A cura di Fabio Mini
Premessa
Il nuovo governo ha in animo di riformare il sistema pensionistico. Non è il nuovo che avanza perché comunque ci hanno pensato anche tutti quelli che lo hanno preceduto. E se si sente il bisogno di cambiare ancora è evidente che nessuno in passato ci ha pensato a sufficienza. La cosa sembra ripetersi. Invece di un progetto strutturato, è stato intanto presentato un disegno di legge che riguarda solo il taglio delle pensioni cosiddette d’oro. Come se tutto il problema fosse lì. Alcuni giorni prima, il ministro Luigi Di Maio aveva pubblicamente dichiarato che il taglio era ostacolato sotto banco e nessuno aveva il coraggio di “uscire allo scoperto”. Di solito quando un cittadino non ha il coraggio di parlare significa che diffida del potere. E quando il potere chiede a qualcuno di uscire allo scoperto significa che lo vuole reprimere e spesso perfino sopprimere. Periodicamente, nell’ambito di regimi autoritari si fanno campagne che invitano ad uscire allo scoperto per consentire agli oppositori, ai dissidenti o soltanto ai critici di manifestare “liberamente” il proprio pensiero. Subito dopo, puntualmente, si verifica la mattanza. Sarebbe stato meglio che il ministro avesse usato un altro termine, ma francamente, di fronte al continuo bombardamento d’insulti, improperi, strafalcioni propagandistici e vere e proprie mistificazioni a cui ci ha abituato la comunicazione pubblica e privata, istituzionale e personale, la forma e il linguaggio sono ormai irrilevanti.
Le riflessioni che seguono non sono la perorazione della causa di una specifica categoria: vogliono rompere il silenzio che viene giustamente lamentato, ma, prendendo lo spunto dalle cosiddette pensioni d’oro, appare opportuno portare in superficie alcune delle molte incongruenze, inefficienze, inaffidabilità e iniquità che si nascondono nelle pieghe di un sistema previdenziale che nella sua configurazione generale è (o dovrebbe essere) esattamente il contrario. Non si tratta di una delle tante generiche esternazioni ma di una semplice analisi che comprende tutto il sistema pensionistico e tutti i pensionati. Non è un’analisi tecnica inoppugnabile. Qualsiasi esperto di previdenza troverebbe imprecisioni formali e qualche giurista potrebbe individuarne gli eventuali punti critici. Altri studiosi e analisti di guerra asimmetrica nella sua ampia accezione, potrebbero individuare nella proposta pensionistica le premesse di una vera e propria “guerra sociale”. Una guerra che con vari pretesti (le pensioni sono soltanto uno di essi) vuole dividere gli italiani violando innanzi tutto i valori costituzionali della pari dignità, dell’equità e della meritocrazia per poi arrivare all’ostracismo, alle forche e ai forconi. Nonostante i segnali di destabilizzazione interna siano inequivocabili, è stato deliberatamente evitato di affrontare l’argomento come se si volesse descrivere l’ennesima “Tecnica del colpo di stato”. Si è invece cercato di mantenere l’analisi sul piano del buon senso: materia sempre più rara e preziosa.
Pensioni d’oro?
L’espressione “Pensioni d’oro” non è nata come dispregiativo. È stata coniata nel 1972 quando il governo Andreotti – Malagodi dovette emanare i decreti attuativi della legge d’iniziativa parlamentare 24 maggio 1970 n.366 “Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed enti pubblici ex combattenti e assimilati“. In quell’occasione, per fare posto a nuove assunzioni, furono costretti al pensionamento anticipato decine di migliaia di dipendenti civili appartenenti a tutte le amministrazioni pubbliche: dalla finanza ai trasporti, alla pubblica istruzione, alla sanità, alla previdenza sociale, alla difesa, alla pubblica sicurezza, alla giustizia, ecc. La “costrizione” derivava dal fatto che l’incentivazione economica superava la remunerazione corrente dei dipendenti (che era da fame) e assicurava una pensione superiore a quella che avrebbero maturato rimanendo in servizio. In quell’occasione il calcolo sociale (nuovi posti di lavoro) sottovalutò il costo economico e il danno amministrativo.
L’esodo fu massiccio e provocò un “impoverimento brutale” nei ranghi della pubblica amministrazione. Competenze pluriennali se ne andarono e le pratiche inevase, soprattutto nell’amministrazione finanziaria e dell’assistenza sociale (centrale e periferica), aumentarono fino a provocare il collasso del sistema. Inoltre quelli che furono indotti ad andarsene erano ex-combattenti e assimilati. Gente che aveva fatto la guerra in un modo qualsiasi e che aveva ancora ideali di onestà e di servizio per lo Stato. Le nuove generazioni oltre ad essere digiune delle procedure e delle leggi erano cresciute nel periodo della contestazione proprio di tali ideali e della lotta armata contro lo Stato. L’impiego nella pubblica amministrazione era agli ultimi posti di gradimento tra i giovani. I mediocri erano attratti dal posto fisso e i bravi erano dirottati nel settore privato. Per coprire le vacanze con personale capace e affidabile furono necessari consistenti aumenti degli stipendi che riguardarono tutto il settore pubblico: civile e militare. I nuovi assunti ci misero anni a colmare il vuoto funzionale, ma la politica s’impadronì del sistema delle assunzioni pubbliche creando sacche di corruzione (raccomandazioni, “bustarelle” e quant’altro) per guadagnare il consenso dei vari bacini elettorali. Il provvedimento fu un disastro per le finanze dello Stato ma un successo per il calcolo clientelare della politica. Tanto che l’anno successivo (1973), il governo Rumor introdusse le “baby pensioni” con l’art. 42 del DPR 1092 “Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, che prevedeva eccezionali facilitazioni nel pensionamento: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli enti locali. Non a caso il provvedimento fu votato dalla maggioranza e dalla opposizione e fu applicato e rinnovato più volte, fino alla riforma Dini del 1995 che introdusse la pensione di anzianità, per oltre mezzo milione di dipendenti pubblici con un costo complessivo di 150 miliardi di euro (o su di lì).
