di Miriam Pane
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Diritto alla salute e tagli al sistema sanitario – 3. Criticità afferenti al sistema delle fonti. – 4. Osservazioni relative al rapporto tra lo stato e le autonomie. – 5. Conclusioni.
- INTRODUZIONE
La piaga del coronavirus si è abbattuta sul nostro Paese, piegandolo e lasciando delle ferite profonde che hanno impattato sia sui diritti fondamentali e sulle libertà dei cittadini sia sull’intero tessuto socio-economico.
La forza dirompente del virus ha lacerato ogni certezza ed ogni capacità dello Stato, nonostante i suoi sforzi, di contrastare con efficacia attraverso gli strumenti a sua disposizione gli effetti devastanti del morbo, sia in ordine di perdita di vite umane che di adozione tempestiva dei provvedimenti volti al contenimento dei risvolti negativi sull’economia nazionale.
La gestione della fase emergenziale e le prospettive di risoluzione degli effetti nefasti dello shock economico, nella fase conseguente al lockdown, nonostante gli innegabili sforzi del Governo centrale e considerando la devastante imprevedibilità del fenomeno, ha evidenziato numerose criticità che attanagliano il nostro Paese da lungo tempo in numerosi settori fondamentali, come quello sanitario, che per troppo tempo sono stati trascurati e posti a latere nella proposizione delle innumerevoli riforme apportate dai nostri politici.
- DIRITTO ALLA SALUTE E TAGLI AL SISTEMA SANITARIO
In ordine alla disamina della problematica afferente le spese sanitarie, si deve necessariamente premettere che il fenomeno dell’“aziendalizzazione”, che ha mutato veste al Ssn a partire dalla metà degli anni ’90, generando forti differenziazione tra le aree del Paese circa la capacità di azione di far fronte ai bisogni della popolazione in ordine alle problematiche legate alla salute, così come il progressivo ampliamento dell’autonomia regionale, che si è risolto nel riconoscimento alle regioni di una potestà legislativa concorrente in materia di “tutela della salute”, ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, ha contribuito a generare delle realtà fortemente differenziate sul territorio italiano.
La riforma del titolo V della Costituzione, si ricorda, ha affidato la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, delineando un sistema caratterizzato da un pluralismo di centri di potere e ampliando il ruolo e le competenze delle autonomie locali. Così, fermo restando il testo dell’art. 32 della Costituzione che individua “la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, il contenuto del nuovo art. 117 della Costituzione classifica le materie di intervento pubblico in tre aree di competenza: a legislazione esclusiva dello Stato, a legislazione concorrente Stato-Regioni, a legislazione esclusiva delle Regioni. Tra le varie materie attribuite alla competenza concorrente delle Regioni, dunque, è stata inserita quella concernente “la tutela della salute”, discostandosi dal testo previgente che stabiliva una competenza concorrente regionale limitata all’ “assistenza sanitaria e ospedaliera”.
Particolarmente dure, inoltre, sono state le politiche di austerity adottate a partire dal Governo Monti, che hanno condotto inevitabilmente sia ad effettuare dei tagli sulle spese del Ssn sia ad una sempre più accentuata contrazione delpersonale impiegato nel comparto sanità, fino ad approdare agli interventi degli ultimi anni in tema di contenimento e razionalizzazione della spesa sanitaria.
Gli interventi demolitori del Ssn che si sono susseguiti nel tempo, altresì, hanno inevitabilmente inciso in modo significativo anche sul numero dei posti letto disponibili, i quali nel corso di un decennio hanno subito una drastica riduzione, al pari di numerose strutture ospedaliere, che sono state costrette a chiudere, inevitabile effetto dei piani di rientro che molti Governatori hanno dovuto adottare per risanare i bilanci delle Asl regionali.
La gravità del problema si è acuito, infine, così come evidenziato nel dossier intitolato “La spending review sanitaria” prodotto dalla Camera dei deputati il 4 marzo 2020, con l’introduzione delle disposizioni sul pensionamento anticipato (quota 100), per effetto delle quali la grave carenza di personale ha assunto dimensioni tali da far emergere il rischio di compromettere l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
In tale contesto si devono richiamare i dati riportati nella Relazione del Presidente della Corte dei conti afferente alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, in cui vengono esaminati gli andamenti della gestione finanziaria ed economico patrimoniale dei servizi sanitari delle Regioni e Province, rilevati con deliberazione n. 13/SEZAUT/2019/FRG, con la quale la Corte dei conti riferisce al Parlamento. In tale sede sono stati analizzati sia l’esercizio 2017 in raffronto con il quadriennio precedente (2013-2016), sia i risultati dell’anno 2018 sulla base dei dati di contabilità nazionale confrontati con quelli del precedente quinquennio. Dal riscontro effettuato ne è derivata una sostanziale stabilizzazione della spesa sanitaria che è andata progressivamente a ridursi nella composizione delle uscite correnti primarie, registrando tassi di crescita allineati o inferiori all’inflazione misurata dal deflatore del Pil. Si aggiunga, altresì, che i dati Ocse hanno palesato una progressiva perdita di peso del comparto sanitario nazionale sul Pil rispetto a quello dei maggiori paesi europei. Infine, i giudici contabili hanno ricavato dai dati statistici una flessione della spesa sanitaria pubblica in percentuale della spesa totale (pubblica e privata) e un incremento di quella direttamente sostenuta dalle famiglie (out of pocket).
Nella relazione del Presidente della Corte dei conti, inoltre, viene evidenziato come la distribuzione del personale sanitario sul territorio nazionale non sia uniforme, rinvenendo aree territoriali caratterizzate da una maggiore concentrazione di personale, che pesa inevitabilmente sul rapporto di incidenza tra dipendenti e dirigenti che, in taluni casi, appare migliorato per effetto del trasferimento alle Regioni del personale provinciale.
Da uno studio prodotto dal rapporto sullo stato del Ssn – Annuario Statistico del Servizio Sanitario, pubblicato nel settembre 2019 (i dati si riferiscono al 2017), risulta confermato il trend decrescente del numero degli istituti di cura, in atto ormai da molti anni, per effetto della riconversione e dell’accorpamento di molte strutture.
Si aggiunga, altresì, che nell’analisi contenuta nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica la Corte dei Conti spiega come la concentrazione delle cure nei grandi ospedali verificatasi negli ultimi anni e il conseguente impoverimento del sistema di assistenza sul territorio, divenuto sempre meno efficace, ha lasciato la popolazione italiana senza protezioni adeguate. La crisi sanitaria, aggiunge la Corte, “ha messo in luce anche, e soprattutto, i rischi insiti nel ritardo con cui ci si è mossi per rafforzare le strutture territoriali, a fronte del forte sforzo operato per il recupero di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero”. Nel Rapporto, si legge, ancora, che è sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo.
Nella requisitoria orale del Procuratore generale f.f. della Corte dei conti, in occasione della cerimonia di parificazione del rendiconto generale dello Stato 2019, svoltasi il 24 giugno 2020, è stato evidenziato come nell’anno 2019 si sia registrato un costo per la spesa sanitaria pari a 115,4 miliardi di euro, di cui oltre 40 miliardi per l’acquisto di beni e servizi e come l’ammontare di tale spesa sia destinato a crescere in attuazione delle disposizioni volte a far fronte all’emergenza epidemiologica in atto. A tal proposito, in ordine alle misure di potenziamento del Ssn e di sostegno economico per le famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza varate con il D.L. 17 marzo 2020, n.18, (convertito dalla L. 24 aprile 2020, n.27) “le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano e le aziende sanitarie potranno stipulare contratti (ai sensi dell’art. 8-quinquies, del D.Lgs 30 dicembre 1992, n. 502) per l’acquisto di ulteriori prestazioni, in deroga al limite di spesa (di cui all’art. 45, co. 1-ter, del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 2019, n.157)”.
Per completezza espositiva, si deve richiamare l’attenzione in materia sul fondamentale ruolo svolto dalla Corte dei conti, sia nella sua veste di garante della “sana gestione finanziaria” in funzione del perseguimento dell’equilibrio di bilancio, principio costituzionalizzato ad opera della legge n. 1 del 2012 in adesione ai vincoli europei, ma specialmente quale istituzione deputata ad orientare, con le sue pronunce, comportamenti virtuosi anche in materia di organizzazione e funzionamento della macchina sanitaria e della relativa spesa. Ciò al fine di concorrere al raggiungimento dell’obiettivo volto a garantire livelli assistenziali il più possibile omogenei nelle diverse ramificazioni territoriali italiane, caratterizzate da differenze strutturali, ambientali e culturali storicamente radicate, che generano profonde disparità tra i cittadini in termini di welfare.
