di Fabio Taormina

Cenni storici e premessa

Come è noto,  l’usucapio nel diritto romano è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario per effetto del perdurare per un determinato periodo di tempo della possessio su di una res. Tale modo di acquisto della proprietà era stato introdotto per evitare che vi potesse essere per molto tempo una incertezza sulla proprietà dei fondi.

L’usucapione per le cose mobili si perfezionava in un anno, mentre per i fondi e gli edifici in un biennio secondo quanto stabilito dalla legge delle Dodici Tavole. Questa è peraltro la giustificazione all’istituto che viene proposta ancora nelle istituzioni giustinianee secondo cui: I.2.49 Quod ideo receptum videtur, ne rerum dominia diutius in incerto essent, cum sufficeret domino ad inquirendam rem suam anni aut biennii spatium, quod tempur ad usucapionem possessori tributum est. Tale istituto fa quindi acquistare sia l’appartenenza piena di una res mancipi ricevuta mediante traditio sia di una res ricevuta a non domino.Non tutti i beni erano però usucapibili. Invero, fin dai tempi più risalenti, vennero poste delle limitazioni alla possibilità di usucapire un bene. In particolare ne erano escluse:

le res furtivae (cose provenienti da un furto), in virtù di un divieto risalente alla legge delle XII tavole: G. 2.45 nam furtivam lex XII tabularum usucapi prohibet (traduzione: infatti la legge delle XII tavole proibisce l’usucapione delle cose rubate). Tuttavia, secondo la lex Atinia una cosa cessa di essere furtiva se, tornata al dominus, viene poi da lui nuovamente alienata.

le res vi possessae (cosa il cui possesso era stato acquistato con violenza), in virtù di disposizioni legislative della lex Plautia de vi e della lex Iulia de vi: G. 2.45 nam vi posessam lex Iulia et Plautia usucapi prohibet. (traduzione infatti le leggi Iulia e Plautia de vi proibiscono l’usucapione delle cose possedute con violenza).

le res sacre e religiose: G. 2.48 res sacras et religiosas usucapi non posse manifestum esse. (traduzione: è evidente che le cose sacre, dedicate cioè agli dei superi, o religiose, dedicate agli dei inferi, non possano essere usucapite).(Al contrario le res sanctae, vale a dire le cose di diritto divino per legge come le mura delle città erano usucapibli.

Inoltre, non erano usucapibili:

le res mancipi, alienate da una donna senza l’assistenza del tutore.

le res extra commercium ovvero le cose di cui era vietata la vendita.

le res incorporales

Perché maturi  l’usucapione occorre:che il possesso abbia una giustificazione (titulus o iusta causa);la bona fides del possessore; il decorso del tempo.

L’istituto è presente nel vigente sistema giuridico italiano ed è oggi disciplinato dagli artt. 1158 e segg. del codice civile.

Volendo fornirne una definizione sintetica potrebbe affermarsi che trattasi di  un modo di acquisto dei diritti reali su beni mobili e beni immobili per effetto del possesso continuo e ininterrotto per i periodi di tempo stabili dalla legge

L’usucapione è quindi un modo di acquisto a titolo originario del diritto di proprietà e degli altri diritti reali che si verifica per cause opposte alla prescrizione; mentre nelle prescrizione il diritto si perde a causa del  trascorrere del tempo, accompagnata dall’inerzia del titolare del diritto, nella usucapione il diritto si acquista per il trascorrere del tempo accompagnata da una attività svolta da un soggetto su un bene su cui grava un diritto reale altrui; questa attività è il possesso.

In via figurata è come se il possessore “assorbisse” il diritto reale altrui, quando il suo titolare non si attivi  per farlo valere nel periodo stabilito dalla legge.

Le cause che producono la prescrizione e l’usucapione sono quindi diverse ( se non  opposte)  ma assimilabili sono le esigenze che soddisfano i due istituti perché in entrambi i casi è necessario garantire la certezza delle situazioni giuridiche; la prescrizione serve a garantirle nel caso di lunga inerzia del titolare del diritto, l’usucapione, all’opposto, serve a renderle stabili riconoscendo che una situazione di fatto protratta per un lungo tempo e in assenza di contestazioni da parte del titolare del diritto, può portare all’acquisto del diritto a favore di chi la esercitava, cioè a favore del possessore.

L’elemento fondamentale della usucapione è quindi il possesso,che  deve essere stato conseguito senza violenza o clandestinità (art. 1163 c.c.); il possesso idoneo alla usucapione si verifica nel momento in cui la violenza o clandestinità è cessata; deve protrarsi per i periodi stabili dalla legge; deve essere continuo e ininterrotto.

Un caso particolare riguarda l’usucapione abbreviata prevista dall’art. 1159 c.c. In questo caso l’usucapione si realizza su beni immobili, ma invece di essere ventennale, è decennale.

L’abbreviazione dei termini si spiega per le particolari condizioni del possesso; per aversi usucapione abbreviata è infatti necessario:che il possesso sia iniziato in  buona fede;che vi sia un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà, o altro diritto reale di godimento;che il titolo sia stato trascritto. In presenza di queste condizioni, l’usucapione si compie dopo soli dieci anni dalla data della trascrizione del titolo.

Il tema oggetto di disamina  è di stretta attualità, e si compendia nella risposta ai seguenti interrogativi: è possibile affermare che l’Amministrazione espropriante che viene in possesso di un compendio immobiliare in virtù di una procedura espropriativa illegittima, possa divenire proprietaria del compendio medesimo in virtù dell’usucapione? Ed in ipotesi positiva a quali condizioni?

1.Il primo punto dal quale conviene muovere riposa nella risoluzione della problematica concernente la esistenza sistema giuridico italiano di un istituto corrispondente alla c.d.”usucapione pubblica” (ed in ipotesi di positivo riscontro, l’individuazione dei suoi tratti caratteristici ed eventuali peculiarità).

1.1.La posizione della giurisprudenza è stata la seguente:

a)l’usucapione (inquadrabile tra i modi di acquisto a titolo originario della proprietà)è un istituto unitario; detta usucapione (o prescrizione acquisitiva) disciplinata agli articoli 1158 e segg. c.c. ha in comune con la prescrizione estintiva ex articolo 2934 e segg. c.c. sia il decorso del tempo sia l’inerzia del titolare del diritto; tuttavia tramite l’usucapione si realizza in favore di colui che, senza essere proprietario possiede il bene, l’acquisto a titolo originario della proprietà, mentre con la prescrizione estintiva si estingue “solamente” il diritto non esercitato;

b)non esiste quindi la “usucapione pubblica” quale istituto autonomo;

c)è stata invece positivamente riscontrata una forma di usucapione ( per qualificata Dottrina”: il mezzo in virtù del quale, per effetto del possesso protratto per un certo tempo e, talora, di altri requisiti, si produce l’acquisto della proprietà e dei diritti reali di godimento” la  cui ratio riposa  “nell’esigenza di rendere certa e stabile la proprietà”, nella necessità di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto che si è protratta per lungo tempo e “dal punto di vista sociale” nella volontà di “favorire” chi utilizza il bene impiegandolo in modo produttivo)di cui si renda protagonista un soggetto pubblico;

d)in tale senso, può affermarsi che  la c.d. “usucapione pubblica”  è la ordinaria usucapione civilistica, di cui si renda protagonista una persona giuridica pubblica.
1.2. In ordine alla individuazione dei tratti caratteristici della c.d. “usucapione pubblica”  può affermarsi che la risposta è agevole, e discende da quanto sinora esposto: essi sono quelli “ordinarii” che valgono ad integrare e costituire l’istituto (unitario, come si è già chiarito) civilistico.

E quindi essa si verifica allorquando   l’apparato amministrativo di un Ente  “possiede” – a mezzo di propri Organi -per la durata necessaria, ed ininterrottamente un bene di pertinenza di un privato.
1.3. Ciò, con una singolare  peculiarità.

Si è affermato in proposito  –con riferimento al caso di più frequente verificazione, in giurisprudenza- che la sussistenza di un possesso utile al fine della maturazione del periodo utile ad usucapire potrebbe riscontrarsi (non soltanto in capo all’Organo delle Ente Pubblico, ma anche) allorchè una collettività  indeterminata di soggetti detenga  il corpus (un bene privato) con l’ animus possidendi.

Purchè, però essa possieda il bene uti cives e  non uti singuli.

E sempre che, beninteso:

a) si tratti di una collettività  indifferenziata ( non sarebbe sufficiente che si trattasse  soltanto di proprietarii  frontisti);

b) non ci si trovi al cospetto di atti di  “semplice” tolleranza del  proprietario,

c)ci si trovi in presenza di un possesso continuativo, seppur anche “intermittente”, secondo la nozione datane da consolidata giurisprudenza civile.
1.3.1. Deve inoltre  trattarsi di:

a) un possesso finalizzato a soddisfare un pubblico interesse e non estraneo alla funzione dell’Ente Pubblico;

b)esercitato nei confronti di un bene idoneo a soddisfare detto pubblico interesse;

1.3.2.Il caso più frequente verificazione, come è noto, riguarda  l’usucapione del diritto di passaggio o di  altre servitù  (purchè si tratti di servitù apparenti: arg. ex art.  1061 cc: “il requisito dell’apparenza della servitù discontinua, richiesto al fine della sua costituzione per usucapione, si configura quale presenza di segni visibili di opere di natura permanente obiettivamente destinate al suo esercizio tali da rivelare in maniera non equivoca l’esistenza del peso gravante sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante, dovendo dette opere, naturali o artificiali che siano, rendere manifesto trattarsi non di un’attività posta in essere in via precaria, o per tolleranza del proprietario del fondo servente, comunque senza animus utendi iure servitutis, bensì di un onere preciso, a carattere stabile, corrispondente in via di fatto al contenuto di una determinata servitù che, peraltro, non implica necessariamente un’utilizzazione continuativa delle opere stesse, la cui apparenza e destinazione all’esercizio della servitù permangono, a comprova della possibilità di tale esercizio e, pertanto, della permanenza del relativo possesso, anche in caso di utilizzazione saltuaria.”).

1.3.3. La giurisprudenza ha avuto modo di affermare in proposito che:

a)“la distinzione tra i beni pubblici e i beni privati non discrimina due categorie concettuali di proprietà, ma soltanto due categorie giuridiche di beni, la prima delle quali presenta un peculiare regime giuridico (inalienabilità, inusucapibilità, vincolo di destinazione per i beni pubblici appartenenti a privati, ecc.). Ne consegue che la P.A. può usucapire il bene privato del quale per oltre un ventennio, nella erronea convinzione che fosse demaniale, abbia disposto la concessione in uso a terzi, atteso che, mentre l’errata supposizione di demanialità del bene non incide sulla volontà della P.A. di gestirlo “uti dominus”, risolvendosi in un errore sul regime giuridico del bene, irrilevante ai fini dell’usucapione, la concessione in uso a terzi costituisce uno dei modi di disposizione del bene e, quindi, di possesso da parte dell’ente pubblico.

a1)Ivi si è anche affermato (il tema verrà esaminato di seguito) che gli atti di diffida e di messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine utile per usucapire, potendosi esercitare il relativo possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale, cosicchè è consentito attribuire efficacia interruttiva del possesso solo ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, oppure ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente, come la notifica dell’atto di citazione con il quale venga richiesta la materiale consegna di tutti i beni immobili in ordine ai quali si vanti un diritto dominicale..

