Di Tommaso Maria Cucci(1) e Silvia Codispoti(2)
Sommario: 1. Premessa -2. Le posizioni dei soggetti coinvolti, in particolare quella del proprietario incolpevole –3. La risposta della Corte di Giustizia Europea – 4.Conclusioni e rilievi critici.
1.Premessa
L’ambiente costituisce un bene «a fruizione collettiva», in quanto esso appartiene a tutta la collettività, legittimata ad utilizzarne le risorse naturali.
Come bene a fruizione collettiva, l’ambiente è esposto all’intervento di soggetti diversi, tenuti ciascuno al rispetto di specifiche regole, preordinate ad assicurare un’utilizzazione accorta e razionale dell’area naturale.
Il presente lavoro si propone di offrire una ricostruzione sistematica ed alcuni profili di riflessione in merito al principio europeista “chi inquina paga” alla luce delle recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione.
2.Le posizioni dei soggetti coinvolti, in particolare quella del proprietario incolpevole
La normativa di riferimento da cui prendere le mosse è costituita dal Titolo V della Parte VI del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – d’ora in poi anche Codice dell’Ambiente – che si occupa specificamente della bonifica dei siti contaminanti(3).
La materia costituisce il frutto del recepimento della Direttiva 2004/35/CE da parte del Legislatore interno. In particolare, l’intento europeista è stato quello di armonizzare i regimi di responsabilità civile negli Stati membri, mirando a garantire che i costi ambientali siano posti a carico di colui che inquina, a prescindere dall’accertamento del dolo e della colpa(4).
Note:
1) Avvocato Amministrativista del Foro di Roma
2) Avvocato Amministrativista del Foro di Roma
3) Cfr. art. 239, 1° comma ai sensi del quale “Il presente titolo disciplina gli interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti contaminati e definisce le procedure, i criteri e le modalità per lo svolgimento delle operazioni necessarie per l’eliminazione delle sorgenti dell’inquinamento e comunque per la riduzione delle concentrazioni delle sostanze inquinanti, in armonia con i principi e le norme comunitarie, con particolare riferimento al principio “chi inquina paga”.
4) Per un inquadramento generale sulla Direttiva, cfr. F. GIAMPIETRO (a cura di), La responsabilità per danno all’ambiente – L’attuazione della direttiva 35/2004/CE, Giuffrè, Milano, 2006. Cfr. anche M.P. GIRACCA, Danno ambientale, R. FERRARA, M.A. SANDULLI (a cura di), I, Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Giuffrè, Milano, 2014, 592 ss. Com’è noto, dapprima, la fonte normativa principale era costituita dall’art. 18 della l. 8 luglio 1986 n. 346, che sanzionava, sulla falsariga della responsabilità civile, qualunque fatto doloso o colposo compiuto in violazione di leggi o provvedimenti posti a tutela dell’ambiente, cagionando danno a quest’ultimo.
Si configurava, quindi, una responsabilità di tipo soggettivo, poiché fondata sull’accertamento del dolo o della colpa, a fronte di un illecito “tipico”, poiché il danno doveva eziologicamente derivare dalla violazione di leggi o regolamenti posti a tutela dell’ambiente. Alla luce di tale normativa, l’Unione Europea ha avviato una serie di procedure di infrazione nei confronti dell’Italia, in quanto la responsabilità prettamente soggettiva non era ritenuta idonea ad assicurare un livello di tutela ambientale conforme agli standard europei.
Ad oggi, infatti, la responsabilità ambientale ha natura sostanzialmente oggettiva, in quanto essa si fonda esclusivamente sullo svolgimento di un’attività potenzialmente (e poi realmente) inquinante per l’ambiente.
Di conseguenza, risulta sbiadito l’elemento soggettivo a tutto vantaggio del mero nesso di causalità tra lo svolgimento di un’attività ex se inquinante e il danno ambientale potenziale o effettivo(5).
Procedendo con ordine, occorre rilevare che gli obblighi di bonifica incombono, in prima battuta, sull’operatore economico. Costui, a norma degli artt. 304 e 305 Codice dell’Ambiente, è tenuto ad adottare le misure di prevenzione a fronte della minaccia di un danno ambientale (cd. danno imminente) e la misure di ripristino/riparazione quando il danno si è verificato (cd. danno reale).
In capo all’operatore economico, si configura una “responsabilità oggettiva imprenditoriale”, connessa, come illustrato in precedenza, all’esercizio di un’attività economica o di altra natura intrinsecamente pericolosa per l’ambiente(6). In sostanza, si tratta di una responsabilità del tutto peculiare il cui criterio di imputazione non è l’elemento soggettivo, ma il nesso di causalità tra l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, e il danno ambientale. Detto altrimenti, i costi derivanti dal pregiudizio arrecato all’ambiente vengono imputati ai soggetti che, assumendo il
Note:
5) Per danno ambientale si intende secondo la definizione legislativa contenuta nell’art. 300, primo comma d.lgs. 152/2006 «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima».