In sede di parificazione del rendiconto generale dello Stato 2019, infine, i giudici contabili rappresentano la necessità per il Paese, al di là del dibattuto tema sulle condizioni fissate dalle varie tipologie di interventi europei per fronteggiare la grave crisi economica in atto, nelle forme di contributo a fondo perduto ovvero di prestito, di saper utilizzare con sapienza ed ottimizzare tali risorse nell’ottica di un piano straordinario di investimenti, in special modo in materia sanitaria.
Come sapientemente esposto dalla magistratura contabile, (che ha sempre riservato un’attenzione particolare alla materia sanitaria), in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale dello Stato 2019, dunque, l’emergenza causata dal coronavirus, ha inevitabilmente riproposto in modo preponderante il tema della spesa sanitaria e delle politiche a sostegno del servizio sanitario nazionale. In particolar modo, è stato evidenziato come il virus avrebbe potuto impattare più profondamente su alcune Regioni del sud, con effetti assolutamente devastanti in termini di perdita di vite umane, a causa di un servizio sanitario non adeguato e carente e dunque incapace di contrastare uno tsunami, come quello che si è abbattuto sulla Regione Lombardia durante la prima ondata, proprio in virtù di quelle differenze territoriali di cui si è accennato pocanzi e sulla scorta di una politica progressiva di definanziamento che ha minato alle fondamenta il Ssn, mettendo a rischio l’universalità del servizio.
Sulla scorta di quanto detto, si potrebbe affermare che siamo in presenza, sostanzialmente, di uno svilimento del diritto alla salute, riconosciuto dalla nostra Carta Costituzionale come un diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 32, comma 1, in considerazione anche del fatto che durante il periodo della quarantena coloro che erano affetti da patologie non legate al coronavirus non hanno potuto usufruire del servizio pubblico sanitario, con gravi ripercussioni in termini di salute. Effetti negativi per i cittadini si sono avuti, in realtà, anche in termini finanziari, visto che il nuovo assetto assunto dalle strutture ospedaliere legato all’emergenza ha comportato la chiusura di interi reparti, ambulatori, nonché il blocco dei ricoveri (con poche eccezioni), costringendo i malati, in alcuni casi, a rivolgersi a strutture private con esborso di ingenti somme di denaro, o avvalendosi di polizze assicurative che non tutti i cittadini possono permettersi. Di talché, al fine di prevenire e di contenere il diffondersi del virus covid-19, anche le Regioni non colpite in modo significativo dal virus hanno rivoluzionato il loro assetto organizzativo, in adesione alle indicazioni statali, interrompendo le prestazioni di ordinaria amministrazione. Situazione similare si sta verificando nel periodo attuale, in cui il dilagare della pandemia sta mettendo in crisi il settore sanitario di molte Regioni del centro-sud, non sufficientemente attrezzate e preparate per contenere la seconda ondata da coronavirus.
In termini giuridici, dal tenore letterale dell’art. 32 della Costituzione si evince che spetta al legislatore predisporre gli strumenti in concreto necessari per la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, garantendo le cure gratuite agli indigenti.
Il bene “salute” si identifica con il benessere psico-fisico, che si traduce nella tutela costituzionale dell’integrità psico-fisica, del diritto ad un ambiente salubre, del diritto alle prestazioni sanitarie e della cosiddetta libertà di cura.
Il diritto alla salute sancito dall’art. 32 della nostra Carta costituzionale deve essere letto in stretta connessione con l’art. 2, che sugella uno dei più importanti principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, ai sensi del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Il diritto alla salute, altresì, si sposa intimamente anche con l’art. 3 della Costituzione, il quale dispone che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Nel perseguire la realizzazione del dettato costituzionale, però, i decisori politici devono effettuare un bilanciamento del diritto alla salute con il principio della regolarità dei conti pubblici, scolpito graniticamente anch’esso nella nostra Costituzione all’art. 81, per effetto del quale si deve garantire la stabilità finanziaria del sistema. È chiaro come questa disposizione sia di fondamentale importanza, in quanto il rispetto della regolarità finanziaria consente allo Stato di impiegare risorse in modo costante e proficuo nel settore della sanità per il benessere dei cittadini.
E’ dunque vero, che in armonia con il disposto dell’art. 81 della Costituzione, i pubblici poteri hanno ovviamente il compito di assicurare il necessario equilibrio dei rispettivi bilanci anche in materia di politica sanitaria, ma è ugualmente vero che il legislatore nella sua azione discrezionale si scontra con il “nucleo incomprimibile” del diritto alla salute, che altre esigenze non possono intaccare, così come dichiarato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 304 del 1994. Nella stessa i giudici, pur ribadendo il carattere “finanziariamente condizionato” del diritto alla salute, precisano tuttavia che “nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore deve compiere al fine di dare attuazione al diritto ai trattamenti sanitari, le esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica non possono assumere un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana, costituendo altrimenti esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa”.
Da una giurisprudenza costituzionale consolidata, si evince una certa continuità di pensiero in materia di spese sanitarie, che culmina nella sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 2020, che colloca la spesa sanitaria tra le spese costituzionalmente necessarie, condizione che porta ad una compressione della discrezionalità del legislatore nella sua azione di allocazione delle risorse, essendo vincolato al criterio della priorità della spesa pubblica costituzionalmente necessaria. «Infatti, mentre di regola la garanzia delle prestazioni sociali deve fare i conti con la disponibilità delle risorse pubbliche, dimensionando il livello della prestazione attraverso una ponderazione in termini di sostenibilità economica, tale ponderazione non può riguardare la dimensione finanziaria e attuativa dei LEA, la cui necessaria compatibilità con le risorse è già fissata attraverso la loro determinazione in sede normativa”.
La sentenza in esame va a corroborare la posizione assunta nelle altre sentenze dalla Corte costituzionale, le quali erano volte ad emancipare il diritto sociale alla salute dal vincolo di bilancio, sia pure solo in senso dinamico. Il ciclo di sentenze in materia, dunque, va a consolidare il principio per cui il criterio di “priorità della spesa pubblica” “costituzionalmente necessaria” pone la sanità al centro del sistema dei LEP (sent. n. 169/2017 e n. 117/2018) e al di sopra delle contingenze finanziarie, tanto per lo Stato quanto per la Regione.
Ne consegue, infine, che secondo il dettame costituzionale di cui alla sentenza n. 256 del 2016 che è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
Di notevole impatto risulta un passaggio motivazionale in punto di diritto presente nella succitata sentenza n. 62 del 2020, attraverso il quale la Corte Costituzionale provvede a fissare, nelle more dell’attuazione del sistema dei costi e fabbisogni standard, uno schema di bilanciamento e di calcolo, per cui «in sede di programmazione finanziaria i costi unitari fissati dal d.P.C.M. del 12 gennaio 2017 avrebbero dovuto essere sviluppati sulla base del fabbisogno storico delle singole realtà regionali e sulle altre circostanze, normative e fattuali, che incidono sulla dinamica della spesa per le prestazioni sanitarie. Successivamente tale proiezione estimatoria avrebbe dovuto essere aggiornata in corso di esercizio».
- CRITICITA’ AFFERENTI AL SISTEMA DELLE FONTI
Altro aspetto critico nella gestione della fase emergenziale, che ha acceso numerosi dibattiti, concerne, altresì, l’utilizzo caotico da parte del Governo di misure di contrasto al coronavirus fondate su fonti del diritto di ranghi diversi, come decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, decreto-legge, ordinanze e circolari.
E’ pur vero che la nostra Carta costituzionale non fornisce soluzioni certe e perentorie nel gestire il potere di emergenza nel nostro ordinamento, in quanto offre ben poche disposizioni (come il decreto legge all’art. 77) volte a regolare il tema dell’urgenza latu sensu, diversamente invece da quanto avviene in altri ordinamenti europei.
A generare criticità che ostano ad una corretta ed efficace gestione dell’emergenza, hanno contribuito sicuramente anche la sovrapposizione di numerose norme attributive di poteri extra ordinem a soggetti istituzionali differenti.
