Renato Bricchetti

1. Associazione per delinquere e circostanza aggravante della transnazionalità

Cass. s.u. 31 gennaio 2013, Adami ed altro

In sintesi
La circostanza aggravante ad effetto speciale della cosiddetta transnazionalità, prevista dall’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146 è compatibile con il reato di associazione per delinquere sempreché il gruppo criminale transnazionale non coincida con l’associazione stessa.

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, pronunciando ai sensi dell’art. 444 c.p.p., ha applicato a Marco Adami, a Paolo Verrengia e ad altro imputato, le pene concordate con il Pubblico Ministero per una serie di reati oggetto di contestazione.
In particolare, ad Adami e a Verrengia, unitamente ad altri imputati, è stato contestato il reato di cui all’art. 416, commi primo, secondo, terzo e quinto, c.p., con l’aggravante prevista dall’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146, per essersi associati tra loro e con altre persone specificamente indicate (per le quali si procedeva separatamente) allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale ed altri illeciti diretti ad evadere l’imposizione fiscale, diretta ed indiretta, per ragguardevoli importi.
Secondo quanto accertato, attraverso un articolato sistema fraudolento – mediante costituzione di società fittizie, in apparenza riconducibili allo stesso gruppo; simulate relazioni negoziali tra le stesse e le società capogruppo; trasferimento di interi rami di azienda e di ingenti risorse finanziarie nonché intestazione fittizia di beni societari – era stato realizzato il progressivo svuotamento del patrimonio di diverse società. La strategia del gruppo prevedeva anche la costituzione di fittizie società con sede all’estero, segnatamente in Bulgaria ed Inghilterra, mercé il contributo collaborativo di persone lì operanti e di compiacenti prestanome.
In seno al sodalizio, che faceva capo ad uno studio di commercialisti in Roma, gli imputati avevano assunto un ruolo di rilievo come organizzatori del complesso meccanismo di frode.
Era, inoltre, stata realizzata una pluralità di reati-fine ai capi da 3 a 35 del decreto di giudizio immediato, oltre all’imputazione di cui all’ordinanza custodiale del 10 giugno 2012, riportata al capo 35-bis, così come corretta dal P.M. all’udienza del 26 ottobre 2011.
Si trattava, in particolare, di delitti di bancarotta fraudolenta impropria, con riferimento alle società specificamente indicate; sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ed altri reati tributari; appropriazione indebita e riciclaggio, in gran parte aggravati ai sensi dell’art. 4 legge n. 146 del 2006.

2. Il collegamento funzionale con nuclei operanti all’estero e lo svolgimento di attività illecite anche fuori del territorio nazionale avevano indotto gli inquirenti alla contestazione della speciale aggravante di cui al menzionato art. 4 legge n. 146 del 2006.

3. Nello specifico, la pronuncia di patteggiamento così statuiva:
A) applicava a Marco Adami la pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, così determinata: previo riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati ascritti e quelli già giudicati, nell’ambito di altro procedimento, con sentenza di patteggiamento pronunziata dallo stesso Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma il 26 ottobre 2011, il reato più grave era individuato nel delitto di cui al capo 21 della rubrica (bancarotta fraudolenta impropria) e la relativa pena-base era aumentata per effetto dell’aggravante di cui all’art. 4 legge n. 146 del 2006; era poi, diminuita per le riconosciute attenuanti generiche, giudicate prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 219, comma primo, legge fall., ed ulteriormente ridotta per la diminuente di rito;
B) applicava a Paolo Verrengia per i reati a lui ascritti la pena di anni tre e mesi sette di reclusione, oltre consequenziali statuizioni, così calcolata: riconosciuto il vincolo della continuazione, ritenuto più grave il reato di cui al capo 4 della rubrica (bancarotta fraudolenta impropria), la relativa pena-base era aumentata per effetto dell’aggravante ex art. 4 legge n. 146 del 2006 e, poi, diminuita per le riconosciute attenuanti generiche, giudicate prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 219 legge fall., ed ulteriormente diminuita per la diminuente di rito.
Ai sensi degli arti 322-ter c.p., 11 legge n. 146 del 2006 ed 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, era altresì disposta, nei confronti del Verrengia, la confisca per equivalente – per l’intero importo e fino alla concorrenza del valore di euro 19.175.570,48 – della somma di euro 200.000 versata sul Fondo Unico Giustizia, presso Equitalia Giustizia s.p.a.; e, nei confronti dell’Adami, la confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili specificamente indicati, per l’intero loro valore e fino alla concorrenza di euro 73.297.525,60.

4. Avverso l’anzidetta pronuncia il difensore di Marco Adami, avv. Gianluca Tognozzi, ed il difensore di Paolo Verrengia, avv. Pasquale Bartolo, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura di seguito indicate.
omissis

5. Con decreto del 12 novembre 2012, il Primo Presidente assegnava i ricorsi alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen., occorrendo dirimere un contrasto interpretativo insorto tra le decisioni di singole Sezioni, disponendone la trattazione all’odierna udienza camerale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

omissis

2. La questione di diritto, investita dal ricorso del Verrengia, che deve essere esaminata dalle Sezioni Unite, è la seguente: «se la circostanza aggravante ad effetto speciale della c.d. transnazionalità, prevista dall’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146, sia compatibile con il reato di associazione per delinquere o sia applicabile ai soli reati fine».
3.In limine, va riconosciuta la piena ammissibilità della censura espressa sul punto dal ricorrente Verrengia, ancorché lo stesso imputato abbia patteggiato la pena, peraltro sul presupposto della sussistenza dell’anzidetta circostanza.
Si tratta, infatti, di doglianza afferente alla definizione della fattispecie incriminatrice, in forma semplice od aggravata.
Orbene, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte regolatrice, in tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione può denunciare anche l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo negoziale e recepita dal giudice, in quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. (Sez. U, n. 5 del 19/01/2000, Neri, Rv. 215825).

4. Il tema anzidetto ha costituito oggetto di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, nei termini già segnalati dall’Ufficio del Massimario con relazione n. 15 del 18 aprile 2011.
Ed invero un primo orientamento è espresso – in tema di associazione per delinquere dedita al narcotraffico, prevista dall’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 – da Sez. 5, n. 1937 del 15/12/2010, dep. 21/01/2011, Dalti, Rv. 249099, secondo cui la speciale aggravante è concettualmente ed ontologicamente incompatibile con l’ipotesi associativa, sul riflesso che la detta circostanza presuppone l’esistenza del gruppo criminale organizzato e può accedere, pertanto, ai soli reati costituenti la diretta manifestazione dell’attività del gruppo (c.d. reati-fine dell’associazione) ovvero di quelli ai quali il gruppo abbia prestato un contributo causale.
Il secondo orientamento – nel senso dell’applicabilità della circostanza aggravante anche al reato associativo – è, invece, sostenuto da un maggior numero di pronunce emesse da diverse Sezioni: in particolare, la Terza Sezione con sentenze n. 27413 del 26/6/2012, Amendolagine, Rv. 253146; n. 11969 del 24/2/2011, Rossetti, Rv. 249760; n. 35465 del 14/07/2010, Ferruzzi, Rv. 248481; n. 10976 del 14/01/2010, Zhu, Rv. 246336; la Prima Sezione, con sentenza n. 31019 del 06/06/2012, Minnella, Rv. 253280; e, da ultimo, la stessa Quinta Sezione, con pronuncia n. 1843 del 10/11/2011, Mazzieri, Rv. 253481 , emessa, peraltro, in riferimento alla stessa vicenda sostanziale oggetto del presente giudizio, seppur nei confronti di altro imputato.

5. All’esame della questione di diritto giova premettere un breve richiamo al contesto normativo di riferimento.
La circostanza aggravante della transnazionalità
L’art. 4 della legge n. 146 del 2006, recante l’intestazione: «Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001», così dispone: «1. Per i reati previsti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla metà. – 2. Si applica altresì 11 comma 2 dell’articolo 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni.».
Si tratta, in tutta evidenza, di circostanza “speciale” – in quanto applicabile solo a determinati reati, ritenuti gravi siccome puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione – e, ad un tempo, “ad effetti speciali”, in ragione dell’entità dell’aumento di pena previsto, superiore ad un terzo, ai sensi dell’art. 63, comma 3, c.p.
All’operatività dell’aggravante è stato esteso il divieto di bilanciamento con le circostanze attenuanti diverse da quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p., previsto, per reati connessi ad attività mafiose, dall’art. 7, comma 2, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, ad eloquente sottolineatura della particolare pericolosità attribuita dal legislatore a fatti-reato alla cui realizzazione abbia dato un contributo causale un gruppo criminale organizzato «impegnato in attività criminali in più di uno Stato».

definizione di “reato transnazionale”
5.1. La lettura della norma in parola non può andare disgiunta – nell’ineludibile esigenza di una prospettiva sistematica – dall’esame di quella immediatamente precedente, che, recando la definizione di “reato transnazionale”, è con essa intimamente connessa, nell’assumere un ruolo di indubbia centralità nella complessiva impalcatura della disciplina in questione.
L’art. 3 dispone: «Ai fini della presente legge si considera reato transnazionale 11 reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché:- a) sia commesso in più di uno Stato;- b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo intervenga in un altro Stato;- c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato;- d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato».

Convenzione di Palermo
5.2. Com’è fatto palese dalla riferita intestazione, la legge n. 146 del 2006 autorizza la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite, sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000, correntemente intesa “Convenzione di Palermo” o TOC Convention (da Transnational Organized Cr/me Convention).
I Protocolli aggiunti alla Convenzione, cui si fa espresso richiamo per farne parte integrante, riguardano, rispettivamente, il traffico di immigrati clandestini (smuggling), la tratta degli esseri umani (trafficking), con specifico riferimento allo sfruttamento di donne e bambini (exploitation), ed il traffico di armi da fuoco e relative munizioni.

5.3. Scopo della Convenzione – efficacemente scolpito dall’art. 1 – è quello di promuovere la cooperazione degli Stati-parte per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace.
A fronte del dilagare di forme di criminalità organizzata travalicanti le frontiere nazionali, la comunità internazionale ha preso coscienza della pericolosità di siffatta fenomenologia e della necessità che, ai fini di una più efficace azione di contrasto, vengano adottate risposte capaci di rapportarsi alle nuove metodologie delle organizzazioni criminali. In questa prospettiva di condivisione si è cercato di rendere, quanto più possibile, omogeneo il piano di azione degli Stati-membri, mediante l’obbligo convenzionale di incriminare determinate tipologie di attività illecite riconducibili a gruppi criminali internazionali (ed anche la mera partecipazione ad essi, ai sensi dell’art. 5) e la previsione di forme di cooperazione giudiziaria e di polizia per rendere più efficaci gli strumenti investigativi, in un quadro concertato di specifiche procedure di assistenza giudiziaria, estradizione, trasferimento dei giudizi, sequestro e confisca dei proventi di reato e quant’altro.
D’altronde, già da tempo, in ambito internazionale, si era avuta chiara percezione della pericolosità di aggregazioni attive in ambito transfrontaliero: eloquente segno, in tal senso, è costituito dall’elaborazione pattizia della nozione “organizzazione criminale” recepita dall’art. 1 dell’Azione comune 98/733/GAI, relativa alla punibilità della partecipazione a consorterie criminali negli Stati membri dell’Unione Europea, adottata il 21 dicembre 1998 dal Consiglio dell’U.E.
Anzi, proprio sulla relativa formulazione («Ai fini della presente azione comune, per organizzazione criminale si intende l’associazione strutturata di più di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere reati punibili con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza privativa della libertà non inferiore a quattro anni o con una pena più grave, reati che costituiscono un fine in sé ovvero un mezzo per ottenere profitti materiali e, se del caso, per influenzare indebitamente l’operato delle pubblich autorità») sembra disegnata la nozione di gruppo organizzato criminale ora in esame.

5.4. L’esigenza della previsione di un obbligo d’incriminazione delle fenomenologie delinquenziali in forma organizzata va apprezzata sul rilievo che alla tradizione giuridica e culturale di alcuni Stati aderenti era estranea l’elaborazione dell’associazionismo criminale, capace di sostanziare autonome configurazioni di reato. Il nostro ordinamento, invece, sin dal lontano 1930, incriminava espressioni di delinquenza plurisoggettiva, dalla forma più elementare del concorso di persone, ai sensi dell’art. 110 c.p., a quella più complessa dell’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. Successivamente, sono state, via via, tipizzate peculiari fenomenologie di aggregazione, come, tra le altre, l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, di cui all’art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43; l’associazione di tipo mafioso, di cui all’art. 416-bis c.p.; l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui all’art. 74 T.0 stup.; sino alla violenza sessuale di gruppo prevista dall’art. 609-octies c.p. e alle forme di discriminazione razziale di cui all’art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654, che utilizza, alternativamente, le nozioni di organizzazione, associazione, movimento o gruppo.

6. Tornando, ora, alla legge di ratifica, il combinato disposto degli artt. 3 e 4 legge n. 146 del 2006 consente, intanto, di affermare che, per conformazione morfologica e strutturale, la transnazionalità non è elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie delittuosa, destinata ad incrementare il già cospicuo novero di illeciti dell’universo penale.
Si tratta, invece, di una peculiare modalità di espressione, o predicato, riferibile a qualsivoglia delitto (con esclusione, quindi, delle contravvenzioni), a condizione che lo stesso, sia per ragioni oggettive sia per la sua riferibilità alla sfera di azione di un gruppo organizzato operante in più di uno Stato, assuma una proiezione transfrontaliera.
Il “reato transnazionale” è, dunque, nozione definitoria che si ricava dall’insieme degli elementi costitutivi di un comune delitto e di quelli specifici, positivamente previsti.

Parametri della qualificazione della transnazionalità
6.1. In particolare, il citato art. 3 àncora la qualificazione della transnazionalità al concorso di tre distinti parametri.
Il primo è connesso alla gravità del reato, determinata in ragione della misura edittale di pena (non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione), dunque sulla base di un coefficiente di gravità non flessibile, bensì predeterminato, peraltro in conformità della nozione di reato grave recepita dalla stessa Convenzione, che, nel “glossario” offerto dall’art. 2, qualifica “reato grave” proprio la condotta sanzionabile «con una pena privativa della libertà personale di almeno quattro anni nel massimo o con una pena più elevata».
Il secondo criterio prevede il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato. Il lemma “coinvolto” che figura nel testo normativo è sicuramente inusuale nel lessico penalistico, evocando espressioni di vago tenore colloquiale o di conio prettamente giornalistico.
Si tratta, in realtà, della mera trasposizione letterale del termine che figura nel testo della Convenzione (dall’inglese involving), ove assume una significazione volutamente generica, capace di compendiare, proprio per ampiezza di formulazione, diversi modelli ordinamentali di incriminazione del fenomeno lato sensu associativo, l’association de malfaiteurs, propria dei sistemi di civil law„ l’associazione per delinquere di stampo mafioso, tipicamente italiana, e la conspiracy, tradizionale strumento di contrasto giudiziario alla criminalità organizzata nei sistemi penali di common law, in cui è, notoriamente, meno netta la distinzione tra concorso di persone e fattispecie associative.
Nondimeno, trattandosi di approccio solo definitorio, può ritenersi che il termine alluda, genericamente, a qualsivoglia forma di riferibilità del fatto-reato all’operatività di un gruppo criminale organizzato (quale esso sia e tout court indicato, ossia indipendentemente dal suo impegno in attività criminali commesse in più di uno Stato, come invece richiesto, più oltre, dalla previsione sub c); in breve, deve trattarsi di espressioni di criminalità in forma organizzata, sicché è agevole il rilievo che la dimensione organizzativa è componente coessenziale della complessa fenomenologia criminale in questione.
L’oggettiva “riferibilità”, secondo l’interpretazione offerta dalle prime riflessioni dottrinarie sul tema, può essere intesa in termini di interrelazione biunivoca, ossia come contributo alla commissione del reato offerto da uno o più adepti del gruppo criminale organizzato, in adempimento del programma criminale dello stesso sodalizio, ovvero come vantaggio che al gruppo oggettivamente derivi, comunque, dall’attività delittuosa da altri posta in essere.
Il terzo parametro si sostanza, invece, di uno degli elementi che la norma prevede, stavolta, in forma alternativa: commissione del reato in più di uno Stato (a), commissione in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato (b);commissione in uno Stato, ma implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato (c); commissione in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato (d).

Rilevanza del reato transnazionale
6.2. La formalizzazione del connotato di transnazionalità, ancorché priva di specifico contenuto precettivo e sanzionatorio, non assolve, però, ad esigenza meramente definitoria o descrittiva, ma è, invece, foriera di rilevanti effetti sul piano della disciplina sostanziale e processuale. Già questo lascia, chiaramente, intendere che la connotazione in parola non è fine a se stessa, in quanto implica che, proprio per le dette ricadute, il fatto delittuoso cui inerisce debba considerarsi, eo ipso, più grave rispetto alla forma ordinaria, in ragione del coefficiente di maggiore pericolosità che l’ordinamento interno, in ottemperanza dei menzionati obblighi convenzionali, era chiamato ad attribuire alla peculiare fenomenologia della criminalità organizzata transnazionale.
Si intende fare riferimento, tra gli altri effetti, alla previsione della responsabilità amministrativa degli enti di cui all’art. 10 legge n. 146 del 2006, che, proprio nel caso di commissione di uno dei reati previsti dall’art. 3, sancisce l’applicabilità di particolari sanzioni amministrative in misura determinata; alla confisca obbligatoria anche per equivalente prevista dall’art. 11 della stessa normativa proprio per i reati di cui al detto art. 3; all’estensione dei poteri di indagine del pubblico ministero «nel termine e ai fini di cui all’articolo 430 del codice di procedura penale», allo scopo dii assicurare la confisca, nella massima estensione possibile, dei proventi dell’attività illecita, ai sensi dell’art. 12; all’attribuzione al Procuratore distrettuale antimafia delle stesse competenze conferite al procuratore della Repubblica ed al questore in tema di misure di prevenzione personali e patrimoniali, come previsto – sempre per i reati di cui al menzionato art. 3 – dal successivo art. 13; alla possibilità del trasferimento di processi penali (già prevista dall’art. 21 della Convenzione), che deve aver luogo esclusivamente nella forme e nei limiti degli accordi internazionali.
Dunque, tutta una serie di effetti “a cascata” che, come si è detto, valgono a conferire al reato transnazionale uno specifico rilievo rispetto ad identica forma delittuosa priva di siffatta caratterizzazione.

7. Limitandosi ad introdurre una norma meramente definitoria, l’art. 3 non prevede, quindi, sanzione alcuna.
Invece, il successivo art. 4 introduce una speciale aggravante per il reato “grave” che sia commesso con il “contributo” di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno Stato.

7.1. Dal raffronto delle due disposizioni balza evidente come la previsione della particolare aggravante sia stata modellata su uno soltanto degli elementi alternativi rilevanti ai fini della definizione della transnazionalità, ossia quello di cui alla lettera c).
La circostanza è, dunque, “ritagliata” dalla definizione anzidetta con operazione selettiva, che per una sola delle ipotesi di transnazionalità – cioè la “implicazione” di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato – ha previsto l’aggravamento di pena.

7.2. Potrebbe discutersi circa l’individuazione della ratio di una simile scelta, ma ciò che conta è che essa non appare improntata ad irragionevolezza, ponendosi, anzi, in sintonia con le precipue finalità della Convenzione, come sopra indicate, tenuto peraltro conto della disposizione di cui all’art. 34, comma 3, secondo cui «ciascuno Stato Parte può adottare misure più rigide o severe di quelle previste dalla presente Convenzione per prevenire e combattere la criminalità organizzata transnazionale».

7.3. La previsione dell’aggravante resta, ovviamente, inglobata nella più ampia nozione di transnazionalità, in termini plasticamente rappresentabili con la configurazione geometrica dei centri concentrici.
E’ agevole, allora, inferire che non è il reato transnazionale in sé soggetto ad aggravamento di pena, mentre la sussistenza della speciale aggravante dell’art. 4 legge n. 146 del 2006 è, invece, già di per sé, sintomo univoco di transnazionalità, di talché il reato comune aggravato è sempre – e necessariamente – reato transnazionale, ai fini della stessa legge di ratifica.

7.4. All’atto dell’estrapolazione dal novero dei parametri di transnazionalità di una sola delle ipotesi previste dall’art. 3 si è, poi, avuta la singolare trasposizione semantica dal lemma “implicato”, contenuto nella lett. c) («in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato» – termine sostanzialmente coincidente con quello “coinvolto”) – nel sintagma, contenuto nell’art. 4, «dato il suo contributo» («Per i reati […] nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato»). Dall’atecnica ed aspecifica formula: “implicazione” si è, dunque, passati ad una locuzione ben più consona al patrimonio lessicale penalistico. “Dare il contributo”, infatti, è null’altro che prestare un apporto causalmente rilevante, in chiave di causalità materiale, nel senso che la commissione di un qualsiasi reato in ambito nazionale, purché punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, deve essere stata determinata, od anche solo agevolata, in tutto od in parte, dall’apporto deterministico quale esso sia – di un gruppo criminale organizzato transnazionale.

