Libertà di manifestazione del proprio credo religioso (negativo) tra tutela delle minoranze e obblighi motivazionali in caso di limitazione basata sull’aggressione e la denigrazione della religione altrui: la Suprema Corte delinea alcune importanti coordinate ermeneutiche.
Nota a Cass., I sezione civile, n. 7893/2020
Di Enrico Ajmar
1. Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha avuto l’occasione di precisare alcune importanti coordinate interpretative su un tema assai spinoso, specie in un Paese come il nostro, laico ma caratterizzato dalla presenza territorialmente e storicamente radicata della Chiesa cattolica e, adesso, esposto al fenomeno migratorio.
2. Significativo è il caso in commento, che origina dalla richiesta dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – UAAR, con sede in Roma, indirizzata al Comune di Verona per affiggere «dieci manifesti recanti la parola, a caratteri cubitali, “Dio”, con la “D” a stampatello barrata da una crocetta e le successive lettere “io” in corsivo, e sotto la dicitura, a caratteri più piccoli, “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco”. Il manifesto recava, altresì, in basso a destra, a caratteri ancora più piccoli e ristretti in un piccolo riquadro, il logo e la denominazione dell’associazione».
A seguito del diniego dell’amministrazione comunale, l’associazione ha promosso ricorso1 presso il Tribunale di Roma2 chiedendo «l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto del Comune di Verona di affiggere i suddetti manifesti, con condanna dell’ente pubblico alla cessazione della condotta discriminatoria, nonché al risarcimento dei danni ed alla pubblicazione della decisione su di un quotidiano a spese dell’ente». Quest’ultimo, invece, ha dedotto che l’autorizzazione era stata negata in quanto la rappresentazione grafica era «tale da urtare la sensibilità del sentimento religioso in generale».
Nei primi due gradi di giudizio la domanda dell’associazione viene respinta sul presupposto dell’insussistenza di una «condotta discriminatoria, mancando, in primo luogo, una qualsiasi forma di propaganda a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo, e difettando, in secondo luogo, un trattamento differenziato riservato all’associazione istante rispetto ad altre alle quali, nel medesimo contesto locale e temporale, fosse stata – in ipotesi – concessa la possibilità di manifestare il proprio credo religioso». La Corte territoriale ha precisato poi che l’affissione non avrebbe potuto essere «ancorata… alla libertà di espressione del pensiero, ai sensi dell’art. 21 Cost., atteso che il principio di laicità dello Stato implica, non certo l’indifferenza nei confronti dell’esperienza religiosa, ma – ben al contrario – la salvaguardia della libertà di religione nell’ottica del pluralismo confessionale e culturale, e nel rispetto della dignità della persona umana (art. 2 Cost.)». Di tali statuizioni si duole la ricorrente, che «denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 21 Cost., 9 della CEDU e 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc civ.».
3. Occorre pertanto focalizzarsi sulle disposizioni poste a tutela della libertà religiosa e, in particolare, della libertà negativa, ossia di non aderire ad alcuna religione ma di professare un credo ateo o agnostico.
Il primo parametro è senz’altro l’art. 19 Cost., che in un primo momento è stato inteso come posto a tutela esclusiva della libertà religiosa positiva3 ma, in seguito, si è ritenuto che fornisca dignità costituzionale alla libertà di coscienza dei non credenti4.
Anche il diritto sovranazionale tutela la libertà di coscienza dei non credenti: in particolare, significativi sono l’art. 10 CDFUE5 e l’art. 9 CEDU6.
In punto accertamento delle condotte discriminatorie è intervenuto poi il legislatore eurounitario con la direttiva n. 2000/78, secondo cui, per quanto più rileva in questa sede, «sussiste discriminazione diretta quando… una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga»7. Così anche la normativa interna (d.lgs. n. 286/1998).
