Andrea Battaglia
Sommario: 1. Brevi cenni sul fatto di cronaca; 2. Le linee essenziali della scriminante dell’adempimento del dovere; 3. L’adempimento del dovere imposto da norma giuridica in ambito sanitario; 4. La condotta del medico che cura un latitante può configurare gli estremi del favoreggiamento personale? Profili critici della fattispecie di cui all’art. 378 c.p.; 5. La Giurisprudenza in tema di favoreggiamento del medico nei confronti del latitante; 6. La prestazione del medico avente come beneficiario un boss mafioso: tra condotta lecita e favoreggiamento personale aggravato, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, partecipazione ad associazione di tipo mafioso ed assistenza agli associati. Un tentativo di individuare il discrimine
Abstract
Partendo dalla vicenda mediatica di Matteo Messina Denaro, si è pensato, sperando di fare cosa utile, di cogliere l’occasione per scrivere un contributo sulla prestazione sanitaria effettuata a beneficio di un latitante mafioso. Si è ritenuto necessario, in primis, tracciare le linee essenziali della scriminante dell’adempimento di un dovere al fine di comprendere quali siano i limiti al di qua dei quali la condotta del medico sia da considerarsi lecita per poi tentare di individuare un discrimen tra le varie fattispecie di reato astrattamente ipotizzabili.
- Brevi cenni sul fatto di cronaca
Il 16 gennaio 2023 è stato arrestato, a seguito di una latitanza protrattasi per trent’anni, l’ultimo boss della mafia stragista, Matteo Messina Denaro.
Come è noto, egli è stato ritenuto responsabile, spesso in qualità di mandante, dei delitti più feroci dell’età repubblicana tra i quali spicca per crudeltà l’omicidio del piccolo Di Matteo.
Matteo Messina Denaro è stato tratto in arresto presso la clinica “La Maddalena”, sita in Quartiere San Lorenzo, alla periferia Nord della città di Palermo, all’interno della quale sembrerebbe sia stato ricoverato per alcune settimane sotto falso nome: Andrea Buonafede.
Negli anni, Matteo Messina Denaro, gravemente malato di cancro al colon-retto, è stato sottoposto a moltissimi controlli medici, nonché a diverse operazioni chirurgiche, tra cui, a titolo esemplificativo, quella del 2020 presso la clinica sita in Mazara del Vallo e quella del 2021 presso la stessa clinica dove è stato arrestato[1].
Ad onore di cronaca, se vogliamo intendere in questi termini questa brevissima ricostruzione del fatto, bisogna segnalare come il medico di base di Matteo Messina Denaro (alias Andrea Bonafede) sia stato iscritto nel registro degli indagati presso la Procura di Palermo.
Tumbarello, questo il cognome del medico di base di famiglia di Andrea Bonafede (in realtà si trattava di Messina Denaro), è stato iscritto nel registro degli indagati per avere firmato 137 ricette e le richieste di ricovero per il latitante.
Attualmente, il medico è stato sottoposto a fermo di indiziato di delitto, confermato dal Gip di Palermo Alfredo Montalto il quale, accogliendo la richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e del procuratore aggiunto Paolo Guido, ha scritto: <<Tumbarello ha personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro, raccolto l’anamnesi, indicatogli un percorso terapeutico, poi seguito con estrema attenzione, prescritto farmaci e analisi mediche, per patologie molto gravi, di cui effettivamente soffriva e soffre il boss, intestandole ad un proprio assistito, che in realtà godeva di ottima salute>>.
I reati a lui contestati dalla procura erano favoreggiamento personale e procurata inosservanza di pena, mentre, a seguito della ordinanza, il Gip ha riqualificato i fatti in concorso esterno in associazione mafiosa e falso ideologico.
Ebbene, partendo da tale accadimento storico-mediatico, si è ritenuto utile ripercorrere, con tono critico, la giurisprudenza sulle prestazioni sanitarie effettuate dal medico a favore del latitante prima e del latitante mafioso poi.
Prima di andare al centro dell’argomento in questione, abbiamo ritenuto di dover delineare le linee essenziali della scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p. in quanto noi crediamo che il diritto alla salute debba prevalere sempre sull’interesse della giustizia a ‘catturare’ i colpevoli di un delitto.
- Le linee essenziali della scriminante dell’adempimento di un dovere
L’art. 51, c.p., rubricato “Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, al primo comma, dispone quanto segue: <<L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità>>. In questo breve elaborato, come già accennato, ciò che interessa preliminarmente è la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da norme giuridiche. Come per l’esercizio del diritto, anche per l’adempimento del dovere, la ratio va individuata nel principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico. Più precisamente, la causa di giustificazione si profila come tipica espressione dell’impossibilità che chi esegue un comando formalmente e sostanzialmente legittimo vada incontro a conseguenze sanzionatorie di qualunque tipo[2].
A ben vedere, la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica non sembra destare particolari grattacapi interpretativi poiché trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche[3]. Anche nel caso in cui la norma dia luogo a sospetto di contrarietà a regola o a principio costituzionale, l’obbligo da essa discendente deve ritenersi, fino alla declaratoria di illegittimità costituzionale, vincolante[4].
È chiaro che potrebbe succedere che la stessa legge imponga al soggetto di realizzare determinati comportamenti con modalità cronologiche incompatibili tra di loro (conflitto di legge) ovvero che il soggetto abbia il dovere di adempiere ad un comportamento in circostanze di tempo identiche ma in luoghi fisici differenti (conflitto di doveri). Ecco, in questi casi, la soluzione dipende dalla prevalenza che ad una legge debba riconoscersi rispetto ad altra o altre concorrenti ovvero dalla necessità di conciliare il concorso formale di più doveri dallo stesso contenuto con il principio ad impossibilia nemo tenetur[5].
Maggiori problemi esegetici sorgono, invece, nel momento in cui il dovere scriminante abbia la sua fonte in un ordine legittimo della pubblica autorità. Infatti, in questa particolare ipotesi, la scriminante acquisisce un volto più limitato e perimetrato nei suoi presupposti e requisiti.
L’ordine deve, innanzitutto, provenire dalla pubblica autorità, ovverosia dall’organo dotato di determinati poteri idonei a consentirgli di emanare provvedimenti vincolanti a carattere generale ovvero dall’organo che abbia una certa supremazia gerarchica rispetto al subordinato (si veda il caso dell’ordine impartito dal Maresciallo dei Carabinieri all’Appuntato semplice).
Il potere dell’organo emanante deve essere di diritto pubblico, a nulla rilevando eventuali rapporti di diritto privato.