7.5. L’inequivoca formulazione della norma, nello specifico richiamo al contributo causale di un gruppo criminale organizzato, non consente la diversa opzione ermeneutica dell’applicabilità dell’aggravamento ad ogni ipotesi di transnazionalità, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 3 legge n. 146 del 2006, ogni qual volta, cioè, il reato sia comunque riconducibile alla sfera di operatività di un gruppo organizzato transnazionale.
Se è vero, infatti, che uno degli indici della transnazionalità c.d. soggettiva è il “coinvolgimento” di un gruppo criminale organizzato transnazionale, è pur vero che, per l’intervento selettivo del legislatore, ai fini dell’aggravamento di pena è 13 necessario un più elevato coefficiente di coinvolgimento, ossia la prestazione di un contributo causale alla commissione del reato, giacché – per quanto si è detto – solo siffatta situazione, per discrezionale scelta del legislatore, è ritenuta di maggiore gravità ed allarme sociale.

7.6. Il generico riferimento normativo a qualsiasi reato, purché ad esso si accompagni la previsione sanzionatoria di cui si è detto, porta allora a ritenere che l’apporto causale di un gruppo siffatto possa spiegarsi nei confronti di qualsivoglia espressione delittuosa, e dunque anche di quella associativa. Alla stregua dei dati normativi e delle linee ispiratrici della Convenzione non è dato, infatti, ravvisare ragione alcuna perché la particolare aggravante possa applicarsi ai soli reati-fine e non anche al reato associativo, che costituisce il mezzo per la relativa consumazione.
Non esiste, dunque, alcun motivo – né d’ordine testuale né d’ordine logicosistematico – per ritenere l’incompatibilità della speciale aggravante con quest’ultimo reato.
Resta da dire che nessuna diretta rilevanza, ai fini della soluzione della quaestio iuris in esame, può assumere il riferimento all’art. 10 della legge n. 146 del 2006, che prevede, tra i reati transnazionali che comportano responsabilità amministrativa degli enti, proprio i reati associativi di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p. Ed infatti, la norma anzidetta può, semmai, costituire conferma del fatto che anche il reato associativo possa assumere connotato di transnazionalità, ma nulla dice sull’applicabilità al detto reato dell’aggravante di cui all’art. 4.

7.7. Il rilievo argomentativo sul quale si fonda il percorso motivazionale della sola sentenza che si è espressa in favore dell’incompatibilità, ossia la citata Sez. 5 Dalti, risente in tutta evidenza di un equivoco di fondo, ossia del convincimento che l’associazione per delinquere si identifichi nel gruppo criminale organizzato ovvero si sovrapponga ad esso («La circostanza presuppone l’esistenza del gruppo criminale organizzato e può accedere pertanto ai reati costituenti la diretta manifestazione dell’attività del gruppo, c.d. reatifine dell’associazione, ovvero di quelli ai quali il gruppo abbia prestato un contributo causale. Il reato associativo, per contro, non è qualificato da tale elemento circostanziale ove si consideri che l’associazione criminosa è la qualificazione giuridica del “gruppo criminale organizzato”, speculare allo stesso, e non una proiezione esterna, un quid pluris, cui il gruppo “abbia dato il suo contributo”»). In tale logica, se il gruppo criminale organizzato, il cui apporto è presupposto dell’aggravante, non fosse altro che la contestata associazione per delinquere, non sarebbe ovviamente ipotizzabile l’esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all’esistenza di se stesso; donde, la ritenuta riferibilità del contributo ai soli reati fine.
Invece, la formulazione normativa dell’aggravante, nella parte in cui evoca il contributo causale, lascia chiaramente intendere che presupposto indefettibile della sua applicazione è la mancanza di immedesimazione, richiedendo – piuttosto – che associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato si pongano come entità o realtà organizzative affatto diverse. La locuzione “dare contributo” postula, infatti, “alterità” o diversità tra i soggetti interessati, ossia tra soggetto agente (il gruppo organizzato) e realtà plurisoggettiva (trattandosi, appunto, di aggregazione delinquenziale) beneficiaria dell’apporto causale.
D’altronde, le espressioni: “associazione per delinquere” e “gruppo organizzato”, al di là dell’improprio uso promiscuo che può talora farsi nel linguaggio corrente, non esprimono, in chiave giuridica, entità omogenee o concettualmente sovrapponibili.
Ed invero, quanto alla nozione “gruppo criminale organizzato” – che il legislatore non ha ritenuto definire – non può che farsi riferimento alla definizione offerta dalla stessa Convenzione, che, del resto, proprio in forza della legge di ratifica ed esecuzione n. 146 del 2006, è stata recepita, nella sua interezza, nel nostro ordinamento giuridico.
Orbene, a mente dell’art. 2, punto a) della detta TOC Convention, “gruppo criminale organizzato” è «un gruppo strutturato, esistente per un periodo  di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale».
Il punto e dello stesso art. 2, reca, poi, la definizione di “gruppo strutturato”, da intendere come gruppo «che non si è costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata».
Si tratta, allora, di nozione composita, dai tratti descrittivi ben distinti da quelli che connotano le nozioni di concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 c.p. e di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. “Gruppo organizzato” è, certamente, un quid pluris rispetto al mero concorso di persone (Sez. 6, n. 7470 del 21/01/2009, Colombu, Rv. 243038), ma è – con pari certezza – un minus rispetto alla associazione per delinquere. Per la sua configurazione è, infatti, richiesta soltanto una certa stabilità dei rapporti, un minimo di organizzazione senza formale definizione dei ruoli, la non occasionalità od estemporaneità della stessa, la costituzione in vista anche di un solo reato e per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale; invece, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416 c.p., anche alla luce di ricorrente lettura di questa Corte, occorrono un’articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, una precisa ripartizione dei ruoli e la pianificazione di una serie indeterminata di reati (tra le altre, Sez. 6, n. 3886 del 07/11/2011, dep. il 31/01/2012, Papa, Rv. 251562). Il contesto strutturale organizzato deve essere, insomma, funzionale alla realizzazione di un numero indefinito di delitti, senza che, ai fini della configurazione normativa, sia richiesto anche il teleologismo finanziario o comunque materiale dell’azione della consorteria, derivando – di fatto – l’eventuale profitto dall’apporto dei singoli reati-fine, alla cui esecuzione sia funzionalmente preordinato.
È ovvio poi che, ove il gruppo organizzato assuma siffatti connotati, diventi esso stesso associazione per delinquere e, in tal caso, vi sarà sicura sovrapposizione od immedesimazione delle due entità.
Nell’ipotesi di cui all’art. 4, invece, siffatta immedesimazione non deve assolutamente sussistere, giacché – per quanto si è detto – la previsione del contributo causale implica diversità soggettiva, ossia l’esistenza di due distinte realtà organizzative, nel senso che il gruppo criminale organizzato, peraltro impegnato in attività criminali in più di uno Stato, deve aver contribuito alla commissione del reato associativo, cioè alla costituzione od all’agevolazione, in qualsiasi forma, dell’associazione formatasi ed operante in ambito nazionale.
Dalla sfera di operatività della circostanza aggravante deve, quindi, essere espunta l’ipotesi in cui il gruppo organizzato sia esso stesso associazione per delinquere. D’altronde, in uno al dato ontologico dell’immedesimazione, all’applicabilità dell’aggravante osterebbe, sul piano formale, il chiaro disposto normativo dell’art. 61 c.p., secondo cui le circostanze, positivamente previste, aggravano il reato «quando non ne sono elementi costitutivi».
Deve pure essere espunta l’ipotesi che l’associazione abbia sue articolazioni periferiche in altri Stati od anche l’ipotesi che parte dei sodali della stessa consorteria operino all’estero oppure gli effetti sostanziali dell’attività della stessa consorteria si producano oltre confine.
In questi casi, infatti, il reato associativo assume, di per sé, connotato di transnazionalità, ai sensi dell’art. 3 legge n. 146 del 2006, ma la sua commissione non è il risultato dell’apporto contributivo di un gruppo organizzato “esterno”, nei termini della sola evidenza fattuale, che, per quanto si è detto, il legislatore – nella sua discrezionale valutazione – ha ritenuto di tale gravità da comportare aggravamento di pena.

7.8. Dal combinato disposto delle norme di cui agli artt. 3 e 4 della legge di ratifica emerge, quindi, chiaramente, che, ai fini della configurazione della speciale aggravante in esame, non è affatto necessario che il reato in questione venga commesso anche all’estero, ben potendo restare circoscritto in ambito nazionale, come, correttamente, ritenuto da Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, Mazzieri (in senso contrario, Sez 3, n. 35465 del 14/07/2010, Ferruzzi, Rv. 248481, che reputa, invece, necessario che la stessa struttura associativa sia impegnata in attività realizzate in più di uno Stato); né che l’associazione per delinquere operi anche in paesi esteri (Sez. 1, n. 31019 del 06/06/2012, Minnella, Rv. 253280). Non è neppure necessario che del sodalizio criminoso facciano parte soggetti operanti in paesi diversi (Sez. 3, n. 27413 del 26/06/2012, Amendolagine, Rv 253146; Sez. 3, n. 10976 del 14/01/2010, Zhu, Rv 246336), posto che – per quanto si è detto – quel che occorre, ai fini dell’operatività dell’aggravante, è che alla commissione del reato oggetto di aggravamento abbia dato il suo contributo un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale.

7.9. Nell’individuazione dell’ambito concettuale del “contributo causale” non può certo sottacersi che, dal punto di vista del sistema penale interno, “contribuire” alla realizzazione di un reato implica compartecipazione delittuosa e, dunque, concorso nella relativa commissione. Ma siffatta evenienza non collide, di certo, con la sfera di previsione della norma di cui all’art. 4, in quanto le due ipotesi attengono a distinti versanti concettuali: uno, afferente al gruppo in sé considerato; l’altro, all’eventuale partecipazione e responsabilità di taluni suoi componenti. Insomma, il gruppo organizzato può aver contribuito alla costituzione del sodalizio delittuoso (il quale, ad esempio, si sia formato proprio nella prospettiva dell’apporto logistico e funzionale di un gruppo operante all’estero), senza che tutti i suoi componenti possano poi – secondo il diritto interno – ritenersi partecipi, o concorrenti esterni, del reato associativo commesso in ambito nazionale. Si tratta, a ben vedere, di un principio mutuato dalla elaborazione giurisprudenziale in tema di associazione per delinquere, secondo cui la partecipazione ad una consorteria criminale non comporta, eo ipso, l’imputabilità a tutti i sodali dei reati-fine dalla stessa pianificati.
Il riferimento non deve ritenersi poco pertinente, ove si consideri che il gruppo criminale organizzato transnazionale può anche essere stato costituito in Italia ed avere qui sede operativa, restando, quindi, soggetto alla giurisdizione nazionale.
E’, dunque, pacifico che, «in materia di reati associativi, il ruolo di partecipe rivestito da taluno nell’ambito della struttura organizzativa criminale non è di per sé solo sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, anche se riferibile all’organizzazione e inserito nel quadro del programma criminoso, giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all’attuazione della singola condotta criminosa, alla stregua dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di “posizione” o da “riscontro d’ambiente”» (Sez. 6, n. 3194 del 15/11/2007, dep. 21/01/2008, Saltalamacchia, Rv. 238402; Sez. 6, n. 37115 del 28/09/2007, Vicorito, Rv. 237291).
Applicando siffatti principi alla fattispecie in esame, consegue che, per offrire contezza al maggior tasso di disvalore insito nell’aggravante derivante dall’essersi avvalsi, per la commissione di un reato, del contributo offerto da «un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato», occorre postulare una necessaria autonomia tra la condotta che integra il reato “comune” e quella che vale a realizzare il “contributo” prestato dal gruppo “transnazionale”, giacché, ove i due fatti si realizzassero reciprocamente all’interno di una sola condotta, mancherebbe la ragione d’essere per ipotizzare la diversa – e più grave – lesione del bene protetto. Si avrebbe, in tale ipotesi, un’unica associazione per delinquere “transnazionale”, ossia una fattispecie complessa, secondo il paradigma dell’art. 84, comma primo, c.p., in cui la circostanza aggravante – corrispondente, del resto, alla previsione del precedente art. 3, lett. c), legge n. 146 del 2006 – verrebbe a porsi come elemento costitutivo del reato associativo transnazionale. Si tratterebbe, però, non già di un’autonoma fattispecie di reato – non prefigurata dal legislatore della novella e neppure enucleabile in via ermeneutica – bensì di una “ordinaria” associazione per delinquere cui inerisce lo speciale connotato della transnazionalità, con ogni conseguenziale implicazione.
In tale prospettiva, occorre dunque verificare se ed in che limiti il contributo di un gruppo organizzato transnazionale, che in sé potrebbe già presentare, in ipotesi, tutti i connotati per realizzare la fattispecie di una associazione finalizzata alla commissione di determinati delitti – divenendo per ciò stesso perseguibile in base al quadro normativa vigente – possa rappresentare, a sua volta, quella autonoma condotta “aggravatrice” rispetto alla stessa fattispecie associativa.
Ebbene, poiché quel contributo – ancorché realizzato in forma associativa – deve antologicamente rappresentare una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria per realizzare la fattispecie-base, se ne può dedurre che l’aggravante in questione non risulta compatibile con la figura della associazione per delinquere in tutti i casi in cui le due condotte associative coincidano sul piano strutturale e funzionale, dando luogo ad un’unica associazione transnazionale.
Ove, invece, l’associazione per delinquere “basti a se stessa”, nel senso che i relativi associati o parte di essi ed il programma criminoso posto a fulcro del sodalizio realizzino il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di contributo esterno, ben può immaginarsi che, a tale condotta, altra (e autonoma) se ne possa affiancare, al fine di estendere le potenzialità e l’agere del sodalizio in campo internazionale; con la conseguenza che, ove un siffatto contributo sia fornito da persone che in modo organizzato sono chiamate a prestare tale collaborazione, non potrà negarsi che il reato-base assuma dei connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tale da giustificare l’applicazione della aggravante in questione. Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla circostanza che il contributo offerto dal “gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato” renda, poi, quello stesso gruppo partecipe o concorrente nel reato associativo “comune”, posto che è proprio quel contributo a rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice, che non può certo ritenersi assorbita dalle regole ordinarie sul concorso nei reati.
7.10. In conclusione, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale «la speciale aggravante dell’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146, è applicabile al reato associativo, sempre ché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l’associazione stessa».

8. Alla stregua delle superiori premesse, può ora procedersi all’esame delle ragioni di censura che sostanziano il ricorso del Verrengia.
omissis

2. Violazione degli obblighi di assistenza familiare: omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi

Cass. S.U. 20 dicembre 2007, Cassa

in sintesi
Nell’ipotesi in cui la condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza sia posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare si configura una pluralità di reati. L’art. 570 c.p. incrimina, infatti, condotte disomogenee: soltanto in relazione a quelle di cui al primo comma (l’abbandono del domicilio domestico ovvero il tenere condotte contrarie all’ordine o alla morale delle famiglie) non è ipotizzabile una tutela differenziata dei vari componenti della famiglia (sarebbe, ad es., impossibile abbandonare il domicilio soltanto nei confronti di taluni dei coabitanti). Al contrario, le condotte incriminate nel secondo comma non tutelano soltanto l’astratta unità familiare, ma anche specifici interessi economici di congiunti «deboli», non necessariamente vulnerati in toto dalla condotta dell’agente (è ben possibile che quest’ultimo malversi o dilapidi i beni di uno soltanto dei soggetti protetti, ovvero adempia gli obblighi di assistenza economica soltanto in favore di uno o più di essi, e non anche degli altri), il che porta, in tali casi, ad escludere l’unicità del reato commesso in danno di più congiunti. In presenza di più omissioni (ad es. nel caso in cui l’agente fosse tenuto a versamenti separati), sarebbe configurabile, ricorrendone i presupposti, un reato continuato, non un concorso formale di reati.

osserva

I) La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza 20 aprile 2006, ha respinto l’appello proposto da CASSA ANNA contro la sentenza 4 dicembre 2003 che l’aveva condannata alla pena di mesi tre di reclusione ed euro 150,00 di multa per il delitto di cui all’art. 570 commi 1° e 2° c.p. per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli EPIFANIO MARCO, EPIFANIO ALESSANDRO e EPIFANIO FEDERICO SALVATORE (questi ultimi due minori di età) omettendo di corrispondere al marito separato EPIFANIO ANGELO quanto stabilito dal giudice in sede di separazione (lire 250.000 complessive).
La Corte di merito – dopo aver precisato che l’imputazione doveva ritenersi riferita soltanto al secondo comma n. 2 dell’art. 570 c.p. – ha confermato la valutazione del primo giudice sottolineando che era stato accertato che l’imputata disponeva, almeno in parte, delle risorse necessarie per adempiere all’obbligo nei confronti dei figli che erano stati affidati al padre e che era irrilevante che all’obbligo di mantenimento avesse adempiuto un terzo (il marito separato).
Infine la Corte ha ritenuto adeguata la pena inflitta dal primo giudice.

(omissis)

Con ordinanza 3 ottobre 2007 la sesta sezione di questa Corte trasmetteva gli atti a queste sezioni unite avendo rilevato un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla possibilità di ipotizzare il concorso formale nel caso di violazione dell’art. 570 c.p. in presenza di più aventi diritto alla corresponsione dei mezzi di sussistenza.

(omissis)

VII) Passando all’esame del terzo motivo di ricorso, ribadito nel terzo motivo nuovo, va premesso che occorre preliminarmente esaminarne l’ammissibilità ai sensi dell’art. 606 comma 3° del codice di rito perché la violazione di legge dedotta con questa censura non era stata proposta con i motivi di appello.
Ritiene la Corte che la questione proposta con il motivo in esame, non essendo il ricorso da dichiarare inammissibile per tutti i motivi, sia rilevabile d’ufficio e che possa dunque essere esaminata (v. in questo senso, tra le altre, Cass., sez. V, 9 luglio 2004 n. 36293, Raimo, rv. 230636).
Ma la doglianza deve ritenersi ammissibile anche sotto un diverso profilo; una censura rivolta all’affermazione dell’unicità del reato, piuttosto che del concorso formale o della continuazione, comporta l’affermazione che l’imputato deve essere ritenuto responsabile per un solo reato e non per più reati. Può dunque legittimamente affermarsi che la richiesta è rivolta all’applicazione dell’art. 129 comma 1° del c.p.p. perché vi si contesta la sussistenza, verificabile d’ufficio, dei reati ulteriori di cui è stata affermata l’esistenza, e senza che questa verifica comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con i limiti del giudizio di legittimità.
Ne consegue che, sotto il duplice profilo indicato, è consentito l’esame del motivo proposto per la prima volta con il ricorso in cassazione.

VIII) Il motivo è peraltro da ritenere infondato.
Il contrasto creatosi all’interno della sesta sezione di questa Corte trova la sua origine in una diversa visione del bene tutelato dalla norma incriminatrice; fermo restando che i due orientamenti non disconoscono l’ordine familiare come bene protetto dalla norma, essi si differenziano però quanto alla tutela dei singoli aventi diritto che, per l’orientamento maggioritario, costituirebbe soltanto una conseguenza naturale e riflessa della tutela primaria.
Secondo Cass. VI 14 gennaio 2004 n. 1251, Cipriani, rv. 228226 – che costituisce il più recente ed argomentato precedente che si rifà a questa linea di tendenza – “la norma penale indica come oggetto di repressione una condotta indifferenziata rispetto al numero ed alla qualità dei soggetti lesi, sicché in sostanza il legislatore, non considerando singolarmente le posizioni degli individui, difende il complesso di obblighi che fa capo alla famiglia come entità distinta dai suoi componenti.
Il diverso orientamento, minoritario, ritiene invece che i singoli aventi diritto sarebbero soggetti direttamente tutelati dalla norma e fonda questo convincimento sulle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato, nella seconda metà del secolo scorso, l’istituzione familiare “con uno spostamento di attenzione del legislatore dal gruppo in sé ai suoi componenti all’interno della formazione sociale famiglia che questi contribuisce a formare, con una valorizzazione dei singoli rapporti che in essa traggono origine e si sviluppano (così Cass. VI 19 giugno 2002 n. 36070, Armeli, rv. 222666).

