Concorso formale di reati e aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte ribadisce e precisa alcune coordinate ermeneutiche.
di Enrico Ajmar(1)e Simone Botta(2)
1.Con la pronuncia che si va ad annotare la Corte di Cassazione ha avuto modo di svolgere alcune precisazioni in ordine al confine tra il delitto di lesioni e quello di violenza privata e ai requisiti e indici di sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 416 bis.1 c.p.
Oggetto del ricorso è la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Roma, confermativa della condanna emessa dal Tribunale capitolino nei confronti di un imputato dei reati di lesioni personali aggravate e di violenza privata; fattispecie entrambe aggravate dall’uso del metodo mafioso (art. 416 bis.1 c.p., prima art. 7, d.l. n. 152/1991, conv. con mod. dalla l. n. 203/1991). Nella specie, trattasi di un’aggressione da parte dell’intervistato, in concorso con altro soggetto giudicato separatamente, ad un giornalista e ad un suo collaboratore per porre fine all’intervista e allontanare le persone offese dal territorio ostiense. In sostanza, la difesa contesta la sussistenza del delitto di cui all’art. 610 c.p., a suo avviso condotta assorbita dalla fattispecie di lesioni, e si duole altresì del riconoscimento dell’aggravante del metodo mafioso.
2.Ebbene, venendo all’analisi della prima delle due questioni, il passaggio certamente più rilevante è quello in cui la Corte puntualizza il confine tra le due fattispecie in analisi, concludendo per la configurabilità di entrambe.
Il primo argomento è di ordine sistematico: l’unica fattispecie ad essere esclusa nel caso in cui la violenza sia considerata come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato è quella di percosse(3). Da tale disposto normativo si deve quindi desumere, a contrario, che non vi siano motivi ostativi al riconoscimento di un concorso formale tra la fattispecie di lesioni e quella di violenza privata(4). Sulla base di queste considerazioni, di recente i giudici di legittimità, in un’altra pronuncia, hanno peraltro avuto modo di statuire che «“è configurabile il concorso formale tra il reato di violenza privata e quello di lesioni personali volontarie, non sussistendo tra le due fattispecie un rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen.”, anche sulla base dell’art. 581, comma secondo, cod. pen., “che esclude il concorso nel solo caso in cui la condotta violenta sia sussumibile nella fattispecie di percosse e non ove ricorrano più gravi fattispecie, come quella di lesioni personali”»(5).
A supporto di tale approdo interpretativo, la Suprema Corte pure rileva come i beni giuridici protetti dalle norme siano differenti: nel delitto di violenza privata ad essere tutelata è la libertà morale mentre nel delitto di lesioni è sanzionata l’aggressione all’integrità fisica della persona offesa.
L’analisi del fatto permette anche di apprezzare il nesso finalistico che collega le lesioni alla condotta costrittiva punita dall’art. 610 c.p., a conferma dunque dell’eterogeneità dei beni giuridici offesi. L’imputato, infatti, avvalendosi dell’ausilio di un “guardaspalle”, resosi conto che l’intervista stava volgendo a proprio svantaggio, prima picchiava il giornalista con una testata al volto e con un attrezzo che aveva in mano, poi gli intimava di andarsene.
Correttamente allora la Corte afferma che le lesioni, lungi dall’assorbire la condotta di violenza privata, si pongono invece quale presupposto finalizzato proprio all’allontanamento coattivo delle vittime, integrante violenza privata e rappresentante un quid pluris, al contrario di quanto affermato dalla difesa con l’atto di ricorso.
La configurabilità astratta di entrambe le fattispecie, al di là della ricostruzione di fatto la cui sindacabilità non è consentita in sede di legittimità, è suffragata dalla diversità strutturale delle due norme incriminatrici. In entrambi i casi la violenza è elemento costitutivo del reato, atteso che le lesioni costituiscono certamente violenza. L’art. 582 c.p. prevede però il cagionarsi delle lesioni, che a loro volta provocano una malattia; l’art. 610 c.p., invece, punisce la costrizione a fare o a tollerare qualcosa attuata mediante violenza o minaccia. Proprio quest’ultima formulazione lascia intendere la possibile sussistenza di un reato presupposto quale quello di lesioni, proprio come efficacemente messo in luce nella pronuncia in commento.
3.Esaurita la trattazione del primo profilo di interesse, si può procedere all’analisi della seconda questione trattata in sentenza, ossia quella concernente l’applicabilità della circostanza aggravante del metodo mafioso. Il recente intervento del legislatore in materia impone alcune considerazioni preliminari sul contesto normativo di riferimento.
3.1. La particella normativa oggetto di analisi era infatti in origine una disciplina extracodicistica, contenuta all’art. 7 del d.l. 13/05/1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla l. 12/07/1991, n. 203, recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione”(6). Veniva così introdotta la c.d. aggravante mafiosa, circostanza comune ad affetto speciale, articolata in due distinte varianti: la prima del metodo mafioso (l’avvalersi, cioè, delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p.), la seconda del fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose.
Più recentemente, come anticipato in premessa, il legislatore è intervenuto con l’art. 5 del d.lgs. 01/03/2018, n. 21 concernente “Disposizioni in attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, introducendo l’art. 416 bis.1 del codice penale, Circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose(7).
3.2. Rammentate queste essenziali coordinate normative, si può procedere con l’analisi della seconda parte della decisione.