L’ordine deve essere formalmente e sostanzialmente legittimo[6].
Non addentrandoci nei commi successivi dell’art. 51 del codice, giova sottolineare, in questa fase, come la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica abbia una portata molto più estesa ed immediata rispetto a quella dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità.
Per la esistenza della prima, infatti, è sufficiente che vi sia una norma che impone una determinata attività al soggetto attivo; mentre per la seconda è necessaria la compresenza di tutti i requisiti e presupposti previsti dall’art. 51 del codice.
- L’adempimento di un dovere imposto da norme giuridiche in ambito sanitario
In questo elaborato, la nostra attenzione deve essere rivolta alla scriminante dell’adempimento di un dovere imposto al medico. I medici hanno il dovere di curare. Non si tratta più di un diritto[7], ma di un dovere condizionato alla esistenza del c.d. “consenso informato”.
Per come già accennato nel paragrafo precedente, per consentire alla scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica di operare, è sufficiente la vigenza di una norma giuridica che imponga quel determinato comportamento che, altrimenti, costituirebbe reato.
Nel nostro caso, cioè il dovere del medico di curare il paziente, la norma giuridica di riferimento è l’art. 32 della Costituzione che inquadra la salute nella categoria dei diritti fondamentali dell’individuo in quanto tale. Ulteriore norma giuridica, di rango ordinario, che impone al medico di curare il paziente che presti il consenso informato è la legge 22 dicembre 2017, n. 219. Oltre le norme giuridiche in senso stretto, il fondamento del dovere di cura si rinviene nelle norme del codice deontologico. Tra queste, meritano la nostra attenzione gli articoli 3 e 7: il primo dispone che <<dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia (…)>>; mentre il secondo che <<il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivare ogni specifica e adeguata assistenza>>.
Da queste norme emerge chiaramente il dovere del medico di prendersi cura del paziente che chiede di essere curato. A contrario, il medico che, rispettando la volontà del paziente di rifiutare le cure (anche salva-vita), non risponderà di omicidio del consenziente perché ha agito in adempimento di un dovere imposto da norme giuridiche. Ed infatti, in questo senso si sono espressi i giudici del Tribunale di Roma nel ben noto “caso Welby” secondo i quali: <<La condotta del medico che stacca il respiratore meccanico da paziente affetto da gravissima distrofia fascio-scapoloomerale su richiesta dello stesso, così cagionandone la morte, benché integri il fatto tipico e l’elemento psicologico del delitto di omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p., va considerata lecita in quanto scriminata, ex art. 51 c.p., dall’adempimento del dovere di rispettare la volontà consapevole ed informata del paziente di interrompere la terapia in atto>>[8].
Ebbene, se si è arrivati a ritenere giustificata la condotta del medico che sia idonea a cagionare la morte del paziente, a fortiori bisognerebbe ritenere scriminata la condotta del medico che, salvando la vita del paziente, contribuisca al suo stato di latitanza integrando (astrattamente) gli estremi di un delitto contro l’amministrazione della giustizia o contro l’ordine pubblico.
Esiste, altresì, una cospicua corrente di pensiero dottrinale secondo cui l’attività medico-chirurgica trova il suo fondamento generale di liceità nell’obbligo di curare che discende dalla posizione di garanzia del professionista risultante della relazione terapeutica che si instaura con il paziente. Così pensando, l’adempimento del dovere sarebbe il perfetto paradigma all’interno del quale inquadrare l’obblido di curare[9].
Secondo altri, invece, nonostante l’intervento medico lecito sia sempre doveroso o autorizzato e (ove possibile) consensuale e talora necessario, questo non comporta indefettibilmente a concludere che l’autorizzazione, il dovere, il consenso o la necessità si atteggiano, rispetto ad esso, come scriminanti. La doverosità dell’atto medico, quindi, sembrerebbe piuttosto atteggiarsi come fattore di esclusione della tipicità del fatto rispetto ai delitti contro la vita e l’incolumità, comportando che l’esecuzione dell’attività medica lege artis non abbia necessità di essere scriminata in quanto già lecita ab origine[10].
È chiaro però che questa tesi possa essere valida soltanto nei confronti dei reati posti a tutela della vita e l’incolumità individuale, non potendo, a nostro avviso, estendersi anche nei confronti di quei reati, dei quali ci occuperemo più avanti, posti a tutela del bene amministrazione della giustizia e dell’ordine pubblico.
La descrizione della fattispecie del c.d. favoreggiamento personale, di certo, non brilla per il rispetto dei principi di precisione, determinatezza e tassatività.
Infatti, l’art. 378 del codice penale punisce con la reclusione fino a quattro anni “chiunque, dopo che fu commesso un delitto per la quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità (…) o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti”. Fermi restando i presupposti della condotta (“dopo che fu commesso un delitto” e “fuori dei casi di concorso”), il disvalore dell’azione si rinviene nel comportamento di chi si limita ad “aiutare” la persona che sta sfuggendo alle investigazioni della Autorità ovvero a provvedimenti di coercizione della libertà personale.
Si comprende bene come il verbo “aiutare” non sia in grado di selezionare effettivamente il penalmente rilevante in quanto eccessivamente vago ed indeterminato e, soprattutto, perfettamente manipolabile dal giudice del caso concreto. Sembra atteggiarsi ad una specie di norma penale in bianco, laddove il “colore” viene dato, volta per volta, dai giudici del caso concreto.
Stante la generica descrizione della condotta, si discute se nel concetto di “aiuto” possa o meno rientrare anche una condotta di natura omissiva. La Giurisprudenza costante ammette tale forma di realizzazione del fatto[11]; mentre, in dottrina prevalente, la si nega, ponendo in luce la pregnanza del termine “aiuto” e la assenza di un evento naturalistico che giustifichi l’applicazione della regola di cui al comma secondo dell’art. 40 del codice[12]. Si evidenzia, inoltre, in dottrina, la inesistenza di qualsivoglia obbligo giuridico di impedimento di un evento: l’unica eccezione è costituita dal soggetto intraneo alla istituzione giustizia penale il quale, rivestendo una posizione di garanzia, ben potrebbe integrare il favoreggiamento con una condotta omissiva.
Bisogna tentare di entrare nella testa del Legislatore del ’30 per comprendere tale scelta di non “colorare” in maniera abbastanza definita la fattispecie in questione: chi si frappone(va) alla Giustizia, aiutando taluno ad eludere le investigazioni dell’Autorità, mette(va) in discussione la forza e la fermezza dello Stato. Il bene giuridico Giustizia, in questa fattispecie, è, evidentemente paragonato al bene “vita” poiché, come è noto, più alto è il bene da proteggere meno precisa è la fattispecie e, anzi, il Legislatore fa ricorso, in questi casi, a fattispecie a condotta libera identificando il disvalore penale esclusivamente nell’evento (morte nel caso dell’omicidio), indipendentemente dalle modalità di aggressione.