La motivazione ufficiale del provvedimento era quella di ripristinare la fiducia nello Stato in un momento di massima intensità del terrorismo e della lotta contro lo Stato e, si disse, di compensare l’inflazione. Non si disse che il provvedimento aumentava a dismisura la spesa pubblica e quindi il debito pubblico; inoltre, prolungava i costi nel tempo di almeno 40 anni. Non si disse che tutti i partiti politici contavano sul consenso ottenibile con tali regali di Stato per continuare a vivacchiare e consolidare o ampliare i propri bacini elettorali. E infatti i “regali” continuarono deformando la legge del pensionamento anticipato fino a creare pensionati di 35 e perfino 25 anni di età. I beneficiari del provvedimento sono ancora molti, ma ormai la maggior parte di loro percepisce una pensione che è quasi un obolo. Inoltre, non si possono criminalizzare oggi per un provvedimento di quarant’anni fa che non hanno sollecitato e che era stato ideato e sfruttato dalla politica. E se, come si disse allora, e qualcuno dice ancora oggi, le baby pensioni hanno contribuito a sconfiggere il terrorismo (sic), bisognerebbe aumentarle invece di criticarle. I beneficiari delle “pensioni d’oro” sono invece morti quasi tutti. Paradossalmente, le loro pensioni sono state pagate con i contributi versati dai lavoratori, dai datori di lavoro e dallo Stato dal 1973 in avanti. Quindi, esattamente da coloro che oggi sono in pensione e vengono trattati come dei parassiti e ai quali si vogliono tagliare le pensioni. Da coloro che hanno versato i contributi onorando il “patto tra generazioni” e li hanno visti svanire nel buco nero della spesa previdenziale e nel buco ancora più nero della incapacità gestionale e della voracità politica. Ora che il patto deve essere rispettato nei loro confronti, vengono accampate tutte le scuse. I pensionati di oggi non sono i beneficiari delle pensioni d’oro, ma le vittime: doppiamente vittime, di ieri e di oggi. Le loro pensioni, oggi scompostamente attaccate, sono in realtà “pensioni al merito” perché guadagnate e meritate e non semplicemente percepite come graziosa elargizione del potere. Quindi, riesumare l’espressione “pensioni d’oro” per tagliare le loro pensioni è un pessimo strumento di propaganda ed è il primo di una serie di superficialità e mistificazioni.
Una questione di Dignità
Oggi si vuole stabilire un limite oltre il quale la pensione è tagliata completamente o ridotta drasticamente. La proposta di legge C1071, presentata in Commissione alla Camera dalla Lega e dal Movimento cinque stelle, inizia con una premessa che si concentra quasi interamente sui dubbi di costituzionalità che molti hanno già avanzato. Evidentemente la lingua batte dove il dente duole e il tentativo di confutazione è molto labile. Ma le note dolenti non sono soltanto quelle di legittimità costituzionale che comunque sussistono.
Secondo i promotori, il provvedimento vorrebbe favorire l’equità sociale, eliminare i privilegi, diminuire il deficit dell’Inps e reperire i fondi per finanziare il cosiddetto reddito di cittadinanza. Tutte sane intenzioni che però emanano lo stesso odore che emanavano i provvedimenti delle pensioni d’oro e baby: ieri si dava la pensione anticipata per soddisfare una clientela politica e acquisire consenso e voti; oggi, per l’identico scopo, si tagliano le pensioni regolarmente e legittimamente maturate. I disastri di ieri si ripeteranno domani. La Corte Costituzionale aveva già bocciato una proposta di tagli alle pensioni giudicandola un intervento impositivo «irragionevole e discriminatorio», realizzato ai danni di una sola categoria di cittadini, i pensionati, in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione. Il primo stabilisce che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Questo non significa che tutti debbano avere uguale stipendio o pensione. Anzi, si tutelano le differenze comprese quelle di “condizioni personali e sociali” che siano pessime oppure ottime. Oggi, invece, si continua a ledere la dignità di una fascia di cittadini accusandola di parassitismo, abusi e privilegi. Il secondo articolo (n.53) stabilisce che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Quindi, qualunque spesa pubblica, compresa quella assistenziale, deve essere finanziata da tutti i cittadini in misura progressiva rispetto al reddito. È difficile smontare tali capisaldi o aggirarli con trucchi da “gioco delle tre carte”. Nell’articolo pubblicato da questa rivista nel luglio scorso sulla “culla del diritto”, il Prof. T.L.Rizzo notava come la dignità dell’individuo fosse gravemente danneggiata dalla gogna mediatica che segue uno strumento di garanzia come l’avviso dello stato d’inquisito o che addirittura lo preceda. Se questo è valido per le ipotesi di reato penale, non si capisce perché debba essere lecito per uno “status” economico conseguito grazie al merito, alla professionalità e al rispetto delle leggi in vigore al momento del pensionamento. In particolare non si capisce perché tale gogna debba essere avviata e alimentata dagli stessi organi dello Stato, dal Governo e dai suoi ministri. In sostanza, la fascia di cittadini con pensioni medio-alte gode degli stessi diritti e tutele degli indagati, dei disperati e, come loro, non può essere oggetto né di trattamenti penalizzanti e discriminatori né di violazioni della dignità: questa è la democrazia, che, dove funziona, prevede anche la rivalsa collettiva tramite la “class action”.
Arbitrio e demagogia
I limiti tra pensioni d’oro e pensioni di latta (tanto per restare in ambito metallico), o meglio tra pensioni basse, medie, medio-alte, alte ed eccessive, non sono mai stati definiti. Di fatto non esistono perché qualunque limite è assolutamente arbitrario, tanto è vero che per quelle medio-alte si è parlato di un tetto di tremila, quattromila, cinquemila e perfino diecimila euro mensili netti alla mano. L’ennesimo disegno di legge di questi giorni teoricamente non pone un limite massimo alle pensioni, ma un limite di applicazione dei tagli a partire da una pensione lorda annua di 90.000 euro oppure, si dice, di 4500 euro netti al mese: intendendo dire che chi percepisce 4.501 euro è un ladro e chi ne percepisce 4.449 è un benefattore. Oppure suppone che oltre questo limite sia lecito applicare qualsiasi criterio di penalizzazione e quindi l’arbitrio. Il fatto è che non si è ancora individuato il parametro oggettivo che consenta di classificare bassa o alta una retribuzione o una pensione. Esiste, per adesso nelle chiacchiere, un limite massimo agli stipendi dei dirigenti pubblici, ma si parla di 240.000 euro lordi all’anno esclusi gli eventuali premi di “produzione”. E neppure questo salva la pubblica amministrazione dalla disincentivazione dei migliori e più capaci. La Corte Costituzionale ha ammesso che il legislatore può imporre dei limiti di retribuzione, ma quando ha esaminato le procedure di calcolo e applicazione le ha bocciate. Esistono le fasce di reddito utili al sistema fiscale, ma tendono esattamente al contrario di quello che vuol fare la soglia unica: con esse si prende atto di una diversa capacità contributiva e la si tassa di conseguenza. Ma non c’è nulla che possa individuare un limite fra lecito e illecito, congruo e incongruo, legittimo o