E’ stata così respinta la corrispondente censura, secondo cui (si era dedotta la violazione degli artt. 1165 e 2943 c.c., )l’art. 1165 c.c., conterrebbe un espresso rinvio alle disposizioni generali sulla prescrizione, ed in particolare a quelle sulla interruzione della stessa, tra le cui cause dovrebbe rientrare anche, a norma dell’art. 2943 c.c., la costituzione in mora (in conformità a tale premessa si era sostenuto che avevano avuto  effetto interruttivo del termine previsto per l’usucapione i reclami proposti dagli esponenti nel corso degli anni).

b) si è rilevato inoltre che “secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, per l’attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all’uso pubblico concorra l’intervenuto acquisto, da parte dell’ente locale, della proprietà del suolo relativo o (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d’esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell’appartenenza della sede viaria al Comune, la mera iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima; né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall’espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall’intervento di atti di riconoscimento dell’amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada..
2.Ammessa nei termini prima esposti la figura della usucapione in favore di un Ente pubblico,  in passato è stata esplorata la questione della  possibile interferenzialità tra la tematica della c.d. “usucapione pubblica” e la materia espropriativa.
2.1. La premessa maggiore di tale ragionamento è la seguente: l’istituto dell’usucapio è di generale applicazione; l’Amministrazione possiede capacità giuridica di diritto privato; sarebbe arbitrario negarle la possibilità di usucapire beni altrui; e ciò, non soltanto nelle ipotesi in cui l’Amministrazione inizi ad occupare un bene altrui “iure privatorum” ma anche laddove l’Amministrazione abbia iniziato ad intrattenere una relazione materiale con il detto bene “iure imperii” ( come pacificamente  avviene nel caso di intrapresa di una  procedura espropriativa).
2.1.1. Sulla condivisibilità  di tale premessa maggiore   si è di recente negativamente espressa la Quarta Sezione del Consiglio di Stato che ha affermato la non contrarietà al principio di eguaglianza di un approdo giurisprudenziale escludente in termini assoluti la possibilità che la Pubblica Amministrazione usucapisca un bene di cui abbia conseguito il possesso a seguito di una procedura espropriativa illegittima
Ivi  si  è affermato che  (capo 5.4.2.) “una ultima considerazione deve essere permessa, sul punto: l’Amministrazione,  nel prospettare l’eccezione di maturata usucapione sostiene  in sintesi che  negando tale facoltà in capo alla medesima, essa riceverebbe un trattamento “discriminatorio” rispetto al privato (che può usucapire i beni).

Nessuna delle considerazioni della difesa erariale tese a criticare il convincimento della Sezione (in passato espresso proprio nella sentenza  03346/2014) appare persuasiva.

Invero il Collegio non può negare che l’Amministrazione (art. 42 della Costituzione) può validamente usufruire di tutti i modi di acquisto della proprietà,  e può divenire proprietaria di un bene al pari del privato; può “essere” proprietaria, al pari dei privati  (la tripartizione dei beni in mano pubblica  è   approdo di risalente tradizione che non si revoca certo in dubbio, pertanto l’amministrazione può essere titolare di beni a titolo di dominio privatistico).

Ciò che l’Amministrazione oblia, però, è che essa, per espropriare un bene in mano a privati, esercita una potestà di imperio pubblicistica; “affievolisce” (per usare un termine ormai quasi desueto) la posizione soggettiva attiva del privato;  si giova di poteri –che devono essere esercitati legittimamente- ad essa sola consentiti.

Sarebbe incongruo, in carenza di alcun espresso referente normativo, che dall’esercizio illegittimo di poteri di imperio essa possa ricavare un utile riposante nel divenire proprietaria del bene senza erogare al privato spogliato alcunché.

Non v’è alcuna par condicio da garantire, perché la posizione dell’Amministrazione (che si avvale di poteri di imperio) e quella del privato proprietario sono quanto di più disomogeneo si possa immaginare.

Semmai, oltre alle considerazioni tecniche prima formulate, sotto il profilo della complessiva coerenza sistematica non si vede come ritenere coerente con l’art. 97 della Costituzione la fattispecie in cui un soggetto pubblico iure imperii sottragga il bene ad un privato; ciò faccia in forza di atti illegittimi; e per soprammercato divenga poi proprietaria iure privatorum e non indennizzi il privato del pregiudizio subito.”
2.2. Per il vero, in passato, talune voci dissonanti avevano segnalato l’impossibilità di ammettere la figura della “usucapione pubblica” innestata su una procedura espropriativa illegittima: ciò, sulla scorta di un convincimento fondato sulla interpolazione dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 ad opera della legge n. 15/2005.

Questa, come è noto,  modificò l’art. 1 della legge n. 241/1990 e tra i “Principi generali dell’attivita’ amministrativa”, fu introdotta la disposizione del comma 1-bis, la quale recita: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.”.

In virtù di tale disposizione, se ne traeva il convincimento per cui il ricorso alle norme di diritto privato era  stato riconosciuto possibile dal legislatore unicamente per atti di natura non autoritativa con esclusione di quelli che comportassero l’esercizio di potere ablativo  dal momento che la legge in materia di pubbliche espropriazioni non contemplava il ricorso agli accordi.

Inoltre – si sosteneva – l’ipotizzabilità della usucapione doveva essere esclusa anche nelle fattispecie di usucapione “usurpativa”: la P.A. agisce per atti formali; le norme di diritto privato sono state riconosciute valevoli unicamente per atti e non per i comportamenti: ne conseguiva che la P.A., non potesse avvalersi del diritto privato per i comportamenti (fattispecie, questa, che sarebbe stata  implicitamente esclusa dal Legislatore con il comma 1-bis).

In contrario senso, però, avrebbe potuto fondatamente obiettarsi che  il comma 1 bis dell’art.1 della legge  241/1990 aveva una portata ricognitiva, e non innovativa e/o perimetrativa ( nessuno, in giurisprudenza ed in dottrina, ha mai seriamente dubitato che la PA potesse –anche agire iure privatorum); ed anche il  dato letterale del comma 1 bis dell’art.1 della legge  241/1990  (la pubblica amministrazione “agisce”) non si prestava allo scopo, in quanto non escludeva che, seppur l’Amministrazione. non avesse agito iure privatorum essa non potesse avvalersi di un istituto generale del diritto privato quale è l’usucapio.
3.Ciò premesso – e  lasciando sullo sfondo tale recente sentenza del  Consiglio di Stato, n.4096 dell’ 1.9.2015  che  ha negato la praticabilità della c.d. “usucapione pubblica”innervata su una procedura espropriativa non conclusasi con la emissione di valido decreto di esproprio – nel prosieguo della relazione si esporranno quali siano state le premesse di fatto e giuridiche che hanno condotto all’emergere della tesi della predicabilità nel sistema della “usucapione pubblica” conseguente ad una procedura espropriativa illegittima ed a quali conseguenze essa conduca, ove ritenuta ammissibile.

Si cercherà poi di dimostrare che – in disparte la detta radicale opzione negatoria dell’istituto fondata su ragioni pubblicistiche e di coerenza sistematica-  lo spazio applicativo per una  “usucapione pubblica”conseguente ad una procedura espropriativa illegittima sarebbe ben ristretto se non addirittura, insussistente, sulla scorta di alcuni indici normativi e sistematici, sia di rilievo privatistico, che pubblicistico.
3.1. E’ bene rammentare sempre che la frequenza di questa interferenzialità  tra espropriazione illegittima ed usucapione  scaturisce  da una degenerazione rappresentata dalla sistematica diffusione dell’occupazione di urgenza.

Come è noto,  l’istituto dell’occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione  nacque con la funzione di consentire l’occupazione dell’area nelle more di adozione del provvedimento di esproprio.

E doveva in origine rappresentare un “momento” eventuale ed in qualche misura eccezionale.

La regola applicativa ben presto divenne quella per cui l’autorità espropriante realizzava l’opera pubblica, senza aver prima adottato il provvedimento legittimante l’occupazione ovvero nonostante la sopravvenuta inefficacia dello stesso.

La constatazione empirica che ne discendeva è quella per cui, nella descritta  situazione,per un certo tempo l’Amministrazione aveva  esercitato un “potere” (che per adesso non verrà incasellato in alcuna categoria del trinomio detenzione/possesso/proprietà, ma su cui di seguito si tornerà) su un bene di un privato.

E si evidenziava quanto segue.

Muovendo dalla costruzione affermata in  Cass. Sez. Unite n. 1463/1983, si sosteneva che:

•allorchè ci si fosse trovati al cospetto di una occupazione c.d. “acquisitiva”, o “appropriativa”, non vi sarebbe stato alcuno spazio per la usucapione. Come è noto, infatti, l’intera costruzione dell’istituto pretorio ruota (va) sul caposaldo per cui con la irreversibile trasformazione, l’Ente diviene proprietario. Allo scadere della pubblica utilità del bene, il compendio occupato (ove trasformato irreversibilmente) diviene in via automatica di proprietà dell’Amministrazione, senza necessità di decorso del termine; la proprietà passa in capo all’amministrazione al momento dell’irreversibile trasformazione e, decorsi cinque anni, si prescrive l’azione risarcitoria esperibile dal privato. Superato il tentativo di dilatare il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria sino a dieci anni attraverso l’elaborazione della (ormai disattesa) nozione di “espropriazione sostanziale” (Cassazione civile, sez. I, 11 luglio 1990, n. 7210), era stato ammesso il diritto del privato di chiedere ed ottenere il risarcimento del danno derivante dalla perdita definitiva del bene entro il termine di prescrizione quinquennale, (essendo l’occupazione riconducibile ad un illecito extracontrattuale Cass., s.u. 25 novembre 1992 n. 12546; con ricostruzione confermata anche da Corte Cost., 23 maggio 1995, n. 188); il “dies a quo” di tale termine prescrizionale veniva ancorato al momento dell’irreversibile trasformazione del suolo oggetto di occupazione.