Il soggetto legittimato ad agire in giudizio per il risarcimento di tale danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio.
6) Per «attività professionale» si intende qualsiasi azione, pubblica o privata, con o senza scopo di lucro, svolta in ambito economico, industriale, commerciale, artigianale o agricola, aventi incidenza sul bene ambiente. In particolare, tali attività sono elencate nell’Allegato 3 della Direttiva (e nell’Allegato 5 della parte sesta del Codice dell’Ambiente); trattasi di attività che implicano, tra l’altro, lo scarico di metalli pesanti nell’acqua o nell’aria, impianti che producono sostanze pericolose, prodotti fitosanitari e biocidi, attività di gestione di rifiuti e attività che implicano l’uso, il trasporto, il rilascio nell’ambiente nonché il commercio di microrganismi geneticamente modificati. Tale elenco deve considerarsi tassativo, nella misura in cui lo svolgimento di una di tali attività comporta per l’inquinatore, potenziale o reale, una responsabilità senza colpa. Per contro, v’è da chiedersi se l’operatore che svolga un’attività non inclusa nell’Allegato, ma che ponga un rischio virtuale o effettivo per la salubrità ambientale, goda invece di un regime “privilegiato” di responsabilità per dolo o colpa.
rischio d’impresa legato ad un’attività potenzialmente (e poi realmente) nociva, esercitino in concreto tale attività.
Pertanto, gli operatori economici che utilizzano strutture produttive contaminate e fonti di perdurante contaminazione sono, per ciò solo, tenuti a sostenere integralmente i costi necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute pubblica.
A ben guardare, la ratio di tale disciplina è sintetizzabile nel principio romanistico “cuius commoda et eius incommoda”, poi codificato dall’art. 2050 c.c. in materia di responsabilità civile per lo svolgimento di attività pericolose.
Diversamente è a dirsi per il proprietario non responsabile dell’inquinamento. Costui viene richiamato in diversi articoli dedicati alla bonifica dei siti inquinanti (artt. 244, 245 e 253 d.lgs. 152/2006).
Dalla disamina delle norme interessate emergono obblighi differenti a carico del titolare del diritto dominicale esistente sul sito inquinato.
In primo luogo, l’art. 245 pone a carico dei soggetti non responsabili della contaminazione, come il proprietario o il gestore dell’area che rilevino il superamento (o il pericolo di superamento) della concentrazione soglia di contaminazione, l’obbligo di adottare le misure preventive necessarie e di darne immediata comunicazione all’Amministrazione competente(7).
In secondo luogo, è previsto che il proprietario possa adottare spontaneamente le misure di bonifica del sito inquinato, fermo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito (cfr. art. 253, quarto comma, secondo periodo).
Infine, a norma dell’art. 253, quarto comma, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241,
Note:
7) Art. 245 (Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione) 1. Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili. 2. Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. E’ comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà’ o disponibilità.
le spese degli interventi adottati dall’Autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi.
Si tratta, quindi, di una responsabilità «da posizione» di natura sussidiaria e patrimoniale, che deriva dal fatto che gli interventi di bonifica, a norma dell’art. 253, vanno a costituire un onere reale sui siti contaminati qualora siano effettuati dalla PA.
Stando alla lettera delle suddette norme, incombono sul proprietario due obbligazioni distinte: l’una è quella di adottare le misure di prevenzione e messa in sicurezza (art. 245), l’altra consiste nel rimborso della spese sostenute dall’Amministrazione (art. 253).
Nella prassi, alla luce delle difficoltà incontrate nell’individuare i singoli responsabili all’origine della contaminazione, la PA ha spesso ricompreso nell’ambito delle misure di prevenzione a carico del proprietario anche quelle di risanamento ambientale, con conseguente imposizione di ordini di bonifica vera e propria del sito inquinato.
Di qui il proliferare dei ricorsi dinanzi ai giudici amministrativi da parte dei proprietari “incolpevoli”, che contestano l’insussistenza di un obbligo normativamente fissato che ponga a loro carico l’adozione di misure di messa in sicurezza e bonifica.
In seno alla giurisprudenza amministrativa si formano due orientamenti opposti: quello minoritario, volto a configurare in capo al proprietario una responsabilità essenzialmente oggettiva, connessa al solo rapporto di fatto con il fondo inquinato e dalla quale deriva l’obbligo di provvedere alla bonifica; l’altro, maggioritario, che riconosce in capo al medesimo l’obbligo di sostenere il costo degli interventi qualora siano sostenuti dalla PA, ma nessun’altra obbligazione di facere se non quella di adottare le misure di prevenzione a norma dell’art. 245(8).
3.La risposta della Corte di Giustizia Europea
Con due sentenze, emesse a 5 anni esatti di distanza l’una dall’altra – segnatamente la Sentenza 9 marzo 2010 C-378/08 ERG e la sentenza 4 marzo 2015 C-534/13 Fipa Group – la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha fornito delle linee interpretative in merito alla portata normativa del principio “chi inquina paga” di enorme impatto sia per l’interprete, sia per i soggetti a vario titolo coinvolti (operatori economici, proprietari dei siti e amministrazione), sia infine per il sistema tutto.