illegittimo, legale o illegale nelle retribuzioni e nelle pensioni gestite dallo Stato o da altri enti in base a precise norme costituzionali e secondo un calcolo retributivo e contributivo previsto da leggi e regolamenti. Se il parametro, o il pretesto, è la disparità tra stipendi e pensioni medio-alti nei confronti di stipendi da fame o delle pensioni-elemosina, bisogna alzare i bassi livelli piuttosto che abbassare quelli medio-alti. Se i soldi non ci sono occorre prima di tutto verificare la liceità e opportunità degli stipendi d’oro a partire da quelli dei dipendenti dei massimi organi dello Stato giù fino agli enti locali e poi vagliare gli sprechi, i condoni, le corruzioni e i regali clientelari elargiti con i soldi dello Stato. Infine, e solo quando si è fatto ordine, si possono chiamare tutti i cittadini (e tutti i politici che non si sentono uguali di fronte alla legge) a contribuire al miglioramento sociale. Certo, questo comporta lavoro, conoscenza del sistema che si vuole modificare e una chiara visione del sistema sociale che si vuole ottenere. In mancanza di tali elementi diventa più facile fare propaganda e menare colpi alla cieca. Ed infatti, la soglia della legalità è stata superata più volte proprio dalle forze politiche che sembrano non voler agire nell’ambito dello Stato, ma contro lo Stato. Fortunatamente, i tentativi più populistici e maldestri del passato anche recente sono stati bloccati dagli Organi di controllo dello Stato e dagli stessi cittadini con gli strumenti previsti dalla Costituzione. Ma è sempre possibile che i tentativi di forzare la legge e piegarla all’interesse di parte possano trasformarsi in veri e propri abusi di potere con il pretesto della maggioranza parlamentare. Questi tentativi non sono una caratteristica della “democrazia”, come si vorrebbe far credere, ma della “demagogia”. La prima tutela le diversità, i meriti e le minoranze; la seconda è l’alibi e l’anticamera dei colpi di Stato o della dittatura della maggioranza. Questo intervento sulle pensioni è il secondo tentativo di apportare modifiche arbitrarie e illegali al quadro istituzionale nel giro di un anno. Il primo è fallito; questo secondo non commette l’errore di avocare alla maggioranza il diritto di modificare la Costituzione, ma agisce in maniera più subdola e pretende di aggirare la Costituzione facendo finta che delle modifiche sostanziali siano solo dei dettagli tecnici. Infatti, i proponenti dicono che le misure proposte (tagli delle pensioni e ricalcoli a ritroso applicando criteri diversi dagli originari, algoritmi astrusi, spostamento di risorse dal settore previdenziale a quello assistenziale, penalizzazione sociale ed economica di una ristretta minoranza di cittadini che lo Stato ha finora riconosciuto come meritevoli di un trattamento legittimo e congruo) “non costituiscono un contributo di natura tributaria, giacché non si tratta di somme prelevate e acquisite dallo Stato, né destinate alla fiscalità generale… scevri dai denunciati profili di incostituzionalità in quanto volti a realizzare un circuito di solidarietà interno al sistema previdenziale”. È la più patetica motivazione, addotta per giustificare un abuso, mai sentita. Ma evidentemente fa parte del cambiamento. La verità è che il sistema previdenziale pubblico è gestito dall’Inps per conto dello Stato e lo Stato attinge dalle entrate fiscali e patrimoniali pubbliche per alimentare l’Inps, a suon di miliardi.
La legge del taglione
L’applicazione di un limite unico per pensioni derivanti da rapporti di lavoro diversi, qualunque esso sia, configura comunque una legge del “taglione” (lex talionis o legge del contrappasso che prevede una pena uguale al danno arrecato). Il taglione è sbrigativo, ma non è mai equo ed in questo caso è ingiustamente punitivo. Si prevede, infatti, di applicare una pena pecuniaria ad una fascia di cittadini che non hanno arrecato alcun danno pecuniario allo Stato ma hanno lavorato nel settore pubblico e privato meritando riconoscimenti retributivi previsti dalle leggi dello Stato stesso. Inoltre, tale ingiustizia non produce significativi risparmi e, piuttosto che un’intenzione di solidarietà, esprime un’intenzione punitiva e predispone il ritorno alla faida sociale allargando una frattura di classe che già esiste allo stato latente ma che il provvedimento può rendere più virulenta e pericolosa per tutta la società.
È vero che tra i dirigenti e i lavoratori di ogni livello ci sono parassiti e corrotti. Per questi sono previste sanzioni che, se non sono applicate (come spesso accade), provocano un vulnus grave a tutta la società. Tuttavia, il sistema generale del rapporto di lavoro e quindi pensionistico deve essere calibrato sugli onesti e i capaci secondo il criterio meritocratico e comparativo (che non vuol dire il criterio del “compare”). In Italia, non esiste una pensione uguale all’altra nemmeno nella stessa categoria. Anche la minima variazione rispecchia una differenza nella vita lavorativa che conta: un diverso carico familiare, un impiego in zone diverse, un rischio diverso, responsabilità diverse. Tagliare le pensioni ad una soglia qualsiasi significa appiattire verso il basso, ignorare le differenze e quindi annullare la meritocrazia. Tagliare la pensione lorda significa poi considerare emolumenti legittimi come se non fossero più pensionabili e reversibili. Questo, oltre ad essere un abuso anche per la retroattività, comporta una disparità con lo stesso emolumento percepito da chi non è in quiescenza. E se prevale la logica punitiva nei confronti delle alte retribuzioni s’innesca una spirale di appiattimento del reddito che disincentiva la dirigenza e mortifica il lavoro. Significa vilipendere la rilevanza costituzionale del Lavoro: significa “odiare” il lavoro. Non è un caso che la Lega, il cui zoccolo duro è concentrato nel mondo dell’imprenditoria e del lavoro, non sia mai stata entusiasta del provvedimento. Non è un caso che abbia sottoscritto il progetto in cambio del sostegno alla propria proposta di flat tax (che agevola i redditi più alti), che abbia pensato di punire i dirigenti statali al soldo della Roma “ladrona” e che abbia voluto sottrarre elettori al Movimento 5 stelle. Non è un caso che i più accaniti sostenitori dei tagli degli stipendi e delle pensioni non abbiano lavoro e non abbiano mai lavorato. Se non è una scelta o una colpa loro, piuttosto che cavalcare l’onda dell’odio di classe, bisognerebbe inserirli nel mondo del lavoro fornendo prospettive di vera serenità e sicurezza sociale. Sempre che lo vogliano, perché molti, di fronte alla mancanza di prospettive di lavoro adeguato alle aspirazioni e alle presunzioni, aggirano completamente il problema dandosi alle attività illecite, alla criminalità, al parassitismo e… alla politica. La compressione verso il basso è un’operazione che potrebbe essere paragonata all’esperimento maoista della “ciotola di ferro” e dell’uguaglianza nella povertà. Ma non ha funzionato in Cina o in Russia e sarebbe veramente anacronistico e sciocco provare a farlo funzionare qui, oggi. Il disastro economico e amministrativo seguito ai provvedimenti populistici e clientelari degli anni ’70 non ha salvato la classe politica e anzi ne ha accelerato l’estinzione.
Equità: chi è costei?