•nell’ipotesi invece di c.d. occupazione “usurpativa” , illecito permanente, in quanto svincolata dal potere pubblico   (ovvero per le occupazioni illegittime per le quali si riteneva possibile l’esercizio del potere di cui all’art. 43 TUEspropriazione) vi sarebbe stato spazio per l’istituto della  usucapione;

b1)si affermava in proposito, infatti, che:

in tali ipotesi, l’azione restitutoria sarebbe stata esercitabile sine die; la permanenza del diritto di proprietà in capo al privato destinatario di un’illegittima espropriazione o occupazione avrebbe implicato la conseguente possibilità di rivendicare la cosa “da chiunque la possiede o la detiene” (articolo 948, comma 1, c.c.) senza termine di prescrizione (articolo 948, comma 3, c.c.) nonché di chiedere il risarcimento dei danni patiti;

b2) di converso, però, si constatava la presenza nel sistema del disposto dell’articolo 948, comma 3, c.c. (ove espressamente si stabilisce che l’azione di rivendicazione non si prescrive ma si fanno salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione);

b3) e ben presto si guardò – da parte della Dottrina e di qualificata giurisprudenza – a  questo quale unico mezzo “naturale” (non postulante, cioè, l’esercizio di poteri amministrativi da parte dell’Amministrazione occupante) per  ricondurre al sistema di cui artt. 922 e ss. c.c.  un fatto “permanentemente illecito”.

Applicando tale istituto,  l’ Amministrazione, avrebbe potuto divenire proprietaria a titolo originario dell’immobile quale conseguenza del suo possesso protratto per vent’anni: ciò avrebbe condotto alla  cessazione dello stato di incertezza discendente dall’ utilizzo sine titulo di un bene ancora fatto in mano pubblica, “esposto” alla possibilità di un perpetuo esercizio, da parte del privato, di un’azione di rivendicazione e di risarcimento del danno;

b4)l’azione restitutoria, quindi avrebbe incontrato l’unico limite della maturata usucapione ventennale (ovvero dell’esercizio da parte dell’Amministrazione del potere ex art. 43  TUEspropriazione e, oggi, art. 42 bis TUEspropriazione);

b5)accertata l’usucapione, poi,  ne doveva discendere che essa non poteva coesistere con una positiva delibazione di un petitum risarcitorio  previo accertamento della illegittima occupazione: gli effetti della avvenuta usucapione (che, come è noto, integra un acquisto a titolo originario) avrebbero dovuto retroagire (al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui così facendo venire meno “ab origine” il connotato di illiceità del comportamento della P.A. che occupava “sine titulo” il bene poi usucapito;

b6)in sintesi: l’avvenuto maturarsi della usucapione avrebbe escluso la positiva esperibilità dell’azione reipersecutoria  parimenti elidendo il ricorrere del presupposto del risarcimento da illecito rendendo irrilevante la illiceità del possesso di chi aveva usucapito(“il possesso ventennale ininterrotto estingue non solo ogni sorta di tutela reale spettante al proprietario del fondo ma anche quelle obbligatorie tese al risarcimento dei danni subiti poiché, retroagendo gli effetti della usucapione, quale acquisto a titolo originario, al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, viene meno ab origine il connotato di illiceità del comportamento della p.a. che occupava sine titulo il bene poi usucapito”);

b7)tale tesi è stata talvolta, ancora di recente, da qualificata  giurisprudenza amministrativa che ha affermato che “ la pubblica amministrazione, a seguito di una procedura espropriativa, seppur illegittima, può acquisire la proprietà di un bene privato applicando l’istituto dell’usucapione ex art. 1158 c.c.. Il possesso ventennale ininterrotto estingue non solo ogni sorta di tutela reale spettante al proprietario del fondo, ma anche quella obbligatoria tesa al risarcimento dei danni subiti poiché, retroagendo gli effetti della usucapione, quale acquisto a titolo originario, al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, viene meno “ab origine” il connotato di illiceità del comportamento della p.a. che occupava “sine titulo” il bene poi usucapito.”.
3.2. Soffermandosi per un attimo su tale profilo di analisi, e cercando di trarre le fila si deve puntualizzare che :

a) sino a quando imperava la tesi secondo cui con l’irreversibile trasformazione del bene l’amministrazione acquistava la proprietà del fondo illegittimamente espropriato (o occupato), si poneva solo un problema di individuazione del termine di prescrizione del diritto del proprietario ad ottenere il risarcimento del danno (fissato in cinque anni ex articolo 2947 c.c.);

b) e non v’era alcuno spazio, in simili ipotesi, per la “usucapione pubblica”: neppure aveva senso invocarla, visto che a cagione dell’avvenuta irreversibile trasformazione del suolo si riteneva che l’Amministrazione fosse (già da quel momento) divenuta proprietaria;

c)la “ipotesi di lavoro” relativa alla operatività nel sistema di una “usucapione pubblica” restava confinata alle meno frequenti ipotesi di occupazione c.d. “usurpativa”.

Questa la “fotografia” dello stato delle cose antecedente all’anno 2000.

 

3.3. Quanto al dato effettuale, ne sarebbe dovuta discendere la “estinzione” per tal via (non soltanto del diritto di proprietà del privato ma, anche) della sua posizione creditoria relativamente al risarcimento del periodo di illegittima occupazione. Essa, in tesi, sarebbe dovuta  discenderebbe dal riconoscimento all’usucapione, della retroattività degli effetti (che comporta la conseguenza per cui la proprietà compete al possessore fin dall’inizio del suo possesso).

Il principio suddetto è stato affermato dalla Cassazione per risolvere necessità eminentemente pratiche : con una pronuncia del 1925 è stato utilizzato al fine di escludere la necessità di procedere a visure ipotecarie a fronte di una pronuncia dichiarativa dell’usucapione, posto che il compimento della stessa produce — quale effetto — l’estinzione delle ipoteche iscritte o rinnovate al nome del precedente proprietario, quantunque non ancora perenti; effetto estintivo che — si precisa — deve appunto farsi risalire alla efficacia retroattiva dell’usucapione e, pertanto, all’inizio del periodo di possesso utile.

In seguito, con una sentenza del 1973 , il principio è stato ribadito con riferimento all’efficacia degli atti compiuti dall’usucapiente in pendenza del termine per il compimento dell’usucapione, che a rigore dovrebbero invece considerarsi inefficaci perché provengono dal non titolare. In quell’occasione, la Corte ha evidenziato che «l’ ‘usucapione ha effetti retroattivi: tutti i comportamenti tenuti dall’usucapiente, rispetto alla cosa posseduta, durante il tempo necessario per il maturarsi dell’acquisto, devono considerarsi manifestazione del diritto che, mercé il possesso, si è conseguito».

Ancora, con una pronuncia del 2000  (Cass., sez. II, 28 giugno 2000, n. 8792),  il principio della retroattività è stato nuovamente ribadito (in verità, non già per escludere una tutela risarcitoria, bensì con il diverso fine di rendere inefficaci, nei confronti dell’usucapiente, eventuali atti di alienazione compiuti dal proprietario in pendenza del termine per il maturarsi dell’usucapione). Nella decisione appena menzionata, inoltre, l’orientamento giurisprudenziale sulla retroattività degli effetti della pronuncia dichiarativa dell’usucapione è stato posto alla base della disamina dei rapporti fra tale modo di acquisto della proprietà e l’istituto della trascrizione. In particolare, si è affermato che l’interessato, nella ricerca a ritroso nei registri immobiliari, non è tenuto ad andare oltre, ove dovesse scoprire la trascrizione di una sentenza di accertamento dell’intervenuta usucapione; trascrizione che, come evidenziato in dottrina, rende certa una situazione concretizzatasi recentemente, ma generata nei suoi effetti almeno venti anni prima.

3.3. Come è noto,la costruzione  giurisprudenziale della c.d. “occupazione acquisitiva” non ha avuto fortuna.

Si è successivamente affermata la contraria opzione ermeneutica secondo la quale la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito (quale è la realizzazione dell’opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo) e che nessun acquisto della proprietà di un’area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio: in tali fattispecie rimane l’obbligo per l’amministrazione di restituire al proprietario il bene di cui è stato illegittimamente privato . Tali  principi sono conseguenza discendente dalle pronunce della Corte EDU relative alla disciplina italiana in materia di espropriazioni  e coerenti con il principio di legalità.

La spinta della Corte di Strasburgo ha comportato quindi la espunzione dal sistema dell’istituto di origine pretoria e la sostituzione dello stesso   con quello dell’occupazione sanante previsto dall’art. 43 T.U. espropriazione (d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327) che – vigente prima della pronuncia di incostituzionalità (Corte Cost., 8 ottobre 2010 n. 293) a seguito della quale è stato sostituito con il nuovo art. 42 bis – attribuiva, come è noto, alla p.a. il potere discrezionale di acquisire in sanatoria la proprietà delle aree illegittimamente occupate nell’interesse pubblico.

Si è quindi affermato che  la trasformazione del fondo seguita alla realizzazione dell’opera pubblica non determina più né l’acquisto della proprietà dell’area in capo alla p.a. procedente né tantomeno la cessazione dell’illecito; la situazione antigiuridica originata dall’occupazione illegittima, ha natura di illecito permanente, che  si protrae fino all’adozione dell’atto di acquisizione sanante, produttivo dell’effetto traslativo della proprietà in favore della p.a. utilizzatrice (consolidata giurisprudenza qualifica in termini di illecito permanente ogni forma di occupazione illegittima).

L’ accordo transattivo con i proprietarii dell’area che determini il definitivo trasferimento della proprietà dell’immobile, accompagnato dal doveroso risarcimento del danno da occupazione illegittima, l’atto negoziale di compravendita,  o l’adozione di un provvedimento ex articolo 42 bis d.P.R. cit. integrano moduli alternativi ed insostituibili per il prodursi dell’effetto traslativo.

Non è superfluo rimarcare che in tale quadro la c.d. “usucapione  pubblica” – ove ammessa -determinerebbe la non necessità di una azione amministrativa in tale senso.

3.4. Immediatamente dopo tale “svolta” giurisprudenziale e normativa innescata dalle decisioni della Corte Edu si è posta la questione della “praticabilità” della usucapione pubblica  innervata sulle procedure espropriative illegittime iniziate ante l’anno 2000.

E questa volta, non limitata alle “usucapioni usurpative”, ma estesa alle “occupazioni acquisitive”.

Invero – si è sostenuto da parte dei sostenitori della tesi che sostiene la praticabilità della usucapione pubblica nel sistema – visto che la trasformazione del bene non implica (più) immediato acquisto della proprietà dell’area per “accessione invertita” la usucapione pubblica (ove si ritenga ammissibile, lo si ripete)  potrebbe estendersi alle occupazioni acquisitive.

Anche in tali ipotesi, quindi ( e non soltanto per le usucapioni usurpative) il possesso ininterrotto dell’area da parte dell’Amministrazione, ottenuto in epoca precedente all’anno 2000 avrebbe dovuto computarsi al fine di ritenere sussistente la maturata usucapione.