In tale contesto, molti studiosi hanno rievocato l’art. 78 della Costituzione, il quale descrive una situazione di emergenza provocata dallo stato di guerra, in ragione del quale il Parlamento conferisce al Governo i poteri necessari. Tale disposizione, però, sembrerebbe non contribuire a dirimere le problematiche sottese in materia, in quanto trattasi di una situazione totalmente divergente dallo stato emergenziale provocato dalla pandemia e che prevede una delega in bianco del Parlamento al Governo, concessione che nella situazione in esame non avrebbe ragione di essere. Il Parlamento, difatti, nonostante i ranghi ristretti dovuti ad esigenze di cautela connesse al coronavirus e sebbene sia stato coinvolto solo marginalmente nella prima fase emergenziale, era pienamente funzionante, mentre uno stato di guerra non consentirebbe al Parlamento, per ovvie ragioni, di riunirsi in tempi celeri per svolgere le sue attività.
Si aggiunga, altresì, che l’uso reiterato dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri da parte del Governo ha destato molte perplessità e numerose critiche da parte di illustri operatori in materia di diritto costituzionale e non solo, poiché è chiaro non solo che, in tal modo, si sia voluto utilizzare uno strumento più spedito e snello ed avulso da intromissioni territoriali, ma è parimenti vero che in tal modo si sia finito per estromettere il Parlamento, contravvenendo a quella collaborazione politica che dovrebbe essere alla base di ogni democrazia parlamentare, sollecitata ed auspicata anche dal Presidente della Repubblica.
Con tale strumento, altresì, di natura puramente amministrativa e privo di forza di legge, con carattere di fonte normativa secondaria, che viene utilizzato, di norma, per dare attuazione a disposizioni di legge, si sono adottate misure, seppure legittimate da uno stato di necessità, tuttavia volte a comprimere quei diritti fondamentali e quelle libertà dei cittadini che sono garantiti dalla nostra Costituzione. L’uso dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri dopo e l’utilizzo del combinato disposto delle norme del Codice della Protezione civile (d.lgs. 2 gennaio 2018, n.1) e di quelle relative al Servizio sanitario nazionale previste dalla sua legge istitutiva (legge 23 dicembre 1978, n. 833) a fondamento dei primi provvedimenti adottati dal Governo, hanno finito, pertanto, per dilatare eccessivamente il potere amministrativo, financo a snaturare il sistema stesso delle fonti del diritto.
E’ lecito, dunque, pensare che in tale contesto la decretazione d’urgenza di cui all’art. 77 della Costituzione, di cui in passato si è eccessivamente abusato per regolare anche situazioni che non presentavano i caratteri della necessità e dell’urgenza, sarebbe stato lo strumento per sua natura più idoneo a disciplinare le disposizioni emergenziali, nonché a garantire la dialettica politica con il coinvolgimento sia del Parlamento, deputato alla conversione in legge del decreto, sia del Presidente della Repubblica, nella sua veste di controllore attraverso l’emanazione del decreto stesso.
In tale ambito, è stato sostenuto da autorevole dottrina che, anche qualora si ritenesse sufficiente il fondamento del decreto-legge per adottare i dpcm, comunque il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in considerazione dell’elevato livello di rischio, avrebbe dovuto contenere delle indicazioni precise e puntuali in ordine ai termini finali relativi alle singole misure di sospensione dei diritti di libertà, così come avviene per tutte le ordinanze urgenti.
E’ stato, altresì, sostenuto che sia il decreto-legge, così come gli atti che poggiano su di esso, con funzione di natura esecutiva ed attuativa, quali ad esempio i decreti del Presidente del consiglio dei ministri, dovrebbero essere tutti atti riconducibili e consequenziali alle fonti secundum ordinem, ovvero rispettose del principio gerarchico e del fondamento giuridico legittimante (principio di legalità in senso sostanziale). Ne consegue, dunque, che tali atti in nessun caso possano e debbano scalfire, con carattere innovativo, le libertà fondamentali, in quanto rientranti in quella materia coperta da riserva assoluta di legge.
Sulla intoccabilità delle libertà fondamentali interviene anche il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri, il quale asserisce che il diverso atteggiarsi del Governo attraverso l’utilizzo dei dpcm ha condotto, in estrema sintesi, alla “rimozione in blocco del controllo parlamentare e, di conseguenza, del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale. Ne deriva che, nelle ipotesi di emergenza, lo strumento, non surrogabile, da utilizzare per interventi immediati, è il decreto-legge”.
E’ di immediata evidenza che le criticità in ordine al sistema delle fonti hanno origine principalmente dal primo provvedimento prodotto dal Governo in piena fase emergenziale, di cui al decreto-legge, 23 febbraio 2020 n. 6, «Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid 19», convertito con legge 5 marzo 2020, n. 13, il quale non solo ha conferito al Governo una sorta di potere extra ordinem, senza precisare con sufficiente determinazione i limiti entro i quali esso dovesse essere esercitato, maha inaugurato, parimenti, una nuova stagione in cui lo strumento principe per regolare le situazioni emergenziali diviene il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’esaltazione della figura del Governo, con contestuale marginalizzazione del ruolo delle due Camere, si scorge, del resto, dall’utilizzo costante non solo dei dpcm, ma anche dei mezzi di comunicazione politica attraverso i social network, che conferiscono proprio in capo al Presidente del Consiglio una inconsueta ed innovativa visibilità. A tal proposito, si deve menzionare come in uno dei vari annunci in diretta tv da parte del Presidente del Consiglio, sono state anticipate prima dell’adozione del decreto stesso le misure restrittive che avrebbero interessato una zona calda, provocando la famosa fuga dal Nord.
Il primo decreto-legge attribuisce all’art. 1, comma 1, a non ben definite “autorità competenti”, il potere di adottare «ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica», con le modalità previste dall’art. 3, commi 1 e 2. Dal testo del comma 1 si evince che tali misure vengono adottate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle Regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una Regione o alcune specifiche Regioni, ovvero il Presidente della conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale.
Secondo un orientamento dottrinale, tali dpcm andrebbero considerati, quali “fonte emergenziale” al pari di un’ordinanza extra ordinem, ovvero atti normativi sub-primari derogatori di norme primarie, che troverebbero fondamento nei principi del «primum vivere e della salus rei publicae» e quindi sostanzialmente nell’art. 32 Cost.. Sulla scorta di quanto detto, dunque, è stato affermato che tali fonti non provocherebbero alcuna “rottura della legalità costituzionale”, essendo legittimate a derogare norme primarie, nel pieno rispetto dei principi di proporzionalità, temporaneità e tollerabilità delle restrizioni previste e nei modi e nelle forme contemplate dalla norma primaria, sulla quale si basa tale potere derogatorio.
Di contrario avviso altra parte della dottrina, la quale ha invece sostenuto che, sebbene lo stato emergenziale legato alla tutela della salute si sposi perfettamente con il principio del «primum vivere e della salus rei publicae», l’evento pandemico causato dal Covid19 rientrerebbe perfettamente nell’ampio contenuto di cui all’art. 77 della Costituzione, soddisfacendo pienamente l’ordinario sistema delle fonti, scansando in tal modo gli effetti distorsivi creati dall’iperattività dei dpcm, i quali, attraverso l’utilizzo dei decreti-leggi, sarebbero stati ricondotti nell’alveo di atti a mero contenuto esecutivo o attuativo, in osservanza del principio di legalità sostanziale e della riserva di legge.
Si aggiunga, altresì, che anche la disposizione di cui all’art. 2 del decreto-legge n. 6 del 2020 si risolve in una “delega in bianco” al Governo, in quanto prevede che le autorità competenti, con le modalità previste dall’articolo 3, commi 1 e 2, possano adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid19 anche al di fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma 1.
Giova, infine, ricordare le fondate perplessità in ordine al mancato rispetto di riserve di legge costituzionali legate alla disposizione di cui al comma 4, dell’art. 3 del decreto in esame, la quale prevedeva addirittura l’irrogazione di sanzioni penali ai sensi dell’art. 650 del Codice penale, nei casi di violazione delle misure di contenimento di cui al decreto stesso. Il tiro è stato corretto successivamente, una volta preso coscienza della abnormità della disposizione, ad opera del decreto-legge n. 19 del 2020, che ha provveduto a rimodulare le sanzioni penali trasformandole in sanzioni amministrative.