Maggiori problemi inerenti a condotte così ampie sorgono, come nel caso del favoreggiamento personale, di fronte a reati di pericolo[13][14]. In questi casi, il disvalore penale non è rintracciabile nell’evento che può anche non verificarsi. Ecco che sarebbe preferibile che, per lo meno nei reati di pericolo, le condotte siano molto più dettagliate così da giustificare, per quanto possibile, la anticipazione della soglia del penalmente rilevante.
L’eccessiva genericità della fattispecie e la sua natura di reato di pericolo comportano che, ai fini della sua consumazione, sia sufficiente il compimento di un’attività che abbia frapposto un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini, provocando una negativa alterazione del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso o si sarebbero comunque potute svolgere[15].
L’unica via esegetica percorribile per “salvare” la fattispecie di favoreggiamento personale da valide censure di non conformità al principio di offensività è quella di ricorrere alla categoria del reato di pericolo concreto[16]. Non può condividersi la Giurisprudenza costante che si accontenta della mera idoneità astratta della condotta di ausilio ad ostacolare le investigazioni[17].
La genericità della condotta dovrebbe, quindi, suggerire all’interprete, al fine di non aggravare il deficit di determinatezza, il rifiuto delle presunzioni proprie del pericolo astratto che, sommandosi al già denunciato vizio di precisione e determinatezza, determinerebbero la perdita di ogni contenuto descrittivo; espressioni come “aiutare”, “favorire” taluno non esprimono di per se stesse uno specifico disvalore, proprio perché del tutto neutre e, come tali, riferibili a vicende tra di loro anche opposte sul piano del disvalore[18].
A seguito di questa, di certo non esaustiva analisi della fattispecie oggetto del nostro esame, si comprende, dunque, come, astrattamente, anche la condotta del medico che cura il latitante possa integrare gli estremi del delitto di favoreggiamento personale. Dentro la condotta di “aiuto” rientrerebbe qualsiasi attività che interferisca sullo svolgimento dell’attività di polizia giudiziaria rendendo più difficoltose ed impegnative le investigazioni[19] tesa ad impedire che le indagini dell’Autorità si svolgano regolarmente (eludere le investigazioni) o a evitare che l’Autorità ponga in essere attività di coercizione personale quali l’arresto, il fermo o l’accompagnamento (sottrarsi alle ricerche).
Dunque, per giurisprudenza costante, è sufficiente che l’aiuto sia teso, cioè astrattamente idoneo a consentire di eludere le indagini o di sottrarsi alle ricerche affinché si perfezioni la fattispecie di favoreggiamento personale.
Per quanto concerne l’elemento soggettivo, pacifica è la qualificazione del dolo del favoreggiamento come generico, consistente nella rappresentazione e volontà di agire aiutando taluno ad eludere le indagini o a sottrarsi alle ricerche[20]. In aggiunta a ciò, serve che il soggetto attivo sia consapevole della esistenza di investigazioni o ricerche a carico dell’aiutato[21]. Non è richiesto alcun dolo specifico. In assenza dell’accertamento del dolo, cioè della consapevolezza delle investigazioni o ricerche in corso, non può dirsi integrata la fattispecie in esame.
Nel caso dei medici che hanno curato Matteo Messina Denaro, la loro condotta sarebbe ulteriormente sanzionata poiché commessa per favorire un soggetto che sia indagato o ricercato per il delitto di cui all’art. 416-bis del codice. Infatti, l’art. 378 cpv del codice penale prevede una circostanza aggravante indipendente poiché punisce il favoreggiatore con una pena non inferiore ai due anni.
Non essendo figura autonoma di reato, l’applicazione del cpv dell’art. 378 soggiace alla disciplina dell’art. 59, c.p., in tema di imputazione delle circostanze secondo cui occorre dimostrare che il soggetto attivo conosca che la persona sia ricercata per il delitto di associazione di stampo mafioso ovvero che lo ignori per colpa[22].
Tentando di dare una risposta, sebbene non definitiva, al quesito posto nel titolo del paragrafo, si può affermare che, in astratto, affinché la condotta del medico integri la fattispecie di favoreggiamento personale, sarebbe sufficiente che egli ponga in essere qualsiasi attività che sia anche semplicemente idonea ad eludere le indagini o a sottrarsi alle ricerche (posto che l’evento non è necessario si verifichi) con la consapevolezza della esistenza delle indagini o ricerche a carico dell’aiutato.
Nel nostro caso, cioè del medico che aiuta un mafioso, bisogna aggiungere la consapevolezza o l’ignoranza per colpa del fatto che la persona sia ricercata per il delitto di associazione di stampo mafioso.
Ebbene, poste queste premesse, giova prendere in esame la giurisprudenza in tema di configurabilità o meno del favoreggiamento personale del medico nei confronti del latitante.
- La Giurisprudenza in tema di prestazione sanitaria del medico nei confronti del latitante: fra imprevedibilità ed etichette inafferrabili
Si è visto, nel paragrafo precedente, come, in astratto, la condotta del medico potrebbe configurare una ipotesi di favoreggiamento personale. La risposta al quesito posto nel paragrafo precedente non può essere data così apoditticamente in quanto occorre, senz’altro, comprendere come il medico che agisce curando il latitante non possa essere paragonato al classico “fiancheggiatore”. Ciò perché il medico ha, per come già anticipato a monte di questo contributo, un dovere costituzionalmente imposto di prendersi cura di ogni paziente, specie se in fin di vita.
In questo paragrafo, si tenterà di prendere in considerazioni le pronunce dei giudici di legittimità che, sul tema, non sembrano, a nostro avviso, aver tracciato una netta distinzione tra la condotta del medico punibile e quella, invece, lecita.
Innanzitutto, bisogna segnalare come vi sia una enorme quantità di pronunce della Giurisprudenza di legittimità in tema di favoreggiamento personale imputato al medico che abbia curato un latitante. Ciò è chiaramente sintomo dell’incertezza sul tema. L’incertezza si acuisce soprattutto nel caso in cui la condotta del medico “acceda” a reati associativi quali il 416-bis c.p. o il 74 d.p.r. n. 309/1990 posto che, al momento, non sembra ancora del tutto preciso il confine tra le diverse figure di reato astrattamente ipotizzabili: partecipazione all’associazione, concorso esterno, favoreggiamento personale aggravato ed assistenza agli associati. Per la trattazione del discrimen tra tali figure di reato si rimanda al prossimo paragrafo. Al momento, è utile prendere in esame qualche pronuncia in tema di favoreggiamento personale commesso dal medico nei confronti del latitante.