Per apparente paradosso, quindi, i principi affermati dalla Corte Edu affermati in chiave “difensiva” del privato spogliato,  avrebbero determinato una vis espansiva dell’istituto della usucapione pubblica, “esteso” anche alle forme di occupazione appropriativa e non già soltanto a quelle di usucapione usurpativa (con il non indifferente corollario di privare il destinatario anche della tutela risarcitoria, stante la affermata retroattività dell’acquisto per usucapio)

3.5. La giurisprudenza si è soffermata su tali questioni, con alcune recenti pronunce. Va innanzitutto rilevato che muovendo dalla disamina della nozione di possesso in capo all’Amministrazione che abbia intrapreso una procedura espropriativa illegittima ( avendo indebitamente occupato e trasformato un bene privato) la giurisprudenza civile, ma anche quella amministrativa, non hanno mai dubitato della circostanza  a tenore della quale ricorrono  insuperabili indici che escludono che possa configurarsi un possesso di buona fede; si è detto infatti, condivisibilmente, che  “l’ usucapione è necessariamente ventennale, visto che la buona fede deve ritenersi esclusa dall’emanazione dell’autorizzazione all’occupazione, dimostrante che l’Ente era consapevole di occupare un terreno appartenente ad un terzo proprietario”.

3.6. Proprio muovendo dal punto fermo per cui il possesso dell’Amministrazione non è in alcun modo qualificabile quale “di buona fede” (ed utile quindi per la c.d. “usucapione abbreviata” prevista dall’art. 1159 c.c) si è radicalmente affermata la “non attualità” della questione relativa alla possibilità di ipotizzare la maturata usucapione in relazione al possesso di un bene interessato da una procedura espropriativa divenuta illegittima seppure assistita da una valida (ed intangibile) dichiarazione  di pubblica utilità ed in cui la trasformazione del bene abbia avuto luogo durante il torno di tempo “coperto” dalla predetta dichiarazione di pubblica utilità (id est: le fattispecie di c.d. occupazione appropriativa, od espropriativa).

Ciò per una  – ad avviso di chi scrive insuperabile – considerazione.

Invero, per quanto prima chiarito, e sino alle sentenze della Corte Edu prima menzionate (id est: anno 2000) il diritto vivente era attestato – in simili fattispecie – per la improponibilità di una domanda reintegratoria tesa alla restituzione del bene (sul presupposto che esso fosse  già “passato” nella proprietà dell’Amministrazione a cagione dell’avvenuta trasformazione del fondo).

Soltanto con l’art. 43 del TU Espropriazione, come si è detto, il Legislatore ha introdotto un rimedio volto a disciplinare le conseguenze discendenti dall’avvenuta proposizione di una azione restitutoria.

La giurisprudenza amministrativa ha quindi, condivisibilmente, affermato, che solamente a partire  dalla entrata in vigore di tale corpus normativo – al più,ed unicamente ove si ritenga in via dogmatica ipotizzabile la c.d. “usucapione pubblica”- potrebbe individuarsi il dies a quo  a partire dal quale inizierebbe a maturare il possesso utile ad usucapire.

Invero per il periodo pregresso “il diritto vivente” non autorizzava la proposizione di azioni reintegratorie da parte del privato; la prescrizione di detta azione di reintegra, quindi, non avrebbe potuto decorrere, ai sensi dall’art. 2935 del codice civile ( che codifica il principio di risalente tradizione romanistica, secondo cui “contra non valentem agere non currit praescriptio”) .

Ne consegue che il torno di tempo antecedente alla entrata in vigore del dPR n. 327/2001 durante il quale l’Amministrazione  era rimasta in possesso dell’area non sarebbe computabile ai fini di ritenere inverata l’usucapio.

La giurisprudenza, anche di merito, ha in larghissima maggioranza  sposato tale opzione ermeneutica: ciò comporta che il dies a quo di un (eventuale, si ribadisce) possesso “utile” ad usucapiendum in capo alle Amministrazioni non  potrebbe che decorrere dalla entrata in vigore del  decreto del Presidente della Repubblica – 08/06/2001, n.327.

E poiché –come prima chiarito – neppure la più ardita costruzione giuridica potrebbe ipotizzare che trattasi di possesso di buona fede utile per l’usucapione c.d. “abbreviata”, l’attualità della questione potrebbe presentarsi decorso il ventennio di ininterrotto possesso dalla data di entrata in vigore del TU espropriazione (id est: nel 2023)

Piace sul punto riportare per esteso, senza ulteriori commenti la chiarissima –e pienamente condivisibile -esposizione contenuta in una recente decisione del Tar del Lazio.

Ivi si è affermato quanto segue:“occorre porsi l’ulteriore problema dell’individuazione del “dies a quo” a partire dal quale inizia a decorrere il ventennio necessario per la maturazione dell’usucapione.

Ciò al fine di valutare se la situazione di chi  non ha chiesto nel 1986 e nel 1997 la restituzione del bene in natura e quindi non ha interrotto l’usucapione nelle forme dovute, non possa e non debba essere considerata alla luce del combinato disposto dell’art. 1165 del codice civile, secondo il quale “le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione” e dell’art. 2935 del medesimo codice, secondo cui “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

In particolare, occorre chiedersi se il diritto del proprietario di chiedere la restituzione del bene in natura potesse nella specie essere esercitato anteriormente alla svolta giurisprudenziale e legislativa che ha sancito l’estromissione dell’istituto dell’occupazione appropriativa dal nostro ordinamento. In altri termini, occorre chiedersi se sia legittimo e conforme all’ordinamento il fatto di rilevare il mancato tempestivo esercizio di un’azione giudiziaria volta a recuperare il bene, in presenza di un diritto vivente che era pacificamente orientato nel senso della sussistenza dell’occupazione appropriativa, il cui perfezionamento è stato conseguentemente dato per presupposto dai proprietari del terreno, che perciò si sono limitati a chiedere una tutela di tipo indennitario/risarcitorio.

Si pone, in primo luogo, la questione di stabilire se il concetto di “possibilità di far valere il diritto”, cui fa riferimento l’articolo 2935 c.c., possa essere applicato alla posizione di diritto che abilita il proprietario a compiere – nei confronti della controparte – atti interruttivi dell’usucapione in corso di maturazione.

Si  ritiene che essa vada risolta positivamente, alla stregua dell’impostazione accolta da una significativa pronuncia della Corte suprema in materia successoria, la quale ha preso le mosse dalla constatazione che l’azione di riduzione può essere esercitata soltanto al momento dell’apertura della successione, cioè allorquando si può valutare la sussistenza della lesione della legittima e far valere il relativo diritto; e ne ha dedotto che è solo da quello stesso momento che il possesso per l’usucapione incomincia a decorrere contro il legittimario che agisce in riduzione (Cassazione civile, sez. II, 27 ottobre 1995, n. 11203).

In questa pronuncia, la Suprema Corte ha riconosciuto che “l’usucapione, ancorché costituisca un tipico fatto di acquisto a titolo originario, non ha riguardo esclusivamente alla relazione immediata tra il possessore e la cosa. L’affermazione frequente che si usucapisce “contro il proprietario” significa che l’usucapione non prescinde dall’atteggiamento del titolare”.

In effetti, nell’usucapione la posizione del proprietario originario è la posizione nei cui confronti si produce l’estinzione del diritto di proprietà contestualmente all’acquisizione della stessa in capo al terzo usucapiente: è importante ricordare, tra l’altro, che l’usucapione va riportata storicamente al concetto di prescrizione acquisitiva, il che spiega la sussistenza di meccanismi che assimilano sotto rilevanti profili i due fenomeni (prescrizione estintiva e acquisitiva); meccanismi che sono alla base della previsione di cui all’art. 1165 del codice civile vigente.

Quindi, come occorre – nei rapporti obbligatori – tutelare il titolare del diritto di credito non ponendo a suo carico le conseguenze di un atteggiamento di inazione, nel caso in cui lo stesso sia sostanzialmente e oggettivamente inevitabile, così nei rapporti reali occorre disporre analoga tutela verso il titolare del diritto reale nei cui confronti maturerebbe l’usucapione del terzo.

Del resto, la dominante giurisprudenza civile ha anche pacificamente ammesso, ad esempio, che la sospensione del corso dei termini di prescrizione stabilita al r.d. 3 gennaio 1994, n. 1 e dal d.l.l. 24 dicembre 1944, n. 392, in relazione agli eventi bellici, operasse anche con riferimento al decorso dei termini di usucapione (Cass. Civ., 6 luglio 1966, n. 1760; 5 agosto 1964, n. 2222; 9 gennaio 1990, n. 2); e ciò anche con specifico riferimento al termine per la proposizione dell’azione recuperatoria del possesso, con gli effetti interruttivi di cui all’art. 1167 c.c.. (Cass. Civ., 7 maggio 1975, n. 1773).

Ciò premesso, chiarita l’applicabilità in astratto dell’art. 2935 c.c., occorre spostare il discorso sull’interpretazione del riferimento della norma alla possibilità di far valere il diritto.

E’ noto che l’ordinamento vigente conferisce particolare rilievo all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici; il che ha portato a tipizzare le cause di sospensione (2941 e 2942 c.c.) e a precludere la possibilità di interpretazioni analogiche basate sul principio “contra non valentem agere non currit praescriptio”.

Circa l’art. 2935 c.c., va riconosciuto che esiste una certa continuità con l’ordinamento previgente, nel quale la giurisprudenza e la dottrina facevano riferimento al principio “actioni nondum natae non praescribitur”; la norma attuale però dirime i vecchi contrasti interpretativi (risalenti al diritto giustinianeo) e stabilisce che la prescrizione “comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

Detta disposizione, inserendosi in un contesto ordinamentale che privilegia la certezza delle relazioni giuridiche, è stata letta dalla dottrina e dalla giurisprudenza in senso oggettivo, come riferita a impedimenti di carattere legale e non di mero fatto (e ciò anche in continuità con analoghe interpretazioni adottate con riferimento all’art. 2120 del c.c del 1865). Sotto questo profilo, si è p. es. affermato che non costituisce impedimento all’azione cambiaria l’avvenuto sequestro della cambiale in disputa (Cass. Civ., 10 maggio 1940); che tra gli impedimenti di diritto non rientrano la mancanza di liquidità del credito (Cass. Civ. 7 gennaio 1984, n. 94) o la tardiva pubblicazione di un testamento olografo (Cass. Civ. 30 luglio 1966, n. 2130); mentre vi rientrano p. es. la condizione sospensiva non ancora avverata o il termine (Cass. Civ. 12 luglio 1965, n. 1436; 17 luglio 1969, n. 2683). La decorrenza della prescrizione non è impedita neppure da speciali regolamentazioni, qualora queste non ostacolino in modo assoluto tale esercizio (Cass. civ., 7 giugno 1977, n. 2336).