IX) Ritengono le sezioni unite che la soluzione corretta del problema sia quella proposta dal secondo orientamento riferito anche se il percorso argomentativo di queste decisioni non appare del tutto condivisibile.
Va premesso che, come correttamente si afferma in alcune delle sentenze adesive all’orientamento maggioritario, la natura plurioffensiva del reato in esame non vale a risolvere il problema dandosi casi di reati certamente plurioffensivi (per es. la strage, il falso in bilancio ecc.) che restano ipotesi di reato unico anche se le persone offese sono più d’una. Parimenti non sembra che il problema possa essere risolto in base alla formulazione letterale dell’art. 570 c.p. cpv. n. 2 sul rilievo che la norma non considererebbe singolarmente le posizioni degli individui; argomento ambivalente perché la formulazione letterale della norma potrebbe giustificare anche l’opposta soluzione fondata sulla circostanza che la norma individua gli aventi diritto ai mezzi di sussistenza – la cui mancata somministrazione è penalmente sanzionata – ma non fa riferimento, a differenza del comma 1°, a condotte contrarie “all’ordine e alla morale delle famiglie.
E’ condivisibile invece la ricostruzione del percorso storico giuridico riguardante la famiglia con la considerazione che l’impianto originario, ma tuttora vigente, del codice penale – che inserisce il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nel titolo XI (delitti contro la famiglia) – era forse idoneo a legittimare una considerazione globale dell’ordine familiare tale da giustificare una tutela unitaria e indifferenziata senza che venissero in considerazione le specificità delle situazioni individuali dei singoli componenti.
Già in questa costruzione era difficile individuare una concezione della famiglia come formazione sociale esclusiva che in qualche modo ricomprende in sé anche i diritti dei suoi componenti. Tanto più, come è stato affermato nella sentenza 19 giugno 2002 n. 36070, Armeli, rv. 222666, che “il concetto di famiglia nel diritto penale non è esattamente delineato essendo controverso se in esso sia adottata una propria ed autonoma nozione ovvero se si debba far riferimento a quella recepita nel diritto civile, anch’essa peraltro non compiutamente formulata e quindi tale da richiedere di volta in volta le necessarie specificazioni per stabilire a quale nozione di famiglia ci si intenda riferire (legittima o illegittima, naturale o civilmente riconosciuta, etc.)’. Ma le norme della Costituzione (artt. 2, 29, 30 e 31) e le riforme legislative successivamente intervenute in tema di diritto di famiglia hanno sicuramente rafforzato anche la tutela dei singoli componenti.
Non sembra però corretta la premessa metodologica dalla quale prendono le mosse entrambi i contrastanti orientamenti che sembrano prender le mosse dal presupposto che la norma incriminatrice (l’intero art. 570) preveda condotte assimilabili in categorie omogenee. In realtà si tratta di una norma che fa riferimento ad un ventaglio di condotte di natura diversa che, fermo restando il fine di tutela della famiglia e dei rapporti di assistenza nell’ambito familiare, prende in considerazione condotte ed eventi di diversa natura per i quali ben possono individuarsi beni non omogenei ma parimenti tutelati. E per ciascuna di queste ipotesi ben possono darsi soluzioni diverse quanto al tema dell’unicità o pluralità di reati.
Per esemplificare: l’abbandono del domicilio domestico previsto dal 1° comma dell’art. 570 in esame costituisce un reato unico perché diretto a tutelare esclusivamente la convivenza familiare e non essendo ipotizzabile una tutela differenziata dei vari componenti della famiglia (non si può abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti di uno dei componenti della famiglia).
Chi abbandona la famiglia sottraendosi agli obblighi di assistenza non la abbandona in relazione alle singole posizioni individuali; per questa ipotesi sarebbe dunque impossibile affermare una lesione per così dire “frazionata dell’interesse protetto.
E così chi si sottrae ai medesimi obblighi, serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, analogamente compromette quest’ordine indipendentemente da quanti e quali sono i componenti della famiglia. In questi casi è dunque legittimo affermare che il bene protetto dei singoli si identifica con quello della famiglia intesa nella sua unità e che quindi il reato deve essere considerato unico indipendentemente da quanti siano i componenti del nucleo familiare.
Del resto, come si fa ad abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti di taluni di coloro che vi abitano ?

X) Ben diverso è il contesto in cui si collocano le ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 570 c.p. dirette a tutelare non un’astratta unità familiare o un ordine o una morale familiare dai contorni indistinti ma ben precisi interessi economici quali la tutela del patrimonio del soggetto “debole (n. 1) e la vera e propria sopravvivenza economica di questi soggetti (n. 2).
Non è possibile parlare di tutela indifferenziata per l’interesse patrimoniale o economico di singoli soggetti i quali, oltre tutto, possono trovarsi nelle più diverse situazioni. Questa tutela patrimoniale ed economica del singolo componente della famiglia ben poteva essere distinta da quella generica della famiglia già nell’impianto originario della norma; e non è possibile affermarla oggi che addirittura alcune posizioni (quelle del più debole, il minore) sono state distinte dalle altre che sono divenute perseguibili a querela.
In realtà v’è una considerazione dirimente che vale a risolvere ogni dubbio che possa legittimamente perdurare su questo problema.
Come – nel caso previsto dal n. 1 del comma 2° dell’art. 570 c.p. è possibile che l’agente malversi o dilapidi i beni di uno dei soggetti protetti e non degli altri così, nel caso previsto dal n. 2, è possibile che l’adempimento degli obblighi di assistenza economica avvenga per uno o più degli aventi diritto e non per l’altro o per gli altri e questa considerazione vale, da sola, ad escludere l’unicità del reato.
Se si pone mente alla formulazione della norma nella logica del reato unico quando vi siano più aventi diritto sarebbe addirittura esclusa – nel caso di adempimento solo a favore di taluno degli aventi diritto – la tipicità della condotta perché l’adempimento soggettivamente frazionato non è descritto nella condotta prevista dalla norma incriminatrice. E va precisato che, in adesione al principio affermato, ove più siano le omissioni (per es. nel caso in cui l’agente fosse tenuto a separati versamenti) deve ritenersi, sia pure con identiche conseguenze sul trattamento sanzionatorio, l’esistenza del reato continuato di cui al primo cpv. dell’art. 81 in esame e non il concorso formale.
E’ dunque corretta la soluzione dei giudici di merito che hanno ritenuto l’esistenza del concorso formale perché l’agente, con un’unica omissione, ha commesso più violazioni della medesima disposizione di legge (art. 81 comma 1° c.p.).
Questa soluzione non differisce peraltro da quella che la giurisprudenza di legittimità ha accolto in altri casi, in particolare per l’ipotesi analoga relativa al reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. nel caso di più soggetti passivi della condotta (v. Cass. VI 21 gennaio 2003 n. 7781, Simonella, rv. 224048).
Deve dunque affermarsi che “configura una pluralità di reati l’omessa somministrazione di mezzi di sussistenza nell’ipotesi in cui la condotta sia posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare.

XI) Inammissibile è invece l’ultimo motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio, con il quale la ricorrente si duole che non sia stata, dal giudice d’appello, ridotta la pena inflitta dal primo giudice in considerazione della scarsa gravità del fatto contestato.
E’ infatti da considerare che la determinazione della pena da infliggere in concreto rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito che, per l’art. 132 c.p., l’applica discrezionalmente indicando i motivi che giustificano l’uso di tale potere discrezionale.
In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento e salvo che il caso concreto non consenta anche una motivazione implicita (per es. quando la pena viene applicata nel minimo di legge).
Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego di riduzione della pena, alle circostanze indicate nell’art. 133 c.p., e ha ritenuto adeguata quella inflitta del primo giudice ritenendo, incensurabilmente in questa sede, che il primo giudice (che peraltro aveva applicato una pena non lontana dal minimo) avesse tenuto conto, oltre che dell’incensuratezza, della condotta dell’imputata che non aveva comunque fatto mancare ai figli il sostegno morale.
(omissis)

3. Violazione degli obblighi di assistenza familiare e violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile

Cass. S.U. 31 gennaio 2013, Sorrentino

In sintesi
Il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., effettuato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo della disposizione codicistica

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado pronunziata con rito ordinario per il reato di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, (in riferimento all’art. 570 c.p., comma 2), ha condannato S.A. alla pena di mesi tre di reclusione ed Euro 500 di multa, aggravando le più lievi pene inflitte dal Tribunale.
Il S. era stato tratto a giudizio per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza all’ex coniuge G.I., querelante, non corrispondendole l’assegno mensile pari ad Euro 516,45, disposto a seguito della cessazione degli effetti del matrimonio, dichiarata con sentenza del Tribunale di Perugia del 30 luglio 2002.
Con riferimento all’individuazione della pena applicabile, la Corte di appello ha condiviso il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il richiamo quoad poenam contenuto nella norma incriminatrice deve intendersi effettuato all’art. 570 c.p., comma 2, che prevede la sanzione congiunta della reclusione fino ad un anno e della multa da Euro 103 a Euro 1.032,00.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione S. A. per mezzo del proprio difensore, deducendo, … omissis

3. Il ricorso è stato assegnato alla Sesta Sezione penale, che, con ordinanza del 27 settembre 2012, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, rilevando la potenziale insorgenza di un contrasto interpretativo in merito alla questione, sollevata dal ricorrente, dell’applicabilità quoad poenam del comma primo ovvero dell’art. 570 c.p., comma 2, all’ipotesi di violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies.
Il Collegio rimettente rileva come la Corte di cassazione, decidendo fattispecie analoghe a quella oggetto del procedimento in esame, ha più volte affermato che il rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., operato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, deve intendersi riferito alle pene previste dal comma secondo e non a quelle indicate nel primo comma della disposizione codicistica, in quanto il citato art. 12 sexies, ha ad oggetto la violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale (tra le tante, Sez. 6, n. 205 del 07/11/2011, dep. 2012, P.E., n.m.; Sez. 6, n. 28557 del 24/06/2009, P., Rv. 244805; Sez. 6, n. 1071 del 31/10/1996, dep. 1997, Greco, Rv. 206782).
Si osserva poi come non manchino, però, precedenti parzialmente difformi, sia pure con riferimento al problema della procedibilità di ufficio o a querela (Sez. 6, n. 21673 del 02/03/2004, Cappellari, Rv. 229636).
Secondo il Collegio rimettente – avendo la Corte Costituzionale escluso l’illegittimità dell’art. 12 sexies, negando la sussistenza di indeterminatezza della pena ed affermando che si tratta soltanto di sciogliere “un normale dubbio interpretativo” da parte del giudice ordinario (sentenza n. 472 del 1989) – ragioni di ordine sistematico, il tenore del richiamo operato dall’art. 12 sexies, all’art. 570 c.p., e gli elementi comuni delle due figure criminose dovrebbero indurre alla diversa interpretazione della disposizione proposta dal ricorrente, anche per evitare profili di irrazionalità, ulteriormente aggravati dall’incidenza della questione in esame sull’interpretazione della L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3, (recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”), il quale stabilisce che, in caso di violazione degli obblighi di natura economica, si applica la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies.

4. Il Primo Presidente, con decreto in data 21 novembre 2012, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione sottoposta alle decisione delle Sezioni Unite è la seguente: “se il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., effettuato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 22 sexies, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, debba intendersi riferito alle pene previste dal comma primo oppure a quelle indicate nel comma secondo della disposizione codicistica”.

2. E’ utile ricordare che, a seguito dell’introduzione del divorzio (legge 1 dicembre 1970, n. 898, recante “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”), erano rimaste prive di rilevanza penale le situazioni in cui l’ex-coniuge divorziato non soddisfacesse l’obbligo di pagamento dell’assegno stabilito dal giudice.
Dopo un periodo di contrastante giurisprudenza, fu affermato che, con la cessazione del vincolo matrimoniale, viene meno la stessa ragione dell’incriminazione di cui all’art. 570 c.p., che è quella della tutela dell’organismo familiare e fu stabilito che “poiché sul coniuge divorziato non incombe alcun obbligo, penalmente sanzionato, di assistenza materiale e morale nei confronti dell’altro coniuge, ma solo l’eventuale obbligazione civile di corrispondergli l’assegno di sostentamento stabilito in sentenza, una volta che siano stati regolati in sede civile, i rapporti patrimoniali tra i due ex-coniugi trovano la loro tutela esclusivamente in tale sede. Pertanto, l’inadempimento dell’obbligo di corrispondere un assegno all’ex- coniuge nelle ipotesi di divorzio ed in quelle analoghe previste dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, non integra gli estremi del reato di cui all’art. 570 c.p., ma costituisce soltanto illecito civile” (Sez. U, n. 3038 del 26/01/1985, Luca, Rv. 168573).
La lacuna di tutela penale fu colmata dal legislatore con la legge di riforma del divorzio (L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21), la quale punì il mancato pagamento dell’assegno stabilito dal giudice per il coniuge divorziato, introducendo nella L. n. 898 del 1970, l’art. 12 sexies, secondo cui “al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 c.p.”.
Salvo un’opinione rimasta isolata, dottrina e giurisprudenza furono concordi nel ritenere che la nuova disposizione introdusse un’autonoma fattispecie delittuosa, compiutamente delineata nei suoi requisiti tipici ed irriducibile, sul piano dei contenuti lesivi, a quella descritta dall’art. 570 c.p., stante il richiamo a tale art. 570 soltanto quoad poenam.
La previsione non pose nell’immediato problemi di individuazione delle pene da applicare per la violazione della nuova fattispecie, del tutto scontata emergendo l’intenzione del legislatore di riferirsi alla giurisprudenza allora dominante, secondo cui l’art. 570 c.p., delineava al comma 1, la fattispecie “base” e due aggravanti nel capoverso (Sez. 6, n. 479 del 21/11/1991, Pinna, Rv. 188948; Sez. 6, n. 1844 del 23/11/1284, dep. 1985, Truffo, Rv. 168024; Sez. 6, n. 6232 del 07/05/1973, Castaido, Rv. 124928), sicchè risultava ovvio che il rinvio alle “pene previste dall’art. 570 c.p.” doveva conseguentemente intendersi a quelle del primo comma costituente l’ipotesi-base.
E’ divenuta, invece, cogente la necessità di individuare con precisione la pena richiamata dall’art. 12 sexies, quando è emersa l’insostenibilità della concezione unitaria dell’art. 570 c.p., e si è affermata, sia in dottrina sia in giurisprudenza (Sez. 6, n. 12307 del 13/03/2012, B., Rv. 252604; Sez. 6, n. 3881 del 20/10/2011, dep. 2012, D’A., Rv. 251559; Sez. 6, n. 3016 del 17/01/2011, P., Rv. 249210), che tale articolo delinea autonomi titoli di delitti, con la conseguente esigenza di stabilire se le pene applicabili ex art. 12 sexies, fossero quelle previste dal comma 1 (alternativamente multa o reclusione) o quelle previste dal comma 2 (le stesse pene congiunte).
In proposito, furono sollevate diverse questioni di legittimità costituzionale per l’indeterminatezza sia del precetto sia della sanzione (denunciato contrasto con l’art. 25 Cost.) e per il trattamento differenziato riservato al divorziato che non adempia all’obbligo di corrispondere l’assegno stabilito dal giudice rispetto al trattamento del coniuge separato, punibile soltanto per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al coniuge cui la separazione non sia stata addebitata (denunciato contrasto con l’art. 3 Cost.).
La Corte costituzionale dichiarò non fondata la questione di costituzionalità con riferimento alla diversità di tutela penale dell’assegno di separazione e dell’assegno di divorzio, ritenuta non palesemente arbitraria, perché corrispondente alla differenza fra le situazioni del “separato” e del “divorziato”, dei quali l’uno è ancora, in certa misura, personalmente legato al coniuge, mentre l’altro ha riacquistato lo stato libero (Corte cost., sent n. 472 del 1989).
La questione di legittimità costituzionale, sollevate per la denunciata indeterminatezza del precetto e della pena prevista per il reato di omessa corresponsione dell’assegno di divorzio all’ex- coniuge, furono dichiarate inammissibili, Per quanto concerne la questione relativa alla pena, che in questa sede interessa, la Corte affermò che non di indeterminatezza si trattava, ma di un normale dubbio interpretativo (inerente all’applicazione delle pene di cui al primo ovvero di cui all’art. 570 c.p., comma 2), il cui scioglimento è compito specifico del giudice ordinario (idem).
La sentenza fu accolta criticamente dalla maggioranza della dottrina, che in generale tornò a ribadire sia la sussistenza di un’evidente disparità di trattamento tra la situazione dell’ex-coniuge divorziato e quella del coniuge separato, sia l’incertezza effettiva e oggettiva sulla sanzione da applicare.
La giurisprudenza prese atto della sentenza e sciolse il dubbio interpretativo a vantaggio dell’applicabilità dell’art. 570 c.p., comma 2, sull’assunto della simiglianza di contenuto tra la fattispecie prevista dall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, che sanziona la violazione di un obbligo economico, e quella di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, mentre l’art. 570 c.p., comma 1, punisce la violazione degli obblighi di assistenza morale (Sez. 6, n. 28557 del 24/06/2009, P., Rv. 244805; Sez. 6, n. 18450 del 07/12/2006, Masin, Rv. 236415; Sez. 6, n. 338 del 24/11/1999 – dep. 2000, Fragrasso, Rv. 216830; Sez. 6, n. 1071 del 31/10/1996, dep. 1997, Greco, Rv.206782).
Il delitto previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, secondo la giurisprudenza di questa Corte, si configura per la semplice omissione di corrispondere all’ex-coniuge l’assegno nella misura disposta dal giudice, prescindendo dalla prova dello stato di bisogno dell’avente diritto e senza necessità che tale inadempimento civilistico comporti anche il venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario dell’assegno (Sez. 6, n. 3426 del 05/11/2008, dep. 2009, C, Rv. 242680; Sez. 6, n. 11005 del 22/01/2001, Fogliano, Rv. 218616).
La questione non risulta essere più stata messa in discussione in giurisprudenza (neppure dopo l’approvazione della L. n. 54 del 2006, sull’affido condiviso), sino all’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la quale, contro la giurisprudenza dominante, prospetta la validità dell’interpretazione sostenuta dal ricorrente.

3. Le Sezioni Unite ritengono fondata l’interpretazione dell’art. 12 sexies, posta a fondamento del ricorso dell’imputato.

3.1. Va innanzitutto sottolineato che la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, (introdotto dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21) delinea una fattispecie di reato, nella parte precettiva, del tutto autonoma rispetto all’art. 570 c.p..
La condotta è puntualmente definita dall’art. 12 sexies: “Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si applicano le pene …”.
Tale disposizione delinea una precisa e specifica fattispecie integrata dalla violazione di un provvedimento del giudice.
Si tratta di un reato omissivo proprio, di carattere formale, essendo individuato il soggetto attivo soltanto in chi è tenuto alla prestazione dell’assegno di divorzio e consistendo la condotta nell’inadempimento dell’obbligo economico stabilito dal provvedimento del giudice.
Il richiamo all’art. 570 c.p., è limitato soltanto alla pena.
In mancanza di sicuri elementi testuali orientativi scaturenti dal testo legislativo, siffatto rinvio deve intendersi riferito – in sintonia con il rapporto di proporzione e con il criterio di stretta necessità della sanzione penale – all’art. 570 c.p., comma 1, che costituisce l’opzione più favorevole all’imputato.
Non c’è dunque alcuna necessità di ricorrere ad argomenti “contenutistici” o di “affinità sostanziale” o di “contiguità repressiva”, che – in materia penale, retta dai principi di tassatività e determinatezza – rischiano di sospingere pericolosamente l’interprete all’integrazione del testo legislativo, con esorbitanza dal proprio ambito istituzionale e applicazione analogica in malam partem.
Tale conclusione è avvalorata dall’argomento storico sottolineato dalla ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, secondo cui, in mancanza di elementi chiarificatori emergenti dai lavori preparatori, è ragionevole ritenere che tale fosse l’intenzione del legislatore, giacché all’epoca della riforma della legge sul divorzio “il diritto vivente” (ovvero la giurisprudenza della Cassazione) era nel senso che l’art. 570 c.p., delineava una fattispecie semplice nel comma 1 e due circostanze aggravanti nel capoverso.
Infatti, come osservato da autorevole dottrina, non avrebbe senso sostenere il richiamo alla pena della fattispecie circostanziata, che rispetto al reato-base, rappresenta un’ipotesi speciale di natura normativamente accessoria.