Ebbene, in tema di favoreggiamento personale commesso dal medico nei confronti del latitante, si deve sottolineare come l’orientamento prevalente sia quello secondo il quale non possa rispondere penalmente il sanitario che si sia limitato alla prestazione della propria assistenza, senza osservare altri comportamenti attivi contrari alle indagini in corso da parte della polizia, e tali da far insorgere il pericolo che le investigazioni vengano eluse o che falliscano le ricerche della persona indagata. La latitanza, sia pure notoria come nel nostro caso, non può costituire un limite alla tutela del diritto alla salute poiché il medico ha il dovere di assistere chiunque abbia necessità delle sue prestazioni, salvo l’obbligo di referto[23]. In linea di principio, dunque, prevale la tutela della salute del singolo rispetto al bene giuridico corretta amministrazione della Giustizia, ma resta punibile la condotta del medico che non si limiti a prestare la propria cura ed assistenza al ricercato e che, al contrario, ne oltrepassi i limiti.
Pertanto, secondo i giudici di legittimità, la mera prestazione sanitaria effettuata nei confronti del latitante non può, per ciò solo, rilevare penalmente, ma la condotta del sanitario che sia idonea, oggettivamente e soggettivamente, ad intralciare la giustizia può configurare la fattispecie di cui all’art. 378 cpv del codice. A titolo esemplificativo in questo senso, si è ritenuta integrata la condotta di favoreggiamento nell’attività del medico che abbia compilato la cartella clinica del latitante, alterandone le generalità in modo da aiutarlo a sottrarsi alle ricerche[24].
In questo caso, decisiva è stata ritenuta la condotta ulteriore rispetto alla prestazione sanitaria identificabile nella redazione di una cartella clinica con false generalità. In base a tale pronuncia, i medici che hanno curato Matteo Messina Denaro ben potrebbero essere puniti per favoreggiamento personale nel caso in cui essi fossero a conoscenza della sua reale identità ed avessero artefatto volutamente la cartella clinica (indicando il falso nome Andrea Bonafede), così aiutando il boss a sottrarsi alle ricerche.
Con buona pace di qualsivoglia principio di legalità, anche declinato in ottica convenzionale sotto il profilo della calcolabilità dell’esito giudiziario, l’analisi delle sentenze in tema consente di comprendere quanto siano labili ed indeterminati i confini del favoreggiamento personale in ambito sanitario. Ed infatti, casi analoghi vengono giudicati in modo diverso così negando le libere scelte d’azione in capo all’agente che non è in grado di conoscere cosa gli è consentito e cosa invece no.
A titolo esemplificativo di questa imprevedibilità (rectius: <<impredicibilità>>[25]) dell’esito giudiziario nel tema che ci occupa, sia sufficiente richiamare due pronunciamenti contrapposti dei giudici di legittimità rispetto a due fatti perfettamente sovrapponibili.
Ebbene, con la sentenza Cass. Pen., 30 ottobre 2001, n. 221161, Sez. VI, i giudici di legittimità hanno ritenuto integrata la fattispecie di favoreggiamento personale dalla condotta del medico che aveva raggiunto la masseria nella quale si trovava il latitante bisognoso di cure, disattivando il telefonino con l’ovvio scopo di non farsi localizzare dagli inquirenti. In questo caso, secondo i giudici, il comportamento cautelativo (spegnere il telefonino per disattivare la localizzazione) si dimostra <<rivelatore di una consapevole volontà protettiva>>.
Al contrario, con la sentenza Cass. Pen., 13 febbraio 2001, n. 220025, Sez. II, i giudici di legittimità hanno escluso la sussunzione nella fattispecie della condotta del medico che, recandosi presso un latitante per prestare le cure del caso, aveva usato accorgimenti e comportamenti depistanti, per impedire che la polizia, che lo seguiva, potesse individuare il nascondiglio del ricercato. La motivazione di siffatta decisione la possiamo tradurre nei termini che seguono: il medico non è in alcun modo gravato dell’obbligo giuridico di rimuovere intralci all’attività della polizia, ed in assenza di tale obbligo la omissione di comportamenti certamente utili alle indagini (ma non doverosi) non può assumere rilevanza penale.
A ben vedere, il pronunciamento più condivisibile è quello secondo il quale non si possa rimproverare alcunché al medico che si sia limitato a svolgere il suo dovere per almeno tre ordini di ragioni.
Il primo motivo è di ordine sistematico, il secondo si basa su una logica a contrario, mentre il terzo è di carattere normativo. In primo luogo, si deve sottolineare come non esista alcun obbligo giuridico in capo al medico di collaborare con le forze di polizia nella ricerca di latitanti. Ciò a maggior ragione se trattasi di latitanti pericolosi, come Matteo Messina Denaro, che, qualora si conoscesse la loro reale identità, porterebbero con sé una elevata carica intimidatoria. Il nostro ordinamento è frutto di continui checks and balances tra interessi: in questo caso bisogna che prevalga l’interesse alla vita ed alla salute rispetto all’interesse della Amministrazione della Giustizia di punire il colpevole latitante. In secondo luogo, bisogna ricordare che la mancata prestazione sanitaria, a maggior ragione se trattasi di prestazione salva-vita, che conduca alla morte del paziente o, più semplicemente, ad un drastico peggioramento delle sue condizioni di salute, sarebbe condotta che contravviene tanto alle regole deontologiche quanto alle regole del diritto penale. Ciò in quanto, per come già ampiamente anticipato, il medico non ha né un diritto né una facoltà di curare; egli ha il dovere etico, morale e giuridico di prendersi cura ed assistere il paziente (anche latitante) che abbia dato il consenso alle specifiche prestazioni. Dunque, posto che è sicuramente punibile il medico che, dopo aver preso in cura il paziente, ometta di curarlo (sia pure egli latitante), a contrario non potrà essere considerato punibile il medico che adempia al suo dovere di cura costituzionalmente imposto.
In terzo luogo, che il medico sia esonerato dall’obbligo di denuncia nei confronti del proprio paziente lo si desume, a chiarissime lettere, dal cpv dell’art. 365 del codice penale in forza del quale la disposizione sull’obbligo di denuncia del medico <<non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale>>.