Ai fini che qui interessano, è importante altresì richiamare le pronunce che hanno escluso che possano configurarsi come impedimenti legali tutti quelli che attengono alla figura dell’ignoranza circa l’esistenza del diritto, anche se causata da orientamenti giurisprudenziali, da difficoltà interpretative, dall’esistenza di vizi di incostituzionalità della relativa disposizione, non ancora rilevati dalla Corte costituzionale o rilevati successivamente (Cass. Civ. 7 maggio 1996, n. 4235; 14 giugno 1994, n. 3421; 3 settembre 1994, n. 7645; 4 gennaio 1995, n. 72; 1 dicembre 1995, n. 12422; 18 settembre 1997, n. 9291; 21 giugno 1999, n. 6209; 13 maggio 2000, n. 6486).

Deve tuttavia osservarsi che il quadro sopra delineato non è assolutamente univoco, perché già la giurisprudenza – anche costituzionale – ha posto in essere in alcuni casi delle interpretazioni peculiarmente orientate a cogliere la specificità di determinate situazioni.

Basti richiamare, al riguardo, le seguenti pronunce:

– la prescrizione triennale dell’azione per conseguire le prestazioni in caso di infortunio sul lavoro, prevista dall’art. 112, comma 1, d.P.R. n. 1124 del 1965, nel caso di erronea individuazione da parte del servizio sanitario dell’Istituto assicuratore, della causa delle manifestazioni patologiche lamentate dal lavoratore, inizia a decorrere non dal giorno dell’infortunio, ma dal momento in cui l’assicurato ha acquisito la consapevolezza della riconducibilità della patologia ad una causa violenta costituente infortunio sul lavoro (Cassazione civile, sez. lav., 20 gennaio 2000, n. 616);

– e’ incostituzionale, per contrasto con l’art. 24 cost., l’art. 26 l. 27 luglio 1978 n. 392, nella parte in cui stabilisce il termine annuale, entro cui il locatore può chiedere la risoluzione della locazione per avere il conduttore destinato l’immobile ad uso diverso da quello pattuito, e che inizi a decorrere dal giorno in cui è avvenuto il mutamento di destinazione, a prescindere dalla conoscenza del locatore stesso (Corte costituzionale, 18 febbraio 1988, n. 185);

– in tema di occupazione d’urgenza e di espropriazione per pubblica utilità, il principio secondo il quale la vigenza di una norma preclusiva dell’esercizio di un diritto viziata di incostituzionalità configura un mero ostacolo di fatto all’esercizio del diritto, in quanto è ovviabile mediante l’esercizio dell’azione in giudizio che porti alla dichiarazione dell’incostituzionalità della norma, non è applicabile nel caso in cui manchino i parametri normativi alla cui introduzione le parti abbiano espressamente fatto rinvio per l’esatta identificazione dei contenuti del diritto; pertanto, qualora il soggetto espropriato abbia accettato – successivamente alla sentenza della Corte cost. n. 5 del 1980 ed anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 385 del 1980 – l’indennità provvisoria di espropriazione a titolo di acconto dell’indennità definitiva, con la previsione che quest’ultima avrebbe dovuto essere quantificata in applicazione della legge da emanare a seguito di quest’ultima sentenza, siffatto diritto era inesigibile sino a quando, in virtù della sentenza della Corte cost. n. 223 del 1983, sono state dichiarate illegittime le norme della legge n. 385 del 1980 (e di quelle successive, di proroga) e l’espropriato è stato posto in condizione di agire per ottenere il giusto prezzo ex art. 39, legge n. 2359 del 1865 (Cassazione civile, sez. I, 14 novembre 2003, n. 17196);

– Il diritto dei titolari di aziende agricole site in territori montani a quota inferiore ai settecento metri alla restituzione, a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 370 del 1985, dei contributi indebitamente versati (in epoca anteriore a tale sentenza) allo SCAU soggiace a prescrizione (decennale) con decorrenza non dalla data del pagamento ma dal giorno successivo alla pubblicazione della citata pronuncia d’incostituzionalità, atteso che lo stesso diritto, sorto solo per effetto di tale sentenza, non poteva essere fatto valere in epoca anteriore alla pubblicazione della medesima (Cassazione civile, sez. lav., 19 gennaio 1993, n. 611).

Pertanto, in presenza di alcune pronunce che paiono discostarsi dall’orientamento dominante, o almeno circoscriverne attentamente la portata sulla base dell’analisi della singola fattispecie, il Collegio ritiene di dover valutare le peculiarità del caso in questione.

Alla stregua “diritto vivente” anteriore alle modifiche introdotte dal T.U. n. 327/2001 sugli espropri a seguito degli orientamenti assunti dalla CEDU nell’anno 2000, era pacifico che – nella fattispecie – i proprietari non avevano alcun diritto alla restituzione in natura del bene, trattandosi di un caso tipico e pacifico di occupazione appropriativa.

Sotto questo aspetto, non viene di certo in rilievo un profilo meramente soggettivistico di “ignorantia juris” inescusabile.

Al contrario, la situazione ordinamentale dell’epoca, risalente alla sentenza della Cassazione del 16 febbraio 1983, n. 1464, era stata correttamente valutata dagli interessati nella sua oggettività, ed era stata correttamente ritenuta incompatibile con la stessa possibilità di esercitare la domanda restitutoria in natura e quindi di far valere il relativo diritto ai sensi dell’art. 2935 c.c..

Si trattava, insomma, di una domanda che a quell’epoca non era legalmente configurabile alla stregua del diritto vigente; con la necessaria avvertenza che il riferimento al parametro legale va inteso non nel senso del mero riferimento alla fonte legislativa, bensì come comprensivo di tutti i “formanti” dell’ordinamento, tra i quali – in particolare – non poteva non rientrare il “formante” riferibile al plesso che lega la giurisprudenza nazionale, quella della Corte costituzionale e quella delle Corti europee.

Questa situazione è mutata, dapprima ad opera della giurisprudenza della CEDU. Il mutamento è stato poi sancito dal D.P.R. n. 327/2001. Per ragioni di certezza, si  ritiene che in concreto il “dies a quo” della prescrizione vada quindi individuato nella data di entrata in vigore di tale ultimo D.P.R., da intendersi come la data nella quale è stato introdotto l’istituto dell’acquisizione sanante ed è stato superato l’istituto dell’occupazione appropriativa: in tal modo rendendosi oggettivamente possibile, per gli interessati, la tutela restitutoria del diritto di proprietà sul bene.

Da queste considerazioni discende che l’eccezione di usucapione deve essere disattesa, in quanto siffatta individuazione del “dies a quo” impedisce di rilevare il decorso del ventennio di possesso continuato prescritto dall’art. 1158 del codice civile.”.

In questi termini, la richiamata decisione.

Nulla, a parere di chi scrive, può aggiungersi a questa complessiva ricostruzione, che va pienamente condivisa.

La conclusione è che di usucapione pubblica innestata su risalenti fattispecie di “occupazione acquisitiva” si potrà incominciare a discorrere a partire dal 2023 (decorsi venti anni, quindi, dalla entrata in vigore del TU n. 327 del 2001) perché il “possesso” ante 2003 non giova a tali fini.

3.7. Quanto alla possibilità di ipotizzare la maturata usucapione in relazione al possesso di un bene interessato da una procedura espropriativa illegittima in quanto non assistita da una valida (ed intangibile) dichiarazione  di pubblica utilità, occorre ulteriormente distinguere.

3.7.1. Premesso che trattasi –sempre- di fattispecie non rientranti nell’alveo della giurisdizione del Plesso giurisdizionale amministrativo,  nell’ipotesi in cui la dichiarazione di Pubblica Utilità manchi del tutto, la posizione dell’amministrazione non è dissimile da quella del quisque de populo, privato, “usurpatore”: in simile evenienza, in cui i comportamenti materiali della p.a., relativi all’ablazione del bene, non siano riconducibili, neppure in via mediata e indiretta, all’esercizio di un pubblico potere negare la possibilità in capo all’Amministrazione di usucapire il bene non parrebbe invero ragionevole, in quanto si risolverebbe nel negare la capacità di diritto privato dell’Amministrazione medesima.

Ed il possesso “utile” ad usucapire il fondo del privato dovrebbe iniziare a decorrere dalla data in cui l’Amministrazione ha acquisito il corpus.
3.7.2. Nell’ipotesi in cui, invece,  la dichiarazione di pubblica utilità vi fosse, ma sia stata annullata,dichiarata nulla, etc occorre tenere conto di una realtà fenomenica diversa.

Innanzi tutto, la fattispecie va tenuta concettualmente separata da quella in cui il potere ablativo sia stato esercitato sulla base di provvedimenti amministrativi dichiarativi della pubblica utilità nonché della indifferibilità ed urgenza delle opere da realizzare, ancorché detti provvedimenti abbiano perso di efficacia in conseguenza del fatto che ad essi non ha fatto seguito l’emanazione del relativo decreto di esproprio: in tale caso in ultimo menzionato, la controversia deve ritenersi devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. g), c.p.a., in quanto l’occupazione degli immobili di proprietà del ricorrente non potrebbe  considerarsi disgiunta dall’esercizio di potestà pubblicistiche.

Laddove invece la dichiarazione di pubblica utilità  sia stata annullata, ovvero dichiarata nulla, deve affermarsi (come nella ipotesi che il possesso del fondo sia stato conseguito in termini del tutto “sganciati” da qualsivoglia procedura espropriativa, come ne caso di “sconfinamento”) che  i comportamenti materiali della p.a., relativi all’ablazione del bene, non siano riconducibili, neppure in via mediata e indiretta, all’esercizio di un pubblico potere.

Senonchè la “conoscenza” di ciò in capo al privato, non può che essere ricondotta alla data in  cui sopravvenne la pronuncia giurisdizionale che annullò la dichiarazione di pubblica utilità, ovvero la dichiarò nulla.

La problematica,come è agevole riscontrare non è dissimile da quella esaminata   al paragrafo 3.6. del presente elaborato, con riguardo alle distinte fattispecie di occupazione c.d. “appropriativa”: in tali fattispecie  soltanto dalla data di pubblicazione della decisione che ha annullato la dichiarazione di pubblica utilità, il privato avrebbe potuto –secondo il “diritto vivente” ante 2001 – validamente proporre la domanda reintegratoria: è ben vero che il giudicato retroagisce alla data di proposizione della domanda: ma tale effetto, “utile” per il ricorrente vittorioso, non potrebbe tradursi in uno svantaggio per il medesimo.

Dovrebbe quindi affermarsi che il dies a quo a partire dal quale l’Amministrazione potrebbe iniziare ad usucapire il compendio del privato non potrebbe decorrere che dalla data in cui venne pubblicata la sentenza demolitoria della dichiarazione di pubblica utilità

 

4. Nuovamente appare opportuno tirare le fila del ragionamento sinora esposto.

Ipotizzare l’”usucapione pubblica” per le occupazioni “acquisitive” antecedenti al 2003, considerando tempus utile ad usucapire il torno di tempo antecedente appunto al 2003 (data di entrata in vigore del TU n. 327/2001) collide con la considerazione che a quel tempo non era proponibile l’azione di reintegrazione da parte del privato: ai sensi dell’art. 2935 cc ed avuto riguardo al “diritto vivente”, questi avrebbe potuto proporre detta azione soltanto a partire del 2003: di “usucapione pubblica”, per dette fattispecie, si potrebbe discorrere di usucapione eventualmente, soltanto a partire dal 2023 (venti anni dalla entrata in vigore del dPR citato).