3.2. Ma quand’anche si volesse ricorrere al concetto di attinenza contenutistica o di affinità sostanziale, la tesi dell’assimilabilità della norma speciale alla fattispecie prevista dall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, non può condividersi.
L’assunto della giurisprudenza dominante, fatto proprio dalla Corte territoriale e dal Procuratore generale d’udienza, secondo un indirizzo che si ricollega tralaticiamente ad una distinzione affermata dalla giurisprudenza risalente agli anni ’60, ossia a periodo ben precedente la riforma del diritto di famiglia, approvata con L. 19 maggio 1975, n. 151 (Sez. 6, n. 6232 del 07/05/1973, Castaido, Rv. 124928; Sez. 6, n. 939 del 14/04/1970, Rv. 115484; Sez. 6, n. 654 del 14/03/1970, Geniale, Rv. 114965; Sez. 3, n. 1178 del 13/04/1966, Colombo, Rv. 101598; Sez. 2, n. 1470 del 25/10/1965, dep. 1966, Sisto, Rv. 100072), è che l’art. 570 c.p., comma 1, sanziona la violazione degli obblighi di assistenza morale, mentre il secondo punisce la violazione di quelli di assistenza materiale connessi alla condizione di coniuge o di genitore.
Ricorrendo nell’art. 12 sexies, una violazione di obbligo di natura economica, e perciò materiale, ne deriverebbe un’affinità sostanziale dell’art. 12 sexies con l’art. 570 c.p., comma 2.
E’ proprio tale assunto che va posto in discussione e non può condividersi.
la tutela penale apprestata dall’art. 570 c.p., comma 1°
L’art. 570 (rubricato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”), al comma 1, sanziona con la pena alternativa la condotta di chi si sottrae agli “obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge”, i quali, per quanto concerne i coniugi, sono indicati dall’art. 29 Cost., e art. 143 c.c., e, per quanto concerne i figli, dall’art. 30 Cost., e art. 147 c.c..
Dottrina e giurisprudenza civilistica sono ampiamente convergenti nel ricavare dall’art. 143 c.c., (come sostituito dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 24, che, sotto la rubrica “Diritti e doveri reciproci dei coniugi”, specifica al comma 3, che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco… all’assistenza morale e materiale”) una nozione ampia di assistenza, coincidente con la cura e l’aiuto reciproco in ogni circostanza.
Per quanto interessa in questa sede, negli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge rientrano anche quelli di assistenza materiale concernenti il rispetto e l’appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell’altro coniuge (aiuto nel lavoro, nello studio, nella malattia, etc.) e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita della famiglia. Obblighi che, pur attenuati, permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi, prevedendo l’art. 146 c.c., la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi.
Invero, i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell’art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale (Sez. 1 civ., n. 18749 del 17/09/2004, Rv. 577614).
La giurisprudenza civile ha reiteratamente affermato la non coincidenza tra assegno alimentare e assegno di mantenimento, rispetto al quale il primo costituisce un minus (Sez. 1 civ., n. 5381 del 16/06/1997, Rv. 505219).
Più specificamente, per quanto riguarda l’assegno di divorzio in favore dell’ex-coniuge (L. n. 898 del 1970, art. 5), sin dal 1990 le Sezioni Unite civili hanno affermato la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio (Sez. U civ., n. 11492 del 29/11/1990, Rv. 469964; Sez. U civ., n. 11490 del 29/11/1990, Rv. 469963; nonchè giurisprudenza successiva, tra cui, Sez. L, n. 4021 del 23/02/2006, Rv. 587014).
Quanto al mantenimento del coniuge separato, l’art. 156 c.c., prevede che il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri (comma 1) e che l’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato (comma 2). L’espressa previsione che “resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui all’art. 433 e ss.” (comma 3) conferma la diversità tra la nozione di alimenti e quella di mantenimento, pure riferendosi quest’ultima al diritto di mantenere, per quanto possibile, un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza matrimoniale (Sez. 1 civ., n. 18613 del 07/07/2008, Rv. 6049S2; Sez. 1 civ., n. 9915 del 24/04/2007, n.m.).
Identico discorso vale per il genitore che ha il dovere di “mantenere, istruire ed educare i figli” (art. 30 Cost., e art. 147 c.c.), con la specificazione che il figlio minore, “anche in caso di separazione personale dei genitori … ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cure, educazione e istruzione da entrambi” (art. 155 c.c., comma 1, come sostituito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 1).
Per quanto riguarda l’obbligo di assistenza verso i figli, il dovere di mantenere i figli minori e maggiori non autosufficienti – previsto dagli artt. 147 e 148 c.c., per i genitori in costanza di matrimonio e dall’art. 155 c.c., (come modificato dalla legge n. 54 del 2006) per i genitori separati, applicabile anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in forza dell’art. 4, comma 2, della stessa legge – obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fin quando l’età dei figli lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione (Sez. 1 civ., n. 3974 del 19/03/2002, Rv. 553153; Sez. 1 civ., n. 15065 del 22/11/2000, Rv. 542001).
Anche a seguito della separazione personale tra coniugi, infatti, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza (Sez. 1 civ., n. 3974 del 19/03/2002, Rv. 553152-3).
Come risulta chiaramente da tali disposizioni e come concordemente evidenziano la dottrina e la consolidata giurisprudenza in materia civile, l’obbligo di assistere l’altro coniuge e i figli ha un contenuto materiale che va ben al di là dell’obbligo di non far mancare al coniuge e ai figli i mezzi di sussistenza, ossia ciò che è indispensabile per farli vivere.
Deve, pertanto, affermarsi che rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 c.p., comma 1, ovviamente nella sussistenza di tutti altri elementi costitutivi della fattispecie, la violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
la tutela penale apprestata dall’art. 570 c.p., comma 2°, n 2
3.3. L’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, per quel che qui interessa, punisce, invece, con la pena congiunta chi “fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro … o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per colpa” (rectius, al quale non sia stata addebitata la separazione).
Esso tutela i più elementari vincoli di solidarietà nascenti dal rapporto di coniugio (con le attenuazioni sopra ricordate in caso di separazione) o di filiazione.
La condotta sanzionata presuppone uno stato di bisogno: infatti l’omessa assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono lo stretto necessario per la sopravvivenza e pertanto non si identificano con gli alimenti e men che meno con l’assegno di mantenimento.
Anche secondo la più recente giurisprudenza – che dai “mezzi per la sopravvivenza” (ossia vitto e alloggio) ha esteso la tutela a ciò che è necessario per le “esigenze della vita quotidiana” (vestiario, canone per le utenze indispensabili, spese per l’istruzione dei figli minori, medicinali) – la nozione di “mezzi di sussistenza” va identificata in ciò che è indispensabile alla vita, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto (Sez. 6, n. 49755 del 21/11/2012, G., Rv. 253908; Sez. 6, n. 2736 del 13/11/2008, dep. 2009, L, Rv. 242855; Sez. 6, n. 27851 del 10/04/2001, Halfon, n.m.).
Come si è sopra evidenziato, l’obbligo di mantenimento ha una portata ben più ampia, giacché comprende tutto quanto sia richiesto per un tenore di vita adeguato alla posizione economico-sociale dei coniugi e dei figli e prescinde dallo stato di bisogno. La nozione di alimenti si pone a metà strada tra le altre due e comprende, oltre a ciò che è indispensabile per le primarie esigenze di vita, anche ciò che è soltanto utile o che è conforme alle condizioni dell’alimentando e proporzionale alle sostanze dell’obbligato (Sez. 6, n. 27851 del 2001, Halfon, cit.).
E’ proprio l’ambito circoscritto della nozione dei mezzi di sussistenza (che implica l’esistenza dello stato di bisogno nel soggetto passivo) rispetto a quella di mantenimento (che dallo stato di bisogno prescinde) a impedire di considerare la violazione formale dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile (e ora anche quello di separazione a seguito della L. n. 54 del 2006) affine alla condotta di danno quale delineata dall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2.
il rinvio quoad poenam operato dalla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, si riferisce alle pene alternative di cui all’’1art. 570 c.p., comma 2°
Dalla mancanza d’identità contenutistica tra la fattispecie penale prevista dal codice e quella prevista dalla legge di riforma del divorzio (a cui fa rinvio la L. n. 54 del 2006, in tema di obblighi economici del coniuge separato) deriva l’impossibilità di ritenere che il rinvio quoad poenam operato dalla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, possa riferirsi all’art. 570 c.p., comma 2.
Tale conclusione non comporta alcuna sostanziale attenuazione della tutela repressiva, posto che, essendo rimessa al giudice la scelta della pena da infliggere in concreto, i casi gravi possono essere puniti con la pena detentiva.

3.4. A riprova delle conclusioni che precedono, basti considerare che l’interpretazione qui disattesa (fatta propria dalla sentenza impugnata) finisce, senza apprezzabile ragione, con il parificare la mancata prestazione dei mezzi di sussistenza al mero omesso pagamento dell’assegno di divorzio (ed ora anche dell’assegno disposto in favore di figli in casi di separazione dei coniugi), dando luogo a identico trattamento sanzionatorio per condotte del tutto eterogenee e di evidente diversa gravità.
Un corretto approccio ermeneutico deve, invece, pervenire alla conclusione che a una simile eterogeneità di situazioni di riferimento il legislatore abbia inteso fare corrispondere una diversità di sanzioni.
L’interpretazione qui accolta evita ulteriori disarmonie di trattamento tra la tutela del coniuge convivente, penalmente tutelato soltanto se versa in stato di bisogno (art. 570 c.p., comma 2, n. 2) e quella del coniuge divorziato; tra la tutela dei figli minori in costanza di matrimonio (situazione disciplinata soltanto dall’art. 570 c.p., comma 2, n. 2) e la tutela dei figli minori nell’ipotesi di divorzio (e, dopo il 2006, anche di separazione); tra la tutela di figli maggiori inabili al lavoro (art. 570 c.p., comma 2, n. 2) e quella dei figli maggiori non autosufficienti in caso di divorzio (e, dopo il 2006, anche di separazione).
Deve conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 c.p., effettuato dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo della disposizione codicistica”.

Per il delitto previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, si procede d’ufficio
4. Il Collegio rimettente ha fatto cenno anche alla questione sulla procedibilità, considerando che la L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies, non richiama l’art. 570 c.p., per la condizione di procedibilità prevista dal comma 3, sicché, mentre la violazione degli obblighi di assistenza familiare è punibile a querela della persona offesa quando concerne il coniuge anche separato, è invece perseguibile d’ufficio la mancata corresponsione dell’assegno al coniuge e ai figli in caso di divorzio. L’ordinanza di rimessione menziona la giurisprudenza maggioritaria secondo cui il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorziale è procedibile d’ufficio (Sez. 6, n. 39938 del 25/09/2009, D., Rv. 245004; Sez. 6, Sentenza n. 39392 del 03/10/2007, Pelacchia, Rv. 237663), ma da conto anche dell’esistenza di qualche pronuncia di segno contrario (Sez. 6, n. 21673 del 2004, Cappellari, Rv. 229636, cit.).
A prescindere dall’irrilevanza della questione nel procedimento in esame, avendo il giudizio preso l’avvio dalla querela presentata dalla parte offesa creditrice contro l’inadempiente, occorre ricordare che la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., pur rilevando “disarmonie nel disegno normativo, che possono esser superate dal legislatore secondo una ponderata valutazione dei diversi interessi” (sent. n. 325 del 1995; ord. n. 423 del 1999).
Tenuto conto che la procedibilità a querela di parte è sempre collegata alla tipologia e al contenuto del precetto ed è indipendente dalla gravità del reato, va ribadita in questa sede, in linea con i rilievi della Corte costituzionale, che per il delitto previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, si procede d’ufficio, in quanto il rinvio che ha voluto il legislatore si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche all’art. 570 c.p., comma 3, il quale, in deroga al principio generale, prevede la procedibilità “a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti di minori, dal n. 2 del precedente comma”.

5. La sentenza va pertanto annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che procederà a nuovo giudizio facendo applicazione dei principi di diritto sopra enunciati.

4. Accesso abusivo ad un sistema informatico

Cass. s.u. 27 ottobre 2011, Casani

In sintesi
Non integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto (art. 615-ter c.p.) la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita, salvo che l’accesso o il mantenimento nel sistema integri una violazione dei limiti o delle condizioni dell’abilitazione.

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 maggio 2009, in parziale riforma della sentenza emessa il 16 ottobre 2007, all’esito di giudizio abbreviato, dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale in sede:
a) ribadiva l’affermazione della responsabilità penale di:
Gianluca Santilli in ordine al delitto di cui agli artt. 81, comma secondo, e 615-ter, comma secondo, n. 1, e comma terzo, c.p., perché, quale maresciallo in servizio presso la stazione dei Carabinieri di Roma-Flaminio, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, abusivamente si introduceva nel sistema informatico denominato S.D.I. (Sistema di Indagine), in dotazione alle forze di polizia, sistema protetto da misure di sicurezza, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione di ufficiale di p.g. e con violazione delle direttive concernenti l’accesso allo S.D.I. da parte di appartenenti alle forze dell’ordine e all’Arma dei Carabinieri: in particolare, accedendo a tale sistema informatico nonostante fosse fuori dal servizio e, comunque, non dovesse svolgere alcuna indagine sul conto di Camillo Mineo ed Alessandra Trivellone, si impossessava di notizie afferenti la sfera privata e le vicende giudiziarie di entrambi, nonché di altre otto persone legate a vario titolo al Mineo (in Roma, il 13 giugno 2006);
Gianluca Santilli, Giancarlo Casani ed Alessandra Trivellone in ordine al delitto di cui all’art. 326 c.p., perché: il Santilli, violando i doveri inerenti la sua funzione e comunque abusando della sua qualità, rilevava al Casani le notizie di ufficio, illecitamente acquisite e che dovevano rimanere segrete o riservate, riguardanti Camillo Mineo e Alessandra Trivellone; il Casani, venuto in possesso dei documenti contenenti le anzidette notizie di ufficio sul conto del Mineo, coniuge separato della Trivellone, sua convivente, li consegnava alla donna al fine di procurarle un ingiusto profitto e comunque di arrecare al Mineo un danno ingiusto; la Trivellone, al fine di procurarsi un ingiusto profitto e comunque di arrecare al coniuge separato un danno ingiusto, inviava per posta al Mineo i tabulati dell’interrogazione al S.D.I.;
b) determinava le pene, con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche, in un anno e otto mesi di reclusione per il Santilli ed in dieci mesi di reclusione per ciascuno degli altri due imputati, confermando la concessione dei doppi benefici di legge al Santilli ed alla Trivellone;
c) confermava le statuizioni risarcitorie in favore del Mineo, costituitosi parte civile.

2. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, il Santilli si era introdotto nel sistema informatico S.D.I., protetto da misure di sicurezza e relativo all’ordine pubblico e alla sicurezza pubblica, usando il proprio codice di identificazione per finalità diverse da quelle che gli consentivano l’accesso: precisamente, per compiere accertamenti su Camillo Mineo (coniuge separato della Trivellone, divenuta successivamente convivente del Casani), non per ragioni di ufficio, bensì a seguito della richiesta a lui rivolta dal Casani, per motivi personali ricollegabili ai contrasti tra la Trivellone e il Mineo nel procedimento di separazione in corso.
Il Santilli aveva quindi acquisito una serie di informative relative alla persona del Mineo ed ai procedimenti penali in cui quello era coinvolto e le aveva consegnate al Casani, che, insieme alla Trivellone, aveva spedito la documentazione più imbarazzante al Mineo, con la scritta “io so”, quale elemento di pressione ai fini del procedimento di separazione.
Quanto alla qualificazione giuridica del fatto ascritto al Santilli, la Corte di appello specificava di condividere l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione, Sez. 5, n. 1727 del 30/09/2008, dep. 2009, Romano, secondo il quale l’ipotesi di reato prevista dall’art. 615-ter, comma secondo, n. 1, c.p., sanziona anche la condotta del pubblico ufficiale che, pure essendo specificamente abilitato a consultare il sistema informatico, vi abbia però fatto accesso «con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio […] o con abuso della qualità di operatore del sistema».

omissis

5. Il ricorso è stato assegnato alla Quinta Sezione penale, la quale, all’udienza dell’11 febbraio 2011 (con ordinanza depositata il 23 marzo 2011), ha rilevato che il punto nodale della vicenda processuale in esame è costituito dalla qualificazione giuridica della condotta posta in essere dal maresciallo dei carabinieri Santilli con le modalità dianzi enunciate.
Si osserva che la Corte di appello ha ritenuto che la suddetta condotta integri il reato sanzionato dall’art. 615-ter c.p., dichiarando di aderire all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità con la citata sentenza Romano.
Detto orientamento era stato già espresso dalla stessa Quinta Sezione con la sentenza n. 12732 del 07/11/2000, Zara, ove era stato argomentato che «l’analogia con la fattispecie della violazione di domicilio deve indurre a concludere che integri la fattispecie criminosa [prevista dall’art. 615-ter c.p.] anche chi, autorizzato all’accesso per una determinata finalità, utilizzi il titolo di legittimazione per una finalità diversa e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali era subordinato l’accesso. Infatti, se l’accesso richiede un’autorizzazione e questa è destinata a un determinato scopo, l’utilizzazione dell’autorizzazione per uno scopo diverso non può non considerarsi abusiva».
In tale prospettiva ermeneutica, la norma posta dall’art. 615-ter c.p., nel configurare il reato di “accesso abusivo”, sanziona non solo la condotta del cosiddetto hacker o “pirata informatico”, cioè di quell’agente che, non essendo abilitato ad accedere al sistema protetto, riesca tuttavia ad entrarvi scavalcando la protezione costituita da una chiave di accesso (password), ma anche quella del soggetto abilitato all’accesso, e perciò titolare di un codice d’ingresso, che s’introduca legittimamente nel sistema, per finalità però diverse da quelle delimitate specificamente dalla sua funzione e dagli scopi per i quali la password gli è stata assegnata.
L’enunciata interpretazione era stata ribadita, sempre dalla Quinta Sezione, con le sentenze: n. 37322 del 08/07/2008, Bassani, n. 1727 del 30/09/2008, Romano, n. 18006 del 13/02/2009, Russo, n. 2987 del 10/12/ 2009, Matassich, n. 19463 del 16/02/2010, Jovanovic, n. 39620 del 22/09/2010, Lesce.
In particolare, nelle sentenze Bassani e Lesce, era stato espressamente enunciato che il primo comma dell’art. 615-ter c.p. sanziona non soltanto l’introduzione abusiva in un sistema informatico protetto, ma anche il mantenersi al suo interno – contro la volontà espressa o tacita di chi abbia il diritto di escluderlo – da parte di soggetto abilitato, il cui accesso, di per sé legittimo, diviene abusivo, e perciò illecito, per il suo protrarsi all’interno del sistema per fini e ragioni estranee a quelle d’istituto.
Un orientamento diverso e contrastante era stato espresso, invece, dalle sentenze Migliazzo (Sez. 5, n. 2534 del 20/12/2007), Scimia (Sez. 5, n. 26797 del 29/05/2008), Peparaio (Sez. 6, n. 3290 del 08/10/2008), Genchi (Sez. 5, n. 40078 del 25/06/2009), che avevano valorizzato il dettato della prima parte del primo comma dell’art. 615-ter c.p., e avevano ritenuto perciò illecito il solo accesso abusivo, e cioè quello effettuato da soggetto non abilitato, mentre sempre e comunque lecito consideravano l’accesso del soggetto abilitato, ancorché effettuato per finalità estranee a quelle d’ufficio (espressamente sul punto la sentenza Peparaio) e perfino illecite (cosi la sentenza Scimia).

6. A fronte del contrasto giurisprudenziale dianzi delineato, il Collegio della Quinta Sezione, ex art. 618 cod. proc. pen., ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, ed il Primo Presidente, con decreto in data.24 giugno 2011, ne ha disposto la trattazione alla odierna pubblica udienza.

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: «se integri la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita».

2. Il quesito inerisce alla fattispecie criminosa, introdotta dalla legge 23 dicembre 1993, n. 547 e prevista dall’art. 615-ter c.p., che sanziona (primo comma) il fatto di «Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero ivi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo».
Le condotte punite da tale norma, a dolo generico, consistono pertanto:
a) nell’introdursi abusivamente in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza: da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da lontano (attività tipica dell’hacker) sia da vicino (da persona, cioè, che si trova a diretto contatto dell’elaboratore);
b) nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione: da intendersi come il persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata o casuale, continuando ad accedere alla conoscenza dei dati nonostante il divieto, anche tacito, del titolare del sistema. Ipotesi tipica è quella in cui l’accesso di un soggetto sia autorizzato per il compimento di operazioni determinate e per il relativo tempo necessario (ad esempio, l’esecuzione di uno specifico lavoro ovvero l’installazione di un nuovo programma) ed il soggetto medesimo, compiuta l’operazione espressamente consentita, si intrattenga nel sistema per la presa di conoscenza, non autorizzata, dei dati.

