemperanza, affermando che “ai sensi del combinato disposto degli art. 33 e 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 l’ambito della esecutività delle decisioni, in primo grado o in appello, non coincide con quello del giudizio di ottemperanza, potendo condurre all’inserimento della determinazione concreta del giudice amministrativo nel contesto amministrativo, ond’è che la sua esperibilità è subordinata al massimo grado di certezza; pertanto, è inammissibile il ricorso per l’ottemperanza, ove la sentenza non sia prima passata in giudicato, essendo irrilevante l’impossibilità di invocare il rimedio ex art. 27 n. 4 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 e art. 37 l. n. 1034 del 1971 cit.”; detti arresti furono ripetutamente contestati dalla giurisprudenza di primo grado, sinchè il Legislatore pose termine a tale insistito contrasto, mediante la legge . 205 del 2000, “sposando” la tesi del Giudice di primo grado;