Quanto alle usucapioni “usurpative”, occorre ulteriormente distinguere.

Per quelle poste in essere in assenza  assoluta di dichiarazione di pubblica utilità (sconfinamenti,etc) la posizione dell’Amministrazione non sembra dissimile rispetto a quella del quisque de populo privato, “usurpatore”.

Negare sulla scorta dei principi civilistici che l’Amministrazione possa usucapire a partire dalla data in cui si immise in possesso, appare ben arduo, stante la riconosciuta capacità di diritto privato della stessa (salvo quel che di seguito si dirà).

Per quelle, invece, innervate su una dichiarazione di pubblica utilità successivamente annullata, dichiarata nulla, etc,  anche  a volere ammettere la usucapione pubblica, si dovrebbe convenire sulla circostanza che soltanto a partire dal momento in cui è passata in giudicato la statuizione demolitoria dell’atto che si pone “a monte” della procedura (id est: la dichiarazione di PU)il privato avrebbe potuto proporre domanda di reintegrazione: a tutto concedere il dies a quo del possesso utile ad usucapire in capo all’Amministrazione dovrebbe decorrere da tale data.
4.1. Se si concorda con quanto finora esposto, non potrebbe non convenirsi che ben ridotto sarebbe il margine di applicabilità dell’istituto per le controversie attualmente pendenti.
•L’esposizione che precede non sarebbe completa, però se non si  desse  conto di alcuni argomenti –taluni di valenza squisitamente civilistica  talaltri di natura pubblicistica – che  potrebbero  fondatamente opporsi alla tesi che sostiene la praticabilità della usucapione pubblica nel sistema.

Ciò per considerazioni assorbenti, e che sarebbero traslabili alle distinte fattispecie fenomeniche prima riconducibili al binomio “occupazione acquisitiva”/ “occupazione usurpativa” .

5.1.Come è noto, ai sensi dell’ art. 1163 CC, “il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata.”

Occorre chiedersi quindi:

a)quando ricorre un possesso viziato e clandestino, ai sensi della citata disposizione ?

Afferma la giurisprudenza civile  in proposito che “il requisito della non clandestinità, richiesto dall’art. 1163 c.c., va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile e non occulto, così da palesare l’animo del possessore di voler assoggettare la cosa al proprio potere senza che sia necessaria l’effettiva conoscenza da parte del preteso danneggiato. Ai fini dell’accertamento della non clandestinità del possesso, è necessario che questo sia acquistato ed esercitato in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo al precedente possessore o ad una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di gatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con il possessore. “

Inoltre, si è detto “a norma dell’art. 1163 c.c., il possesso è acquistato in modo violento — e, perciò, inutile ai fini dell’usucapione, se non dal momento in cui la violenza è cessata — qualora l’impossessamento sia avvenuto con l’esercizio di una violenza fisica o morale, sicché la legittimità del possesso può aversi anche se esso non abbia tratto origine da una consegna proveniente dal titolare del diritto. Ne consegue che, ove la P.A. abbia occupato sine titulo una particella di terreno al di fuori delle regole del procedimento ablatorio, ciò non implica che il possesso debba ritenersi solo per questo acquistato con violenza, così come va escluso che tale violenza possa identificarsi con la trasformazione del bene successivamente alla sua apprensione.”.

Così si esprime testualmente il Supremo Consesso, nella pronuncia in ultimo citata:

“Ai sensi dell’art. 1163 cod. civ., il possesso è acquistato in modo violento – e perciò non giova all’usucapione se non dal momento in cui la violenza è cessata – se l’impossessamento è avvenuto mediante l’esercizio di un’effettiva violenza, fisica o morale, sicchè la pacificità o legittimità del possesso non è esclusa dal fatto che l’inizio dell’esercizio dello ius possessionis non tragga origine da una consegna proveniente dal titolare del diritto o dal possessore o che l’impossessamento dell’agente sia avvenuto in contrasto con la volontà del proprietario o del possessore precedente (cfr. Cass., Sez. Un., 14 marzo 1990, n. 2088).

Di qui una duplice conseguenza.

La prima è che il possesso non può dirsi acquistato con violenza per il solo fatto che la pubblica amministrazione abbia appreso la particella di terreno in contestazione, a differenza di altre limitrofe, per il tramite di una mera attività materiale, al di fuori delle regole del procedimento ablatorio.

La seconda è che – poichè la violenza che impedisce la configurabilità di un possesso utile ai fini dell’usucapione è quella rivolta all’acquisto della disponibilità materiale della cosa (cfr. Cass., Sez. 2^, 9 novembre 1988, n. 6030) – va escluso che la violenza si identifichi con l’attività di trasformazione del bene successivamente alla sua apprensione.”;

b)non è superfluo, a questo punto, interrogarsi sul seguente quesito:

b1)quale è la nozione di “violenza” affermata sub art. 1168 cc?

Si riportano di seguito, senza ulteriori  commenti, alcuni arresti della Suprema Corte di Cassazione:

“in tema di spoglio la violenza e la clandestinità dell’azione, che implicano l'”animus spoliandi”, non sono insiti in ogni fatto materiale che determini la privazione dell’altrui possesso ma conseguono solo alla consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva del terzo.”;

“la violenza, quale presupposto dell’azione di spoglio ex art. 1168 c.c., implica che lo spoglio venga commesso con atti arbitrari, i quali contro la volontà espressa o tacita del possessore tolgano a questo il possesso o gliene impediscano l’esercizio, con la consapevolezza, da parte di chi commette lo spoglio, di agire proprio per privare il possessore della cosa posseduta (cosiddetto “animus spoliandi”). La clandestinità va riferita, invece, allo stato di ignoranza di chi subisce lo spoglio, il quale deve essersi trovato nell’impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene posto in essere.”;

“in tema di spoglio il requisito della violenza non deve necessariamente consistere in un’attività materiale, essendo sufficiente a integrarlo anche atti di costringimento morale diretti contro la volontà espressa o presunta del possessore al fine di sottrarre al medesimo il possesso o impedirgliene l’esercizio. “.
5.2.Alla luce di quanto sinora affermato, non pare arbitrario affermare che se alla nozione di violenza/clandestinità sub art. 1163 cc, fossero stati applicati gli approdi (più largheggianti)  raggiunti in punto di nozione di “spoglio violento” sub art. 1168 cc non vi sarebbe potuto essere spazio per la usucapione pubblica in ipotesi di occupazione (fosse essa definibile qual “appropriativa”, ovvero “usurpativa”).

E ciò, in ognuna delle possibili ipotesi in cui l’Amministrazione avesse detenuto senza titolo un bene di un privato, e quindi (senza pretesa di esaustività):

1) nel caso in cui la pubblica amministrazione  avesse occupato, con comportamento di mero fatto, il fondo di proprietà del privato (laddove, invece, secondo la Cassazione  non rileverebbe, in senso contrario, la facoltà di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, essendo l’acquisto postumo del diritto di proprietà logicamente incompatibile con l’intervenuto acquisto retroattivo del medesimo diritto a titolo di usucapione – Cass. 4 luglio 2012 n. 11147);

2) nella ipotesi di mancata adozione del provvedimento di esproprio nei termini previsti (articolo 22 bis, comma 6, d.P.R. cit.) quando il fondo fosse stato occupato in via d’urgenza e in vista dell’espropriazione ai sensi dell’articolo 22 bis d.P.R. 327/2001 (laddove la PA è inizialmente mero detentore e, successivamente, alla scadenza del termine, diverrebbe “possessore”);

3) laddove l’immissione in possesso fosse avvenuta in esecuzione di un decreto di esproprio successivamente annullato dal giudice amministrativo (in tale fattispecie, l’amministrazione avrebbe iniziato a possedere quale “proprietaria”, e l’annullamento giurisdizionale del titolo, pronunciato dal giudice e produttivo di effetti retroattivi,  implicherebbe che la sua posizione, ex ante, fosse qualificabile quale possessore).

In ognuna di queste ipotesi, infatti, applicando la nozione civilistica di possesso elaborata dalla giurisprudenza sub art. 1168 cc  ci si troverebbe al cospetto di un possesso esercitato  “ contro la volontà espressa o tacita del possessore” cui  “si toglie il possesso o gli se ne impedisce l’esercizio”: tale condizione non dovrebbe quindi essere idonea a fini di usucapione alla luce dell’ampia nozione di violenza del possesso elaborata dalla giurisprudenza  laddove si è sostenuta la presunzione di volontà contraria del possessore ove manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso.
5.3. Vi sarebbe poi un ulteriore – connesso – aspetto da sottoporre a disamina: quando dovrebbe collocarsi il momento della supposta “interversio possessionis” in capo all’Amministrazione?.

Correttamente la giurisprudenza amministrativa di merito  afferma che “le facoltà proprietarie, il cui esercizio viene presupposto dall’istituto dell’usucapione, non sono esercitabili dall’Ente espropriante durante il periodo di occupazione legittima del bene preordinata alla realizzazione dell’opera pubblica. Infatti durante tale periodo si configura una situazione di mera detenzione, poiché con l’emanazione dell’atto autorizzatorio all’occupazione l’autorità procedente riconosce l’esistenza di un altrui diritto dominicale sul terreno e, quindi, non esercita un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà. La detenzione si trasforma in possesso (corrispondente all’esercizio del diritto dominicale) dal momento in cui l’autorità espropriante inizia a comportarsi uti dominus; ne segue che solo dalla scadenza del periodo di legittima occupazione inizia a decorrere il termine utile per l’acquisto a titolo di usucapione del terreno occupato, e tale usucapione è necessariamente ventennale, visto che la buona fede deve ritenersi esclusa dall’emanazione dell’autorizzazione all’occupazione, dimostrante che l’Ente era consapevole di occupare un terreno appartenente ad un terzo proprietario.”.

Si è parimenti rilevato in proposito che ”qualora la p.a. occupi, in via d’urgenza e in vista dell’espropriazione, un fondo senza far poi luogo all’adozione del provvedimento di esproprio nei termini previsti dall’art. 22 bis, comma 6, t.u. 8 giugno 2001 n. 327, la relativa detenzione – per un primo periodo – sarà legittima, con conseguente inidoneità, di tale rapporto di fatto con il bene, a far maturare l’usucapione acquisitiva; viceversa, una volta scaduto il termine di occupazione legittima, la mancata restituzione del fondo a suo tempo legittimamente occupato (ma non altrettanto legittimamente espropriato in assenza di decreto di esproprio) e la contemporanea utilizzazione delle opere pubbliche realizzate sul fondo possono qualificarsi come atti di opposizione nei confronti del proprietario-possessore, compiuti dalla p.a., ai sensi dell’art. 1141, comma 2, c.c., come tali idonei a trasformare l’originaria detenzione in possesso utile e a consentire consentire l’acquisto per usucapione ai sensi dell’art. 1158 c.c.”.