3. La controversia interpretativa che ha portato alla rimessione dei ricorsi in oggetto alle Sezioni Unite si incentra sulla configurabilità del reato nel caso in cui un soggetto, legittimamente ammesso ad un sistema informatico o telematico, vi operi per conseguire finalità illecite.
Sul punto si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

3.1 Un primo orientamento ritiene che il reato di cui al primo comma dell’art. 615-ter c.p. possa essere integrato anche dalla condotta del soggetto che, pure essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite.
Tale orientamento si fonda sostanzialmente sulla considerazione che la norma in esame punisce non soltanto l’abusiva introduzione nel sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione) ma anche l’abusiva permanenza in esso contro la volontà di chi ha il diritto di escluderla: volontà contraria tacita in caso di perseguimento di una finalità illecita incompatibile con le ragioni per le quali l’autorizzazione all’accesso sia stata concessa.
L’opzione esegetica in oggetto è stata motivata anzitutto sulla base della ravvisata analogia con la fattispecie della violazione di domicilio, considerandosi che entrambi gli illeciti sono caratterizzati dalla manifestazione di una volontà contraria a quella, anche tacita, di chi ha diritto di ammettere ed escludere l’accesso e di consentire la permanenza (nel sistema informatico alla stessa stregua che nel domicilio).
Se il titolo di legittimazione all’accesso viene utilizzato dall’agente per finalità diverse da quelle consentite, dovrebbe ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà del titolare del diritto di esclusione. Pertanto commette reato anche chi, dopo essere entrato legittimamente in un sistema, continui ad operare o a servirsi di esso oltre i limiti prefissati dal titolare; in tale ipotesi ciò che si punisce è l’uso dell’elaboratore avvenuto con modalità non consentite, più che l’accesso ad esso.
In questo senso ha argomentato, per la prima volta la Quinta Sezione, con la sentenza n. 12732 del 07/11/2000, Zara, concernente una vicenda in cui un soggetto, essendo autorizzato solo all’accesso «per controllare la funzionalità del programma informatico», si era indebitamente avvalso di tale autorizzazione «per copiare i dati in quel programma inseriti», rilevando che «il delitto di violazione di domicilio è stato notoriamente il modello di questa nuova fattispecie penale, tanto da indurre molti a individuarvi, talora anche criticamente, la tutela di un domicilio informatico».
Analoghe considerazioni sono state svolte dalla Seconda Sezione, con la sentenza n. 30663 del 04/05/2006, Grimoldi, ed ulteriormente sviluppate dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 37322 del 08/07/2008, Bassani, dove è stato posto in evidenza che «la norma in esame tutela, secondo la più accreditata dottrina, molti beni giuridici ed interessi eterogenei, quali il diritto alla riservatezza, diritti di carattere patrimoniale, come il diritto all’uso indisturbato dell’elaboratore per perseguire fini di carattere economico e produttivo, interessi pubblici rilevanti, come quelli di carattere militare, sanitario nonché quelli inerenti all’ordine pubblico ed alla sicurezza, che potrebbero essere compromessi da intrusioni o manomissioni non autorizzate. Tra i beni e gli interessi tutelati non vi è alcun dubbio […] che particolare rilievo assume la tutela del diritto alla riservatezza e, quindi, la protezione del domicilio informatico, visto quale estensione del domicilio materiale. Tanto si desume dalla lettera della norma che non si limita soltanto a tutelare i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici, ma prevede uno ius excludendi alios quale che sia il contenuto dei dati […]. D’altro canto il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è stato collocato dalla legge 23 dicembre 1993, n. 547, che ha introdotto nel codice penale i c.d. computer’s crimes, nella sezione concernente i delitti contro la inviolabilità del domicilio e nella relazione al disegno di legge i sistemi informatici sono stati definiti un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall’art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615 c.p.».
La sentenza n. 37322 del 2008 ha ribadito che «la violazione dei dispositivi di protezione del sistema informatico non assume rilevanza di per sé, perché non si tratta di un illecito caratterizzato dalla effrazione dei sistemi protettivi, bensì solo come manifestazione di una volontà contraria a quella di chi del sistema legittimamente dispone.[…] L’accesso al sistema è consentito dal titolare per determinate finalità, cosicché se il titolo di legittimazione all’accesso viene dall’agente utilizzato per finalità diverse da quelle consentite non vi è dubbio che si configuri il delitto in discussione, dovendosi ritenere che il permanere nel sistema per scopi diversi da quelli previsti avvenga contro la volontà, che può, per disposizione di legge, anche essere tacita, del titolare del diritto di esclusione».
L’orientamento in oggetto ha trovato successivamente accoglimento in ulteriori pronunzie della Quinta Sezione:
La sentenza n. 18006 del 13/02/2009, Russo, ha applicato il principio ad una fattispecie relativa all’indebita acquisizione, con la complicità di appartenenti alla Polizia di Stato, di notizie riservate tratte dalla banca-dati del sistema telematico di informazione interforze del Ministero dell’Interno, per l’utilizzo in attività di investigazione privata di agenzie facenti capo agli stessi indagati o alle quali essi collaboravano.
La sentenza n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Matassich, ha ribadito l’orientamento in relazione alla copiatura, da parte di dipendenti, dei files presenti nella memoria del computer della azienda ovi essi prestavano lavoro.
La sentenza n. 19463 del 16/02/2010, Jovanovic, ha ravvisato la configurabilità del reato di cui all’art. 615-ter c.p. per «il pubblico ufficiale che, pur avendo titolo e formale legittimazione per accedere ad un sistema informatico o telematico, vi si introduca su altrui istigazione criminosa nel contesto di un accordo di corruzione propria». In tal caso già l’accesso del pubblico ufficiale – che, in seno ad un reato plurisoggettivo finalizzato alla commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), diventi la longa manus del promotore del disegno delittuoso – è stato ritenuto in sé “abusivo” e integrativo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 615-ter c.p., in quanto «effettuato al di fuori dei compiti d’ufficio e preordinato all’adempimento dell’illecito accordo con il terzo, indipendentemente dalla permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo».
Secondo tale pronuncia, «tanto sposta l’attenzione dal momento della permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo, a quello dell’accesso ed è lo stesso atto di accesso a qualificarsi come integrativo del reato, a prescindere dal prosieguo della condotta».
Lasentenza n. 39620 del 22/09/2010, dep. 2010, Lesce, ha ritenuto integrato il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico dalla «condotta di colui che, in qualità di agente della Polstrada, addetto al terminale del centro operativo sezionale, effettui un’interrogazione al CED banca dati del Ministero dell’Interno, relativa ad una vettura, usando la sua password e l’artifizio della richiesta di un organo di Polizia in realtà inesistente, necessaria per accedere a tale informazione» (per accedere alla banca dati del Ministero dell’Interno è necessario, infatti, che l’operatore utilizzi una password che lo abiliti alla richiesta e che indichi l’organo di Polizia Giudiziaria richiedente; laddove nella fattispecie concreta l’imputato aveva indicato un organo richiedente, che, invece, non aveva richiesto assolutamente nulla ed aveva altresì omesso di annotare la fittizia operazione sull’apposito registro della sala operativa, documento destinato a provare i fatti e le attività del servizio.

3.2 Un altro orientamento – del tutto difforme – esclude in ogni caso che il reato di cui all’art. 615-ter c.p. sia integrato dalla condotta del soggetto il quale, avendo titolo per accedere al sistema, se ne avvalga per finalità estranee a quelle di ufficio, ferma restando la sua responsabilità per i diversi reati eventualmente configurabili, ove le suddette finalità vengano poi effettivamente realizzate.
A sostegno di tale interpretazione, si osserva anzitutto che la sussistenza della volontà contraria dell’avente diritto, cui fa riferimento la norma incriminatrice, deve essere verificata esclusivamente con riguardo al risultato immediato della condotta posta in essere dall’agente con l’accesso al sistema informatico e con il mantenersi al suo interno, e non con riferimento a fatti successivi (l’uso illecito dei dati) che, anche se già previsti, potranno di fatto realizzarsi solo in conseguenza di nuovi e diversi atti di volizione da parte dell’agente.
Un ulteriore argomento viene tratto dalla formula normativa “abusivamente si introduce”, la quale, per la sua ambiguità, potrebbe dare luogo ad imprevedibili e pericolose dilatazioni della fattispecie penale se non fosse intesa nel senso di “accesso non autorizzato”, secondo la più corretta espressione di cui alla c.d. “lista minima” della Raccomandazione R(89)9 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, sulla criminalità informatica, approvata il 13 settembre 1989 ed attuata in Italia con la legge n. 547 del 1993, e, quindi, della locuzione “accesso senza diritto” (access […] without right) impiegata nell’art. 2 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica (cyber crime) fatta a Budapest il 23 novembre 2001 e ratificata con la legge 18 marzo 2008, n. 48. Peraltro, come per ogni norma che rappresenta la trasposizione o l’attuazione di disposizioni sovranazionali, anche per l’art. 615-ter c.p. va privilegiata, tra più possibili letture, quella di senso più conforme a tali disposizioni.
Questo orientamento è stato illustrato dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 2534 del 20/12/2007, dep. 2008, Migliazzo, ove si è affermato che «non integra il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615-ter c.p.) la condotta di coloro che, in qualità rispettivamente di ispettore della Polizia di Stato e di appartenente all’Arma dei Carabinieri, si introducano nel sistema denominato S.D.I. (banca dati interforze degli organi di polizia), considerato che si tratta di soggetti autorizzati all’accesso e, in virtù del medesimo titolo, a prendere cognizione dei dati riservati contenuti nel sistema, anche se i dati acquisiti siano stati trasmessi ad una agenzia investigativa, condotta quest’ultima ipoteticamente sanzionabile per altro e diverso titolo di reato» (nella fattispecie è stata considerata altresì ininfluente la circostanza che detto uso fosse stato già previsto dall’agente all’atto dell’acquisizione e ne avesse costituito la motivazione esclusiva).
Secondo le argomentazioni svolte nella sentenza Migliazzo, «se dovesse ritenersi che, ai fini della consumazione del reato, basti l’intenzione, da parte del soggetto autorizzato all’accesso al sistema informatico ed alla conoscenza dei dati ivi contenuti, di fare poi un uso illecito di tali dati, ne deriverebbe l’aberrante conseguenza che il reato non sarebbe escluso neppure se poi quell’uso, di fatto, magari per un ripensamento da parte del medesimo soggetto agente, non vi fosse più stato».
L’interpretazione restrittiva del contenuto della norma è stata poi ulteriormente sviluppata dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 26797 del 29/05/2008, Scimia (ove è stato escluso che dovesse rispondere del reato in questione un funzionario di cancelleria il quale, legittimato in forza della sua qualifica ad accedere al sistema informatico dell’amministrazione giudiziaria, lo aveva fatto allo scopo di acquisire notizie riservate che aveva poi indebitamente rivelate a terzi con i quali era in previo accordo; condotta, questa, ritenuta integratrice del solo reato di rivelazione di segreto d’ufficio, previsto dall’art. 326 c.p.).
In tale decisione è stato escluso che l’imputato avesse effettuato un accesso non consentito o si fosse indebitamente trattenuto, oltre modi o tempi permessi, nei registri informatizzati dell’amministrazione della giustizia, poiché l’interrogazione era stata effettuata con la utilizzazione della chiave logica (o password) legittimamente in suo possesso. E’ stato altresì evidenziato che non solo non esiste norma o disposizione interna organizzativa che inibisca al cancelliere addetto alla singola sezione di consultare i dati del registro generale e le assegnazioni ai diversi uffici (giacché nessuna limitazione di tal genere è prevista per la lettura dei dati ad opera degli utilizzatori del sistema), ma una inibizione siffatta sarebbe contraria ad ogni buona regola organizzativa, attese le necessità di consultazione di un ufficio giudiziario.
Alle stesse conclusioni è pervenuta pure la Sesta Sezione, con la sentenza n. 39290 del 08/10/2008, Peparaio, secondo cui «nella fattispecie di cui all’art. 615-ter c.p. sono delineate due diverse condotte integratici del delitto; la prima  consiste nel fatto di “chi abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misura di sicurezza”, la seconda nel fatto di chi “vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo”. La qualificazione di abusività va intesa in senso oggettivo, con riferimento al momento dell’accesso ed alle modalità utilizzate dall’autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza (chiavi fisiche o elettroniche, password, etc.) apprestate dal titolare dello ius excludendi, al fine di selezionare gli ammessi al sistema ed impedire accessi indiscriminati. Il reato è integrato dall’accesso non autorizzato nel sistema informatico, ciò che di per sé mette a rischio la riservatezza del domicilio informatico, indipendentemente dallo scopo che si propone l’autore dell’accesso abusivo. La finalità dell’accesso, se illecita, integrerà eventualmente un diverso titolo di reato. Non può, pertanto, condividersi l’interpretazione della norma che individua l’abusività della condotta nel fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abilitato ad accedere al sistema informatico, usi tale facoltà per finalità estranee all’ufficio e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali era subordinato l’accesso. Tale lettura della norma finisce con l’intrecciare le due condotte descritte dall’art. 615-ter c.p., che sono differenti e alternative, disgiuntamente considerate dal legislatore. Sarebbe stata pleonastica la descrizione della seconda condotta se la prima fosse integrata anche da chi usa la legittimazione all’accesso per fini diversi da quelli a cui è stato legittimato dal titolare del sistema».
L’indirizzo in esame è stato seguito poi dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 40078 del 25/06/2009, Genchi.

4. A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi delineato, queste Sezioni Unite ritengono che la questione di diritto controversa non debba essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza (per così dire “fisica”) dell’agente in esso. Ciò significa che la volontà contraria dell’avente diritto deve essere verificata solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi.
Rilevante deve ritenersi, perciò, il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema (nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro) sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito.
In questi casi è proprio il titolo legittimante l’accesso e la permanenza nel sistema che risulta violato: il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall’autorizzazione ricevuta.
Il dissenso tacito del dominus loci non viene desunto dalla finalità (quale che sia) che anima la condotta dell’agente, bensì dall’oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all’uso del sistema. Irrilevanti devono considerarsi gli eventuali fatti successivi: questi, se seguiranno, saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 c.p.).
Ne deriva che, nei casi in cui l’agente compia sul sistema un’operazione pienamente assentita dall’autorizzazione ricevuta, ed agisca nei limiti di questa, il reato di cui all’art. 615-ter c.p. non è configurabile, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito; sicché qualora l’attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici, e l’operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare dello ius excludendi, il delitto in esame non può essere individuato anche se degli stessi dati egli si dovesse poi servire per finalità illecite.
Il giudizio circa l’esistenza del dissenso del dominus loci deve assumere come parametro la sussistenza o meno di un’obiettiva violazione, da parte dell’agente, delle prescrizioni impartite dal dominus stesso circa l’uso del sistema e non può essere formulato unicamente in base alla direzione finalistica della condotta, soggettivamente intesa.
Vengono in rilievo, al riguardo, quelle disposizioni che regolano l’accesso al sistema e che stabiliscono per quali attività e per quanto tempo la permanenza si può protrarre, da prendere necessariamente in considerazione, mentre devono ritenersi irrilevanti, ai fini della configurazione della fattispecie, eventuali disposizioni sull’impiego successivo dei dati.

5. Va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale «integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall’art. 615-ter c.p., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema».

6. Alla stregua di tale principio deve essere esaminata, dunque, la vicenda oggetto del processo, caratterizzata – secondo gli accertamenti di fatto e le acquisizioni dibattimentali – dalla circostanza che il maresciallo Santilli era stato autorizzato ad accedere al sistema informatico interforze ed a consultare lo stesso soltanto per ragioni «di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati», con espresso divieto di stampare il risultato delle interrogazioni «se non nei casi di effettiva necessità e comunque previa autorizzazione da parte del comandante diretto».
Trattasi di prescrizioni disciplinanti l’accesso ed il mantenimento all’interno del sistema che, in quanto non osservate dall’imputato, hanno reso abusiva l’attività di consultazione esercitata in concreto, prescindendosi dal successivo uso indebito dei dati acquisiti e dalla predeterminazione di una finalità siffatta.
La condotta è stata posta in essere con la consapevolezza della contrarietà alle disposizioni ricevute e, quindi, del carattere invito domino dell’accesso e della permanenza fisica nel sistema, e ciò integra ad evidenza il dolo generico richiesto dalla norma, che non prevede alcuna finalità speciale né lo scopo di trarre profitto, per sé o per altri, ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto.
Le doglianze riferite, nel ricorso del Santilli, alla configurabilità del delitto di cui all’art. 615-ter c.p. devono essere conseguentemente rigettate, perché infondate.

7. Infondate sono altresì le questioni svolte nei tre ricorsi con riferimento alla ravvisabilità, rispetto alla fattispecie concreta, del reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio: reato del quale viene prospettata l’esclusione sotto i profili sia della mancanza di un pericolo effettivo per gli interessi protetti dalla norma incriminatrice, sia della mancanza di prova del dolo.
La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide e ribadisce, configura il delitto di cui all’art. 326 c.p. quale reato di pericolo effettivo (e non meramente presunto) per gli interessi tutelati, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, a mezzo della notizia da tenere segreta. Ne consegue che il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie d’ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell’evoluzione della notizia oltre i termini dell’apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del 06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del 20/03/2009, C.).
Le ipotesi di non punibilità del reato di cui all’art. 326 c.p. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, essendo stato evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità che:
– il reato di rivelazione di segreti di ufficio si configura anche quando il fatto coperto dal segreto sia già conosciuto in un ambito limitato di persone e la condotta dell’agente abbia avuto l’effetto di diffonderlo in un ambito più vasto(Sez. 6: n. 929 del 05/12/1997, dep. 1998, Colandrea; Sez. 6, n. 35647 del 17/05/2004, Vietti);
– gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice in oggettosi intendono lesi allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio alla pubblica amministrazione o ad un terzo(Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposito; Sez. 1, n. 1265 del 29/11/2006, dep. 2007, Bria; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli);
– quando è la legge a prevedere l’obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto (Sez. 6, n. 42726 dell’11/10/2005, De Carolis);
– integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la divulgazione da parte dell’extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore(Sez. 6, n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto).
Ora, nella fattispecie in esame non risulta dimostrato che il Casani e lo stesso Mineo avessero conoscenza del contenuto specifico ed integrale delle informative redatte da ufficiali della polizia giudiziaria in relazione ai comportamenti posti in essere da quest’ultimo considerati illeciti; e, in relazione ai fatti divulgati, poiché l’obbligo del segreto è precipuamente previsto dalla legge, non può sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità di produrre nocumento, a mezzo della notizia da tenere segreta, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, proprio perché la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza di un pericolo siffatto, ritenendola conseguente già alla mera violazione dell’obbligo del segreto.
Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all’art. 326 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotta e senza che possa aver alcun valore esimente l’eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie(vedi Sez. 6, n. 2183 del 13/01/1999, Curia; Sez. 6, n. 9331 dell’11/02/2002, Fortunato).
La sussistenza di tale volontà consapevole, nella vicenda in esame, risulta adeguatamente illustrata dai giudici del merito.
Segue il rigetto integrale dei gravami proposti da Giancarlo Casani e Alessandra Trivellone.
omissis

5. Consumo di gruppo di sostanze stupefacenti

Cass. s.u. 31 gennaio 2013, P.G. in proc. Galluccio

Anche all’esito delle modifiche apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell’ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all’acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, ma integra l’illecito amministrativo sanzionato dall’art. 75 stesso d.P.R., a condizione che:
a) l’acquirente sia uno degli assuntori;
b) l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti del gruppo;
c) sia certa sin dall’inizio l’identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all’acquisto.
(In motivazione, la S.C. ha precisato che con il riferimento all’uso “esclusivamente personale”, inserito dall’art. 4-bis del D.L. n. 272 del 2005, conv. in legge n. 49 del 2006, il legislatore non ha introdotto una nuova norma penale incriminatrice, con una conseguente restrizione dei comportamenti rientranti nell’uso personale dei componenti del gruppo, ma ha di fatto ribadito che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi, ma all’utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono).

RITENUTO IN FATTO

1. Ad A..G. vennero contestati i reati di cui:
A) al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, per avere, dopo l’acquisto di eroina in comune con A..P. , proceduto al consumo di gruppo dello stupefacente con il P. , in tal modo detenendo sostanza stupefacente destinata ad un uso non esclusivamente personale (destinata al consumo comune) e per averla comunque ceduta ai P. ;
B) all’art. 586 c.p., in relazione all’art. 589 c.p., perché dal fatto-reato di cui al capo A), era derivata, come conseguenza non voluta, la morte di A..P. , deceduto per edema polmonare acuto conseguente all’assunzione dell’eroina acquistata in comune con A..G. .

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avellino, con sentenza del 28 giugno 2011, dichiarò non luogo a procedere per i reati di cui ai capi A) e B), perché il fatto non sussiste, condividendo l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, anche a seguito delle modifiche apportate al D.P.R. n. 309 del 1990, dalla legge n. 49 del 2006, l’uso di gruppo di sostanze stupefacenti non assume rilevanza penale allorquando ricorrano alcune condizioni, che nella specie erano presenti, sussistendo una comune ed originaria finalità dei due soggetti di acquisto dello stupefacente per destinarlo al proprio fabbisogno personale; la partecipazione di entrambi alla spesa occorrente; la previsione delle modalità di consumo; la qualità di assuntore in capo all’acquirente e la cessione della droga direttamente all’altro.
Venuta meno la configurabilità del delitto di cui al capo A), mancava il presupposto del reato di cui all’art. 586 c.p..

