La legge n° 110 del 2017 ha introdotto nel nostro ordinamento il delitto di tortura, disciplinato oggi dall’art. 613 bis del codice penale, nonché il delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, previsto dall’art.613 ter c.p.

A partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nonché nella Convenzione Onu contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti del 1984 (cd. CAT), si era sentita l’esigenza di sanzionare quelle condotte particolarmente gravi, ritenute lesive della dignità umana 1.

L’art.1 della CAT chiarisce, infatti, cosa si intende per tortura, riferendosi a “qualsiasi atto con il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza personainformazionioconfessioni,dipunirlaperunattocheessaoterzapersonaha commesso , o è sospettata aver commesso, di intimorirla od esercitare pressioni su di lei o di intimorire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da una qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso otacito”.

Obblighi di criminalizzazione sono stati imposti anche dall’art. 3 della CEDU, il quale dispone che “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti

In relazione a tali impulsi provenienti dalle varie convenzioni l’Italia, tuttavia, per molto tempo, si è resa inadempiente, nonostante lo stesso art. 13 comma 4 della Costituzione prevedesse di punire ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà, e ciò al fine di evidenziare non solo il particolare disvalore della tortura, ma anche la necessità di reprimerla attraverso il ricorso alla sanzione penale2

L’avere di recente introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento, a distanza di quasi trent’anni dalla ratifica della CAT da parte dell’Italia, rappresenta una

1 Ilaria Marchi, “Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613- bis c.p.”, in Dir. Pen. Cont., 7- 8/2017.

2 G. Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p.501.

conseguenza delle condanne subite dal nostro Paese da parte della Corte di Strasburgo la quale, in più occasioni, aveva evidenziato come gli strumenti presenti nel nostro ordinamento penale fossero inadeguati a contrastare il fenomeno della tortura. La sua repressione era infatti affidata a reati quali quello di percosse, lesioni o minaccia, ritenuti di scarsa efficacia deterrente in quanto prevedevano pene non elevate e termini di prescrizione brevi3.

Basti pensare al caso Cirino e Renne c. Italia, in relazione al quale la Corte di Strasburgo ha accertato la violazione sostanziale e procedurale da parte dello Stato italiano del divieto di tortura. In tale occasione, infatti, i ricorrenti avevano denunciato le violenze sistematicamente subite durante la detenzione presso la casa circondariale di Asti4.

A tal proposito, i giudici europei hanno sancito per i vari Stati (tra cui anche l’Italia) l’obbligo di adottare delle misure in grado di evitare che le persone poste sotto la loro giurisdizione potessero essere assoggettate a tortura o ad altri trattamenti inumani e degradanti da parte di agenti pubblici o privati (H.L.R. v. France, 29/04/1997, 24573/94; M.C. v. Bulgaria, 39272/98). Hanno, inoltre, sancito i criteri differenziali tra il delitto di tortura e quello di trattamenti inumani o degradanti, individuandoli nella intensità delle sofferenze inferte e nella finalità perseguita dall’agente. Così chiarito, l’obbligo che ne è derivato in capo agli Stati tanto dalla CAT, quanto dall’art. 3 CEDU, è stato quello di garantire la punibilità delle condotte individuate dall’art. 1 della citata convenzione e, per evitare sia pene insufficienti che termini prescrizionali brevi, si è raccomandato agli Stati di introdurre una figura autonoma di reato.

Pertanto è possibile affermare che dall’art. 3 della CEDU e dalle varie sentenze della Corte di Strasburgo (Cestaro c. Italia5; Bartesaghi e altri c. Italia6; Cirino e Renne c. Italia) siano derivati obblighi negativi di astensione, da parte delle autorità statali, di porre in essere condotte qualificabili come tortura o come trattamenti inumani e degradanti, nonché obblighi positivi consistenti nell’adozione di idonei strumenti atti a proteggere ognuno da tali condotte poste in essere tanto da forze dell’ordine, quanto da privati cittadini7.

Tali vicende, unitamente ad altre successive che hanno comportato la condanna dell’Italia per l’inadempimento sia materiale che procedurale dell’art. 3 della CEDU, hanno impresso un’accelerazione ai lavori parlamentari per l’approvazione del reato di tortura.

3 E. La Rosa,”È giunto finalmente il momento dell’introduzione del reato di tortura? Luci e ombre di un provvedimento da troppo tempo atteso (col rischio di un’ennesima occasione mancata), 2017, 360 ss.