La Cassazione civile ha di recente affermato che “in tema di comunione, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l’usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l’impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocamente l’intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell’atto materiale, il termine per l’usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva.”

Inoltre, è stato rilevato che  “l’interversione della detenzione in possesso ove l’iniziale relazione con il bene derivi da un atto o fatto del proprietario-possessore richiede il compimento di idonei atti materiali di specifica opposizione a quest’ultimo, che non possono consistere nella mera condotta materiale di un terzo ex art. 1141 cod. civ., attesa la necessità, in ogni caso, di una “causa traditionis” tra il detentore non qualificato ed il possessore per conto del quale il primo detiene. Ne consegue che, con riguardo a dei terreni detenuti da un ex casellante, già per ragioni di servizio e poi a titolo precario, a fronte della dismissione della linea ferroviaria, non seguita dal recupero dei fondi stessi, la mera prosecuzione del pregresso rapporto di fatto da parte degli eredi non integra una idonea condotta del terzo, trattandosi di comportamento materiale neppure astrattamente idoneo a trasferire un diritto sul bene.”;

Infine, si è affermato che “ai fini dell’interversione del possesso, di cui all’art. 1141, secondo comma, cod. civ., l’edificazione di un fabbricato sul terreno ricevuto in detenzione, espressamente autorizzata dal proprietario del suolo, non costituisce un’attività posta in essere “contro” il possessore, e non può, conseguentemente, essere invocata dal detentore quale atto di “opposizione” idoneo a mutare il titolo del rapporto con la cosa.”

Così si esprime la Suprema Corte, nell’ultima sentenza citata: “contrariamente a quanto assunto dai ricorrenti, la Corte di Appello non è incorsa in violazione o falsa applicazione di norme di diritto, avendo applicato correttamente la disposizione dell’art. 1141 c.c., comma 2, laddove è previsto che, se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finchè il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore.

E invero, la presunzione di possesso prevista dall’art. 1141 c.c., comma 1 va riferita al momento iniziale dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa; sicchè, una volta che colui che contesta il possesso abbia dimostrato che il rapporto con il bene ha avuto inizio come detenzione, il medesimo non è tenuto altresì a provare che detto esercizio sia anche proseguito come detenzione. In tal caso, al contrario, poichè, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2, la detenzione non può tramutarsi in possesso se non mediante una interversio possessionis, spetta a colui che invoca un siffatto mutamento fornire la relativa dimostrazione.

Nella specie, pertanto, essendo pacifico che la relazione di fatto con la cosa da parte dei danti causa degli odierni ricorrenti aveva avuto origine in un contratto di affitto e, quindi, era iniziato a titolo di detenzione, incombeva sugli attori l’onere di provare l’esistenza di un atto di interversione del possesso; onere che la Corte di Appello, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, ha ritenuto non assolto.

Correttamente, in particolare, il giudice del gravame ha negato la valenza di atto di interversione all’attività di edificazione posta in essere dai danti causa degli attori sul fondo per cui è causa.

Giova rammentare che l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente “animus detinendi” dell'”animus rem si hi habendi”. Tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua (Cass. 15-3-2010 n. 6237; Cass. 29-1-2009 n. 2392; Cass. 1-7-2004 n. 12007; Cass. 17-4-2002 n. 5487; 12-5-1999 n. 4701; Cass. 29-10-1999 n. 12149).

L’interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di sole attività materiali, se esse manifestano in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (Cass. n. 5419 del 2011; Cass. n. 1296 del 2010).

Non par dubbio, pertanto, che, in via generale ed astratta, l’edificazione di un fabbricato su un terreno ricevuto in detenzione possa manifestare la volontà di comportarsi come proprietario, costituendo l’estrinsecazione di una facoltà tipica del diritto dominicale. In tal senso si è già espressa questa Corte, affermando che la costruzione di un organismo edilizio nuovo, realizzato dal detentore di un terreno su propria iniziativa, senza il consenso, quanto meno tacito, dei proprietari, i soli legittimati al compimento di attività edificatorie sul fondo, costituisce un comportamento suscettibile di manifestare pretese dominicali sul bene, trascendenti i limiti della detenzione, sia pur qualificata, incompatibili con il possesso del titolare del diritto reale, come tali idonee ad integrare gli estremi di un atto d’interversione ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2 (Cass. 19-12-2011 n. 27521; Cass. n. 1296 del 2010; Cass. 31-5-2006 n. 12968).

Nel caso in esame, la Corte di Appello, nell’affermare che, agli effetti dell’interversione del possesso, non poteva assumere rilevanza la circostanza dell’edificazione effettuata sul terreno per cui è causa da parte dei G., in quanto la relativa facoltà era stata concessa proprio dal Comune di Piove di Sacco con il contratto di affitto del 31-10-1955, non si è affatto discostata dagli enunciati principi di diritto. E’ evidente, infatti, che la costruzione di un fabbricato da parte del conduttore, ove sia stata espressamente autorizzata dal proprietario del suolo, non costituisce un’attività posta in essere “contro” il possessore, e non può, conseguentemente, essere invocata dal detentore quale atto di “opposizione” idoneo a mutare il titolo del rapporto con la cosa in possesso.”

Continua il Supremo Collegio : “si osserva, al riguardo, che la Corte di Appello ha escluso che il mancato pagamento del canone dopo la scadenza contrattuale del 1958 potesse valere a concretare un atto di interversione del possesso, rilevando che il G. aveva semplicemente prolungato l’inadempimento precedente; e che, pertanto, non vi era stato, da parte del predetto, un comportamento esterno “di rottura” materialmente e inequivocabilmente percepibile.”
5.4. Posto che è pacifico quindi che durante il periodo di occupazione legittima del bene preordinata alla realizzazione dell’opera pubblica, si configura una situazione di mera detenzione (con l’emanazione dell’atto autorizzatorio all’occupazione l’autorità procedente riconosce l’esistenza di un altrui diritto dominicale sul terreno e, quindi, non esercita un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà) e che la detenzione si trasforma in possesso (corrispondente all’esercizio del diritto dominicale) soltanto dal momento in cui l’autorità  espropriante inizia a comportarsi uti dominus (e quindi solo dalla scadenza del periodo di legittima occupazione), a partire da tale momento si verificherebbe una concorrenza tra la  –non estinta, come precedentemente chiarito – posizione proprietaria del privato, e quella di possessore (ex detentore) dell’amministrazione.

La concreta percepibilità del mutamento del rapporto con il bene occupato in capo all’Amministrazione –però-non sarebbe  “esternata“, né agevolmente riscontrabile da parte del privato (a meno che non si voglia sostenere che quest’ultimo avrebbe dovuto…desumerla dalla scadenza del termine e dalla assenza di eventuali provvedimenti di proroga):

a)quanto al corpus, vi sarebbe un prolungamento di una situazione di detenzione pregressa, in carenza di  un comportamento esterno “di rottura..” “materialmente e inequivocabilmente percepibile.”

b)la detenzione dell’area da parte dell’Amministrazione era finalizzata alla erezione dell’opera pubblica: neppure la effettiva trasformazione del fondo e realizzazione dell’opera, quindi, integrerebbe condotta di “rottura” inequivocabilmente percepibile (l’Amministrazione porrebbe in essere, illegittimamente, ciò che si era prefissa di compiere legittimamente, attraverso la emissione della dichiarazione di pubblica utilità).
5.4.1. A tal ultimo proposito,assume particolare rilevanza una pronuncia della Corte di Strasburgo, resa dalla 4ª sezione nella controversia J.A. Pye Ltd. v. the United Kingdom che ha giudicato la normativa inglese in tema di adverse possession, allora in vigore  non conforme con l’art. 1 del 1º Protocollo aggiuntivo alla Conv. eur. dir. uomo, perché non prevedeva un ragionevole indennizzo né meccanismi procedimentali in favore del proprietario, come ad esempio un preventivo avvertimento da parte del possessore che sta per decorrere il termine dell’usucapione.

Sebbene la decisione appena richiamata sia stata riformata in seguito dalla Grande Camera  il precedente possiede rilevanza a fini ricostruttivi (neppure potendosi  escludere peraltro che in futuro la Corte di Strasburgo possa mutare orientamento: anche sull’istituto dell’occupazione appropriativa la Corte di Strasburgo si era espressa inizialmente in modo favorevole la fattispecie coniata dalla giurisprudenza nazionale fu considerata non in contrasto con i principi a tutela della proprietà, sanciti nel 1º Protocollo aggiuntivo alla Conv. eur. dir. uomo, con la sentenza della CEDU, 7 agosto 1996, Zubani c. Italia)

Non si può fare a meno di chiedersi – considerato che la controversia giunta all’attenzione della 4ª sezione era sorta tra privati, i coniugi Graham da un lato e la Società J. A. Pye Ltd – quale potrebbe essere l’approdo della Corte Edu  laddove l’usucapione dovesse operare in favore di un soggetto pubblico (art. 1 del 1º Protocollo aggiuntivo alla Conv. eur. dir. uomo).
6.Quanto sinora esposto, costituisce la “lente” – squisitamente civilistica – attraverso cui scrutare i profili problematici della costruzione giurisprudenziale favorevole al ricorrere della usucapione in favore dell’Amministrazione che abbia intrapreso una procedura espropriativa illegittima, ed abbia  indebitamente occupato e trasformato un bene privato.
6.1. Altrettanti dubbi in ordine alla predicabilità dell’istituto affiorano sotto profili più squisitamente pubblicistici.
6.2. A fronte di una giurisprudenza costituzionale severa, quale quella  scolpita  nella decisione del   30 aprile 2015 n. 71, è percorribile una tesi che culmini nell’affermazione del principio per cui attraverso il decorso del tempo, accompagnato dal possesso del compendio occupato, si producano gli stessi effetti “acquisitivi” del provvedimento reso ex art. 42 bis del dPR 8 giugno 2001 n. 327?