… omissis

3. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza del 16 ottobre 2012, ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione della questione, oggetto di contrasto giurisprudenziale, relativa alla rilevanza penale del c.d. “uso di gruppo di sostanze stupefacenti” a seguito della novella legislativa introdotta dalla L. n. 49 del 2006.
L’ordinanza ricorda che la questione era già stata risolta dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, con l’affermazione del principio che “non sono punibili e rientrano nella sfera dell’illecito amministrativo di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio per conto e nell’interesse anche di soggetti diversi dall’agente, quando è certa fin dall’inizio l’identità dei medesimi nonché manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo”. Questa soluzione si fondava sulla omogeneità teleologia della condotta del procacciatore e degli altri componenti del gruppo, che caratterizza la detenzione nel senso di una comune codetenzione idonea ad impedire che il primo si ponga in rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di connotare la sua condotta quale cessione. Il nuovo testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, come modificato dalla L. n. 49 del 2006, però, ora punisce penalmente chi illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che, sulla base dei parametri indicati, “appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale”, mentre il novellato art. 75 sottopone a sanzioni amministrative chi detiene tali sostanze fuori dall’ipotesi di cui all’art. 73, comma 1 bis, ossia chi le detiene per un uso “esclusivamente personale”. Sono quindi mutate sia la struttura normativa sia quella semantica, perché, nell’art. 73, è stato introdotto l’avverbio “esclusivamente” che non esisteva nel previgente art. 75.
L’ordinanza ricorda che alcune decisioni hanno ritenuto che il legislatore ha così inteso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti e che l’introduzione dell’avverbio “esclusivamente” deve condurre ad un’interpretazione più restrittiva di quella in precedenza data al sintagma “uso personale”, con la conseguenza che la fattispecie del c.d. uso di gruppo non può più farsi rientrare nell’ipotesi di consumo esclusivamente personale, stante la quantità e le modalità di presentazione dello stupefacente acquistato. Altre decisioni hanno invece confermato il precedente indirizzo, ribadendo che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, conseguente al mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità degli altri, continua a non essere punibile penalmente. Ciò perché l’avverbio “esclusivamente” costituisce un’aggiunta ridondante, superflua e pleonastica. Inoltre, la preliminare adesione dei partecipanti al progetto comune di fare dello stupefacente un uso esclusivamente personale, esclude che chi acquista su incarico degli altri si ponga in una posizione di estraneità rispetto ai mandanti.

4. Con decreto in data 12 novembre 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: “se, a seguito della novella introdotta dalla L. n. 49 del 2006, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune, sia o meno penalmente rilevante”.

2. La questione si risolve, in sostanza, nello stabilire se il precedente diritto vivente, per come affermato dalla unanime e costante giurisprudenza a seguito della sentenza delle Sezioni Unite ric. Iacolare del 1997, abbia subito modifiche per effetto delle norme recate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49.
l’evoluzione normativa e giurisprudenziale
È quindi necessario richiamare, sì a pur brevemente, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul punto.
È stato esattamente rilevato che la locuzione “consumo o uso di gruppo” è fuorviante, sia perché eccessivamente generica e comprensiva di situazioni eterogenee, sia perché si incentra sul momento finale del consumo della sostanza stupefacente, mentre l’aspetto rilevante è quello iniziale dell’acquisto, oltre a quello successivo della detenzione.
In realtà, quando si parla di consumo di gruppo, si fa di solito riferimento a due diverse situazioni: a) a quella in cui due o più soggetti acquistino congiuntamente sostanza stupefacente per farne uso personale e poi la detengano (in modo indiviso o meno) in una quantità necessaria a soddisfare il fabbisogno di tutti;
b) a quella in cui un solo soggetto acquisti, a seguito di mandato degli altri, sostanza stupefacente destinata al consumo personale suo e dei mandanti, fra i quali poi la ripartisca.
Peraltro, come si vedrà, alle due situazioni non può darsi un trattamento differenziato sotto il profilo qui in esame.

3. Il testo originario del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, prevedeva un reato a condotta plurima, che puniva chi “senza l’autorizzazione coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli artt. 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope”.
Il successivo art. 75, poi, estrapolava tre di queste condotte – l’importazione, l’acquisto e la detenzione della sostanza stupefacente – caratterizzate dalla finalità specifica dell’agente di farne un uso personale e, nell’ambito delle stesse, operava una distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo sulla base del criterio quantitativo della dose non superiore a quella media giornaliera.
Nella vigenza di questa disposizione, la giurisprudenza assolutamente prevalente riconosceva la punibilità di entrambe le ipotesi rientranti nel c.d. uso di gruppo, ritenendo che esso integrasse gli estremi del concorso nel reato in relazione all’intero quantitativo acquistato da o per il gruppo, e non invece la detenzione di una quota ideale da parte di ciascun componente del gruppo, e che la ripartizione dello stupefacente tra i codentori importasse una reciproca cessione di parti del quantitativo codetenuto, simile ad ogni altra forma di cessione.
Ciò in quanto la condotta del singolo codentore era considerata priva di autonomia, perché avente ad oggetto gli obiettivi comuni perseguiti dagli altri (Sez. 6, n. 900 del 19/09/1992, Tognali, Rv. 192060; Sez. 6, n. 7230 del 22/04/1992, Bolognini, Rv. 190709; Sez. 4, n. 9552 del 04/02/1991, Aloisi, Rv. 188196).

4. Per effetto dell’esito referendario sancito dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (con il quale, tra l’altro, furono eliminate dall’art. 75 cit., la parole “in dose non superiore a quella media giornaliera”) venne meno questa limitazione quantitativa, sicché le tre condotte contemplate dall’art. 75, ove finalizzate all’uso personale, vennero interamente attratte nell’area dell’illecito amministrativo divenendo estranee a quella del penalmente rilevante.
La Corte costituzionale, con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996, sottolineò che l’intervento popolare aveva comportato anche una parziale modifica della stessa strategia di contrasto della diffusione della droga, nel senso che era stata isolata la posizione del tossicodipendente e del tossicofilo rispetto ai veri protagonisti del mercato degli stupefacenti, rendendo tale soggetto destinatario unicamente di sanzioni amministrative, significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti. Ciò non sulla base della situazione soggettiva dell’agente, ma sulla base oggettiva della condotta e dell’elemento teleologia) della destinazione dello stupefacente all’uso personale. La Corte precisò che in tal modo il legislatore aveva tracciato “una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale”; e che in “quest’area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione; ed è l’elemento teleologia) della destinazione della droga all’uso personale ad assicurare (secondo l’id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza” tra detenzione e consumo.

4.1. Dopo l’abrogazione referendaria, sulla questione oggi in esame si sviluppò un contrasto giurisprudenziale simile a quello attuale.
Un primo orientamento sosteneva che l’esito del referendum non aveva avuto alcuna conseguenza sulla punibilità del c.d. consumo di gruppo. Si osservava – con argomentazioni che non appaiono dissimili da molte di quelle poste ancora oggi a sostegno della tesi più restrittiva – che l’art. 75, riferendosi all'”uso personale”, lascia ben intendere la volontà di circoscrivere, in modo rigoroso, l’illecito amministrativo soltanto alla persona del “consumatore”, al di fuori di qualunque forma di rapporto con altro o con altri soggetti, che avesse comunque ad oggetto sostanze stupefacenti (Sez. 6, n. 2441 del 25/05/1994, Corba, Rv. 199566); che l’uso di gruppo implica la cessione sia pur parziale della droga a terzi e quindi esclude almeno in parte l’uso personale (Sez. 4, 18/01/1994, Trainito, non mass.); che la cessione, anche se conseguente ad un acquisto per uso personale proprio e del cessionario, rientra comunque nelle ipotesi di reato del procurare o del consegnare droga ad altri (Sez. 4, 02/10/1996, Granata, non mass.; Sez. 4, Trainito, cit); che ogni situazione di acquisto comune o di codetenzione determina un vincolo solidale tra i membri del gruppo, con una gestione di fatto societaria, inerente all’acquisto e all’utilizzazione della sostanza, che esula dalla esclusiva sfera personale a base dell’ipotesi di illecito amministrativo; ciò perché il coinvolgimento degli altri soggetti del gruppo conferisce alla detenzione un carattere ultra-individuale, attraverso una socializzazione della stessa detenzione e del consumo, tale da dover essere apprezzata penalmente (Sez. 1, n. 5548 del 06/11/1995, Cavessi, Rv. 202938); che tutt’al più la destinazione all’uso di gruppo potrebbe far ravvisare l’attenuante del fatto di lieve entità (Sez. 4, n. 6895 del 31/01/1994, Tofani, Rv. 198665). 4.2. Un opposto, e più consistente, orientamento affermava invece che, in base al testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, quale risultante a seguito dell’abrogazione referendaria, l’acquisto congiunto o su mandato e la codetenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale di ciascuno dei detentori non erano più previsti dalla legge come reato (Sez. 6, n. 1324 del 04/11/1996, dep. 13/02/1997, Deminicis, Rv. 208182; Sez. 6, n. 20692 del 04/11/1994, dep. 28/02/1995, Bertolani, Rv. 200552; Sez. 6, n. 1948 del 29/11/1993, Molin, Rv. 197092).
Si osservava che tale codetenzione riguarda una situazione di fatto unitaria, caratterizzata da un rapporto intimo che si stabilisce e si esaurisce fra i soggetti, codetentori di singole quote ideali, dalla quale non può derivare a priori un concorso nel reato di detenzione di droga a fine di spaccio, nel presupposto astratto di una presunta cessione reciproca di quote oppure per effetto di una possibile disponibilità, da parte di ciascun codetentore, dell’intero quantitativo della sostanza stupefacente; che, infatti, per aversi concorso occorre una prova certa che, travalicando il fatto unitario e le ragioni specifiche della codetenzione della sostanza, dimostri, in modo concreto ed inequivoco, che tale situazione, di per sé neutra, sia finalizzata all’attività di spaccio all’interno del gruppo dei codetentori oppure nei confronti di terzi (Sez. 6, n. 215 del 30/10/1996, dep. 15/01/1997, Lorè, Rv. 207111; Sez. 4, n. 776 del 27/05/1994, Gomiero, Rv. 199553); che la prova certa della destinazione allo spaccio non può essere desunta ne’ dal solo quantitativo della sostanza (la cui rilevanza non è incompatibile con la destinazione all’uso personale), ne’ dalla consegna ai componenti del gruppo, dal momento che fin dall’acquisto ciascuno di essi ottiene il possesso e la disponibilità del quantitativo secondo la quota di spettanza (Sez. 6, n. 1620 del 18/04/1997, Miccoli, Rv. 208289). In particolare, si affermava che la fattispecie deve qualificarsi fin dall’inizio come acquisto e possesso per uso personale ad opera dei vari interessati della porzione di sostanza destinata al proprio consumo, rimanendo irrilevante il successivo atto concreto di divisione (Sez. 4, n. 1990 del 12/01/1996, Villani, Rv. 204461; Sez. 4, n. 6994 del 04/05/1994, Bonsignore, Rv. 198676;), il quale non costituisce una cessione, ma semplice operazione materiale con cui ciascuno viene in possesso del quantitativo destinato fin dall’inizio al suo uso personale (Sez. 6, n. 10749 del 05/11/1996, Consoli, Rv. 206334; Sez. 4, n. 1113 del 23/11/1995, dep. 01/02/1996, Matrone, Rv. 204055; Sez. 4, n. 8938 del 14/07/1995, Residori, Rv. 202926; Sez. 4, n. 6483 del 01/03/1995, Muralo, Rv. 201703); che dunque non è punibile chi acquisti o detenga droga su incarico di altri che intendano farne uso esclusivamente personale quando il soggetto sia anch’egli uno degli assuntori, poiché la sua azione è intesa all’utilizzo diretto del gruppo, come longa manus del quale egli agisce (Sez. 6, n. 4658 del 21/03/1997, Franzè, Rv. 207486; Sez. 4, n. 199 del 19/12/1996, dep. 15/1/1997, Di Stefano, Rv. 207157). Si precisava, peraltro, che per configurare questa ipotesi e non una cessione, eventualmente gratuita, a terzi, occorre che ciascun partecipante al gruppo abbia sin dall’inizio coscienza e volontà di acquistare la propria parte di sostanza stupefacente per destinarla al suo uso personale (Sez. 6, 09/01/1993, Gradi, non mass.) e che la stessa sia destinata al consumo esclusivo dei partecipanti (Sez. 4, n. 8013 del 12/07/1996, Del Conte, Rv. 205830).

5. Il contrasto, com’è noto, venne risolto a favore  dell’orientamento meno restrittivo da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, Rv. 208216, la quale affermò il principio che non sono punibili, e rientrano pertanto nella sfera dell’illecito amministrativo di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio per conto e nell’interesse anche di soggetti diversi dall’agente, quando è certa fin dall’inizio l’identità dei medesimi nonché manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo.
Le Sezioni Unite, dopo avere richiamato quanto evidenziato dalle sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996 della Corte costituzionale in relazione alla “cintura protettiva” riservata al consumo personale contro i rischi di sanzione penale, osservarono che non ha rilievo penale il consumo personale e quanto lo precede immediatamente, sempre che si esaurisca nella sfera personale dell’assuntore e quindi non riguardi la condotta del trafficante o del cedente. Sennonché, “anche nell’ipotesi del gruppo la detenzione comunque costituisce l’antecedente del consumo, ed inerisce al rapporto tra assuntore e sostanza in vista dell’uso personale, con esclusione dell’intermediazione di soggetti diversi (Corte Cost. n. 296 del 1996), non potendo essere considerati tali quanti detengono per se stessi e per colui che sin dall’acquisto ha titolo per conseguire l’utilità relativa alla parte della sostanza a lui destinata”. Ciò sempre che l’acquisto e la detenzione avvengano fin dall’inizio per conto anche degli altri soggetti di cui sia certa l’identità e manifesta la volontà di procurarsi la sostanza destinata al consumo personale.
La sentenza evidenziò poi che ciò che consente di considerare l’acquisto e la detenzione da parte di alcuni come antecedente immediato del consumo degli altri è la presenza di una omogeneità teleologica nella condotta dei primi rispetto allo scopo degli altri:  “solo questa omogeneità impedisce che il procacciatore si ponga in un rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto agli altri componenti del gruppo, con conseguente connotazione della sua condotta quale cessione”. Dunque, quando l’acquisto avviene per il consumo di ciascun componente del “gruppo”, e quindi dello stesso procacciatore, sulla base di una comune volontà iniziale, l’omogeneità teleologica caratterizza necessariamente anche la detenzione quale codetenzione, la quale, in quanto antecedente immediato del consumo di ciascun soggetto, si presta ad una immediata “dissoluzione” in autonomi rapporti tra singolo soggetto e sostanza, corrispondenti all’utilità prò quota che ciascuno sin dall’inizio si riprometteva di conseguire.
Di conseguenza, è irrilevante distinguere tra l’ipotesi di acquisto contestuale da parte di più soggetti, che insieme detengono e poi suddividono la sostanza, e l’ipotesi in cui un componente di un gruppo acquisti anche per conto degli altri e poi suddivida la sostanza. Ciò perché entrambe le ipotesi “attengono pur sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato rispetto al consumo da parte dei componenti del gruppo; con la sola differenza che nel secondo caso l’acquirente-assuntore agisce sulla base di un mandato ricevuto dagli altri, con effetti però equivalenti quanto ad acquisto ed a disponibilità della sostanza (vedi: artt. 1388 e 1706 c.c.)”. Poiché quindi chi riceve la sostanza ne è sostanzialmente già proprietario per averla già acquistata come quota di un quantitativo indiviso, la consegna non costituisce cessione o spaccio, ma mera attività esecutiva della divisione del quantitativo comune. Qualora invece l’acquirente non sia anche assuntore oppure non abbia avuto alcun mandato, la sua condotta si pone in rapporto di diversità teleologica rispetto agli altri soggetti, cosicché egli assume la qualità di cedente e il suo comportamento rientra nello schema del traffico di droga.
Le Sezioni Unite osservarono altresì che una diversa interpretazione comporterebbe una illogica disparità di trattamento perché lo stesso soggetto rimarrebbe esposto a sanzione amministrativa per la quota destinata al consumo personale ed a sanzione penale per la parte consegnata agli altri comproprietari assuntori cui era destinata fin dall’inizio. Sottolinearono infine che l’irrilevanza penale riguarda una condotta incentrata sul consumo personale ed attinente ai “comportamenti immediatamente precedenti” e strumentali all’assunzione, e perciò da ritenersi estranea “alla diffusione della droga ovvero all’incremento ed all’incentivo del mercato relativo, proprio perché circoscritta alla persona del consumatore”, sicché non è destinatala di quel giudizio di disvalore comportante l’applicazione della sanzione penale. Il dato quantitativo può essere assunto quale indice sintomatico di una destinazione ad un uso, in tutto o in parte, non personale, ma non quale discrimen dell’ipotesi depenalizzata; il che deve valere non solo nel caso di singolo detentore-assuntore, ma anche “in caso di codetenzione di sostanza destinata ad uso personale da parte di ciascuno dei detentori”.
La soluzione della sentenza Iacolare è stata poi unanimemente condivisa, diventando così vero e proprio diritto vivente, dalla giurisprudenza successiva, la quale in sostanza, si è limitata a precisare, nei singoli casi concreti, gli elementi occorrenti per dare luogo al c.d. consumo di gruppo, escluso dall’ambito penale. In particolare, è stato, tra l’altro, ribadito che “se l’acquisto e il consumo rimangono circoscritti all’interno del gruppo degli assuntori, è irrilevante che la sostanza sia detenuta da uno solo di essi, in quanto l’intero quantitativo è idealmente divisibile in quote corrispondenti al numero dei menzionati partecipanti, mentre, in difetto, sussiste il reato di cessione, sia pure gratuita, a terzi di sostanza stupefacente” (Sez. 4, n. 35682 del 10/07/2007, Di Riso, Rv. 237776); e che il c.d. uso di gruppo è ravvisabile quando l’acquisto e la detenzione della droga, destinata all’uso personale, avvengano sin dall’inizio per conto e nell’interesse anche di soggetti di cui fin dall’inizio sia certa l’identità e manifesta la volontà di procurarsi la sostanza per il proprio consumo (Sez. 6, n. 31456 del 03/06/2004, Altobelli, Rv. 229272), sicché la consegna delle rispettive quote rappresenta l’esecuzione di un precedente accordo tra l’agente e gli altri soggetti, che non si pongono quindi in posizione di estraneità rispetto al cedente, bensì come codetentori fin dall’acquisto, eseguito anche per loro conto (Sez. 5, n. 31443 del 04/07/2006, Roncucci, Rv. 235213; Sez. 4, n. 34427 del 10/06/2004, Inglese, Rv. 229693; Sez. 4, n. 10745 del 29/11/2000, dep. 16/03/2001, Catania, Rv. 218778; Sez. 6, n. 9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070). Occorre dunque la prova che la sostanza sia acquistata da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri, in vista della futura ripartizione, “di talché possa affermarsi che l’acquirente agisca come longa manus degli altri e che il successivo frazionamento della sostanza acquisita sia solo una operazione materiale di divisione” (Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368).
Si afferma generalmente che l’accordo deve avvenire attraverso una partecipazione di tutti alla predisposizione dei mezzi finanziari occorrenti (Sez. 4, n. 7939 del 14/01/2009, D’Aniello, Rv. 243870;
Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n. 12001 dell’I 1/05/2000, Acqua, Rv. 217893). Diverse decisioni hanno peraltro precisato che ciò non richiede anche che la raccolta del denaro sia antecedente rispetto all’acquisto, dal momento che ciò che rileva è la “dimostrazione dell’esistenza di un preventivo incarico all’acquisto dato dal gruppo ad uno dei partecipanti, in vista della futura materiale divisione e apprensione fisica della quota di ognuno, dovendo escludersi sia l’ulteriore condizione del previo versamento della somma necessaria all’acquisto da parte di tutti, sia la sussistenza di una precedente intesa in ordine al luogo e ai tempi del successivo consumo” (Sez. 6, n. 28318 del 03/06/2003, Orsini, Rv. 225684); essendo invero necessario che la sostanza sia destinata al comune consumo personale e non anche alla fruizione contestuale (Sez. 4, n. 37989 del 07/07/2008, Gazzabin, Rv. 242015). Ciò in quanto il preventivo accordo può anche essere tacito ed implicito, potendosi desumere la volontà comune da elementi sintomatici altri rispetto alla preventiva raccolta del denaro, “quali il rapporto di amicizia tra l’acquirente e gli altri consumatori, l’effettiva consumazione della sostanza da parte di tutti quanti nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, l’unicità della confezione contenente la sostanza” (Sez. 6, n. 29174 del 10/03/2008, Del Conte, Rv. 240580; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368, cit; Sez. 6, n. 43670 del 18/09/2002, Di Domenico, Rv. 222811; Sez. 6, n. 9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070).
Se invece il procacciatore non agisca per conto altrui sulla base di un preventivo accordo, o agisca su mandato di terzi senza essere a sua volta assuntore, viene allora meno quella omogeneità teleologia che rende assimilabile la codetenzione per uso di gruppo alla detenzione per uso personale.