Proprio attraverso l’adozione del decreto-legge n. 19 del 2020 il Governo è intervenuto operando una sorta di sanatoria di quelli che da molti sono stati considerati dei «veri e propri sfregi costituzionali della prima fase dell’emergenza». L‘impianto normativo del secondo decreto-legge, nonostante non abbia operato un riordino della materia a fronte delle numerose misure adottate fino a quel momento, definendo in tal modo quelle ancora vigenti e quelle che invece dovevano ritenersi abrogate in ossequio al principio di legalità, ha abrogato la contestata formulazione dell’articolo 2 del decreto-legge n. 6 del 2020 in virtù del quale «le autorità competenti, con le modalità previste dall’articolo 3, commi 1 e 2, possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid-19 anche fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma 1». Il decreto, altresì, questa volta effettua all’art. 1, comma 2 una tipizzazione dei casi in cui si possono adottare le misure di cui al comma 2; fattispecie, dunque, la cui elencazione risulta tassativa e dettagliata.
La disposizione di cui al comma 3 dell’art. 3, non è riuscito a fugare, rafforzandoli, i numerosi dubbi di legittimità posti in dottrina sull’impianto normativo del decreto, in quanto con lo stesso non si fa altro, come anticipato in precedenza, che conferire a tutte le disposizioni emanate sulla base del primo decreto portata retroattiva non solo alla disciplina di sanatoria, ma anche alle discipline sanate, le quali, sotto il profilo sostanziale sono fortemente limitative di libertà fondamentali e contemplano sanzioni penali per l’ipotesi di violazione.
A corroborare le numerose perplessità in ordine ad alcune iniziative intraprese dal Governo per sostenere la lotta al coronavirus, si aggiunga la diposizione dell’art. 4 del decreto n. 19 , con il quale il Governo, cercando di ovviare alle numerose critiche provenienti non solo dagli operatori del diritto ma anche da parte di comuni cittadini, ha apportato la sostituzione della succitata sanzione penale con quella amministrativa attraverso il pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e precisando inoltre che “non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”.
Nell’esaurire l’argomento afferente alle fonti giuridiche utilizzate dall’Esecutivo nella prima fase gestionale del fenomeno, non ci si può esimere dal far notare che, per far fronte alla grave crisi economica innescata dal morbo, connessa a quella sanitaria, che sta impattando in modo significativo sui conti pubblici di numerosi paesi europei (e non solo), il Governo si è avvalso di numerosi decreti-legge, apportando numerosi aggiustamenti al bilancio in deroga e ponendo spesso la questione di fiducia. Questo modus operandi ha suscitato molto malcontento nelle schiere dell’opposizione, che ha lamentato l’assenza totale di confronto politico in ordine a fondamentali iniziative per il Paese, in quanto la sistematica imposizione della fiducia da parte dell’Esecutivo sui provvedimenti oggetto di esame in Parlamento impedisce di fatto di apportare qualsivoglia modifica al testo normativo (con l’automatica decadenza degli emendamenti), estromettendo ancora una volta lo stesso Parlamento dal suo ruolo naturale.
In ultimo, in tema di diritto alla salute, si devono necessariamente richiamare le preoccupazioni e le incertezze emerse con l’ultimo dpcm del 3 novembre 2020, la cui emanazione è stata resa necessaria dal rapido peggioramento dello scenario pandemico e nel cui ambito si è posto in modo preponderante il problema dell’affievolimento di tale diritto.
I nuovi poteri contenuti nel dettame del dpcm in esame, difatti, in forza dei quali il Ministro della salute con propria ordinanza è deputato a decidere, sulla base di alcuni parametri di monitoraggio e di dati elaborati dalla cabina di regia, se inserire o meno una Regione nella c.d. fascia rossa con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di contrazione dei diritti fondamentali dei cittadini, ha sollevato nuovamente dubbi in ordine ai profili di legittimità costituzionale della relativa disposizione.
Qualcuno ha sostenuto che la prescrizione sancita nel nuovo dpcm volta ad attribuire un nuovo potere al Ministro della salute andrebbe a ledere un principio consolidato dalla nostra Carta costituzionale, in forza del quale un organo affinché possa esercitare un qualunque potere, deve ricevere il potere stesso da una legge o da un atto avente forza di legge, che costituiscono il fondamento del potere attributivo. Il potere di emanare ordinanze conferito al Ministro della salute, dunque, andrebbe ad intaccare il principio di legalità, con conseguente sconquassamento delle nostre certezze costituzionali, che si vedono compromesse da un sistema in cui è il Presidente del Consiglio dei Ministri ad attribuire un nuovo potere con proprio dpcm, il quale per sua natura è sottratto, come già sottolineato in precedenza, al controllo del Presidente della Repubblica, a quello del Parlamento, così come a quello della Corte costituzionale.
- OSSERVAZIONI RELATIVE AL RAPPORTO TRA LO STATO E LE AUTONOMIE
Altra questione particolarmente delicata emersa in fase emergenziale concerne l’annosa questione del rispetto del principio costituzionale di leale collaborazione tra le varie istituzioni, quali il Parlamento, il Governo e le Regioni. A tal proposito, si deve rievocare il costante monito da parte della giurisprudenza della Corte costituzionale volto al rispetto del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, nelle materie di interesse comune o in ambiti connessi ad una pluralità di competenze, alcune di pertinenza statale, altre di competenza regionale.
Significativo il dato emerso nella relazione sull’attività della Corte Costituzionale per l’anno 2019, in cui si prende atto che un numero considerevole di giudizi di legittimità in via principale, incardinati innanzi alla Corte su impulso dello Stato o delle Regioni, si risolvono con la cessazione della materia del contendere o con l’estinzione del giudizio, a seguito di attività di negoziazioni tra Stato e Regioni, che porta alla modificazione della normativa in esame durante la pendenza del giudizio. Tale risoluzione politica delle controversie tra Stato e Regione, così come osservato nella citata relazione, se da un lato si traduce in una ricomposizione a valle della leale collaborazione, che è mancata nella fase iniziale, dall’altro presenta innegabili disfunzioni di sistema che porta ad un appesantimento dell’attività dei giudici della Consulta, in quanto l’impugnazione si traduce in uno strumento cautelativo in vista di eventuali valutazioni ed accordi, che spesso intervengono a ridosso della discussione del ricorso con un notevole dispendio di energie e risorse da parte dei giudici investiti della questione.
L’indubbia complessità dei legami venutosi a determinare nei rapporti Stato-Regioni per effetto dall’evento pandemico avrebbe dovuto indurre l’amministrazione centrale a valutare più attentamente gli strumenti di raccordo a disposizione, soprattutto nell’ottica di una leale collaborazione tra i vari livelli istituzionali.
Nonostante il Governo abbia tentato con il decreto-legge n. 19/2020 di dirimere possibili conflitti gestionali nella fase emergenziale nell’ambito dei rapporti Stato-Regioni, per una fattiva azione di contrasto alla lotta del coronavirus non può prescindersi da un’effettiva ed efficace leale collaborazione tra le amministrazioni coinvolte.
E’ attestato, ormai, che Stato e autonomie, sono chiamate a confrontarsi e a coordinarsi con sempre maggiore frequenza, a prescindere dal riparto di competenze descritto dall’art. 117 Cost.
In ragione di ciò, appare evidente la necessità di un riordino delle forme di raccordo interistituzionale, che siano in grado di valorizzare l’autonomia territoriale e, al contempo, di superare le spinte disgregatrici.
Tale spirito collaborativo tra istituzioni viene rievocato nel discorso che il Presidente della Repubblica ha rivolto agli italiani sin dall’inizio della crisi, con le parole pronunciate il 5 marzo 2020 con le quali ha affermato solennemente che «Il momento che attraversiamo richiede coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti».
Per comprendere pienamente gli effetti benefici che deriverebbero dalla piena applicazione del principio di leale collaborazione tra le vari istituzioni, è opportuno ripercorrere succintamente i punti salienti del suo iter evolutivo. E’ notorio, in primis, che la leale collaborazione è un principio di derivazione giurisprudenziale ed è stato positivizzato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001. Diviene, in sintesi, il “parametro” di giudizio invocato quasi sempre dalle Regioni, a cui si ricollega l’oggettivazione del principio di lealtà cui deve ispirarsi la leale collaborazione.
La celebre sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale assegna al principio di leale collaborazione una centralità di tipo particolare, attribuendo un valore decisivo all’intesa fra Stato e Regioni nell’attuazione della normativa oggetto della sentenza stessa. Nelle prescrizioni contenute nella sentenza in esame, infatti, si scoraggia l’uso conflittuale del nuovo riparto di competenze di cui al nuovo art. 117 della Costituzione, rinvenendo nell’intesa e nelle norme procedimentali lo strumento principe di cui il principio di leale collaborazione si deve avvalere. Emblematico, a tal proposito, il passaggio in cui la Corte Costituzionale asserisce come sia necessario “annettere ai principi di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”.