4 Cedu 26 ottobre 2017, Cirino e Renne c. Italia.

5 Cedu 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia.

6 Cedu 22 giugno 2017, Bartesaghi Gallo e altri c. Italia.

7 R. Galli, “Appendice di aggiornamento al nuovo corso di diritto penale”, Milano, 2018, 228 ss.

Infatti, l’assenza di una norma specifica che sanzionasse tali condotte comportava l’utilizzo dei reati di abuso d’ufficio, lesioni aggravate, percosse, violenza privata che, tuttavia, conducevano a condanne limitate e all’applicazione di pene particolarmente lievi. Era pertanto evidente un difetto strutturale del nostro ordinamento, inadeguato a reprimere il fenomeno della tortura, e la conseguente necessità che si munisse di strumenti idonei a sanzionare i responsabili di quelle condotte vietate dall’art. 3 CEDU.

Da qui l’avvio dei lavori parlamentari e la successiva introduzione nel codice penale dell’art. 613 bis con una formulazione che, tuttavia, presenta talune criticità.

Preliminarmente occorre affermare che ha destato non poche perplessità la sua collocazione sistematica, in quanto è stato inserito tra i delitti contro la libertà morale. Bene giuridico tutelato sarebbe, pertanto, la libertà dell’individuo di autodeterminarsi nella sua sfera psichica. Appare evidente, però, che la tortura non si estrinseca solo in atti che possano ledere la libertà morale dell’individuo. Anzi spesso vengono poste in essere delle violenze fisiche e, per tale ragione, sarebbe stato più opportuno collocare la norma tra i delitti contro l’incolumità individuale.

Al primo comma una apparente criticità deriverebbe dall’incipit “chiunque” che lascerebbe configurare il delitto di tortura come reato comune. Attraverso tale formulazione, il legislatore italiano si è discostato dalle versioni sovranazionali che lo qualificano, invece, come reato proprio del pubblico ufficiale al fine di sottolineare il disvalore sociale della condotta violenta posta in essere da tale soggetto nei confronti della vittima sottoposta per varie ragioni al suo potere. Obiettivo perseguito dalle varie convenzioni è, infatti, quello di reprimere la cd. tortura di Stato.

Tuttavia, individuare la persona offesa in colui che è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo cura o assistenza di qualcuno, fa desumere la sussistenza di un rapporto qualificato che impone al reo obblighi di tutela, e già questo sarebbe sufficiente a qualificarlo come reato proprio, nonostante la formulazione letterale.

È vero che, così facendo, il nostro legislatore ha reso punibili anche quelle condotte che vengono realizzate nei rapporti inter-privati, ma non ha perseguito in modo pieno lo scopo che si erano prefissate le varie convenzioni sovranazionali.

La repressione della cd. “tortura di Stato” è stata comunque presa in considerazione dal legislatore, ma al secondo comma, individuando la condotta del pubblico ufficiale perrelationem, cioè facendo riferimento ai fatti di cui al primo comma, delineando la natura della fattispecie in termini di circostanza aggravante.

Il problema che emerge da tale previsione è legato al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti. Pertanto il rischio che si corre è quello di non poter applicare la maggiore pena che è legata proprio al grave disvalore che assumono quei fatti, se

posti in essere da determinati soggetti, esponendo il nostro ordinamento ad eventuali ulteriori censure da parte della Corte Edu per inefficacia della sanzioni inflitte.

Per tale ragione sarebbe stato più opportuno che, il legislatore, avesse previsto due autonome fattispecie di reato, configurandole una come reato proprio del pubblico ufficiale, in ottemperanza a quanto previsto dalla CAT ed una come reato comune.

Quanto alle condotte sanzionate, il legislatore le tipicizza in modo dettagliato. Al primo comma la norma in questione fa espresso riferimento alle “violenze o minacce” ovvero all’agire con “crudeltà”. Conseguenza di tali comportamenti devono essere delle “acute sofferenze fisiche” o un “verificabile trauma psichico”. Pertanto viene configurato dal legislatore come un reato di evento a condotta vincolata: le condotte sono alternative, così come l’evento8.

In merito a tale comma le osservazioni che possono essere mosse riguardano tanto l’utilizzo della forma plurale per le violenze e minacce, quanto l’aver riferito l’appellativo “verificabile” solo al trauma psichico.

Il primo elemento lascerebbe pensare, infatti, che solo una pluralità di condotte possa integrare il reato in esame, lasciando quindi prive di pena quelle forme di tortura che possono essere realizzate anche con un solo atto.