Note:
8) Più di recente, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato (n. 1054/2015), facendo seguito alle già citate ordinanze 21 e 25 del 2013, evidenzia come parte della giurisprudenza amministrativa avesse messo in luce come la previsione a carico del proprietario incolpevole degli interventi di bonifica fosse comunque attuativa della funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42 Cost.
La prima pronuncia trae origine dalla seguente situazione di fatto: l’Autorità ha imposto l’adozione di obblighi di facere nei confronti dei soggetti operanti sul sito all’epoca del provvedimento stesso, senza svolgere alcuna specifica istruttoria in merito al nesso causale tra l’attività in concreto svolta dai destinatari del provvedimento e l’inquinamento accertato. Il provvedimento dell’Autorità veniva impugnato delle imprese coinvolte.
Il TAR Sicilia ha sollevato diverse questioni interpretative alla CGUE di compatibilità della normativa italiana (codice Ambiente) rispetto alla Direttiva 2004/35/CE.
Con la Sentenza 9 marzo 2010 C-378/08 ERG la CGUE ha statuito quanto segue:
Quando, in un’ipotesi d’inquinamento ambientale, non sono soddisfatti i presupposti d’applicazione ratione temporis e/o ratione materiae della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, un’ipotesi del genere dovrà essere allora disciplinata dal diritto nazionale, nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato.
La direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
Gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi”.
Il fatto che ha dato origine alla seconda pronuncia in commento ha visto, invece, l’Amministrazione imporre ad un operatore economico pacificamente non responsabile dell’inquinamento accertato – in quanto l’inquinamento era stato generato da un diverso operatore che aveva prodotto la contaminazione in epoca precedente, aveva provveduto a misure inidonee di bonifica ed aveva poi alienato l’area all’operatore destinatario del provvedimento – di adottare misure di messa in sicurezza d’urgenza e di bonifica quale custode dell’area, in solido con il soggetto responsabile della contaminazione.
I provvedimenti sono stati impugnati dai proprietari incolpevoli sotto diversi profili; il TAR ha accolto i ricorsi conformandosi all’orientamento maggioritario, confortato dalla sentenza sopra citata. Il Consiglio di Stato, investito del gravame, ha rimesso la questione alla CGUE la quale, con Sentenza 4 marzo 2015, C. 534/13, ha concluso come segue: “La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”.
Dall’esame complessivo delle due pronunce emerge pertanto il seguente assetto.
In caso di inquinamento accertato l’Amministrazione deve dimostrare con idonea istruttoria, in modo rigoroso, il nesso di causalità tra l’inquinamento stesso e l’attività dell’operatore economico destinatario della misura di riparazione, nel caso di attività di cui all’Allegato 5 del Codice, non è invece necessario dimostrare l’intento doloso ed il comportamento doloso o colposo.
Nel caso in cui, all’esito dell’istruttoria svolta, non sia stato possibile individuare l’operatore responsabile, ovvero costui non può provvedere, all’Amministrazione è inibita la facoltà di imporre al proprietario incolpevole l’adozione di misure di riparazione essendo quest’ultimo responsabile solo patrimonialmente.
4.Conclusioni e rilievi critici
Le pronunce in commento offrono la possibilità di tracciare la portata normativa del principio “chi inquina paga”.
La vexata quaestio è se il principio in esame possa essere interpretato nel senso che le conseguenze del danno ambientale debbano essere rivolte esclusivamente nei confronti dell’operatore che ha prodotto l’inquinamento (e dare pertanto rilevanza al “chi”) ovvero se tale principio debba essere inteso nel senso di evitare comunque che il peso dell’inquinamento possa essere collettivizzato, consentendo quindi di porlo a carico del soggetto più prossimo (il proprietario incolpevole).
Dalla lettura degli arresti in commento appare chiaro che la Curia lussemburghese ha scelto la prima delle ipotesi richiedendo un preciso onere probatorio sul nesso causale che lega l’inquinamento al soggetto destinatario del provvedimento amministrativo.
Le conclusioni non potevano che essere quelle in concreto raggiunte se si considera che, a ben veder, tutta la normativa europea persegue l’obbiettivo della creazione di un mercato unico equo, privo di discriminazioni ed aperto alla più ampia forma di concorrenza.
Se così è la Corte non avrebbe potuto sostenere un ordinamento che imponesse oneri estremamente gravosi su operatori del mercato non solo incolpevoli ma anche virtuosi, finendo per creare una pesante distorsione nel mercato unico stesso.
In ultima analisi il principio “chi inquina paga” può essere quindi letto come un corollario dello stesso mercato unico, volto a stimolare le imprese ad innescare un meccanismo virtuoso di internalizzazione dei costi ambientali in modo da prevenire gli effetti negativi sia in termini ambientali che economici di una mancata o inefficiente attività di prevenzione.