La svolta giurisprudenziale iniziata con la sentenza appena citata del 2003 viene ripresa e confermata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2004, nelle quali dalla leale collaborazione nell’esercizio della funzione amministrativa si passa alla codeterminazione della decisione in sede politica.
Particolarmente significativa la sentenza n. 31 del 2005, nella quale la Corte costituzionale adotta una sentenza manipolativa-sostituiva dichiarando incostituzionale il comma 3 dell’art. 26 della legge 289/2002 nella parte in cui prevedeva che fosse “sentita” la Conferenza unificata, anziché l’intesa in sede di Conferenza stessa.
Nella sentenza n. 378/2005, inoltre, si nobilita il canone della leale collaborazione nella formazione di atti legislativi che prevedono attività amministrative invasive delle competenze regionali.
Sulla stessa linea d’onda la sentenza n. 31/2006, nella quale la Corte risolve un conflitto di attribuzioni, conferendo nella motivazione un particolare rilievo ad un accordo ottenuto in sede di Conferenza unificata, ritenuta la via maestra per conciliare esigenze unitarie e governo autonomo del territorio in attuazione del principio di leale collaborazione, che non dovrebbe essere disatteso neanche a fronte di una norma contenuta in un decreto legge e solo in estrema ipotesi si potrebbe concludere per una deliberata ed unilaterale deroga all’accordo da parte dello Stato, a mezzo della norma citata.
Il percorso evolutivo intrapreso dalla Corte costituzionale volto a garantire il principio di leale collaborazione subisce indubbiamente una battuta d’arresto con la sentenza n. 278/2010, nella quale attraverso argomentazioni complesse e macchinose si giunge a giustificare l’assenza di una intesa nella legge di delegazione, in presenza di una scelta “tecnica”.
In tale contesto, altresì, si deve ricordare che la consapevolezza, accentuata dalla crisi economica registrata a partire dal 2008, di dover apportare modifiche sostanziali alla materia sanitaria, ha dato origine ad una serie di riforme che hanno portato sia ad un forte accentramento di competenze in capo allo Stato, sia ad un sistema di contrazione delle risorse a danno delle Regioni, giustificato dalla necessità di risanare i conti pubblici e che ha finito per minare la stessa attività di erogazione dei servizi.
Alcune delle sentenze che seguono, inoltre, mettono in discussione l’applicazione nel procedimento legislativo del principio di leale collaborazione, fino ad arrivare alle sentenze del 2015-2016 che restituiscono nuova linfa alle tematiche volte a corroborare la codeterminazione delle decisioni.
A tal proposito, la famosa sentenza n. 251 del 2016 presenta un carattere decisamente innovativo, per espressa ammissione della Corte costituzionale, nell’alveo dei rapporti interistituzionali tra Stato e Regioni, impattando sull’esercizio della potestà legislativa. In tale ambito, dunque, si assiste ad una evoluzione giurisprudenziale, dove superando le precedenti impostazioni e riprendendo concetti già contenuti nelle sentenze del periodo precedente al 2010, la Corte stessa conferisce rinnovato vigore al principio di leale collaborazione, estendendolo al procedimento di delegazione legislativa.
Giova a tal punto premettere che la giurisprudenza costituzionale, negli anni antecedenti alla sentenza presa in considerazione, ha assunto orientamenti oscillanti in ordine ai pareri resi dalle Conferenze Stato-Regioni e Unificata sugli schemi di decreto legislativo del Governo. In alcuni casi, infatti, la Corte costituzionale ha operato un sindacato piuttosto rigido, che si è risolto nella dichiarazione di illegittimità, per eccesso di delega, di decreti delegati adottati senza aver acquisito il parere del sistema delle Conferenze, espressamente previsto dalla legge delega, mentre in altre pronunce si è assistito ad una effettiva limitazione della portata dei pareri.
Si aggiunga, altresì, che in alcune occasione la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili modifiche apportate dal Governo anche se successive all’adozione del parere adottato in sede di Conferenza Stato-Regioni, adducendo che «non è necessario che il testo modificato torni nuovamente alla Conferenza per un ulteriore parere” (vedi sent. n. 401 del 2007).
Si specifica, ulteriormente, che l’orientamento della Corte costituzionale teso a svilire l’attività consultiva delle Conferenze ha trovato piena espressione nella sentenza n.33 del 2011, sulla scorta della quale si è ritenuto comunque rispettato il principio di leale cooperazione e dell’art. 76 Cost., pur avendo il Governo adottato il decreto legislativo in assenza del parere della Conferenza unificata, essendo in questo caso sufficiente la posizione assunta dalle Regioni in sede di Conferenza delle Regioni.
Si consideri, infine, che anche in ordine al sistema delle intese adottate dalle Conferenze, la giurisprudenza costituzionale non ha assunto posizioni lineari e coerenti, tali da cementare un vero e proprio orientamento giurisprudenziale, così come si evince anche dalla sentenza n. 206 del 2001.
Tornando a discorrere della sentenza n. 251 del 2016, i profili di interesse sottesi alla pronuncia in esame sono stati oggetto di intensi e vivaci dibattiti nell’ambito della dottrina costituzionalistica. Uno degli argomenti sui quali i primi commentatori della sentenza si sono dibattuti ha riguardato la ricaduta della sentenza sulle future scelte del legislatore, ed in particolare è stato sollevato il quesito in ordine alla possibilità che la statuizione in esame possa riguardare ogni procedimento legislativo oppure se debba essere interpretata in modo restrittivo.
In ordine agli effetti derivanti dalla decisione di cui trattasi, è di immediata evidenza che la stessa comporta un rafforzamento del sistema delle conferenze, imponendo al legislatore delegante la forma dell’intesa, anziché quella del parere, per l’adozione del decreto legislativo, laddove ha riscontrato un intreccio di diverse competenze tra Stato e Regioni, al fine di realizzare una maggiore collaborazione con il sistema delle autonomie. Ne deriva, pertanto, un vincolo procedurale per il legislatore delegante, che fino a quel momento aveva goduto di una certa discrezionalità nel prevedere modalità collaborative con il sistema delle autonomie.
E’ stato sostenuto, però, che la voluntas della Corte fosse volta a richiedere l’intesa solo nei casi espressamente previsti e non, in generale, ogni volta che il legislatore delegante dovesse intervenire in materie caratterizzate da una forte “connessione” di competenze tra Stato e Regioni, onde evitare storture nel funzionamento del meccanismo delle intese.
In estrema sintesi, la sentenza n. 251 del 2016 assume grande rilevanza, nonostante le interpretazioni più riduttive assunte nelle pronunce successive, in quanto in attuazione del principio di leale collaborazione, ha imposto meccanismi di intesa con le autonomie territoriali sui contenuti della legge di delegazione, nei casi di stretti intrecci fra diverse materie e competenze. Sulla scorta di tale pronuncia, infatti, in sede di Conferenza delle Regioni e delle Province autonome è stato richiesto che l’intesa intervenga già sui contenuti della legge di delegazione, laddove gli oggetti della stessa riguardino «un’ampia gamma di materie riconducibili a competenze regionali, con-correnti o residuali», dubitandosi che lo strumento della delega sia utilizzabile quale strumento di codificazione per «disciplinare materie che nel diritto vivente sono regolate da fonti giuridiche sovrapposte”.
La giurisprudenza formatasi a seguito della famosa sentenza 251, invece, presenta posizioni più morbide, tese ad escludere la necessità di intese nel procedimento legislativo ordinario, così come nella decretazione d’urgenza (vedi sentt. 280/2016; 32, 192, 237/2017; 44/2018).
Altra pronuncia che rappresenta un nodo fondamentale nel percorso evolutivo intrapreso dal principio di leale collaborazione nell’alveo della giurisprudenza costituzionale si identifica nella sentenza n. 61 del 2018, nella quale la Corte ha dichiarato illegittima la disposizione “nella parte in cui non prevede l’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per determinare progetti e concreta ripartizione dei finanziamenti a carico del Fondo per le politiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela, in Italia e all’estero, delle imprese e dei prodotti agricoli e agroalimentari”.