Tale disposizione è in grado di far comprendere come gli argomenti normativi siano del tutto contrari alla possibilità di creare in capo al professionista della sanità un obbligo giuridico di denuncia o di aiutare gli inquirenti nella “cattura” dei latitanti.[26]
Ciò comporta, inevitabilmente, che, non esistendo un obbligo giuridico in capo al medico, egli non possa certamente essere punibile per favoreggiamento nel caso di condotte omissive.
Tornando alla analisi della giurisprudenza di legittimità sul tema, occorre sottolineare come, anche nelle sentenze più recenti, pare sia individuato il discrimen tra medico punibile e non punibile nella esistenza o meno di “condotte ulteriori” non strettamente connesse alle prestazioni sanitarie. Nel caso in cui il medico abbia compiuto condotte ulteriori, il reato di favoreggiamento non potrà più dirsi scriminato perché il fatto esulerà dal parametro della c.d. normalità della prestazione.
È di questo avviso, per esempio, Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 2005, n. 26910, secondo cui <<non configura il reato di favoreggiamento personale la condotta del medico che, chiamato ad assistere un latitante, si limiti a fare la diagnosi della malattia e ad indicare la relativa terapia, senza porre in essere condotte aggiuntive di altra natura, che travalicando il dovere professionale del sanitario di assicurare la tutela della salute del cittadino, contribuiscano a far eludere la persona assistita alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità>>.
Tale pronuncia è stata, altresì, condivisa e fatta propria da Cass. pen., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 12281: in questo caso è stata ritenuta integrata la fattispecie di favoreggiamento dalla condotta del medico che, avvalendosi del ruolo direttivo esercitato all’interno di un laboratorio di analisi, aveva fatto sì che il latitante fruisse in maniera sistematica, in un significativo arco temporale, delle prestazioni della struttura sanitaria senza correre il rischio di essere individuato dagli inquirenti, dal momento che gli accertamenti diagnostici venivano effettuati a nome dello stesso sanitario.
Dunque, pare si possa affermare che il confine tra condotta punibile e condotta non punibile del medico si possa rinvenire in quelle che vengono chiamate “condotte aggiuntive di altra natura”, purché esse siano, in astratto, in grado di eludere le indagini.
Ebbene, a nostro avviso, non pare assolutamente risolta la questione poiché la formula “condotte aggiuntive di altra natura” (o la più semplice “condotte ulteriori”) non risulta essere sufficientemente precisa, con la conseguenza che, in base al libero convincimento del singolo giudice, analoghi fatti possano essere giudicati in un senso o nell’altro. Essa, al contrario, sembra atteggiarsi ad inafferrabile etichetta, con buona pace del principio di legalità (anche se declinato in ottica convenzionale).
Si pensi ai due pronunciamenti sopra analizzati: in entrambi, il medico aveva posto in essere condotte ulteriori rispetto alla propria prestazione sanitaria (spegnere il telefonino in un caso, cambiare percorso stradale nell’altro); entrambe le condotte sono state poste in essere con la consapevolezza della situazione di latitanza del paziente e con la volontà di eludere le investigazioni; entrambe le condotte sono state, in concreto, idonee ad eludere le indagini; le due vicende hanno avuto un esito processuale del tutto differente.
L’unica soluzione, ad avviso di chi scrive, sarebbe quella di modificare la condotta di favoreggiamento personale, eliminando il generico riferimento ad un “aiuto” e rendendolo reato di evento. In alternativa, si potrebbe immaginare alla stesura di talune linee-guida all’interno delle quali indicare analiticamente quali siano le condotte ulteriori idonee a far scivolare la condotta del professionista all’interno del penalmente rilevante. Solo in questo modo si potrà recuperare il deficit in termini di precisione e determinatezza.
Non si ritiene condivisibile la creazione di autonome fattispecie di favoreggiamento personale nelle quali soggetto attivo sia il professionista (medico ovvero avvocato). Ciò in quanto nessuno intende contribuire alla elefantiasi del diritto penale dovuta all’eccessivo numero di fattispecie incriminatrici.
Altrimenti, non vediamo il motivo per il quale la fattispecie di cui all’art. 378 c.p. non possa essere destinataria di una declaratoria di illegittimità costituzionale. A sostegno di tale conclusione, si ritiene utile richiamare la sentenza della Corte costituzionale del 13 febbraio 1995, n. 34, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 7-bis co. 1 d.l. 30 settembre 1989, n. 416, che puniva lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione <<che non si adopera per ottenere (…) il rilascio del documento di viaggio occorrente>> perché <<l’espressione adoperata dal legislatore di ‘non adoperarsi per ottenere il rilascio del documento di viaggio’, in mancanza di precisi parametri oggettivi (…) impedisce di stabilire con precisione quando l’inerzia del soggetto (…) raggiunga la soglia penalmente apprezzabile (…) è indeterminata e potenzialmente illimitata la serie dei comportamenti che possano dirsi non orientati (…). Per tali ragioni la norma impugnata non è rispettosa del principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 Cost., rimanendo la sua applicazione affidata all’arbitrio dell’interprete>>.
Ebbene, se nulla dovesse cambiare nel futuro prossimo, il destino dei medici (e degli avvocati) imputati di favoreggiamento sarebbe ancora affidato all’arbitrio del giudice. Spetterà, infatti, a quest’ultimo costruire la norma individuando quelle che, a suo giudizio, sono “condotte aggiuntive” tali da rendere punibile una condotta che, altrimenti, sarebbe pienamente lecita.
In assenza delle condotte aggiuntive, l’attività del medico idonea in astratto a “favorire” il latitante sarà certamente giustificata e lecita proprio in virtù dell’art. 51 del codice penale.
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Si è già visto come, in assenza di condotte ultronee rispetto a quelle proprie del medico, la sua condotta sia lecita e non possa essere considerata punibile. Al contrario, qualora il medico compia attività che travalichino le sue competenze professionali, allora ben potrebbe egli rispondere, nel caso di soggetto mafioso beneficiario della prestazione, di favoreggiamento personale aggravato, di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, di partecipazione all’associazione mafiosa ovvero di assistenza agli associati o procurata inosservanza di pena.
Ed è proprio il caso Matteo Messina Denaro che, a ben vedere, ci induce a considerare queste altre figure delittuose che, astrattamente, potrebbero essere contestate al medico che si prende cura del latitante mafioso. Si è già anticipato come, inizialmente, al medico di Denaro fosse contestato il delitto di favoreggiamento personale, mentre, a seguito della ordinanza del Gip di Palermo, il reato sia stato riqualificato in concorso esterno in associazione di tipo mafioso e procurata inosservanza di pena.