Invero appare difficile obliare una considerazione:

a) a fronte di una condotta qualificata come illecito, il Legislatore è intervenuto due volte. Ciò al fine di introdurre nel sistema un istituto (come è noto, prima previsto ex art. 43, poi sub art. 42 bis del TUEspropriazione) che affrontasse le conseguenze discendenti dalla scomparsa dal nostro ordinamento la figura dell’occupazione acquisitiva: sia nella disciplina contenuta nell’art. 43 del T.U cit., sia nel contesto dell’attuale previsione normativa dell’art. 42 bis, l’acquisto della proprietà in mano pubblica non discende (più) dalla mera trasformazione irreversibile del fondo, ma dall’emanazione di un atto di acquisizione sanante; detta  previsione normativa –anche nella stringente lettura recentemente fornitane dalla Corte Costituzionale- presenta per l’autorità espropriante evidenti limiti ed  inconvenienti: necessità di corrispondere sempre un indennizzo; di dover riferire le circostante che hanno condotto alla indebita utilizzazione; l’obbligo di esternare la rigorosa motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale ad acquisire il bene;

b)l’usucapione è una forma di acquisto alternativa a tale previsione normativa, come già prima rilevato: essa si risolve in un doppio “premio” all’Amministrazione, non più tenuta a corrispondere alcunché, e neppure ad emanare un provvedimento acquisitivo espresso;

c)tutto ciò a fronte di uno stato possessorio che è –e resta – non di buona fede.

Non pare arbitrario chiedersi se ciò non costituisca contraddizione sistematica di non poco momento.

6.2.1.La risposta negativa alla possibilità di configurare nel sistema giuridico italiano una forma di “usucapione pubblica” innestata su una procedura espropriativa nonlegittima, quindi, sembrerebbe la più appropriata.

Ciò anche  alla stregua di alcune ulteriori brevi, sintetiche, considerazioni.

Il punto dal quale occorre muovere riposa nella natura della sentenza che dichiara eventualmente la intervenuta usucapione.

Come prima rilevato, la incontroversa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sostiene che essa abbia natura dichiarativa e non costitutiva (ex aliis Cassazione civile  sez. I   26/03/2010  n. 7278: la sentenza che dichiara l’avvenuta usucapione ha carattere dichiarativo e non costitutivo).

L’effetto acquisitivo della proprietà, quindi, sopravviene allorchè siano riscontrabili i coelementi perfezionativi della fattispecie (corpus, animus, possessio, tempus).

Ma se così è, nella sostanza ci si trova al cospetto di una costruzione  mercè la quale gli stessi effetti di un provvedimento “tipico” quale è quello  reso ex art. 42 bis del dPR 8 giugno 2001 n. 327, si producono attraverso una fattispecie “de facto” riposante nel protratto possesso del compendio immobiliare.

La giurisprudenza amministrativa continua a ribadire il convincimento per cui   “il principio di tipicità degli atti e dei provvedimenti amministrativi comporta che l’Autorità amministrativa ha il potere di emanare solo atti disciplinati nel contenuto, nei presupposti e nell’oggetto dalla legge, sicchè non sarebbe ammissibile un provvedimento negatorio, incidente sull’attività d’impresa, al di fuori di quello adottato all’esito del procedimento tipico autorizzatorio regolato dalla legge; peraltro, lo stesso principio di tipicità impone che ogni istanza privata volta ad attivare un procedimento amministrativo contenga gli elementi dai quali evincere il tipo di atto richiesto, allo scopo di consentire all’Amministrazione di svolgere una completa ed adeguata istruttoria alla luce degli elementi caratterizzanti il procedimento attivato.”

E’ questo, un principio che soffre si  limitate e particolari eccezioni  (“’l’ adozione di un’ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da un’istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale, nella quale la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi e l’urgenza come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile.”).

Ma –seppur con le dette eccezioni- è la regola generale del diritto amministrativo, costituendo doveroso corollario del superiore precetto della funzionalizzazione dei pubblici poteri (“il principio di tipicità o normatività degli atti amministrativi comporta che alla P.A. non è dato porre in essere atti che non siano finalizzati al pubblico interesse e, più specificatamente, a quel determinato interesse pubblico che, nella sfera di competenza dell’organo emanante l’atto costituisce espressione di un potere-dovere.”; “il principio di tipicità -e di nominatività-  degli atti amministrativi costituisce canone alla cui stregua valutare la legittimità dei medesimi. Tale nozione non deve essere intesa in senso meramente formalistico di corrispondenza del potere esercitato ad un nomen provvedimentale piuttosto che ad un altro, quanto piuttosto in termini di garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’Amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito.”).
6.2.2. Potrebbe affermarsi, quindi che:

a)l’usucapione “pubblica” è prevista in via generale da una legge “ordinaria” e non possiede copertura costituzionale;

b)se fino alla immissione nel sistema di disposizioni – aventi rango legislativo- che prevedono una forma di provvedimento “tipico” per l’acquisizione di beni illegittimamente occupati si sarebbe forse potuta affermare la positiva predicabilità della usucapione “pubblica” conseguente ad una procedura espropriativa divenuta illegittima, oggi ciò non potrebbe essere più  consentito;

c)un simile approdo infatti colliderebbe con il principio di tipicità o nominatività degli atti amministrativi: le disposizioni che hanno immesso nel sistema gli istituti di cui agli artt. 43 e 42 bis del dPR 8 giugno 2001 n. 327, sono successive alle norme del codice civile (queste ultime  aventi parimenti rango di legge ordinaria) che regolano l’usucapio; il canone applicabile sarebbe  quello per cui lex posterior derogat priori.

Di più: nel caso di specie, la legge speciale posteriore (speciale in quanto regolerebbe la fattispecie unicamente con riferimento alle condotte delle Pubbliche amministrazioni) derogherebbe alla legge generale antecedente (il codice civile, che appunto prevede l’istituto della usucapione ):

d)ad oggi, quindi, l’usucapione pubblica resterebbe ammissibile laddove ci si trovi al cospetto di una azione dell’amministrazione giammai connotata dall’esercizio di un potere pubblicistico (in tali casi, la posizione “di partenza” non è dissimile a quella di un qualsiasi privato, né l’acquisto per usucapio “surrogherebbe” un –inammissibile- provvedimento “tipico” ex art. 42 bis del dPR 8 giugno 2001 n. 327), ma non anche nei casi in cui essa abbia acquistato lo status detentionis attraverso la spendita di un potere pubblicistico, seppur radicalmente illegittimo.

e) in tali evenienze in ultimo citate, quindi, l’unica forma di acquisizione in proprietà sarebbe rappresentata dall’adozione del provvedimento”nominato” e  “tipico” ex art. 42 bis del dPR 8 giugno 2001 n. 327 non “surrogabile” attraverso l’usucapione pubblica.

7. Conclusioni.

Anche a non volere condividere quanto sinora rappresentato ai punti 5 e 6 del presente elaborato la corrente di pensiero che ritenesse ammissibile una forma di usucapione pubblica “conseguente” ad  una procedura espropriativa illegittima dovrebbe tenere conto di ulteriori profili di analisi, che esulano dal tema oggetto di questa disamina ma che nondimeno dovrebbero essere analiticamente soppesati dalla dottrina e dalla  giurisprudenza chiamate a confrontarsi con la problematica.

Essi possono essere così riassunti:

•non costituirebbe insanabile aporia, e contraddizione sistematica di non poco momento, negare l’usucapione pubblica in relazione alle (meno gravi) fattispecie di “occupazione acquisitiva”, ed ammetterla nelle (più gravi)ipotesi di occupazione usurpativa?;

•a prescindere da quanto prima rilevato, costituisce davvero conseguenza necessitata ed ineliminabile quella per cui – retroagendo l’usucapio al momento della immissione in possesso-  il privato spogliato debba  perdere anche il diritto al risarcimento per equivalente?

•quale potrebbe essere la “risposta” della Corte Edu ad una simile evoluzione, tale da azzerare la posizione dominicale,  considerato che le pronunce del 2000 che determinarono il superamento dell’istituto della occupazione acquisitiva dal sistema giuridico italiano posero l’accento proprio sulla questione della breve prescrizione del diritto al risarcimento?

Si tratta di affascinanti tematiche sulle quale gli interpreti si dovranno confrontare, tenendo presente l’ampio precetto contenuto nel comma terzo dell’art. 42 della Carta Fondamentale che “lega” l’esercizio del potere espropriativo –sempre e comunque- alla corresponsione di un indennizzo.

La questione diviene vieppiù complessa, laddove si consideri che si tratta di tematiche in ordine alle quali le “risposte” giurisprudenziali potranno provenire da due diversi plessi giurisdizionali.

Come è noto, infatti, le problematiche di riparto di giurisdizione che si pongono nell’ipotesi di domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione avanzata in seno ad un giudizio proposto innanzi al giudice amministrativo, sono state risolte dalla giurisprudenza che ha raggiunto una significativa concordanza di opinioni con la elaborazione civilistica.

Sulla scia della giurisprudenza civile – che ha da tempo elaborato accanto alla domanda riconvenzionale e all’eccezione, la nozione della c.d. eccezione riconvenzionale, laddove il convenuto pur chiedendo l’accertamento eventualmente anche costitutivo di un rapporto diverso e più ampio, si prefigge esclusivamente di paralizzare l’azione, (con ciò differenziandosi dalla domanda riconvenzionale vera e propria, laddove l’accertamento del rapporto diverso mira ad ottenere qualcosa di più o di diverso) e applicando senza esitazioni alle eccezioni riconvenzionali la disciplina processuale propria delle eccezioni – l’insegnamento della giurisprudenza amministrativa è riassumibile nei seguenti termini.

Ove la questione dell’intervenuta usucapione fosse oggetto di vera e propria domanda riconvenzionale tesa ad accertare con efficacia di giudicato l’intervenuto acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell’Amministrazione, incompatibile con l’azione di risarcimento da occupazione sine titulo, difetterebbe la giurisdizione del g.a. in favore del. g.o.

Ove invece l’usucapione venga fatta valere in via di “eccezione riconvenzionale” – cioè al solo fine di paralizzare l’azione risarcitoria senza richiesta di accertamento della sussistenza di tale rapporto e connesso ampliamento del thema decidendum- la giurisdizione spetterebbe al g.a. in forza del generale principio di cui all’art. 8 cod. proc. amm.

E’ evidente pertanto che – a seconda che la iniziativa giurisdizionale dell’Amministrazione volta ad affermare la intervenuta usucapione dell’area venga qualificata  qual “eccezione riconvenzionale ” ovvero vera e propria “domanda riconvenzionale”–  si verificherà la conseguenza per cui sulla stessa si dovrà pronunciare il Giudice amministrativo, ovvero il Giudice Ordinario.

Non può non esprimersi l’auspicio che detti due plessi giurisdizionali  elaborino una identica “risposta”  sulla tematica sostanziale sulla quale saranno chiamate a pronunciarsi, riposante nella asserita  predicabilità nel sistema giuridico italiano della “usucapione pubblica” conseguente ad una procedura espropriativa e nella sua compatibilità con il sistema di tutela Edu.
Fabio Taormina

Consigliere di Stato

Il presente contributo costituisce elaborazione e sviluppo dell’intervento svolto al Convegno  di  Cagliari del 23 e 24 ottobre 2015

“ Le occupazioni illegittime della PA: dall’accessione invertita all’usucapione pubblica a sorpresa?”