Nella sua dissertazione la Consulta ha fornito delle indicazioni precise e dettagliate in caso di “chiamata in sussidiarietà” in materia di rapporti fra Stato e Regioni e dopo aver enfatizzato il rinnovato ruolo assunto nell’ordinamento dalla legge di bilancio (la quale, ai sensi del novellato art. 81 Cost. e della legge di attuazione n. 243 del 2012, è definitivamente assunta come norma sostanziale), la pronuncia individua cinque distinte condizioni il cui rispetto rende legittimi gli interventi sostitutivi statali, quali “risposte pragmatiche e sufficientemente flessibili alle istanze di politica economica generale senza tradire la struttura regionalista del nostro ordinamento quando tali istanze esigono l’interferenza dello Stato nelle materie di competenza regionale”.
Nella sua decisione la Corte, dunque, sostiene che di fronte ad una situazione di “chiara sovrapposizione di competenze” sia necessario, ai fini della valutazione della legittimità dell’intervento dello Stato, procedere “ponderando, in termini di proporzionalità e ragionevolezza, l’interesse pubblico sottostante all’assunzione da parte dello Stato di funzioni parzialmente sovrapponibili a quelle regionali con quello sotteso alle medesime funzioni delle Regioni”. Tale ponderazione “non può che avvenire in una sede di concertazione istituzionale di tipo collegiale” rappresentata nel caso di specie dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, “ove la concreta ripartizione dei finanziamenti a carico del fondo statale e le verifiche afferenti alla concreta attuazione del programma strutturale possono essere vagliate e disciplinate in coerenza con principi di proporzionalità e ragionevolezza, in modo da evitare effetti distorsivi in ordine al riparto delle risorse sui territori regionali”.
La ratio della sentenza in esame, in estrema sintesi, è volta a corroborare il principio di leale collaborazione non solo con adeguate strutture procedimentali, ma anche con elementi di tipo sostanziale. A tale orientamento si sono ispirate le pronunce nn. 71 e 74 del 2018 in cui la Corte costituzionale ha valutato la illegittimità di disposizioni statali finanziarie che non prevedevano il coinvolgimento leale e paritario delle Regioni nella distribuzione dei fondi.
In materia di distribuzione dei fondi merita di essere citata la sentenza n. 103 del 2018, afferente all’istituto della leale collaborazione sotto diversi profili, la quale giunge a dichiarare illegittimo il taglio statale di 750 ml di euro disposto a carico delle Regioni in relazione all’anno 2020.
Nel corso del tempo la giurisprudenza costituzionale ha mostrato particolare sensibilità nei confronti del tema dei tagli alla spesa sanitaria: a tal proposito, la sentenza n. 169 del 2017 è giunta a qualificare la spesa sanitaria come spesa costituzionalmente necessaria, evidenziando in successive pronunce il rischio di smantellamento del welfare sanitario a seguito di importanti tagli.
Sulla scorta di quanto detto, emerge il ruolo fondamentale assunto dalla Corte costituzionale in materia giurisprudenziale, la quale ha contribuito ad arricchire di nuovo significato il principio di leale collaborazione nell’ambito del regionalismo italiano. Stato e autonomie territoriali, difatti, sono diventati gli attori principali di un sistema che esige un costante confronto e capacità di coordinazione a prescindere dal riparto di competenze descritto dall’art. 117 Cost.
Gli eventi degli ultimi anni ed in particolare la confusione generata dalla crisi pandemica nei rapporti tra Stato e Regioni, attestano la necessità di un riordino delle forme di raccordo interistituzionale, volte alla valorizzazione dell’autonomia territoriale e che siano dotate della capacità di contrastare le spinte disgregatrici.
Tale processo di riordino appare di vitale importanza, tanto più se si considera che una riforma costituzionale inerente allo strumento delle Conferenze appare come una chimera e vista l’impossibilità di procedere all’attuazione del principio di leale collaborazione a livello legislativo. In tale ambito, pertanto, appare essenziale potenziare e sviluppare il sistema delle Conferenze in quanto sedi idonee a realizzare, secondo le parole della Corte costituzionale, “l’integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze degli enti territoriali coinvolti, tutte le volte in cui siano in discussione temi comuni a tutto il sistema delle autonomie”. A tal fine, pertanto, dovrebbero essere previste delle regole certe sottese alla definizione di procedure chiare, certe e trasparenti per consentire l’assunzione delle decisioni da parte delle Conferenze stesse.
In ultimo, appare opportuno sottolineare, quanto sia rilevante una definizione dei confini tra legislazione statale e regionale attraverso strumenti di natura parlamentare, quali i regolamenti, che consentano alle disposizioni di essere dotate di quella flessibilità necessaria a rapportarsi ai rigidi schemi in presenza di sovrapposizioni di competenze statali e di competenze regionali, superando in tal modo i limiti imposti dall’art. 117 della Costituzione.
Non vi è dubbio che il raggiungimento di un profondo equilibrio nei rapporti tra Stato e Regioni idoneo ad una rapida e ponderata composizione dei conflitti nella gestione delle competenze a loro intestate appare un obiettivo molto arduo da raggiungere e che presuppone una certa consapevolezza della cultura politica da parte degli attori coinvolti, idonea ad agevolare quei cambiamenti. Cultura politica che dovrebbe essere depurata da rigide posizioni partitiche sia da parte del governo centrale che regionale, che offuscano quel processo di maturazione culturale volto ad enfatizzare gli spazi di autonomie regionale, unitamente alla capacità dei politici regionali e locali di agevolare quella autonomia dialogando in modo costruttivo con i diretti interlocutori.
Uno spirito collaborativo, dunque, necessario ed imposto dalla situazione attuale, richiede il raggiungimento di un perfetto equilibrio nel bilanciamento tra le prerogative dello Stato, quale ente preposto alla gestione dell’emergenza, e quelle delle Regioni, in quanto enti deputati ad interpretare e realizzare maggiormente le esigenze della propria popolazione.
Al di là delle rispettive rivendicazioni, infatti, si deve tenere a mente che il fine ultimo della dialettica fra emergenza sanitaria ed emergenza normativa deve sempre essere orientata verso la tutela inviolabile della salute dei cittadini e dal momento che, secondo le emblematiche parole enunciate dal Procuratore generale f.f. della Corte dei conti in occasione della cerimonia di parificazione del 2020 in precedenza evocata, la civiltà di un Popolo si misura con la sua capacità di “humana pietas” nei confronti dei più deboli e dei disadattati, risulta sempre più importante il ruolo delle Autonomie locali e dei Comuni in particolare, custodi del rapporto diretto tra cittadini e istituzioni, affinché in futuro non si ripetano drammi della solitudine e dell’abbandono.
Quella capacità di compassione e di attenzione nei confronti di chi ha sofferto, di chi ha subito perdite irreparabili e di chi sta ancora scontando gli effetti economici disastrosi causati dalla pandemia dovrebbe essere fatta propria non solo dai nostri governanti, ma ancor di più da quei Paesi che sono mossi nelle loro decisioni in sede europea solo da rigide logiche individualistiche e di profitto e che continuano ad ostacolare il difficile e travagliato processo di aggregazione e di unità tra i Paesi dell’Unione europea.
CONCLUSIONI
- Alla luce di quanto esposto in ordine alle principali tematiche succintamente esaminate in questo trattato, non si può fare a meno di annotare che il perdurare dello stato emergenziale legato all’evento pandemico ha inevitabilmente acuito ed enfatizzato quelle criticità e quelle problematiche radicate nell’impianto strutturale del nostro ordinamento, evidenziando, parimenti, quelle disfunzioni esistenti nel sistema delle fonti e riaccendendo il dibattito politico in merito all’instabilità nei rapporti tra Governo e Parlamento da un lato e Governo e Autonomie dall’altro.
Le debolezze insite nel nostro ordinamento che lo stato emergenziale ha inevitabilmente fatto riemergere, con inevitabili effetti distorsivi sui dettami incardinati nella nostra Carta costituzionale, impongono una riflessione profonda in ordine alla necessità di apportare serie e ragionate modifiche costituzionali alle nostre Istituzioni.
Riforme significative appaiono tanto più necessarie di fronte all’assenza di dialettica che ha caratterizzato i rapporti tra Governo e Regioni nelle azioni di contrasto al coronavirus. Un dialogo più costruttivo con le Regioni sarebbe stato auspicabile durante la gestione soprattutto iniziale e successiva del fenomeno pandemico, tanto più se si considera che il virus si è atteggiato in modo differente nei vari territori, alcuni dei quali, come già detto, sono stati colpiti molto più duramente rispetto ad altri durante la prima ondata. Avere come interlocutori costanti i Presidenti delle Regioni, pertanto, avrebbe aiutato il Governo a comprendere meglio e con più celerità le esigenze proprie di ogni territorio, ed avrebbe evitato quegli interventi da parte di alcuni Governatori che con le loro ordinanze, spesso, si sono mossi in ordine sparso e che tanto sono stati stigmatizzati dall’Esecutivo. Un coordinamento territoriale più flessibile, pertanto, nella gestione dell’emergenza sanitaria, considerando anche la marginalizzazione del Parlamento, sarebbe stato preferibile in un quadro che dovrebbe essere omogeneo a livello nazionale, ma che investe realtà regionali profondamente diversificate.