La proposta di legge intende “apportare al settore pensionistico un correttivo improntato a ragioni solidaristiche e di equità sociale”. Sono pretesti. L’arbitrarietà della soglia complica -fino ad impedirle- l’individuazione e la giustificazione legale del criterio di calcolo. Inoltre, se il parametro da adottare è quello dei contributi versati all’Inps, significa che le pensioni erogate da altri enti o istituti privati non saranno toccate. È una scelta politica, ma l’equità è già compromessa e non riguarda solo le pensioni medio-alte, riguarda tutti e i più danneggiati dalla mancanza di equità sono proprio coloro che percepiscono basse pensioni. Non c’è equità nel dare una pensione- elemosina a coloro che hanno lavorato per una vita in campagna, nell’artigianato, nelle piccole imprese, nelle famiglie di privati, come schiavi, e dare la stessa pensione, e magari di più, a chi non ha mai lavorato ma soltanto perché vota. In Italia ci sono fasce di cittadini che sono state completamente abbandonate perché hanno pensato a lavorare senza chiedere niente o reclamare. Hanno vissuto di mancate promesse che a volte non erano necessarie perché comunque avrebbero votato per un’idea, una convinzione, una fede. Ci sono quelli che hanno lavorato convinti di aver diritto ad una pensione decente per i contributi versati e si sono trovati con nulla o pochissimo perché i contributi in realtà non erano mai stati versati o erano stati versati per meno della metà del reale lavoro o servizio prestato. Ci sono contributi e diritti dei lavoratori svaniti con i dissesti di vari enti previdenziali e ci sono contributi fantasma: versati e mai arrivati all’ente di previdenza. Abbiamo abbandonato i nostri emigrati quando subivano angherie e discriminazione, ma ce ne siamo ricordati quando si è capito che si poteva farli votare. Dell’Italia non sapevano niente e molti erano convinti che ci fosse ancora il fascismo (e forse non a torto visto che a far loro visita ci pensavano solo quelli della destra nostalgica). E comunque abbiamo svaccato anche lì. Oggi, fra l’inerzia e l’indifferenza degli organi di controllo, percepiscono la pensione sociale italiana migliaia di emigrati che non fanno la fame ma hanno fatto fortuna e anche se non vengono mai in Italia hanno trovato qualcuno che con false attestazioni in cambio di voti gliel’ha assicurata.
Il con-tributo: quota o super tassa?
L’insistenza che i promotori dei tagli dimostrano nei riguardi del sistema contributivo vuole far credere, e i più agitati lo urlano tutti i giorni, che le pensioni calcolate col precedente metodo retributivo o quello misto di transizione fossero dei privilegi e degli abusi. Inoltre, il parametro della contribuzione viene isolato dal contesto del sistema previdenziale cercando di far credere che le pensioni possano essere modificate a piacimento in relazione alle disponibilità di cassa dell’Inps. Si fa anche credere che il sistema contributivo significhi pagare una pensione restituendo soltanto l’ammontare dei contributi versati (detratte le spese) opportunamente trasformato in una rendita mensile a termine. Non è affatto così. Questo non è il sistema previdenziale pubblico, ma è il sistema delle pensioni integrative volontarie offerte da varie compagnie di assicurazione, istituti bancari, e altri enti (anche pubblici) o altri soggetti privati (finanche gli strozzini camuffati da agenzie di prestito). In questi casi chi aderisce non versa un “contributo”, cioè una quota che si unisce ad altri versamenti, ma una parte di reddito personale accantonato e gestito più o meno bene ma sempre nell’ottica del profitto di chi gestisce. Non è l’unico “abbaglio” preso dai politici ad uso e consumo dei sostenitori dei tagli e dagli estensori della proposta di legge. I primi parlano di ricalcolo delle pensioni mediante il ricalcolo dei contributi, ma poi nelle tabelle allegate alla proposta il criterio è un altro. La pensione sarebbe ricalcolata sulla base del “quoziente tra coefficiente di trasformazione all’età in cui si è andati in pensione e coefficiente di trasformazione all’età alla quale si sarebbe dovuti andare”. O parlano a vanvera i primi o scrivono a vanvera gli estensori del testo. In ogni caso, se il ricalcolo dei contributi a ritroso è arbitrario nella concezione e onirico nella pratica, il meccanismo proposto è ancora più opinabile e arbitrario. È evidente che si tratta di un artifizio tecnico escogitato per giustificare il provvedimento e per “prendere tempo”, fino a quando non sarà smontato dai ricorsi, e “prendere in giro” la platea più ingenua degli imbonitori che per un po’ penserà che sia stata fatta giustizia, e quella dei più astiosi che penseranno di aver avuto la loro “vendetta”.
Nel sistema italiano di previdenza pubblica, i contributi non sono accantonamenti di capitale per conto dei dipendenti: è un semplice flusso di cassa in entrata che deve coprire il flusso in uscita (pensioni e prestazioni). In sostanza, i contributi di oggi, compresi quelli silenti versati da chi non prenderà mai una pensione, servono a pagare le pensioni di oggi e se non sono sufficienti lo Stato si accolla gli oneri. La forma contrattuale più vicina al sistema previdenziale è il contratto di assicurazione di responsabilità civile, infortuni o la polizza sulla vita. Il premio di tali contratti assicurativi è calcolato sulla base del rischio e il danno da risarcire varia a seconda della condizione personale, economica e sociale dell’assicurato. Nella previdenza pubblica o privata i “rischi” per i quali si sottoscrive l’assicurazione obbligatoria, sono gli incidenti, le infermità invalidanti, la sospensione dal lavoro e… la vecchiaia. Come in ogni polizza assicurativa, il lavoratore dipendente ha l’obbligo di versare il “premio” (i contributi) e l’assicuratore (Inps per conto dello Stato) quello di risarcire il “danno” rispettando le franchigie concordate e i massimali garantiti. Nessuno si sognerebbe di sottoscrivere un’assicurazione di responsabilità civile o sugli infortuni che garantisse un risarcimento soltanto in relazione percentuale al premio versato. In genere basta un incidente anche lieve per ottenere un rimborso che supera di molto i premi già versati e anche quelli da versare. La compagnia di assicurazioni per pareggiare i conti e per trarre profitti (anche enormi) conta sugli assicurati che non fanno incidenti o non hanno infortuni o muoiono per cause naturali. Quelle più serie, che assicurano da rischi elevati, come i disastri naturali o le assicurazioni sui trasporti aerei e marittimi, contano anche sulle riassicurazioni, vale a dire sulla ripartizione del rischio con altre compagnie specializzate nel settore. Nel caso dell’Inps (assicuratore) i flussi in entrata (contributi) ed uscita (prestazioni e pensioni) dovrebbero equilibrarsi. Se questo non accade, le deficienze di cassa sono coperte dalla “compagnia di Riassicurazione”: lo Stato, che nel frattempo ha già succhiato dalle pensioni lorde la sua quota di tasse.