6. Come è noto, la legge 21 febbraio 2006 n. 49, di conversione, con modificazioni, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (recante “Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”) ha apportato alcune modifiche al t.u. sugli stupefacenti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ed in particolare, per quanto qui interessa, agli artt. 73 e 75.
Il nuovo testo dell’art. 73, comma 1, sanziona ora senz’altro come reato il fatto di chi, senza autorizzazione, “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope”.
È stato poi introdotto un comma 1 bis, dell’art. 73, il quale, alla lett. a), punisce “chiunque, senza autorizzazione, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:… sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute…, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale”.
Il previgente testo dell’art. 73, invece, puniva tutte le medesime condotte poste in essere al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 75, il quale configurava come illecito amministrativo la condotta di chi, “per farne uso personale, illecitamente importa, acquista o comunque detiene” sostanza stupefacente (anche in dose superiore a quella media giornaliera, per effetto dell’esito del referendum).
Il nuovo testo dell’art. 75 ora punisce con la sanzione amministrativa “chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 73, comma 1 bis. Pertanto, attualmente, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti integrano un illecito amministrativo quando le stesse, sulla base dei criteri indicati, non “appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale”, dovendo perciò ritenersi destinate ad un uso esclusivamente personale.
È opportuno ricordare che, per effetto di tali modifiche, non è stata ripristinata la situazione antecedente al referendum abrogativo e non è cambiata l’opzione di fondo dell’assetto repressivo delle attività illecite in materia di stupefacenti, consistente nel rinunciare alla sanzione penale per contrastare il consumo personale (Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579). Invero, il superamento dei limiti quantitativi massimi detenibili, previsti ora dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a), non inverte l’onere della prova a carico dell’imputato, ne’ introduce una presunzione, assoluta o relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale, bensì impone soltanto al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri parametri normativi si debba escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente personale, pur in presenza del superamento dei suddetti limiti massimi (Sez. 6, n. 12146 del 12/02/2009, Delugan, Rv. 242923; Sez. 6, n. 39017 del 18/09/2008, Casadei, Rv. 241405;  Sez. 4, n. 31103 del 16/04/2008, Perna, Rv. 242110; Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejjal, Rv. 240526; Sez. 6, n. 17899 del 29/01/2008, Cortucci, Rv. 239933).
6.1. A seguito di queste modifiche legislative si sono sviluppati, nella giurisprudenza di questa Corte, due opposti orientamenti interpretativi.
Un primo orientamento è stato espresso dalla sentenza della Sez. 2, n. 23574 del 06/05/2009, Mazzuca, Rv. 244859, la quale ritiene che il nuovo testo legislativo avrebbe ora reso penalmente rilevante il c.d. consumo di gruppo, sia nell’ipotesi del mandato all’acquisto sia nell’ipotesi dell’acquisto in comune. Ciò perché sono mutate sia la struttura normativa della disposizione (in quanto ora l’ambito della non punibilità penale non è indicato dall’art. 75, ma si desume dal combinato disposto dell’art. 73, comma 1 bis, e art. 75), sia la struttura semantica della frase, in quanto nell’art. 73, comma 1 bis, è stato introdotto l’avverbio “esclusivamente” che non esisteva nel previgente art. 75. La sentenza rileva poi che il legislatore ha inteso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti, tante che ha equiparato ogni tipo di sostanza. In particolare, l’introduzione dell’avverbio “esclusivamente” assumerebbe “un significato particolarmente pregnante proprio sotto il profilo semantico perché una cosa è l’uso personale di sostanze stupefacenti, altra e ben diversa cosa è l’uso esclusivamente personale, frase che, proprio in virtù dell’avverbio, non può che condurre ad un’interpretazione più restrittiva rispetto a quella che, sotto la previgente normativa, veniva data del sintagma uso personale”. Di modo che l’uso di gruppo non potrebbe più farsi rientrare nell’ipotesi di consumo esclusivamente personale in quanto presuppone, per assioma, l’acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità o per modalità di presentazione, appare necessariamente destinato ad un uso non esclusivamente personale. Inoltre, la ratio legis, che è chiaramente quella di rendere più difficile l’acquisto, la diffusione ed il consumo della droga, porterebbe a ritenere che l’area di esenzione penale sia stata circoscritta a quei limitati casi in cui l’acquisto e la detenzione siano finalizzati al solo esclusivo uso di chi è trovato in possesso di un minimo quantitativo di stupefacente. Gli altri casi, come il consumo di gruppo, restano esclusi da detta area perché le modalità di acquisto, non essendo esclusivamente personali, servono a facilitare il consumo e la diffusione della droga, ossia ciò che la legge ha inteso vietare. Il baricentro della normativa sarebbe stato perciò spostato dal consumo personale al consumatore, nel senso che sfugge alla sanzione penale solo chi detenga un quantitativo di stupefacente che appare destinato ad essere consumato solo ed unicamente dallo stesso possessore. Questa interpretazione è stata poi seguita da altre sentenze successive, ma senza ulteriori considerazioni (in ordine di anteriorità temporale: Sez. 3, n. 7971 del 13/01/2011, Tanghetti, Rv. 249326; Sez. 3, n. 26697 del 02/03/2011, Simonetti, non mass.;  Sez. 4, n. 46023 del 07/06/2011, Richelda, Rv. 251734; Sez. 4, n. 6374 del 6/12/2011, dep. 16/2/2012, El Janati, non mass.; Sez. 1, n. 33022 del 10/7/2012, Gallone, non mass.; Sez. 4, n. 49820 del 22/11/2012, Bellelli, non mass.).
È interessante rilevare che tutte le suddette decisioni hanno anche precisato che la novella legislativa avrebbe in sostanza introdotto in parte qua una vera e propria nuova incriminazione, e quindi non si applica alle condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore (in questo senso, anche Sez. 4, n. 37989 del 07/07/2008, Gazzabin, Rv. 242015).

6.2. Il medesimo orientamento è stato ribadito da altra decisione, con un più articolato apparato motivazionale (Sez. 3, n. 35706 del 20/04/2011, Garofalo, Rv. 251228). In primo luogo, questa sentenza sostiene che deve farsi ricorso ad una interpretazione letterale secondo la volontà del legislatore ed osserva che le modifiche introdotte dalla L. n. 49 del 2006, ed in particolare l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” all’art. 73, comma 1 bis, sono indice di una ratio legis diretta alla repressione con maggiore severità degli illeciti connessi allo spaccio ed all’uso di stupefacenti. La novella, quindi, oltre ad introdurre trattamenti sanzionatori più rigorosi, avrebbe anche voluto contrastare tutte le forme di diffusione degli stupefacenti, ivi compreso l’acquisto finalizzato all’uso collettivo. L’introduzione in questo modo di una nuova fattispecie incriminatrice non sarebbe in contrasto con l’art. 25 Cost., per difetto dei requisiti di determinatezza, perché è stata tipizzata la condotta monosoggettiva di acquisto di sostanza stupefacente destinata ad uso “non esclusivamente personale”, sicché sarebbe evidente la criminalizzazione dei comportamenti aventi per oggetto sostanza stupefacente destinata all’uso “altrui”. In secondo luogo, viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1995, la quale aveva escluso una irragionevole disparità di trattamento tra la condotta, penalmente rilevante, della coltivazione finalizzata all’uso personale e le condotte di detenzione e di acquisto orientate al medesimo fine, per la ragione che queste ultime sono collegate immediatamente e direttamente all’uso personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso. Questa sentenza offrirebbe dunque un argomento a favore di una interpretazione restrittiva della locuzione “uso esclusivamente personale”, la quale risponderebbe ad una ratio del tutto speciale e specifica e andrebbe perciò posta in riferimento solo con il singolo autore della condotta tipica.
In terzo luogo, si osserva che la tesi favorevole all’uso di gruppo presuppone una sorta di mandato di acquisto collettivo, conferito dagli assuntori dello stupefacente ad un appartenente al gruppo, anche nel suo interesse. Si tratterebbe tuttavia di un mandato in rem propriam avente oggetto illecito (la cessione di sostanza stupefacente) e, come tale, affetto da nullità radicale, rilevabile d’ufficio, ed improduttivo di effetti. A siffatto contratto non potrebbe essere attribuito alcun effetto nemmeno sul versante penale, tanto meno quello di escludere la rilevanza penale per il fatto commesso dai partecipi al negozio illecito. Tutt’al più il precedente accordo fra gli appartenenti al gruppo potrebbe avere rilievo sotto il profilo dell’intensità del dolo o ad altri aspetti ex artt. 62 bis e 133 c.p..
In quarto luogo, si sottolinea che il preventivo accordo fra gli assuntori di avvalersi di un solo intermediario incaricato dell’acquisto, consentirebbe il “frazionamento ideale” dell’intera quantità di stupefacente, acquistata dal mandante al fine dell’uso collettivo, per il numero di partecipanti all’accordo criminoso, facendo diventare il mandatario soggetto esponenziale del gruppo e legittimandolo ad acquistare droga per il consumo personale del gruppo stesso. Ciò però creerebbe uno sfasamento con l’istituto del concorso di persone nel reato, in quanto, a fronte di possibili condotte di concorso nell’acquisto e nella detenzione della sostanza, l’accordo criminoso finirebbe per porre nel nulla sia l’acquisto sia la cessione, soltanto in forza di un successivo consumo collettivo, facendo assurgere il gruppo al ruolo di soggetto collettivo di un’azione scriminata per tale ragione, in contrasto con la disciplina del concorso di persone nel reato e delle cause di esclusione dell’illecito. Inoltre, l’operazione di “frazionamento ideale” della quantità detenuta “risulta scardinare l’elemento espressamente indicato nella disposizione di legge, laddove il giudice deve valutare proprio le quantità, le modalità di presentazione, ivi compreso il frazionamento, che è invece radicato sul piano strettamente materiale dell’esame della res”.

6.3. Questa interpretazione restrittiva è stata peraltro oggetto di argomentate critiche da parte di un opposto orientamento, che ha invece sostenuto la perdurante validità, anche dopo le modifiche recate dalla L. n. 49 del 2006, della precedente consolidata interpretazione ed ha riaffermato il principio che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità degli altri non è punibile ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (Sez. 6, n. 8366 del 26/01/2011, D’Agostino, Rv. 249000).
Questa sentenza sottolinea innanzitutto la non decisività del criterio che si fonda sulla ratio della modifica legislativa, dal momento che l’esame dei lavori preparatori non consente di chiarire univocamente il contesto che ne ha connotato l’approvazione, emergendo dagli interventi dei parlamentari due antipodiche interpretazioni sul valore e la portata delle modifiche normative in discussione. In secondo luogo, la sentenza rileva che la modifica della struttura normativa delle ipotesi di non punibilità e l’introduzione dell’avverbio “esclusivamente” non possono avere portata innovativa della fattispecie penale e non sono idonee a far ritenere superato il diritto vivente. Nella novella, infatti, l’avverbio è stato usato due volte (art. 73, comma 1 bis: “destinate ad un uso non esclusivamente personale”; e art. 75: richiesta dell’interessato di visione o copia degli atti “che riguardino esclusivamente la sua persona”) ed è evidente che in entrambi i casi tale avverbio, di modo o qualità, è stato usato con funzione e finalità affermativa rafforzativa e non già innovativa. Per paralizzare la consolidata interpretazione sull’uso di gruppo non era sufficiente l’inserzione dell’avverbio, ma era invece essenziale una esplicita e non equivoca indicazione, tanto più necessaria tenuto conto dell’esito del referendum abrogativo del 1993 e tenuto altresì conto che l’espressione “non esclusivamente personale” ha il medesimo intercambiabile significato di “tassativamente personale”, risolvendosi così in una aggiunta ridondante, superflua e pleonastica. Inoltre, l’utilizzo della forma indeterminativa “un uso esclusivamente personale” consente “inquadramenti nell’area di rilevanza meramente amministrativa delle condotte finalizzate all’uso esclusivamente personale (anche) di persone diverse”. Si verserebbe quindi in un “deficit di determinatezza e di sicurezza ermeneutica” con violazione del principio costituzionale di precisione, dal momento che se davvero la finalità fosse stata quella di sanzionare l’uso di gruppo, in entrambe le variabili, essa è stata male espressa, con la conseguenza che, a fronte di un dubbio interpretativo, deve prevalere l’opzione più favorevole al reo. In altre parole, la norma non è dotata di un grado di determinatezza sufficiente ad indicare il diverso preteso percorso interpretativo mentre una eventuale ipotetica intenzione del legislatore di escludere la legittimità, nei termini indicati dalle Sezioni Unite, del consumo di gruppo, avrebbe dovuto essere affermata in modo esplicito e in termini percepibili da tutti, e “non certo mediante sintagmi, variamente interpretabili, e con sequenze lineari (sostantivo – negazione – avverbio – aggettivo) in grado di produrre equivoci ed incertezze che, come tali, vanno necessariamente valutati pro reo”. La sentenza quindi ricorda che l’adesione preliminare al progetto comune e l’originaria destinazione al consumo esclusivo dei partecipanti rendono inequivoca l’unicità della condotta ed escludono frammentazioni determinate da ulteriori passaggi. L’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” non fa venir meno la validità di questa ricostruzione, poiché anche il consumo di gruppo, così inteso, è una forma di consumo “esclusivamente personale”. L’avverbio ha pertanto il solo significato di confermare che hanno rilevanza penale le altre condotte di consumo di gruppo in cui più persone, in assenza di un preventivo mandato, decidano di consumare droga detenuta da uno di loro, in quanto in tale ipotesi il cedente è originariamente in posizione di estraneità rispetto agli altri assuntori e, quindi, non si concretizza un “uso esclusivamente personale”.
Questo orientamento è stato successivamente confermato da altre decisioni (Sez. 6, n. 17396 del 27/02/2012, Bove, Rv. 252499; Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579; Sez. 6, n. 21375 del 27/04/2011, Masucci, Rv. 250064; e altre non massimate) sulla base di analoghe considerazioni. Alcune di queste sentenze hanno peraltro precisato che l’avverbio “esclusivamente” non riferisce l’uso personale al solo soggetto che detiene la sostanza, ma ha il significato di segnalare che la non punibilità penale riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi, ma ad un utilizzo personale di coloro che intendono farne uso, come appunto gli appartenenti al gruppo. Pertanto, poiché il consumo di gruppo è caratterizzato da una unitaria e genetica finalizzazione ad un consumo personale di più soggetti previamente definiti, l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” non impedisce di apprezzare tale ipotesi come una forma di consumo “esclusivamente personale” dell’agente e dei suoi individuati mandanti, come tale priva del carattere dell’offensività.

7. Ritengono le Sezioni Unite che fra i due contrapposti orientamenti debba senz’altro preferirsi il secondo, che sostiene che il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell’originaria conoscenza dell’identità degli altri, continua a costituire, anche dopo le modifiche apportate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, una ipotesi di uso esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, e quindi integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, e non già il reato di cui all’art. 73, comma 1 bis.
Non può infatti ritenersi che tali modifiche, ed in particolare, per quanto qui interessa, l’equivoca e non risolutiva aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, possano essere intese nel senso che abbiano addirittura introdotto una nuova fattispecie incriminatrice punendo un fatto in precedenza pacificamente integrante, secondo il diritto vivente, un illecito amministrativo o abbiano comunque determinato la necessità del superamento della univoca e consolidata giurisprudenza. Si è invero già rilevato che tutte le decisioni che seguono l’orientamento più rigoristico, precisano anche che, in forza dei principi sulla successione di leggi penali di cui all’art. 2 c.p., deve escludersi la retroattività della norma incriminatrice ricavata dalla riformulazione legislativa, facendo quindi salva, per i casi anteriori alla sua entrata in vigore, la precedente disciplina. Il presupposto di questo orientamento è quindi che si tratterebbe della vera e propria introduzione, per effetto delle modifiche legislative, di una nuova incriminazione di condotte in precedenza penalmente irrilevanti.

Argomentazioni non condivisibili
8. Ciò posto, deve innanzitutto osservarsi come non appaiono decisive tutte quelle argomentazioni che non si fondano, direttamente o indirettamente, sulle modifiche legislative del 2006, ma ripropongono in sostanza considerazioni già prospettate precedentemente alla sentenza Iacolare e da questa ampiamente superate, con motivazioni che non sono incise da tali modifiche e che restano pienamente condivisibili.
L’argomento della nullità, per illiceità, del c.d. mandato collettivo all’acquisto
Ciò vale, innanzitutto, per l’argomento della nullità, per illiceità, del c.d. mandato collettivo all’acquisto, conferito dagli assuntori dello stupefacente ad un appartenente al gruppo, anche nel suo interesse, il quale, avendo ad oggetto una condotta penalmente rilevante, sarebbe illecito e quindi nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 2, e art. 1346 c.c., ed improduttivo di ogni effetto.
Con questo argomento si vuole di nuovo mettere in discussione la tesi, già recepita dalla sentenza Iacolare, che valuta gli effetti di tale mandato alla stregua degli artt. 1388 e 1706 c.c., concernenti l’efficacia diretta, nei confronti del rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del primo e la rtvendicabilità, da parte del mandatario, delle cose acquistate per suo conto dal mandante.
L’argomento, però, non si basa evidentemente sulle modifiche legislative e pertanto non può comunque costituire indice della introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice.
Esso, inoltre, appare di per sé non decisivo nemmeno ai soli fini ermeneutici, perché si svolge interamente sul piano civilistico e non incide, dal punto di vista penalistico, sulla materialità e finalità delle condotte considerate.
D’altra parte, la stessa sentenza Garofalo, che ha riproposto l’argomento, pur rigettando qualsiasi interpretazione del mandato all’acquisto di gruppo di sostanza stupefacente che consenta alle parti di giovarsi degli effetti di un contratto nullo per illiceità dell’oggetto, alla fine suggerisce di attribuire rilevanza ed effetti all’accordo illecito sotto il profilo della intensità del dolo e del riconoscimento delle attenuanti generiche o della determinazione della pena.
Il che appunto mostra che, se il mandato all’acquisto è nullo ed inefficace sul piano civilistico, così come del resto è nullo ed inefficace anche il contratto di vendita dello stupefacente, tuttavia la presenza di un accordo per un acquisto comune non è indifferente sul piano penale perché concorre ad individuare e qualificare la finalità della detenzione della sostanza (comunque illecita, penalmente o amministrativamente). Quel che rileva, invero, non è se il mandato all’acquisto sia o meno valido ed efficace civilmente, ma se, qualora l’acquisto e la detenzione avvengano anche su incarico e per conto di altri soggetti, vi sia o meno una omogeneità teleologica delle condotte fra mandanti e mandatario e quindi se possa o meno configurarsi la destinazione ad un uso (esclusivamente) personale dei componenti il gruppo.

L’argomento della pretesa contraddittorietà tra la rilevanza data all’acquisto su mandato del gruppo e i principi che sono alla base del concorso di persone nel reato
8.1. Un secondo argomento proposto dalla sentenza Garofalo – anch’esso peraltro non indotto dalla modifica legislativa e già avanzato dalla giurisprudenza precedente alla sentenza Iacolare – si basa su una pretesa contraddittorietà tra la rilevanza data all’acquisto su mandato del gruppo e i principi che sono alla base del concorso di persone nel reato.
Ciò perché il frazionamento ideale della quantità di stupefacente, acquistata dal mandante al fine dell’uso collettivo del gruppo, per il numero dei partecipanti all’accordo illecito, utilizzato quale espediente per ripartire l’intera sostanza acquistata dal mandante in singole dosi ad uso esclusivamente personale, costituirebbe uno sfasamento dell’istituto del concorso di persone.
In questo caso, invero, la disciplina del concorso di persone, che consente di attribuire rilevanza penale a condotte che rappresentano anche solo una frazione del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, purché causalmente orientate alla commissione del reato, verrebbe invece utilizzata per frazionare il fatto commesso tra i partecipanti all’accordo criminoso, ma al fine di escluderne la rilevanza penale.
È stato però esattamente osservato che questo argomento è perfettamente speculare alla interpretazione offerta dalla sentenza D’Agostino del 2011, utilizzando i medesimi argomenti e gli stessi istituti di riferimento al fine di giungere a conclusioni diametralmente opposte, peraltro già superate dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997.
Non può quindi essere certamente tale argomento a far ritenere che la riforma del 2006 abbia introdotto una nuova ipotesi di reato che attribuisce rilevanza penale a comportamenti prima costituenti solo illeciti amministrativi.
D’altra parte, l’interpretazione che qui si preferisce si fonda sulla qualificazione della attività concorsuale del mandatario e dei mandanti come penalmente non rilevante appunto in quanto condotta connotata da una “omogeneità teleologia” che rende la sostanza acquistata dal mandatario come sin dall’origine codetenuta da tutti i membri del gruppo esclusivamente per il loro rispettivo uso personale. Inoltre, l’ipotesi che sembrerebbe prospettata dalla sentenza in esame di un concorso di persone nel reato confligge anche con la costruzione della condotta del mandatario come quella (monosoggettiva) di colui che procurerebbe ad altri la sostanza, in cui i mandanti svolgerebbero un ruolo equivalente a quello degli acquirenti, nell’ipotesi di spaccio o cessione.