In tale contesto, è auspicabile, altresì, ai fini della gestione delle emergenze, un percorso comune volto a chiarire in modo definitivo gli ambiti di competenza statale e regionale, senza dover ricorrere necessariamente alla più volte invocata clausola di supremazia a favore dello Stato ed avvalendosi, pertanto, del principio della leale collaborazione introdotto dal titolo V, al quale devono ispirarsi strumenti più flessibili e partecipativi idonei a rappresentare meglio la mutevole realtà economica e sociale del nostro Paese.
Una nuova stagione di riforme si profila quanto mai necessaria, anche in virtù del risultato elettorale che si è espresso a favore della riforma costituzionale volta a tagliare il numero dei parlamentari. Tale risultato, a ben vedere, è stato il frutto di uno spirito antipolitico punitivo manifestato ormai da molti anni dai cittadini, piuttosto che il risultato di una scelta ponderata ed attenta conseguente ad una analisi approfondita del testo oggetto della riforma. Tanto più che gli stessi sostenitori della modifica concernente gli articoli 56 e 57 della Costituzione, all’esito positivo del risultato elettorale, si sono espressi concordando sulla necessità di avviare immediatamente un confronto politico sulle numerose riforme strettamente connesse al taglio dei parlamentari, in mancanza delle quali si potrebbero avere rilevanti squilibri operativi e sistemici, svilendo ulteriormente la figura del Parlamento.
Invero, a parere di chi scrive, è proprio il Parlamento che deve riappropriarsi del suo ruolo naturale di decisore politico nazionale, trovando nuova linfa nei suoi rappresentanti e nelle sue strutture interne, sicuramente bisognose di un ammodernamento e ristrutturazione, ritrovando quella identità che legittima le funzioni proprie ad esso intestate, che non possono risolversi nella mera funzione di ratifica delle decisioni adottate dal Governo.
Archiviato il periodo delle elezioni regionali e di modifica costituzionale, si è tornati a volgere l’attenzione alle problematiche connesse ai devastanti effetti negativi economici/finanziari prodotti nel nostro Paese dal protrarsi della pandemia, che nell’ultimo mese ha ripreso nuovo vigore, registrando un aumento allarmante dei casi positivi e del numero dei ricoveri presso le terapie intensive in molte Regioni italiane, costringendo, in tal modo, il Governo ad intervenire con nuove misure di contrasto attraverso lo strumento del dpcm. Le disposizioni contenute nei nuovi dpcm non hanno soddisfatto ancora una volta le richieste proveniente dalla maggior parte delle Regioni, che hanno lamentato l’assenza dello Stato sia nella predisposizione di linee-guida puntuali e dettagliate sottese alla gestione delle cure da somministrare, sia negli interventi da adottare volti al controllo dei territori per contenere il virus.
A tal riguardo, un ulteriore esempio di mancata collaborazione tra Governo e Regioni la si evince dal dpcm del 18 ottobre, la cui pubblicazione è stata preceduta da aspre critiche sollevate dal Presidente dell’ANCI, unitamente a quelle di molti sindaci, che hanno ritenuto uno sgarbo istituzionale l’inserimento della norma che assegnava ai sindaci il compito di chiudere strade e piazze come misura di restrizione anti-movida, senza essere interpellati. Nel testo definitivo il riferimento ai sindaci è stato poi espunto dall’art. 1 dello stesso dpcm ai sensi del quale “Delle strade o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, può essere disposta la chiusura al pubblico dopo le 21…”. Il Governo, nel chiarire successivamente che nell’adozione di tali misure saranno comunque i sindaci con il necessario supporto dei Prefetti a dover intervenire ove si dovessero presentare delle situazioni di pericolo di assembramento, non è riuscito comunque a fugare le numerose perplessità generate dal testo in ordine alle modalità con cui procedere.
L’avvento del nuovo dpcm del 25 ottobre, emanato a seguito del diffondersi del virus a livello esponenziale nelle settimane che lo hanno preceduto e che hanno visto l’Italia allinearsi in modo preoccupante ai numeri registrati negli altri Paesi europei, è stato accolto con scettiscismo e riluttanza dal mondo dell’imprenditoria, che ha disapprovato tale misura restrittiva in quanto tesa ad impattare in modo significativo solamente su alcune categorie già duramente colpite nella prima fase dello stato emergenziale, che ancora non hanno avuto pienamente ristoro e che rischiano di essere definitivamente affossate se non saranno sostenute da imminenti e tempestivi aiuti economici da parte dello Stato. Anche Confindustria ha lamentato l’assenza di condivisione da parte del Governo delle misure più idonee da adottare per combattere in modo efficacie e tempestivo gli effetti distorsivi della pandemia, osservando che si è arrivati impreparati in questa seconda fase. Per cercare di ovviare alle tante problematiche, dunque, il Governo ha proceduto con l’adozione di una serie di decreti Ristori.
In tale clima infuocato, nel susseguirsi dei vari dpcm, le opposizioni, nel rivendicare il proprio ruolo all’interno della scena politica, hanno ammonito il Governo per non aver potuto contribuire alla produzione delle disposizioni di contrasto al Coronavirus, di talché la tardiva richiesta di collaborazione da parte del Governo ai partiti del centro-destra non ha incontrato il favore dei loro leader, i quali hanno legittimamente declinato l’invito del Presidente del Consiglio a partecipare ad una cabina di regia parlamentare per condividere le scelte contro il SarsCov2, adducendo come motivazione che l’unica sede deputata a dare vita ad un confronto politico serio è il Parlamento della Repubblica Italiana.
A sedare gli animi è intervenuto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rammentando, nel messaggio inviato al Presidente dell’Unione Nazionale Comuni, Comunità ed Enti Montani, in occasione del congresso e dell’assemblea dell’Uncem, che “La battaglia che stiamo conducendo, tutti insieme, per contrastare la pandemia e per assicurare il massimo possibile di protezione ai nostri concittadini, in particolare ai più fragili, ci obbliga a riunioni a distanza. Proprio la responsabilità comune nel difendere il bene primario della vita, contenendo il contagio e affrontandone le conseguenze, sanitarie, sociali, economiche, ci fa comprendere ancor meglio l’importanza di una leale e fattiva collaborazione tra le Istituzioni della Repubblica”. Il Presidente Mattarella rivolgerà la medesima preghiera di collaborazione a tutte le forze politiche in altre occasioni istituzionali, enfatizzando la necessità di compiere sacrifici ulteriori per il bene nazionale.
Nuovi sforzi in tal senso hanno permesso di giungere ad un primo approccio al dialogo tra le forze politiche antagoniste in sede parlamentare, la quale ha favorito un confronto diretto tra maggioranza ed opposizione nella lotta alla pandemia. Da qualche settimane la prima Commissione del Senato sta lavorando al tema afferente alle «Modalità più efficaci per l’esercizio delle prerogative costituzionali del parlamento nell’ambito di un’emergenza dichiarata”, nel cui ambito si sono svolte delle audizioni di esperti costituzionalisti, i quali hanno bocciato in toto la Conferenza unificata dei capigruppo come strumento principe voluto dal Governo come luogo parlamentare di confronto, in quanto sede «non trasparente», più adatta a «un vertice politico», prediligendo, invece, una commissione bicamerale per l’emergenza con compiti di controllo e informazione.
Lo scenario che si profila allo stato attuale è decisamente critico, alla luce dei dati registrati nelle varie Regioni sia in termini di ricoveri che in termini di terapie intensive occupate, in forza dei quali è stato necessario intervenire con un nuovo provvedimento restrittivo, così come accennato in precedenza, il DPCM del 3 novembre che ha interessato i vari territori in modo diversificato, ripartendo le Regioni in tre fasce colorate, in base alla gravità del quadro Covid così come delineato dalla griglia dei 21 indicatori definita ad aprile scorso dall’Istituto superiore di sanità-Comitato tecnico scientifico. In questo caso, il Capo dell’Esecutivo ha tenuto un approccio differente rispetto al passato, scegliendo di condividere le responsabilità e di non assumersi l’onere di procedere alle eventuali chiusure con un atto di imperio, evitando il biasimo delle categorie produttive più colpite, ormai sul piede di guerra. È stato, pertanto, conferito ad un’ordinanza del Ministro della Salute il compito di stabilire di volta in volta le varie strette che andranno ad impattare sulle Regioni.