La contribuzione, oltre ad essere una quota di reddito dei dipendenti e dei datori di lavoro destinata al pagamento delle pensioni (e altre prestazioni previdenziali) è, come dice la parola, un tributo: un’imposta complementare riscossa dall’Inps su delega statale. Mediamente il contributo del lavoratore è di circa il 10% della retribuzione e quello del datore di lavoro del 25%. Tali quote devono essere versate all’Inps dallo stesso datore di lavoro. Nel caso dei dipendenti pubblici, lo Stato, in quanto datore di lavoro, tassa se stesso. L’Inps si finanzia al 70% con i contributi relativi ai contratti obbligatori e al 30% per l’assistenza a chi non versa contributi con risorse dello Stato tratte dalla fiscalità generale. Il pretesto di fare cassa per finanziare il reddito di cittadinanza o altra iniziativa non può valere per il taglio delle pensioni. Il sistema dell’assicurazione obbligatoria e dei contributi con cui si finanzia l’Inps per il cosiddetto patto fra generazioni non consente di sottrarre fondi alla Previdenza per destinarli all’Assistenza a cui deve provvedere la fiscalità generale e non l’Inps. È invece lecito, e oggi necessario, il contrario: che dalla fiscalità generale siano tratti i fondi per coprire l’insufficienza di disponibilità per le pensioni. Di fatto, l’Inps, che in teoria non ha profitti, non ha neppure un deficit: lo Stato attraverso le altre entrate fiscali (e patrimoniali, se esistono) deve consentire all’Istituto di rispettare l’obbligo contrattuale delle assicurazioni sociali. Se ciò non avvenisse, ogni taglio alle pensioni sarebbe una ulteriore tassa che colpisce soltanto una parte dei cittadini e che si aggiungerebbe a quella che i pensionati hanno già pagato con i contributi e a quella che pagano sul lordo delle pensioni (40-50%). Si sommerebbe ai prelievi forzosi “una tantum” e ai cosiddetti contributi di solidarietà che, invece di gravare sul bilancio pubblico, vengono direttamente prelevati dalle tasche dei dipendenti e dei pensionati. La solidarietà è una bella parola che implica la volontarietà e la condivisione degli scopi e delle finalità. Il prelievo o la decurtazione obbligatoria non è solidarietà ma una tassa. E in Italia la condivisione è sempre difficile perché non si sa mai dove finiscono i soldi della cosiddetta solidarietà. In ogni caso, i contributi versati dal datore di lavoro, dal singolo dipendente o dal lavoratore autonomo o dai professionisti costretti ad aprire una gestione separata sono stati determinati dalle leggi e dai regolamenti in base a criteri che non si possono modificare in forma retroattiva nemmeno se oggi qualcuno li ritiene sbagliati.
Non si tratta né di abusi né di trucchi ma di procedure intrinseche del sistema. Si possono modificare, ma pensando alla stabilità nel futuro piuttosto che allo scasso permanente ottenuto andando dietro alla propaganda giornaliera. Una buona modifica dovrebbe anche tendere ad eliminare il “cinismo previdenziale” che assieme a quello “sanitario” alimenta la discriminazione sociale. Entrambi realizzano un sistema di vasi comunicanti eticamente e giuridicamente discutibile. La Sanità, pubblica e privata, tende ad allungare l’aspettativa di vita, ma soprattutto tende a mantenere elevata l’idoneità al lavoro (anche a prescindere dalla qualità della vita “allungata”). Nei casi di malattie croniche o con bassa probabilità di guarigione e nei casi di prevenzione dei “rischi”, la Sanità provvede ad aumentare la dipendenza dalla diagnostica, dai farmaci e dai trattamenti specialistici; fino ad un certo livello: i trattamenti particolarmente costosi, ancorchè previsti, sono praticamente esclusi per le interminabili liste di attesa. Chi può pagare si cura e chi non può aspetta. Sono circa 11 milioni i cittadini italiani che non si curano più. Oltre una certa età (anche questa variabile in base al reddito, ma comunque oltre quella della pensione) certi trattamenti specialistici sono ridotti, ostacolati dalla burocrazia o addirittura interrotti. Si preferisce passare ai palliativi. Da parte sua, la Previdenza, pubblica e privata, che non riesce a compensare i flussi finanziari di entrata ed uscita deve contare molto sull’accorciamento del periodo di fruibilità della pensione. Perciò favorisce ogni iniziativa di innalzamento dell’età di pensionamento. Vuole che gli anziani rimangano a lavorare il più a lungo possibile, in modo che versino ancora contributi e non passino a carico della Previdenza. E gli anziani che non hanno una prospettiva di un futuro evolutivo e sereno non lasciano il lavoro, se lo tengono stretto magari sostenuti dalle bombolette di ossigeno, dagli stomi, dai farmaci “salvavita”, dalle stampelle, ecc., bloccando l’avvicendamento generazionale e rischiando anche di non arrivare alla pensione o di morire subito dopo. È stato lo stesso ministro dell’Economia Padoan a dichiarare che “i pensionati vivono troppo a lungo”. Ma anche questo cinismo freudiano è ormai fuori luogo. Nel 2015 si è registrato un aumento abnorme dei decessi di pensionati; fenomeno che si è ripetuto nel 2017. Segno che non si tratta di una casualità contingente, ma di una tendenza demografica alla quale concorrono Lavoro, Sicurezza, Ambiente, Sanità e Previdenza.
Stabilizzare il sistema
Prima di tagliare le pensioni per conseguire fini politici prettamente elettorali e clientelari occorre stabilizzare il sistema, razionalizzare la contribuzione e controllare l’erogazione delle prestazioni. Il sistema pensionistico deve essere ponderatamente adeguato proprio per gli effetti socio-economici che comporta nel lungo termine.
Per quanto riguarda i controlli, all’Inps, coadiuvato da altri organi e da quelli di pubblica sicurezza, compete l’attività ispettiva che deve vigilare sulla corretta applicazione delle prestazioni previdenziali. Una bella “ripulita” all’interno del sistema previdenziale e assistenziale centrale e periferico porterebbe vantaggi e risparmi notevoli.