Tuttavia, la sussistenza nella norma del riferimento “al trattamento inumano e degradante” per la dignità umana potrebbe lasciar configurare la tortura anche in presenza di un unico atto che sia posto in essere con crudeltà e che comporti tale conseguenza.

Quanto, invece, al secondo elemento, appare superfluo sia il suo inserimento, sia il suo riferirsi esclusivamente al trauma psichico, tenuto conto del fatto che tutti gli elementi in un processo devono essere provati9.

Non si deve trascurare, inoltre, la previsione del dolo generico quale elemento soggettivo della fattispecie. Attraverso tale scelta, il legislatore nazionale si è ulteriormente discostato dalla formulazione sovranazionale nella quale è previsto che le sofferenze debbano essere inflitte “intenzionalmente” e per una specifica finalità, quali l’ottenere confessioni, punire, discriminare o intimorire.

Tale scelta del legislatore, tuttavia, non comporta alcuna violazione degli obblighi internazionali di incriminazione, in quanto le finalità della condotta indicate dall’art.1 della CAT non appaiono tassative. Inoltre, la previsione del dolo generico, anzichè restringere l’ambito di applicazione della norma, lo amplia. È anche vero, però, che la

8 A. Costantini, “Il nuovo delitto di tortura (art. 613-bis c.p.), in Studium iuris, 2018.

9 C. Pezzimenti, “Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?”, in Diritto penale e processo, 2018.

previsione del dolo generico rende più semplice l’accertamento dell’elemento soggettivo, ma fa sì che il delitto di tortura finisca per sovrapporsi con altri reati quali quello di maltrattamenti, lesioni, percosse, minacce, fino ad assorbirli completamente10.

Infine, l’art. 613 bis, prevede due ulteriori circostanze aggravanti: al comma 4, se dal fatto derivino lesioni personali gravi o gravissime, nonché, al comma 5, due aggravanti ad effetto speciale che impongono la reclusione di anni trenta se dal fatto è derivata la morte di una persona, quale conseguenza non voluta; la pena dell’ergastolo se la morte è stata cagionata volontariamente. Quest’ultima aggravante appare, però, sostanzialmente inutile, posto che la condotta andrebbe già ad integrare l’omicidio volontario ex art. 575 c.p., eventualmente aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 4, c.p.11

Non bisogna trascurare, inoltre, la mancata previsione del raddoppio dei termini di prescrizione (contrariamente alle richieste sovranazionali) che era invece presente nel testo approvato dalla Camera. Elemento quest’ultimo non indifferente se si tiene conto del fatto che, a livello sovranazionale i delitti contro l’umanità sono imprescrittibili e che, proprio nella condanna per il caso Cestaro, era stata evidenziata l’inadeguatezza del sistema prescrizionale italiano a garantire tutela ai diritti fondamentali12.

Ulteriore elemento di criticità è rappresentato dal riferimento ai “trattamenti inumani e degradanti” per i quali manca una definizione normativa e per la configurabilità dei quali occorrerà fare riferimento, di volta in volta, alla giurisprudenza, non garantendo pertanto un’applicazione uniforme della fattispecie.

Un breve cenno va fatto, infine, al delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, previsto dall’art. 613 ter, e anch’esso introdotto con la legge 110/2017. È prevista la reclusione da sei mesi a tre anni per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che “nell’eserciziodellefunzioniodelservizio,istigain modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta o se l’istigazioneèaccolta,maildelittononècommesso”. Laddove l’istigazione sia accolta, e l’istigato commetta il fatto, entrambi risponderanno a titolo di concorso nel delitto di tortura13.

10 A. Costantini, in op. cit.

11 R.Galli, in op.cit., 232.

12 C. pezzimenti, in op. cit.

13 R.Galli, in op. cit.,233.

Alla luce di ciò, appare evidente che il recente intervento normativo ha posto rimedio solo formalmente all’inadempimento dello Stato italiano circa l’attuazione degli obblighi di criminalizzazione derivanti dalle varie convenzioni sovranazionali.

Il prevedere, infatti, quali soggetti passivi del reato “la persona privata della libertà personale” o “affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza” o che “si trovi in condizioni di minorata difesa”, comporta il rischio di non rendere applicabile la norma a quelle ipotesi in cui le vittime del reato si trovino in stato di libertà.

Pertanto, l’unico pregio che si può riconoscere alla norma è quello di aver dato attuazione a quell’obbligo di criminalizzazione previsto anche a livello costituzionale, nella speranza tuttavia che venga presto uniformato alle versioni sovranazionali, così da garantire tutela effettiva a tutti i soggetti vittime di tortura.