Ebbene, in ordine al primo motivo di ricorso, la S.C., oltre a ritenerlo inammissibile per genericità e mancanza di specificità, prosegue dichiarandolo manifestamente infondato. La difesa, infatti, lamenta l’omessa motivazione in ordine alla doglianza presentata con l’atto di appello fondata sulla non credibilità dei collaboratori di giustizia, sostenendo che tali dichiarazioni siano state utilizzate proprio ai fini della verifica sulla sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso. Precisano però i giudici di legittimità che tali dichiarazioni sono state utilizzate al solo fine di vagliare il tipo di contesto ambientale in cui si sono svolti i fatti, e non certo per provare la caratura mafiosa del clan o l’adesione del ricorrente al sodalizio(8).
Il profilo che, tuttavia, merita maggiore attenzione in questa sede riguarda la motivazione che la Corte pone alla base della dichiarazione di inammissibilità o, comunque, di infondatezza del terzo motivo di impugnazione.
Si rileva, infatti, che la disposizione contenente l’aggravante opera un rinvio all’art. 416 bis per l’identificazione del metodo mafioso. In altre parole, si ha pertanto metodo mafioso allorché l’attore si avvalga della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti. La ratio è, in sostanza, quella di punire tutte quelle condotte che, in concreto, siano idonee a ingenerare quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione proprie dell’organizzazione mafiosa. È pacifico allora che siano le concrete modalità della condotta a rilevare. A tal proposito, la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo in più occasioni di affermare che esse devono evocare la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso(9). Proprio tale dimensione oggettiva porta altresì a ritenere che l’aggravante del metodo mafioso sia contestabile tanto ad un soggetto intraneus quanto ad un soggetto extraneus all’associazione, non essendo in discussione l’esistenza di un vincolo associativo ma le modalità della condotta(10).
Richiamando tali importanti approdi ermeneutici, la Corte territoriale, nel provvedimento impugnato, era giunta a ritenere sussistente la circostanza contestata, basandosi su diversi elementi di fatto. In particolare, si erano valorizzati in quella sede: la presenza di un guardaspalle per tutta la durata dell’intervista; la simultaneità dell’aggressione al giornalista e all’operatore di ripresa da parte dei coimputati, senza neppure la necessità di un cenno di “via”; lo svolgimento dei fatti in pieno giorno, davanti all’ingresso di un luogo frequentato come una palestra; il contesto di marcata omertà, evincibile dal silenzio – se non addirittura dal compiacimento – degli spettatori, che procedevano alla repentina chiusura di porte e finestre per non assistere alle violenze; la rivendicazione di una potestà di controllo sul territorio, con conseguente potere di disporre della presenza o meno di soggetti poco graditi; l’evocazione di un intervento di soggetti di terzi al fine di perpetrare ulteriori atti intimidatori, minacciosi o violenti; le successive dichiarazioni processuali dell’imputato, che neppure davanti all’evidenza di un filmato ammetteva di conoscere il concorrente. Tutti questi numerosi elementi hanno ingenerato nelle vittime un terrore tale da indurle a non preoccuparsi delle proprie condizioni di salute fino al rientro nella capitale, non fermandosi neppure presso il nosocomio ostiense, consapevoli delle infiltrazioni mafiose del clan di appartenenza dell’aggressore anche nella sanità locale.
In conclusione, i giudici di legittimità, ripercorrendo la sentenza censurata, hanno concluso per l’infondatezza del ricorso atteso l’accoglimento della concezione oggettiva dell’aggravante del metodo mafioso e la logica e consequenziale analisi dei plurimi elementi di fatti.
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1() Cui sono da attribuire i paragrafi 1 e 2.
2() Cui è da attribuire il paragrafo 3.
3() Cfr. art. 581, comma 2 c.p.
4() Peraltro, nell’atto di ricorso, la difesa non contesta la sussistenza del primo reato ma unicamente quello di violenza privata.
5() Cfr. Cass., Sez. V, n. 9727/2019, richiamata nella pronuncia in commento.
6() Si noti il contesto storico dell’intervento normativo, collocato quasi una decade dopo l’introduzione della relativa fattispecie associativa, quando il maxiprocesso a Cosa Nostra volgeva al termine, all’alba del periodo di rappresaglia mafiosa a fronte delle pesanti condanne nei confronti di moltissimi associati.
7() L’impressione è che l’intenzione del legislatore, che traspare anche dai lavori preparatori e dalla relazione del Governo di accompagnamento al disegno di legge, sia quella di fare terra bruciata intorno al sistema mafioso, nella logica di un disegno di politica criminale volto a colpire duramente l’organizzazione mafiosa e disincentivare la commissione di nuovi delitti, sanzionando più severamente «tutte quelle condotte “contigue”, penalmente rilevanti, di “manifesta criminosità”, ma connotate da una particolare inafferrabilità». Così E. Reccia, L’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991: una sintesi di “inafferrabilità del penalmente rilevante”, in Dir. Pen. Cont., n. 2/2015, p. 252.
8() Intraneità, per inciso, accertata in un separato processo, conclusosi con la condanna del ricorrente all’ergastolo per associazione di stampo mafioso e per duplice omicidio aggravato ex art. 7 d.l. n. 152/1991.
9() Cfr. Cass. Sez VI, n. 41772/2017.
10() Cfr. Cass., Sez. I, n. 16486/2004, in cui si è avuto modo di chiarire che, ai fini della configurabilità della circostanza in esame, è irrilevante la formale contestazione dell’ipotesi di reato associativo al soggetto cui è applicata.