Ad esempio, nel quadro della Previdenza, che riguarda tutte le forme di assicurazione sociale per la quale si versano i contributi, oltre alla pensione di vecchiaia, l’Inps eroga le pensioni di reversibilità per le quali è possibile una riduzione graduale e congrua che però le procedure in vigore rendono di difficile attuazione. Anzi, si aggiungono sempre altri potenziali beneficiari. Una delle più recenti novità è l’adozione dei Criteri di valutazione per la ripartizione delle quote di reversibilità fra vedova ed ex moglie (divorziata) a prescindere dalle ragioni e responsabilità del divorzio (Corte di Cassazione, sentenza 2 dicembre 2013 – 14 marzo 2014, n. 6019). C’è poi la pensione, o meglio l’assegno, d’invalidità che continua ad alimentare gli scandali dei falsi invalidi con relative responsabilità dei sanitari, degli ispettori e dei faccendieri che per conto dei politici esercitano “premure” per la concessione. Altre erogazioni riguardano l’indennità di disoccupazione, che in molti casi serve a mantenere chi non vuole lavorare oppure preferisce lavorare al nero, l’indennità di malattia che spesso premia l’assenteista, la cassa integrazione, che non è più l’anticamera del licenziamento o l’ammortizzatore sociale per i lavoratori ma un ammortizzatore sociale a favore degli imprenditori che se ne fregano dei dipendenti; ci sono gli interventi per le cure balneo-termali, per la mobilità, per la disoccupazione agricola ecc.ecc.
Nel quadro dell’Assistenza ci sono le pensioni non derivanti dall’assicurazione obbligatoria (invalidità civile, integrazione delle pensioni al trattamento minimo, assegno sociale) che vengono coperte da finanziamenti diretti dallo Stato all’Inps. La pulizia non è facile e politicamente rende meno di una bella campagna che colpisca chi ha i conti e le carte in regola e trasparenti: una campagna a beneficio degli evasori, degli spreconi di tutte le branche dell’amministrazione pubblica, degli intrallazzatori e procacciatori d’impegni capestro assunti, in maniera poco trasparente se non proprio truffaldina, con società nazionali e internazionali.
Oggi, i destinatari del provvedimento proposto sono gli ex dirigenti e quadri direttivi pubblici e privati che hanno avuto un rapporto assicurativo obbligatorio con la Previdenza sociale (Inps), che ormai comprende il 95% dei lavoratori. Secondo l’ultimo rapporto annuale della società di ricerca “Itinerari Previdenziali”, i pensionati della fascia di pensione lorda superiore a 85.000 euro l’anno, sono circa 158 mila inclusi negli oltre 16 milioni di pensionati. È la fascia che finora è stata insultata e che adesso si vuole anche punire. I componenti assorbono una spesa di 13,43 miliardi annui, che si riduce a 7 miliardi, una volta detratte le tasse, nel quadro di una spesa previdenziale e assistenziale di 340 miliardi di cui 321,50 miliardi per prestazioni istituzionali (Previdenza e Assistenza). Ma i pensionati che superano i 4.500,00 euro mensili netti (il limite del provvedimento) sono appena una decina di migliaia e costano allo Stato 1,8 miliardi di euro annui lordi. Detratte le tasse (47%) costano in realtà 954 milioni. Per questo, non bisogna farsi illusioni sui risparmi che si possono ottenere tagliando le loro rendite.
In materia di tassazione, i pensionati sono i più “tartassati”, ma anche qui, in maniera diversa. Dal rapporto di “Itinerari previdenziali” emerge che un terzo delle tasse viene pagato dai pensionati del pubblico impiego, che però rappresentano solamente il 17% del totale dei pensionati italiani. Infatti, gli ex dipendenti privati – che rappresentano l’83% dei pensionati – pagano solamente i due terzi (circa il 66,6%) delle tasse. “In sostanza” – si legge nel rapporto – “l’intero onere fiscale sulle pensioni grava sul 20% dei pensionati, specialmente su quei 1,4 milioni che percepiscono un trattamento previdenziale superiore ai 3mila euro lordi mensili”.
La gestione Inps in rosso più importante riguarda le “prestazioni” (quindi non solo le pensioni) erogate ai dipendenti pubblici (-10,5 mld); ma sono in rosso anche le gestioni relative ai lavoratori autonomi (-2,4 mld), coltivatori diretti (-3 mld), artigiani (- 5 mld), commercianti (-678 milioni) e altri (quasi 1 miliardo). Nel 2018 le entrate più consistenti dell’Inps sono i 227,342 miliardi dei contributi. Altre entrate minori assommano a 4 mld. per una entrata totale di circa 231 mld. La sola spesa per le prestazioni previdenziali assomma a 267,444 miliardi superiore di 40 mld rispetto ai contributi. Con la spesa assistenziale (pensioni sociali e altre prestazioni per le quali nessuno ha versato contributi) che ammonta a 54 miliardi, la spesa sale a 321,5 mld e con altre spese, come i cosiddetti trasferimenti passivi, che assommano a 23 miliardi, la spesa globale arriva a 344,5 miliardi. Come è intuibile, da tempo ormai, lo Stato, fa funzionare il sistema di previdenza e assistenza sociale integrando le entrate dell’Inps con opportuni “trasferimenti” dalle Entrate fiscali e generali. Nel 2017 lo Stato aveva integrato con 107 miliardi, quest’anno ha integrato con un trasferimento di 108,379 miliardi portando le “entrate”, si fa per dire, a 339, 757 miliardi. Nonostante questo incremento, il disavanzo è ancora di 5,411 miliardi. Questi trasferimenti non sono semplici movimenti contabili apparentemente artificiosi e non sono neppure dei regali che lo Stato fa all’Inps, penalizzando il bilancio pubblico. In realtà, i trasferimenti coprono degli obblighi assunti dallo Stato. In particolare, l’ultimo trasferimento avvenuto tramite la Gestione Interventi Assistenziali (Gias) costituita presso l’Inps, ha coperto quello che lo Stato doveva coprire per l’Assistenza (54 mld) e quello che doveva coprire (40 mld) per i contributi insufficienti. Ha invece coperto solo una parte (14 mld) dei crediti che l’Inps vanta nei confronti di molte amministrazioni pubbliche per contributi non versati.
I privilegi: dove sono quelli veri
L’applicazione del taglione sulle pensioni viene giustificata anche con l’evocazione di presunti “privilegi”. Anche questa parola è usata in modo improprio: il privilegio è un onore speciale. La pensione privilegiata è un onore speciale a riconoscimento di una malattia o una menomazione subita durante il lavoro/servizio e per causa di esso. Non è nemmeno un risarcimento perché questo viene accordato con l’equo indennizzo. Sono anche inappropriati gli altri significati comuni di “Vantaggio che consente di sottrarsi a determinati obblighi”, oppure “diritto di prelazione” o “trattamento preferenziale”. Questo nobilissimo termine viene invece usato in senso spregiativo per individuare determinati emolumenti che arbitrariamente si considerano non meritati o addirittura derivanti da abusi di potere o da intrallazzi. È un altro segno della natura astiosa del provvedimento.
A parte alcuni casi particolari, in generale la pensione lorda o netta di per sé non configura alcun privilegio: è un calcolo ragionieristico di retribuzioni stabilite in base alle leggi vigenti. Niente di speciale, nessun esonero da obblighi o trattamenti preferenziali. Per trovare quel tipo di privilegi si deve risalire a monte della pensione riscossa e perfino a monte della pensione lorda. Occorre vedere quali retribuzioni sono state considerate pensionabili e reversibili, capire perché il legislatore o l’amministratore pubblico le ha ritenute tali e indagare sulla liceità e opportunità del privilegio.