Questo conferma come, ancora oggi, i confini trai delitti indicati nel titolo del paragrafo non sembrano essere perfettamente delineati. Ciò è dovuto soprattutto alla eccessiva indeterminatezza ed imprecisione delle fattispecie incriminatrici di cui ci stiamo occupando. Questo deficit comporta che il giudice del caso concreto indossi i panni del Legislatore, dovendo egli tentare di sopperire alle lacune legislative.
A volte sono proprio i giudici a colorare fattispecie che, altrimenti, resterebbero un foglio bianco privo di alcun disvalore. Basti pensare alla condotta base (rectius: status) descritta dal primo comma dell’art. 416-bis del codice penale: “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni”. Ognuno può comprendere bene come in questo comma non sia descritta alcuna condotta in senso penalistico, ma sia descritto un semplice status inafferrabile, una non-condotta. È il giudice che, nel caso concreto, dovrà interpretare cosa significa “far parte di un’associazione di tipo mafioso”.
Ebbene, ponendo in disparte queste questioni, conviene addentrarci nel tema che si è anticipato all’inizio del paragrafo: i confini tra favoreggiamento personale aggravato, concorso esterno in associazione mafiosa, partecipazione in associazione mafiosa, assistenza agli associati e procurata inosservanza di pena.
Avendo individuato, sia pure non in termini che a noi sembrano esaustivi, il confine tra liceità e punibilità della prestazione sanitaria nelle c.d. “condotte ulteriori” diverse dalla mera attività sanitaria, ciò che conta è tentare di tracciare quelle che sono le linee differenziali tra le varie fattispecie incriminatrici.
La prima fattispecie da analizzare è quella del favoreggiamento personale aggravato. Rinviando a quanto già anticipato nel paragrafo dedicato al favoreggiamento personale, qui ci si limiterà a considerare la forma aggravata di cui al cpv dell’art. 378 del codice.
A ben vedere, infatti, il codice si preoccupa di punire più severamente gli autori del delitto di favoreggiamento personale <<quando il delitto commesso è quello previsto dall’articolo 416bis>> perché, in questo caso, <<si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni>>. Con riferimento a questa ipotesi, sembra sufficiente asserire che, rispetto alla fattispecie base di favoreggiamento personale, essa non si atteggia a fattispecie autonoma di reato. <<Il comma 2 dell’art. 378 c.p. non integra una figura autonoma di reato rispetto a quella di cui al comma 1 dello stesso articolo. Ciò in quanto, poichè gli elementi costitutivi essenziali delle due ipotesi criminose sono identici (condotta, evento ed elemento soggettivo), la previsione del comma 2 costituisce solo una forma circostanziata più grave di favoreggiamento, così come la previsione del successivo comma 3 dello stesso articolo integra una forma circostanziata più attenuata di favoreggiamento. In sostanza, le “varianti” configurate nei commi 2 e 3 dell’art. 378 c.p. costituiscono degli accidentalia delicti, nei quali alla maggiore o minore gravità dell’evento (visto nel suo aspetto pragmatico) viene rapportata una maggiore o minore entità della pena>>[27].
Atteggiandosi, dunque, a circostanza aggravante, è sufficiente ai fini della sua imputazione l’elemento soggettivo colpa: occorre dimostrare che l’autore del favoreggiamento sia consapevole ovvero ignori per colpa che il soggetto favorito sia ricercato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p.
Venendo al concorso esterno in associazione mafiosa, è noto come, negli anni, la Giurisprudenza abbia tentato di riempire di connotati la figura del concorrente esterno in associazione mafioso.
Chi sosteneva la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa lo faceva utilizzando la disposizione generale del concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 c.p.
Chi escludeva la configurabilità del concorso esterno nei reati associativi sviluppava le sue argomentazioni ponendo l’accento sulla esistenza di almeno due articoli del codice nei quali venivano (e vengono tutt’oggi) descritte le condotte di quello che oggi chiamiamo concorrente esterno: il cpv dell’art. 378 e dell’art. 418 c.p.
In giurisprudenza, fino alla celebre sentenza Demitry del 1994[28], vi era un contrasto giurisprudenziale in merito alla configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Con la appena citata pronuncia, si è detto che il concorrente esterno fosse colui che, per definizione, non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a “far parte”, ma al quale si rivolge per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, così individuando anche il preciso momento in cui potesse entrare in gioco la figura del concorrente esterno nel caso di una fase patologica dell’associazione. Andando avanti, con la sentenza Mannino del 1995[29], si è tentato di puntualizzare ancora di più la figura del concorrente esterno in relazione alla diversa figura del partecipe: ai fini della configurabilità, sul piano soggettivo, del concorso esterno non si richiede in capo al concorrente il dolo specifico proprio del partecipe, bensì il dolo generico, consistente nella consapevolezza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione.
Ancora, con la sentenza Carnevale del 2002[30], si è precisato che il concorso esterno è integrato nel caso in cui la persona, priva della affectio societatis e non inserita nella vita associativa, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia una effettiva rilevanza causale ai fini del rafforzamento dell’associazione e l’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità della realizzazione, anche parziale del programma criminoso.
L’approdo giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso è rappresentato dalla sentenza c.d. “Mannino-bis” del 2005[31] che superato il criterio della fase patologica o fisiologica tracciato dalla sentenza Demitry, affermando come il concorrente esterno sia colui che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’ affectio societatis, fornisce un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, sempre che questo abbia una rilevanza causale e che quindi si configuri come una condizione necessaria per la conservazione od il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto alla realizzazione anche parziale del programma criminoso.
A ben vedere, la sentenza Mannino-bis, poi sostanzialmente riconfermata da successive pronunce ha posto un punto su una annosa questione che concerne proprio l’art. 110 c.p.: l’atipicità della condotta del concorrente nel reato non significa assolutamente indifferenza probatoria.
Ciò ha indotto a ritenere di pensare al concorrente esterno nei delitti associativi in genere come ad un concorrente di persone nel reato. Pertanto, andrà dimostrato in concreto il contributo causale della condotta del concorrente atipico ed il relativo evento di conservazione o rafforzamento delle capacità operative dell’associazione.