4. Tornando all’analisi del caso di specie, il riconoscimento all’ateismo e all’agnosticismo della copertura costituzionale comporta quindi il diritto di fare propaganda del credo ateo e agnostico; diritto che, attesa l’ampia formulazione dell’art. 19 Cost, «legittima le più diverse forme di attività finalizzata – anche in forma critica, purché non si traduca… in forme di aggressione o di vilipendio della fede da altri professata – al proselitismo». Pertanto, l’unico limite alla propaganda può essere individuato nella fattispecie di cui all’art. 403 c.p. e va qualificato come vilipendio non «qualsiasi contegno che, in qualche modo, si contrapponga al credo religioso professato da una parte, anche maggioritaria, dei cittadini» ma piuttosto un’offesa «chiara, diretta e grave, come tale anch’essa costituzionalmente rilevante (artt. 2 e 19 Cost.), all’eguale diritto» degli altri credenti di «professare liberamente la propria fede religiosa»8. Ad adiuvandum, la Suprema Corte afferma che nella pronuncia citata dal Comune resistente si era affermato che in materia religiosa «la critica è lecita quando, sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati, si traduca nell’espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione. Essa trasmoda, invece, in vilipendio quando – attraverso un giudizio sommario e gratuito – manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione cattolica o altre religioni, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità, talché venga a tradursi in una mera offesa fine a se stessa»9.
E, allora, rammentate queste coordinate interpretative, i giudici di legittimità non condividono le conclusioni della Corte territoriale, secondo cui i manifesti, per la cui affissione si chiedeva il permesso, non costituiscono una «manifestazione di volontà chiaramente rivolta alla propaganda all’ateismo» atteso che, come già indicato supra, l’unico limite consiste nel vilipendio, fattispecie non integrata nel caso in esame. Ulteriore elemento censurabile nella sentenza impugnata è l’asserita mancanza di discriminazione, motivata sull’assenza di un tertium comparationis “nel medesimo contesto locale e temporale”. A tal proposito, la Corte di legittimità ravvisa l’erroneità del principio di diritto fatto proprio dai giudici d’appello dal momento che la normativa eurounitaria richiede l’accertamento della discriminazione anche sotto il profilo diacronico, senza pretendere quindi la contestualità delle diverse condotte indicative di discriminazione10.
5. In conclusione i giudici di legittimità, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, sanciscono i seguenti principi di diritto:
«ai sensi degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e dell’art. 1 del Protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984, dai quali si desume l’esistenza nell’ordinamento del “principio supremo di laicità” dello Stato, nonché ai sensi dell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, deve essere garantita la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente»;
«dal riconoscimento del diritto di “libertà di coscienza” anche agli atei o agnostici, discende il diritto di questi ultimi di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost.»;
«il diritto di propaganda e di diffusione del proprio credo religioso non deve tradursi nel vilipendio della fede da altri professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata»;
«il principio della parità di trattamento», sancito dagli artt. 1 e 2 della Direttiva n. 78/2000 e dagli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, impone che venga assicurata una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in esse compreso il credo ateo o agnostico, e la sua violazione integra la discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è, o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata».
********************
1 Ex art. 702 bis c.p.c.
2 Competente è infatti il Tribunale del luogo di domicilio dell’istante ex art. 44, d.lgs. n. 286/1998.
3 Cfr. Corte Cost. n. 58/1960.
4 Cfr. Corte Cost. n 117/1979.
5 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
6 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.
Significativo, nell’ambito del diritto convenzionale, è il riferimento al precedente Corte Edu, 18/02/1999, Buscarini e altri c. San Marino, che origina dall’imposizione a tre parlamentari della Repubblica di San Marino di giurare sui Vangeli a pena di decadenza dal mandato.
7 Cfr. art. 2, direttiva n. 2000/78.
8 Cfr. par. 2.6 della sentenza in commento.
9 La pronuncia è Cass., n. 41044/2015. In tal caso la Corte aveva ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito che aveva ravvisato il reato di cui all’art. 403 cod. pen. nella condotta di un imputato il quale aveva realizzato ed esposto, nel centro di Milano, un trittico altamente denigratorio, raffigurante il Papa ed il suo segretario personale accostati ad un’immagine assolutamente oscena, accompagnata dalla didascalia: «Chi di voi non è culo scagli la prima pietra». Caso, quindi, affatto diverso da quello in esame.
10 Cfr. supra con riferimento alla direttiva citata.