Se il dipendente pubblico o privato ha prestato servizio/lavoro nell’ambito della propria amministrazione/impresa partendo dalla gavetta, seguendo un percorso di carriera regolare, superando tutte le selezioni fino ai livelli dirigenziali o quelli di vertice gerarchico e funzionale, assumendo via via maggiori rischi e/o responsabilità, e raggiunge i limiti di età previsti dalla legge per il suo ruolo, la pensione lorda comunque sia calcolata e qualunque ne sia l’ammontare non è un privilegio: è un diritto sacrosanto per chi la deve ricevere ed un obbligo cogente per chi la deve erogare.
Se invece il percorso d’impiego parte già da una posizione di privilegio (vds fra i molti altri, gli stipendi dei dipendenti parlamentari); oppure viene costellato di incarichi ad personam, promozioni ingiustificate e arbitrarie, con remunerazioni esorbitanti il livello di responsabilità richiesto e le stesse conoscenze, competenze e capacità dell’individuo; oppure se un qualsiasi consulente viene paracadutato nell’amministrazione statale o di altra società privata e per pura nomina politica percepisce uno stipendio da favola; oppure se un dirigente pubblico svolge altre attività ben remunerate ma poco trasparenti; oppure se un dipendente viene distaccato ad un’altra amministrazione al seguito o per intervento di un politico percependo stipendi, bonus, gettoni e indennità suppletive palesi e occulte; oppure se un dirigente privato viene assunto dalla pubblica amministrazione ottenendo una lauta remunerazione ed ancor più lauta buonuscita (a prescindere dai risultati conseguiti); oppure se un dirigente della pubblica amministrazione assume un incarico più elevato e meglio remunerato per pura cooptazione politica; oppure se un dirigente viene assegnato ad una posizione subordinata che però prevede lo stesso trattamento economico di quella superiore; oppure se un dirigente in quiescenza viene destinato per nomina politica ad un incarico politico o imprenditoriale, che sempre configura un’affiliazione, uno scambio di favori (passati o futuri) ed una compromissione; oppure se un dirigente viene allontanato con ignominia o pubblicamente tacciato di fellonia, slealtà o incapacità; ecc. ecc. Ebbene, in tutti questi casi, e ce ne sono tanti altri, occorre valutare per ogni singolo individuo, se tutto ciò che eccede la normale retribuzione prevista per il suo livello ed i suoi doveri istituzionali è giustificato, lecito, necessario e meritato (valutazione delle competenze, del comportamento e del rendimento) e non sia soltanto un premio e privilegio dato alla “poltrona”. Se le eccedenze risultano legittime e meritate, occorre valutare se sia stato lecito ed opportuno inserirle nel calcolo della pensionabilità e reversibilità prolungando nel tempo ed estendo ad altri beneficiari il privilegio goduto per un periodo limitato e senza oneri o meriti particolari.
La valutazione dei risultati dell’accertamento spetta alla politica, ma prevede un esame da certosini di una serie quasi infinita di casi diversi. Ci vuole applicazione tecnica, conoscenza delle norme e capacità di scoprire nel lecito formale l’illecito sostanziale. In molti casi ci sono abusi legalizzati e privilegi previsti a prescindere dal merito. L’esame deve essere quindi ponderato e coraggioso nel resistere alle pretese corporative, alle pressioni politiche e alle interferenze lobbistiche. È l’unico modo per ottenere un minimo di equità. È un metodo lungo e poco remunerativo dal punto di vista politico perché rischia di scoprire molti altarini eretti dal clientelismo. Rischia d’individuare sacche consistenti di privilegi nelle remunerazioni attuali. Per questo, nessuno finora lo ha mai adottato e per questo la remunerazione del lavoro è una giungla infarcita di elemosine elettorali. Anche la presente amministrazione di fatto cerca di eludere il problema e nonostante affermi di voler eliminare i presunti privilegi delle pensioni non si occupa dei veri privilegi che hanno dato e danno luogo a pensioni oggettivamente esagerate in quanto immeritate. È vero però che c’è di peggio e non riguarda i pensionati. Quanto percepito tra assegni fissi, diarie, portaborse e rimborsi durante due anni o quattro anni di mandato parlamentare non può formare la base per nessun tipo di vitalizio. Eppure esistono e vegetano. Così come esistono l’esenzione dagli obblighi elementari di sottostare alla magistratura ordinaria per reati comuni, l’immunità, l’impunità, la facoltà di sovvertire l’ordine democratico, di promuovere l’eversione, di commettere reati internazionali, di usare a scopo privato e personale strumenti, denaro, veicoli e velivoli di Stato ecc. E, a prescindere che siano privilegi o abusi, sono nefandezze.
Elogio del pensionato
Tutti i pensionati onesti (e sono la stragrande maggioranza), anche quelli con pensioni simboliche, contribuiscono in maniera determinante al benessere sociale e all’economia. Non sono parassiti o un peso per la società, ma una risorsa. Un tempo erano sostenuti dalla famiglia più che dallo Stato. Oggi sostengono la famiglia e tutta la società. Si accollano impegni che le famiglie, sempre più allargate e frazionate, non riescono a fronteggiare. Oltre ad essere inadempiente, lo Stato è sempre ingrato. I pensionati, se non altro per questioni anagrafiche e culturali, sono grati anche del poco purché non sia un’elemosina offensiva o una elargizione che comporta un’esazione politica. Pagano i debiti anche dei figli e nipoti, pagano puntualmente fino a che possono e se riescono a risparmiare qualcosa lo investono in ciò che ritengono vada anche a beneficio dello Stato e della società. Se sono preda di delinquenti e truffatori è perché lo Stato non li tutela, approfitta della loro gratitudine e preferisce sperperare il denaro pubblico in elargizioni clientelari.
Oggi non si considerano a sufficienza i lati positivi dell’impatto socio-economico di tutti i pensionati, ma non si considera neppure un lato negativo importante: la crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dello Stato alimentata sia dal populismo e l’eversione sia dalla cattiva gestione della cosa pubblica sia dalla pessima gestione dei servizi essenziali come lavoro, previdenza, sanità, istruzione, giustizia e sicurezza. In particolare, non si considerano, e anzi si banalizzano e criminalizzano, i contributi positivi dati a tutta la comunità dai titolari di pensioni medio-alte. D’Annunzio diceva “Beati coloro che più hanno, perché più potranno dare e più potranno ardere”. Lo diceva a proposito dei valori morali e degli ideali, ma il concetto è stato ripreso dal sistema fiscale che più prosaicamente tassa in relazione alla capacità contributiva. Chi più ha più paga. Naturalmente tutto ha un limite e la pressione fiscale esagerata favorisce l’evasione, la fuga di capitali e la disaffezione. Già esistono pensionati pubblici e privati che, frustrati dall’esoso salasso fiscale, trasferiscono la residenza all’estero, dalla Tunisia all’Australia, dove possono percepire per intero la pensione lorda e/o pagare tasse simboliche. Ma anche per coloro che non se la sentono di emigrare a settant’anni, la frustrazione e la disaffezione nei confronti dello Stato sono destinate a crescere, specie di fronte ad un provvedimento classista e ingiustamente punitivo. Le conseguenze della loro disaffezione possono essere molto gravi, sul piano morale e su quello materiale.