Per quanto concerne la partecipazione alla associazione mafiosa, bisogna subito avvertire il lettore che non è compito di questo breve contributo indagare sui problemi e sui principali arresti giurisprudenziali sul tema. Intendiamo limitarci ad affermare che si tratta di un reato che – non descrivendo una precisa condotta, quanto piuttosto uno status – la giurisprudenza di merito e di legittimità ha tentato di definire. Molto in breve. Partecipe è il soggetto dinamicamente inserito nell’organismo delinquenziale, in quanto non può essere considerato punibile il solo fatto dell'”associarsi”[32]. La tipicità della condotta partecipativa dipende dal significato che il soggetto annette al comportamento oggettivamente utile per la vita dell’ente. Non sono condivisibili, pertanto, le posizioni che si accontentano, per la punibilità a titolo di partecipazione, anche soltanto di uno dei due profili, poiché il semplice contributo senzal’affectio societatis non integra la partecipazione, e l’adesione soggettiva senza un contributo oggettivamente significativo è irrilevante sul piano penale. Le due componenti, oggettiva e soggettiva, sono parimenti indispensabili e devono entrambe riflettersi sulla dimensione finalistica di contribuire a realizzare gli scopi associativi nella consapevole condivisione della metodologia individuata dal comma terzo della disposizione. Per tale ragione, il contributo alla vita dell’associazione deve possedere carattere di stabilità e di continuità, rivelando una effettiva affectio societatis, non assumendo natura partecipativa la sporadica attività che ridondi a beneficio, magari soltanto indiretto, dell’ente. Simmetricamente, una affectio societatis, che non si sia estrinsecata in significativi gesti di sostegno causale alla vita associativa, non può essere ritenuta penalmente rilevante. Per questi motivi, a titolo esemplificativo, sarebbe più corretto ritenere che non sia penalmente partecipe chi, pur avendo compiuto il c.d. “giuramento legale”, non abbia apportato alcun contributo concreto al sodalizio. Diversamente ragionando, non si farebbe altro che interpretare la fattispecie come imperniata sul tipo di autore, che punisce il soggetto esclusivamente per il suo modo di essere, per il suo status. Affermando ciò, non si intende negare la natura di sintomo di partecipazione che bisogna attribuire all’affiliazione all’ente.
Con riferimento al livello del contributo, non è, a nostro avviso, condivisibile la communis opinio secondo cui questo potrebbe essere anche minimo, purché apprezzabile sul terreno causale. Riteniamo che il contributo debba costituire proprio in ragione della sua dimensione qualitativa o quantitativa, sintomo univoco in ordine al volontario perseguimento degli scopi dell’associazione.
Ciò detto, non riteniamo condivisibili quelle tesi secondo cui, una volta dimostrata la operatività dell’organizzazione mafiosa, sarebbe superfluo l’accertamento del ruolo specifico rivestito dal soggetto nell’ambito associativo.
Accettando queste tesi, verrebbe meno il principio di materialità di cui al cpv dell’art. 25 Cost. perché non si andrebbe a punire un fatto, bensì, appunto una condizione personale.
Poco da dire sui delitti di cui agli artt. 418 e 390 c.p.
È irrevocabile in dubbio come la fattispecie di cui all’art. 418 (Assistenza agli associati) abbia natura sussidiaria (e residuale) rispetto ai reati di concorso di persone nel reato e di favoreggiamento. La condotta penalmente rilevante è quella di colui il quale “dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano all’associazione”.
La disposizione di cui all’art. 390 c.p. punisce “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, aiuta taluno a sottrarsi all’esecuzione della pena”. A ben vedere, si tratta di una fattispecie costruita sulla falsariga del favoreggiamento personale dal punto di vista della condotta. Ciò che cambia è la fase in cui entra in gioco tale disposizione: se il favoreggiamento concerne la fase dalle indagini preliminari alla sentenza definitiva, la procurata inosservanza di pena trova il suo campo di applicazione a seguito di sentenza definitiva[33].
Ebbene, è giunto il momento di individuare un discrimen tra le diverse ipotesi di reato astrattamente configurabili in caso di prestazione sanitaria effettuata a beneficio di un soggetto mafioso.
Si è già detto che il confine tra liceità e punibilità risiede in quelle che vengono definite condotte ulteriori. Si tratta di comprendere quando le condotte ulteriori integrino il favoreggiamento personale aggravato, la partecipazione, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, l’aiuto agli associati ovvero la procurata inosservanza di pena.
Si ha gioco facile nel caso di fattispecie aventi il medesimo bene giuridico tutelato. Così, infatti, è facile distinguere tra favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, posto che, per come si è detto, la differenza si sostanzia nella diversa fase procedimentale in cui si inserisce la condotta di ‘aiuto’.
Non è difficile individuare il discrimen neanche tra favoreggiamento e aiuto agli associati, posto che nella condotta di aiuto agli associati è del tutto assente un’aspettativa teleologica dell’autore del reato. Infatti, se nel favoreggiamento la condotta di aiuto è finalizzata a consentire la elusione delle indagini o la sottrazione dalle ricerche, diversamente nell’aiuto agli associati l’autore esaurisce il suo scopo nell’aiuto prestato[34].
Più difficile sembra delimitare un serio confine tra favoreggiamento ed i reati di concorso esterno e di partecipazione ad associazione di tipo mafioso.
A ben vedere, infatti, la condotta del medico che, ad esempio, opera un boss mafioso può benissimo essere considerata, in astratto, paragonabile alla condotta di chi, intraneo o meno, abbia contribuito in maniera effettiva al rafforzamento o al mantenimento della forza intimidatrice dell’ente.
Noi riteniamo che il discrimen si possa individuare nel contributo causale rafforzativo dell’associazione e nell’elemento psicologico rafforzato richiesti per la partecipazione e per il concorso esterno in associazione mafiosa.
Infatti, se per la configurabilità del cpv di cui all’art. 378 c.p. si è detto essere sufficiente la colpa, questo, chiaramente non può dirsi né con riferimento alla partecipazione né al concorso esterno. In ambedue le fattispecie, è richiesta ad oggi la prova rafforzata del dolo specifico che deve atteggiarsi in quella volontà nel raggiungimento degli scopi propri dell’associazione abbinata alla consapevolezza di innestare sinergicamente la propria condotta con quella degli associati.
Si può, in conclusione, affermare che il medico che travalichi i limiti della scriminante di cui si è detto potrà rispondere di favoreggiamento personale se si limiterà ad aiutare il boss mafioso senza che tale aiuto contribuisca a rafforzare l’assetto associativo e senza avere la consapevolezza e volontà di perseguire gli scopi propri del sodalizio; risponderà di partecipazione all’associazione mafiosa se, oltre ad aiutare il boss mafioso come persona fisica, la sua condotta si esplichi in un contributo causale effettivo riversato sulla intera compagine associativo e dia il medico un contributo consapevole di tipo organico e duraturo all’associazione; risponderà di concorso esterno qualora, in presenza di tutti gli elementi indicativi di partecipazione all’associazione mafiosa, sia assente l’affectio societatis e lo stabile inserimento all’interno dell’organizzazione; risponderà di assistenza agli associati nell’ipotesi in cui ignori non per colpa la natura mafiosa dell’associato; risponderà di procurata inosservanza di pena nel caso in cui la condotta di favoreggiamento sia posta in essere in una fase posteriore rispetto al procedimento penale.