Una dura battaglia attende il nostro Paese, ormai pienamente investito dalla seconda ondata da Covid-19, a causa della quale si teme un imminente nuovo lockdown, le cui conseguenze potrebbero essere di gran lunga peggiori e nefaste rispetto a quelle emerse negli ultimi mesi, che hanno paralizzato l’intero tessuto economico e sociale italiano, con devastanti effetti negativi economici/finanziari nel mondo del mercato del lavoro, unitamente ad una conclamata e prevedibile emergenza sanitaria. Per tale motivo è doveroso nei confronti dei cittadini italiani individuare il prima possibile soluzioni idonee e strumenti di contrasto alla crisi, attraverso un’attività sinergica tra tutte le forze in campo, superando discussioni sterili e personali rivendicazioni, che non giovano al nostro Paese e che possono costituire un ostacolo a quello che dovrebbe essere l’obiettivo primario comune a tutti i Paesi del Mondo, la tutela dell’individuo in tutte le sue declinazioni.
Una sana e fattiva collaborazione tra tutte le forze in campo consentirebbe all’Italia di superare quelle difficoltà ataviche legate all’incapacità del nostro Paese di usufruire dei miliardi dei programmi di cofinanziamento delle istituzioni europee e di iniziare un percorso costruttivo di rinascita strutturale investendo i fondi europei che arriveranno attraverso lo strumento del Recovery found nei settori strategici per l’Unione (infrastrutture, digitale, ambiente), finanziando parimenti riforme strutturali in quei settori che presentano particolari criticità, unitamente ad una reale politica di sostegno ai settori più duramente colpiti dalla pandemia. Questi obiettivi, in coerenza alle indicazioni dell’Unione europea, insieme alla creazione di un clima economico più competitivo che deve necessariamente passare per la semplificazione amministrativa, costituiscono certamente un compito arduo per il nostro Paese, ma devono fungere allo stesso tempo da volano per lo sviluppo futuro della nostra Nazione.
Un arduo e delicato compito attende, difatti, il Governo nella gestione post emergenziale connesso ad un impatto espansivo degli interventi predisposti dallo stesso Esecutivo. Il percorso è impervio e denso di difficoltà, molte delle quali sono state esplicitate da Bankitalia, Corte dei conti e dall’Ufficio parlamentare del bilancio in sede di audizione sul disegno di legge di bilancio. Secondo la fotografia scattata da Bankitalia, nell’ultimo trimestre dell’anno la ripresa dell’economia nazionale sarà «verosimilmente più lenta” e la contrazione delle attività sarà comunque “di ampiezza lontana da quella primaverile”. Secondo le stime di Bankitalia, inoltre, “la crescita del 2021 sarà probabilmente inferiore a quanto previsto all’inizio dell’autunno, sia in Italia sia nel resto d’Europa”.
In questo clima di incertezze, aggiunge Bankitalia, sono fondamentali gli aiuti governativi ai settori economici più colpiti ed è fondamentale «preservare le imprese temporaneamente in difficoltà ma fondamentalmente solide per evitare che la crisi abbia ripercussioni permanenti». Di talché la strategia gestionale dello strumento dei sussidi dovrà essere ben ponderata e “l’entità dell’effetto macroeconomico dei progetti di investimento e di riforma dipenderà però soprattutto dalla loro definizione concreta nell’ambito del Piano nazionale di rilancio e resilienza e dalla loro attuazione tempestiva”, ponendo una grande attenzione alla fase esecutiva, “precisandoi dettagli ed evitando sprechi, ritardi e inefficienze”.
Nel volgere l’attenzione a riforme strutturali, Bankitalia enfatizza le carenze sottese alla riforma fiscale, a causa delle risorse “relativamente contenute”. A corroborare tale posizione, è intervenuta la Corte dei conti che nella memoria inviata al Parlamento sottolinea che «Non si può non rilevare come la mancanza di elementi qualificanti delle misure che si intende assumere in temi di particolare rilievo, come quello della riforma fiscale, rischia di depotenziare l’effetto di stimolo atteso». Nella loro disamina i giudici contabili avrebbero auspicato la presentazione, in contemporanea con la legge di bilancio, di un disegno di legge delega che «avrebbe chiarito le direttrici su cui ci si intende muovere e reso più consistente l’impatto sulla crescita».
Nella citata memoria la Corte dei conti, altresì, rivolge un giudizio impietoso sull’attuazione di molte misure anti Covid adottate dalle Regioni, segnalando numerosi ritardi che hanno compromesso la capacità del SSN di far fronte alla seconda ondata.
La critica dell’Ufficio parlamentare di Bilancio in sede di esame del disegno di legge di bilancio investe, infine, la struttura della politica di bilancio «parzialmente indefinita”, dove «si intrecciano misure ancora emergenziali, elementi di interventi strutturali e indicazioni di larga massima sull’utilizzo dei fondi europei, in un insieme accompagnato da una serie di norme di dettaglio microsettoriali».
In tale scenario nebuloso e denso di incertezze in cui il nostro Governo si muove, uno spiraglio di luce si intravede a seguito dell’intesa raggiunta in questi giorni in sede di Consiglio europeo sul bilancio comunitario 2021-2027 e sul Recovery fund, un pacchetto da 750 miliardi di euro volta a rilanciare l’economia continentale, messa in ginocchio dal Covid19. Tale risultato è stato possibile grazie ad un compromesso raggiunto con la Presidenza tedesca, che ha consentito di superati i veti di Ungheria e Polonia che rischiavano di minare l’accordo. Ai fini della sua entrata in vigore, il “pacchetto” deve prima essere consolidato attraverso l’approvazione del Parlamento europeo, mentre la ratifica della decisione sulle risorse proprie spetterà ai Parlamenti nazionali.
Il buon esito di tale accordo rappresenta un’occasione importantissima per la ricostruzione dell’economia del nostro Paese, che avrà a disposizione 209 miliardi per i prossimi sette anni, risorse ingenti da sfruttare per rinnovare interi settori totalmente abbandonati, come ad esempio la sanità, che necessita da tempo di una riorganizzazione radicale e di una revisione strutturale dell’intero Ssn. Risultano insufficienti, dunque, i 9 miliardi destinati alla salute previsti nella bozza del Recovery plan, il cui esame è stato avviato in Consiglio dei ministri il 7 dicembre e che ha sollevato un fiume di critiche provenienti da più parti, tanto più se si considera che l’Italia sta pagando un prezzo altissimo in termini di morti. Nonostante ai 9 miliardi del progetto destinati all‘assistenza di prossimità, telemedicina e digitalizzazione dei servizi, si debbano aggiungere le risorse contenute nel capitolo dedicato all‘edilizia sanitaria ancora non quantificate, oltre alle somme stanziate dal Governo dall‘inizio della pandemia per il rafforzamento del sistema sanitario, non si può ritenere sufficiente quanto programmato nella ripartizione dei fondi provenienti dall‘Unione europea dopo anni di tagli alle risorse per il personale e incrementi del Fondo sanitario inferiori all’inflazione (che equivale sostanzialmente a un definanziamento!).
Ad ogni buon conto, alla luce dell’insperato e incredibile risultato raggiunto in sede europea, l’auspicio è che si possa avviare una collaborazione inclusiva di tutte le forze politiche in campo da un lato e dei massimi esperti nei settori fondamentali per il nostro Paese, tutti uniti con spirito costruttivo e progetti comuni al fine di infondere nuova speranza al nostro Paese, sanando le ferite profonde generate dalla pandemia. Speranza e fiducia che devono necessariamente arrivare ai cittadini non solo attraverso una fattiva azione sinergica degli attori politici, ma anche attraverso una fondamentale comunicazione ai cittadini sia di precisi obiettivi economici da raggiungere sia di indicazioni puntuali nei comportamenti da tenere per il benessere collettivo; indicazioni che necessitano di fermezza, chiarezza e coerenza affinché non vengano recepiti dai loro destinatari in modo distorto, generando solamente incertezze e confusione che possono rallentare la corsa verso la vittoria nella lotta al Covid19.