In Italia, le pensioni medio-alte incrementano la fascia di cittadini equiparabile a quella di reddito medio dei paesi più avanzati. In effetti è questa fascia che costituisce il traino delle aspirazioni legittime di ogni cittadino e che pone l’Italia tra i paesi “ricchi ed evoluti”. È la fascia che lo Stato dovrebbe ampliare invece di mortificarla e restringerla. Il sogno politico di un buon governo dovrebbe essere quello di realizzare le condizioni perché tutti i cittadini possano essere inclusi in questa fascia o che possano aspirare all’inclusione. È la fascia che può spendere, risparmiare, investire, pagare tasse elevate, pagare canoni fissi per due o più utenze di luce, gas, acqua, telefono e spazzatura come se avesse il dono dell’ubiquità. Comprende i cittadini che possono pagare ticket per la sanità pubblica, alimentare la sanità a pagamento, permettere ai propri familiari o a loro stessi di trascorrere gli ultimi anni di vita in case di riposo decenti, pagare il personale di assistenza o servizio e quindi pagare i loro contributi, aiutare parenti, figli e nipoti nelle difficoltà da cui non sono esenti, garantire l’istruzione migliore possibile a figli e nipoti, fare donazioni, sostenere associazioni benefiche e così via. I pensionati medio-alti, contrariamente agli altri appartenenti alla stessa fascia che lavorano o vivono di rendita, sono più accorti e parsimoniosi, sono meno attratti dal superfluo, dall’avventurismo e dal rischio. Fanno volontariato (finché possono), grazie alle esperienze dirigenziali hanno esperienze e memorie che possono travasare nel mondo culturale e del lavoro con meno vincoli e più ponderatezza. E comunque si dedicano a studi e ricerche, leggono e scrivono di più, partecipano e mantengono attive le iniziative culturali, vanno a teatro, visitano i musei, fanno viaggi organizzati, rompono le scatole ai cantieri, ma vigilano su tutti i servizi pubblici e sono pronti a reclamare, con cognizione di causa e senza eccessi, per ogni stortura che vedono o sopruso che subiscono.
In Italia solo chi vive d’invidia e odio si lamenta delle pensioni alte. La gente perbene giustamente si lamenta e non accetta gli abusi, le retribuzioni non meritate e le pensioni da esse derivate. Ma si rende conto che la meritocrazia è l’unica scala giusta ed equa su cui collocare i componenti delle società civili e democratiche. Tutte le altre scale basate su criteri di censo, ceto, religione, gradi gerarchici, colore della pelle, sesso, grado d’istruzione e colore politico sono fallaci e conducono sempre all’inasprimento dei rapporti sociali. La gente perbene accetta di buon grado che chi merita e chi ha svolto un’attività dirigenziale con responsabilità e senso del dovere prenda una pensione alta. E manda i figli a scuola con mille sacrifici perché “si facciano una posizione”: che altro non è che un lavoro di responsabilità e remunerazioni crescenti. La fascia di pensioni medio alte serve proprio a rendere credibile questo traguardo e ad incentivare l’investimento sul lavoro: sul proprio lavoro.
Ai rischi della disaffezione dei pensionati si aggiungono quelli della disaffezione e frustrazione dei quadri e dirigenti privati e di ogni comparto pubblico conseguente alla mancanza di riconoscimento dei meriti e delle diverse funzioni e responsabilità.
Un dirigente che si avvicina alla pensione oggi con la prospettiva di percepire meno dello stipendio di un suo tecnico non sarà contento, ma non sarà contento nemmeno il suo successore e nemmeno colui che aspira ad avere lo stesso incarico dieci anni più tardi. E non sarà certo contento il tecnico che per sé e per il proprio figlio sognava la posizione del suo capo. Per evitare la demotivazione e “i remi in barca” (o peggio le attività di contrasto dei dipendenti infedeli o insoddisfatti) si possono prevedere aumenti di stipendio, con relativi costi enormi come già accaduto. Ma nella vita lavorativa ci si basa soprattutto sulle aspettative e quindi servono prospettive concrete. E quella di non avere una pensione adeguata non è bella. Si può già prevedere che il taglio alle pensioni medio-alte provocherà una disaffezione generalizzata dei quadri e dei dirigenti in tutti i comparti dello Stato e in molti settori parastatali e privati. La disaffezione può sembrare un fenomeno insignificante e invece è lo stesso quadro giuridico che impone di evitarla. La Corte Costituzionale con la sentenza 822/1988, ha stabilito che “non può dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo o in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando già sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività lavorativa, [..]frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza pubblica che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello Stato di diritto (v. sentt. nn. 36 del 1985 e 210 del 1971).
Conclusione
La prevista riforma delle pensioni è affrontata in maniera settoriale e in chiave discriminatoria. L’annunciato taglio alle pensioni si presenta irto di difficoltà tecniche e giuridiche. Parte da presupposti sbagliati, mistifica molti aspetti della situazione, a partire dagli scopi dichiarati, e non garantisce nessun cambiamento sostanziale né di equità né di convenienza economica e sociale. Anzi, accentua la divisione fra i cittadini e frustra le aspettative di sviluppo e progresso sociale ed economico. La politica ci ha abituato a considerare fattibile tutto ciò che ad essa conviene, non tutto ciò che conviene alla comunità. Ma per ottenerlo deve ricorrere all’illegalità e all’iniquità che di solito si scontrano con il NO della gente perbene. Per quel che vale.
Se si vuole instaurare un sistema pensionistico giusto, equo e meritocratico si deve cominciare col sanare tutte le situazioni di iniquità pregresse e ridare fiducia nel futuro facendo materializzare una prospettiva che non sia di povertà, restrizioni, elemosine, sussidi immeritati e conflitto per tutti, ma che premi il merito, le responsabilità e l’onestà di una vita di lavoro e servizio con l’assicurazione di una vecchiaia serena. Per quel che può durare.
Fabio Mini , generale, già Capo di Stato Maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e Comandante della missione internazionale in Kosovo.
(L’autore riprende parte di quanto pubblicato nel libro dal titolo “Pensioni d’oro, Pensioni di latta – Esame di una proposta arbitraria, punitiva e discriminatoria” – edito dalla Libreria Editrice Goriziana) .