Si comprende bene, in conclusione, come sia assente qualsivoglia prevedibilità intesa come calcolabilità dell’esito giudiziario. Il medico che ‘aiuta’ il latitante mafioso può rispondere di tanti diversi delitti tra di loro completamente differenti dal punto di vista della risposta sanzionatoria: basti pensare quanto grande sia la forbice tra la cornice edittale di partecipazione all’associazione di tipo mafioso (da sette a dodici anni) e la cornice dell’assistenza agli associati (da due a quattro anni).
[1] Di queste notizie siamo a conoscenza perché è stata diffusa la cartella clinica di Matteo Messina Denaro. Si invita a confrontare il comunicato ufficiale del componente del Garante per la Protezione dei Dati Personali, prof. avv. Guido Scorza, per avere un punto di vista più tecnico sul diritto alla privacy
[2] In questi termini si esprime M. Gallo, in Appunti di diritto penale. Volume II. Il reato. Parte I. La fattispecie oggettiva, Giappichelli editore, Torino, 2000, p. 204 ss.
[3] Cfr., ex multis, Cass. VI, 18 gennaio 1972, n. 133
[4] M. Gallo, in Appunti di diritto penale. Volume I. La legge penale, Giappichelli editore, Torino, 1999, p. 70 ss.
[5] In questi termini si esprime M. Gallo, La fattispecie oggettiva, op. cit.
[6] Si pensi all’ipotesi di scuola della ordinanza di custodia cautelare, laddove la legittimità formale deriva dalla competenza dell’organo e dall’osservanza delle forme prescritte, mentre la legittimità sostanziale deriva dalla esistenza delle c.d. esigenze cautelari e dai gravi indizi di colpevolezza
[7] Durante la stagione del paternalismo sanitario, il medico aveva un vero e proprio diritto di curare e disporre del corpo del paziente anche al di là della autodeterminazione di quest’ultimo
[8] Tribunale di Roma, 17/10/2007 in www.onelegale.wolterskluwer.it
[9] Tra i tanti si veda D. PULITANÒ, L’attività terapeutica, in AA. VV., Diritto penale, Parte speciale, I, Tutela penale della persona, a cura di D. Pulitanò, Torino, 2011, 41.
[10] Tra i maggiori sostenitori di questa tesi, si veda F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, cit. p. 180 e ss., secondo cui l’evento causato da attività autorizzata osservante le regole cautelari non è oggettivamente imputabile al soggetto per l’atipicità del fatto materiale
[11] Tra le tante pronunce, si veda Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 2010, n. 25978, secondo cui “nel termina ‘aiuta’ rientra ogni atteggiamento anche negativo, di per sé idoneo ad eludere o a fuorviare le investigazioni”
[12] T. PADOVANI, Favoreggiamento, in Enciclopedia giuridica Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 5
[13] La dottrina sembra unanime circa la natura di reato di pericolo: si veda ex multis Dinacci, Favoreggiamento personale, in Coppi (a cura di), I delitti contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 1996, 408; Pagliaro, PS, II, 159; a pensarla diversamente, Gelardi, L’oggetto giuridico del favoreggiamento come dover essere del processo, Padova, 1993, 175
[14]Anche la giurisprudenza di legittimità ammette la natura di reato di pericolo. Si veda ex multis C., Sez. V, 12.7.2004 secondo cui: <<Poiché il favoreggiamento personale è reato di pericolo non è richiesto che la condotta di ausilio consegua l’obiettivo voluto: essa consiste, quindi, in una qualsiasi attività che abbia frapposto un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini; che abbia, cioè, provocato una negativa alterazione – quale che sia – del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche dell’autorità erano in corso o si sarebbero comunque potute svolgere>>.
[15] In questo senso si esprime C. Sez. VI, 16.2-7.3.2016, n. 9415
[16] La più attenta dottrina condivide questa impostazione: cfr. V. Nico D’Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale senza prova, 2008, secondo cui i reati di pericolo astratto andrebbero tutti riletti in ottica di pericolo concreto; cfr. anche G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, I; D. PULITANÒ, Il favoreggiamento personale tra diritto e processo penale, Milano, 1984
[17] Cfr. ex multis, Cass. pen., sez. VI, 23 settembre 1998, n. 773
[18] V. NICO D’ASCOLA, Il favoreggiamento personale, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, III edizione, a cura di A. FIORELLA, p. 724
[19] C., Sez. I, 19.10.1987
[20] Non va sottaciuta la esistenza di quella dottrina più garantista secondo cui il dolo del favoreggiamento andrebbe ricostruito come specifico, per riequilibrare così il deficit di determinatezza che caratterizza la fattispecie oggettiva; si veda V. NICO D’ASCOLA, Il favoreggiamento personale, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, III edizione, a cura di A. FIORELLA, p. 719
[21] Pagliaro, Principi di diritto penale, Parte Speciale, vol. II, p. 171; in giurisprudenza si veda C., Sez. II, 22.9.2021-10.1.2022, n. 282
[22] In questo senso si esprime C., Sez. VI, 22.11.1994
[23] Cass. Pen., 5 aprile 2005, n. 26910, sez. VI
[24] Cass. Pen., 15 marzo 1985, n. 169517, Sez. VI
[25] Espressione ritenuta più consona dal prof. Marcello Gallo
[26] Anche la giurisprudenza è orientata in questo senso: cfr. Cass. pen., Sez. VI, 11/06/2015, n. 38281, secondo cui: << Il medico non è tenuto all’obbligo di referto se, dalla redazione dell’atto, deriva la possibilità di esporre a procedimento penale la persona alla quale egli ha prestato assistenza>>
[27] Cass. pen., Sez. VI, 22/03/1996, n. 5528, ric. Vinci
[28] Cass., Sez. Un., 5 ottobre 1994, ric. Demitry
[29] Cass., Sez. Un., 27 settembre 1995, ric. Mannino
[30] Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2002, ric. Carnevale
[31] Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005
[32] Fra tutte, la già citata sentenza Mannino-bis
[33][33] Si veda per una dettagliata ricostruzione della “perfetta linea di continuità punitiva tra tutte le condotte di favoreggiamento” il già cit. V. Nico D’Ascola in Questioni fondamentali della parte speciale di diritto penale, a cura di A. Fiorella, pp. 718-728
[34] Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato 1, III, 1158, con la precisazione che si configura il favoreggiamento quando l’aiuto sia coscientemente volto ad ostacolare le indagini