Asserita volontà del legislatore del 2006 di introdurre la previsione della illiceità penale del mandato collettivo ad acquistare
8.2. Certamente non decisivo è poi l’argomento che si basa sul tenore dei lavori parlamentari relativi alla legge di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, dai quali si dovrebbe evincere con chiarezza una volontà del legislatore storico non solo di reprimere con maggiore severità i fenomeni criminali connessi all’uso di sostanze stupefacenti, ma anche, in particolare, di introdurre la previsione della illiceità penale del mandato collettivo ad acquistare.
L’argomento – a prescindere da ogni considerazione sulla rilevanza del criterio ermeneutico storico con riferimento a disposizioni penali – è però di scarso momento sol che si consideri la non usuale velocità di approvazione del nuovo testo normativo e la notevole ristrettezza della discussione parlamentare, ridotta a soli diciannove giorni tra l’inizio della discussione in aula al Senato (19 gennaio 2006) e la successiva approvazione definitiva alla Camera (8 febbraio 2006).
Com’è noto, la riformulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, fu operata per mezzo di un emendamento governativo al testo del D.L. n. 272 del 2005, introdotto in sede di conversione e sul quale inoltre il Governo pose la fiducia.
Ne derivò la mancanza di un approfondito dibattito parlamentare che possa consentire di trarre argomenti univoci sull’intenzione del legislatore storico, considerata anche la diversità di vedute emergenti dalla limitata discussione. In realtà, tenuto anche conto del tipo di procedimento legislativo adottato, dai lavori parlamentari potrebbe desumersi solo un generico intendimento di natura restrittiva circa le condotte di spaccio.
Sulla specifica ipotesi del c.d. consumo di gruppo si riscontrano però limitatissimi interventi, in cui o si è ritenuto che questo sarebbe rientrato nell’ambito penale mediante la previsione di soglie quantitative rigide per la detenzione (v. relazione al disegno di L. n. 2953 e intervento sen. Tredese, seduta Senato 26 gennaio 2006), ovvero si è esplicitamente affermato che l’illecito amministrativo avrebbe dovuto essere limitato al solo consumo “individuale”, nel quale non rientrerebbe il c.d. consumo di gruppo (v. intervento ministro Giovanardi nella stessa seduta).
Pertanto, se pure può ammettersi che l’intenzione emergente da questi limitati atti fosse quella di criminalizzare l’acquisto e la detenzione per un uso di gruppo, quel che rileva in questa sede però è soltanto la circostanza che, indiscutibilmente, questa soggettiva intenzione di alcuni parlamentari non si è tradotta in una espressa ed oggettivamente univoca norma di legge, sebbene il consolidato diritto vivente escludesse pacificamente la rilevanza penale della fattispecie.
D’altra parte, nel testo definitivo approvato della legge di conversione, da un lato, le nuove soglie quantitative non hanno assunto un carattere rigido ai fini della distinzione tra illecito amministrativo e illecito penale e, da un altro lato, la disposizione continua a parlare di “uso personale”, sia pure con l’aggiunta dell’avverbio, e non di “uso individuale”.
Va inoltre osservato che anche la ritenuta generica intenzione dei legislatore di inasprire ed estendere la reazione punitiva verso qualsiasi condotta legata alle sostanze stupefacenti non è di per sé trasparente, tenuto conto delle antitetiche disposizioni normative che ne sono scaturite.
Ed infatti, se da un lato sono state modificate le preesistenti cornici edittali previste, rispettivamente, per lo spaccio di droghe pesanti e di droghe leggere, equiparando le due condotte con la previsione di una cornice edittale unica ed indifferenziata, dall’altro lato è stata attenuata la risposta punitiva proprio per le condotte più gravi relative alle c.d. droghe pesanti, riducendo il minimo edittale da otto a sei anni, in contrasto con una pretesa volontà di generale inasprimento punitivo.

la locuzione “uso non esclusivamente personale” contenuta nell’art. 73, comma 1-bis non determina un allargamento dell’area delle condotte penalmente rilevanti
8.3. L’argomento principale su cui si basa l’orientamento restrittivo resta dunque quello letterale, che muove dalla portata innovativa delle modifiche recate con la L. n. 49 del 2006, e precisamente dal mutamento della struttura normativa delle ipotesi di non punibilità penale (ora desumibili dal combinato disposto dei novellati art. 73, comma 1 bis, e art. 75) e soprattutto dall’introduzione, nel testo della prima disposizione, dell’avverbio “esclusivamente”, non presente nella disposizione precedente.
Si sostiene che la locuzione “uso non esclusivamente personale”, al posto della precedente dizione di “uso personale”, dovrebbe essere interpretata nel senso che le ipotesi scriminate penalmente si riducano ora ai soli casi in cui la sostanza detenuta possa ritenersi destinata all’uso esclusivo, ossia individuale, dell’autore della condotta. In altre parole, all’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” dovrebbe attribuirsi l’inequivoco significato di far considerare l’aggettivo “personale” come sinonimo di “individuale” e quindi di restringere i confini del penalmente irrilevante.
Di conseguenza, l’uso di gruppo integrerebbe il reato in quanto presuppone un acquisto ed una detenzione che, per quantità e modalità di presentazione, appaiono immancabilmente destinati ad un uso “non individuale”, e pertanto “non esclusivamente personale”.
L’argomento non è però convincente perché non può ritenersi che questi semplici ritocchi testuali, e in particolare la sola aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” per caratterizzare la nozione di uso personale, siano sufficienti per determinare un allargamento dell’area delle condotte penalmente rilevanti con la previsione di una nuova ipotesi di reato e, comunque, per fare venir meno il presupposto su cui si fondava il diritto vivente, ossia che nell’acquisto finalizzato all’uso di gruppo non si verifica alcun tipo di cessione a terzi, ma una mera divisione interna (di cui la consegna non è altro che una fase esecutiva), che consente a ciascuno di venire in possesso del solo quantitativo di reciproca pertinenza fin dall’inizio e già da quel momento destinato al rispettivo uso personale.
Deve quindi convenirsi con l’osservazione che l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” non ha affatto, di per sé, un significato particolarmente pregnante sotto il profilo semantico, ma ha, al contrario, un significato quanto meno non univoco, ben potendo il termine essere inteso in una accezione che permette di continuare a ricomprendervi la codetenzione per uso di gruppo.
Non può invero ritenersi che l’espressione “uso personale” avrebbe un significato completamente differente da quella di “uso esclusivamente personale”, e in particolare che la semplice aggiunta di questo avverbio comporterebbe che per “uso personale” dovrebbe ora intendersi una cosa diversa, e precisamente un “uso individuale”.
In realtà, l’avverbio oggettivamente ha un significato rafforzativo e pleonastico, e comunque non è idoneo a mutare addirittura il significato assunto in quel contesto dall’aggettivo cui accede.
Nel precedente testo della disposizione con l’espressione “uso personale” si sono escluse dall’ambito penale e ricomprese in quello amministrativo le ipotesi in cui lo stupefacente non è destinato, nemmeno in parte, alla cessione a terzi, ma è finalizzato per intero al consumo personale.
Nel caso di uso di gruppo, secondo il diritto vivente, non è ravvisarle in realtà una cessione a terzi, neppure parziale, e pertanto non sussiste il reato.
L’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, allora, sembra avere avuto l’oggettivo significato di sottolineare che per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata totalmente, per intero, ossia appunto “esclusivamente”, all’uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei all’acquisto ed alla detenzione.
L’avverbio, però, non ha modificato il significato e l’ambito dell’espressione “cessione a terzi” e pertanto non è univocamente idoneo a modificare l’area di ciò che non è cessione ma “uso personale” secondo la giurisprudenza unanime, e cioè a fare entrare nell’area della cessione a terzi, sottraendola da quella dell’uso personale, una fattispecie che, per il diritto vivente, non è qualificabile come cessione a terzi, bensì, stante l’omogeneità ideologica delle condotte, come una specie del genere “uso personale”, e precisamente un “uso personale di gruppo”.
È dunque condivisibile il rilievo che, qualora il legislatore del 2006 avesse davvero voluto in modo non equivoco punire penalmente condotte fino ad allora non rientranti nelle ipotesi di “cessione” a terzi dello stupefacente, avrebbe dovuto introdurre la nuova fattispecie di reato in termini espliciti, chiari, univoci, eventualmente modificando l’ambito della nozione di “cessione”, e non limitarsi invece all’aggiunta di un avverbio non idoneo a mutare il significato proprio che nella disposizione aveva ed ha, di per sé, l’aggettivo “personale”.
L’avverbio, dunque, non connota diversamente l’uso personale nel senso di riferirlo ora al solo soggetto che detiene la sostanza stupefacente, ma ha il significato di evidenziare che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi ma all’utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono (Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579).
Ciò, del resto, sembra implicitamente ammesso anche dalla tesi secondo cui l’uso di gruppo sarebbe ora punibile perché l’espressione “uso non esclusivamente personale” dovrebbe intendersi nel senso di “uso non individuale”.
Con ciò, invero, si finisce per riconoscere, appunto, che se si fosse voluto introdurre una nuova fattispecie di reato si sarebbe dovuta mutare la disposizione in modo inequivoco, eventualmente sostituendo quanto meno il termine “personale”, e non invece riprodurre il medesimo aggettivo aggiungendovi un avverbio rafforzativo, non idoneo a mutarne il significato che pacificamente aveva in quel contesto.
Nemmeno può condividersi la tesi secondo cui con l’aggiunta dell’avverbio il termine “uso personale” andrebbe ora inteso come equipollente di “uso individuale”, perché con una tale interpretazione si verrebbe in sostanza ad estendere l’ambito di applicazione di una fattispecie penale ad ipotesi che in essa non erano prima comprese, in contrasto con i principi di tassatività e di legalità e con il divieto di analogia in malam partem.
D’altra parte, e sotto altro profilo, è stato esattamente osservato che il nuovo avverbio è inserito in una struttura ellittica ed oggettiva, che non connota soggettivamente l’uso da parte del detentore bensì oggettivamente la condotta detentiva, sicché, se si considera l’intera locuzione, ben può ritenersi che esistano casi di detenzione per uso non esclusivamente personale sia individuale, sia anche di persone diverse. In altre parole, poiché la disposizione non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non esclusivamente personale” non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica del mandato ad acquistare.
La locuzione può pertanto essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti i componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.
Nello stesso senso, si è anche rilevato che il ricorso alla forma indeterminativa “un uso esclusivamente personale” consente l’inquadramento nell’area di rilevanza meramente amministrativa della condotta finalizzata alla destinazione esclusivamente personale anche di soggetti diversi dall’acquirente, e quindi, non strettamente limitata all’azione monosoggettiva, ma obiettivamente estesa anche alle sostanze destinate al consumo altrui.
Non può infine ritenersi che la posizione di una nuova fattispecie penale possa desumersi dal fatto che il nuovo testo legislativo ha ricostruito l’illecito amministrativo in termini di residualità rispetto all’area di rilevanza penale, con inversione del rapporto logico precedente, essendo ora la fattispecie penale descritta in modo positivo e quella amministrativa individuata in via sussidiaria. Invero, la norma penale continua a punire la destinazione ad un uso non (esclusivamente) personale, ossia ad un uso non personale neppure in parte, mentre nell’ipotesi in esame la detenzione è immediatamente collegata all’uso (esclusivamente) personale dei singoli mandatari appartenenti al gruppo.

L’acquisto su previo mandato dei componenti il gruppo esula dalla fattispecie del “procurare ad altri” prevista dall’art. 73, comma 1
8.4. Non è decisivo nemmeno l’assunto che, nel caso di acquisto su mandato del gruppo, il mandatario sarebbe comunque punibile penalmente perché la sua condotta integrerebbe comunque la fattispecie del “procurare ad altri” prevista dall’art. 73, comma 1.
Si tratta peraltro di un vecchio argomento che non trova fondamento nelle modifiche legislative apportate con la L. n. 49 del 2006, dato che la disposizione già in precedenza puniva la condotta di chi “procura ad altri”.
La previsione di questo specifico reato è già stata condivisibilmente ritenuta irrilevante dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare, che ha, appunto, evidenziato come l’acquisto su previo mandato dei componenti il gruppo esuli dalla fattispecie del procurare ad altri, stante la qualificazione della condotta come attività immediatamente prodromica al consumo personale di gruppo.
Le modifiche legislative non hanno specificamente modificato l’ambito della condotta del procurare ad altri penalmente rilevante e, di conseguenza, non vi sono motivi per disattendere il precedente orientamento.
Inoltre, si è sempre generalmente ritenuto che l’ipotesi del procurare si riferisce precipuamente alla attività di intermediazione di chi mette in collegamento lo spacciatore con l’acquirente (cfr. Sez. 6, n. 37177 del 08/07/2008, Mosca, Rv. 241205; Sez. 4, n. 4458 del 02/12/2005, dep. 03/02/2006, Chimienti, Rv. 233240), ossia ad una condotta diversa da chi acquista per il consumo comune proprio e di altri, su mandato di costoro. Del resto, se il c.d. uso di gruppo avesse rilevanza penale, esso rientrerebbe nell’ambito della cessione a terzi o del concorso nella detenzione a fine di spaccio, senza necessità di ricorrere alla figura del procacciare ad altri.

8.5. Parimenti non condivisibile è l’assunto secondo cui, poiché sarebbe pacifica l’intenzione del legislatore del 2006 di sanzionare penalmente tutte le condotte dirette alla propalazione della droga a terzi, di conseguenza anche l’ipotesi del mandato ad acquistare per uso collettivo di gruppo integrerebbe ora il reato, perché anche con questa condotta si finisce col realizzare una diffusione a terzi della sostanza stupefacente.
Con ciò però si esprime una valutazione di politica criminale, irrilevante ai fini di una esegesi corretta e costituzionalmente orientata del quadro normativo penale.
Per il resto, può rinviarsi a quanto si è dianzi osservato sulla circostanza che la volontà obiettiva del legislatore è stata tutt’altro che univoca ed evidente e che comunque non è stata idonea ad introdurre una nuova fattispecie penale non essendosi manifestata con la posizione di una chiara e specifica nuova norma incriminatrice.
Si è già ricordato, del resto, che la sentenza Iacolare aveva evidenziato come la condotta rientrante nel c.d. consumo di gruppo, essendo incentrata sul consumo personale dei componenti e circoscritta alle persone dei consumatori, è estranea alla diffusione della droga ed all’incremento del relativo mercato, e quindi non può essere oggetto del medesimo giudizio di disvalore riconosciuto allo spaccio.

l’ipotesi del c.d. uso di gruppo non può equipararsi a quella della coltivazione
8.6. Un ulteriore argomento, utilizzato dalla sentenza Garofalo, fa richiamo alla sentenza n. 360 del 1995 della Corte costituzionale, la quale aveva escluso una irragionevole disparità di trattamento nell’attribuzione di rilevanza penale alla sola coltivazione di sostanza stupefacente finalizzata all’uso personale e non anche alla detenzione ed all’acquisto orientati al medesimo fine.
Ciò perché non può provarsi che il raccolto sia destinato all’uso personale del soggetto attivo e, comunque, perché la coltivazione non è condotta necessariamente prodromica all’uso personale, penalmente irrilevante, il che spiega l’attribuzione alla stessa della medesima offensività del c.d. spaccio, mentre le condotte di acquisto e di detenzione sono collegate immediatamente e direttamente all’uso personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso.
Questa pronuncia, secondo la sentenza Garofalo, affermerebbe implicitamente che dovrebbe attribuirsi rilevanza penale a qualsiasi forma di diffusione di sostanze stupefacenti, con la conseguenza che la nozione di uso personale dovrebbe essere interpretata come frutto di una norma eccezionale e specifica, e come tale insuscettibile di applicazione analogica e di interpretazione estensiva.
Questo argomento – anch’esso peraltro estraneo alle modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 – era stato però già superato dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare ed è comunque non decisivo.
Invero, dalle sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996 della Corte costituzionale non si desume che la norma che esclude la rilevanza penale dell’uso personale dovrebbe essere qualificata come norma eccezionale.
Inoltre, l’ipotesi del c.d. uso di gruppo non può equipararsi a quella della coltivazione, esaminata dalle sentenze costituzionali, dal momento che l’acquisto e la detenzione al fine del c.d. consumo di gruppo costituiscono condotte necessariamente ed immediatamente prodromiche all’uso personale dei soggetti mandatari.
In ogni modo – a parte l’irrilevanza di generiche finalità repressive non tradottesi in puntuali norme incriminatrici – si è appena ricordato come, secondo la sentenza Iacolare, la presenza di una omogeneità teleologia delle condotte porta ad escludere che questa specifica ipotesi contribuisca ad incentivare immediatamente la diffusione dell’uso di droghe negli stessi termini della coltivazione o dello spaccio.

9. Deve al contrario osservarsi che la considerazione di norme e principi costituzionali offre invece più di un argomento in favore della tesi che qui si segue della non incidenza delle modifiche normative del 2006 sulla perdurante esclusione dall’ambito penale di entrambe le ipotesi che si fanno rientrare nella nozione di consumo di gruppo.
In primo luogo, invero, la sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997, le cui conclusioni vengono qui pienamente condivise e confermate, si era fondata, come dianzi ricordato, proprio sulle valutazioni ed i principi espressi dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996, con le quali si era appunto definito l’ambito delle condotte non rilevanti penalmente e si era precisato che nell’area della “cintura protettiva” riservata al consumo personale rientrano anche i comportamenti immediatamente precedenti dell’acquisto e della detenzione.
Dal che poi si è logicamente desunto che anche nell’ipotesi di consumo di gruppo, l’acquisto e la detenzione finalizzati a tale consumo costituiscono antecedenti immediati e necessari del consumo stesso, e quindi ineriscono al rapporto del singolo assuntore con la sostanza per l’uso personale, con esclusione della intermediazione di terzi.
Tali considerazioni, relative alla protezione del consumo personale e dei comportamenti “immediatamente” propedeutici allo stesso, non possono ritenersi superate dalle modifiche normative del 2006, non potendo incidere sotto questo profilo la previsione di limiti massimi tabellari non aventi natura rigida.
In secondo luogo, l’interpretazione restrittiva delle modifiche portate dalla L. n. 49 del 2006 – ed in particolare dell’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” e della diversa struttura normativa dei casi di non punibilità penale – nel senso di escludere che con esse si sia prevista la configurabilità come reato delle ipotesi rientranti nel c.d. consumo di gruppo, prima pacificamente costituenti illeciti amministrativi, è l’interpretazione che – stante l’indiscutibile significato quanto meno equivoco delle espressioni utilizzate – appare più conforme al principio costituzionale di precisione della norma penale, ed anche ai principi di tassatività, di legalità e di riserva di legge, evitando che sia in definitiva rimessa al giudice l’enucleazione della norma incriminatrice.
E può inoltre ricordarsi che la Corte costituzionale, già con la sentenza n. 364 del 1988, aveva evidenziato come il principio di legalità dei reati e delle pene (art. 25 Cost., comma 2) e quello di previa pubblicazione della legge (art. 73 Cost., comma 3), richiedono che la formulazione, la struttura ed i contenuti delle norme penali siano tali da rendere le stesse precise, chiare e contenenti riconoscibili direttive di comportamento.
A questi principi non sembra invero corrispondente una interpretazione che desuma una nuova fattispecie incriminatrice unicamente dall’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” o da una generica volontà restrittiva del legislatore non esplicitatasi in specifiche norme punitive.
In terzo luogo, va ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 22 del 2012 (v. anche ord. n. 34 del 2013), ha evidenziato come “l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77 Cost., comma 2, che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario” (punto 4.2), anche sotto il profilo della particolare rapidità e della necessaria accelerazione dei tempi del procedimento.
La Corte costituzionale ha riconosciuto che le Camere ben possono, “nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nei merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità”, ma ha specificato che “l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77 Cost., comma 2, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte (…) ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge”.
In sostanza, secondo questa sentenza costituzionale, le norme inserite nel decreto-legge nel corso del procedimento di conversione che siano “del tutto estranee alla materia e alle finalità del medesimo”, sono costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 77 Cost., comma 2.
Ora, se fosse esatta l’interpretazione che qui non si condivide, si avrebbe che con la legge di conversione n. 49 del 2006 sarebbe stata inserita nei testo del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, una nuova norma penale (che trasforma da illeciti amministrativi a illeciti penali le condotte di acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti finalizzate al c.d. uso collettivo o di gruppo), la quale però potrebbe apparire estranea alla materia e alle finalità del testo originario del medesimo decreto legge, che aveva ad oggetto “Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”; che nel preambolo individuava a propria giustificazione “la straordinaria necessità ed urgenza di prevenire e contrastare il crimine organizzato ed il terrorismo interno ed internazionale, anche per le esigenze connesse allo svolgimento delle prossime Olimpiadi invernali, nonché di assicurare la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno e di garantire l’efficacia dei programmi terapeutici di recupero per le tossicodipendenze anche in caso di recidiva”; e che conteneva solo due disposizioni sul recupero di tossicodipendenti recidivi.
Ne deriva che l’interpretazione che qui è stata adottata, nel senso di escludere che con l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” sia stata introdotta una nuova fattispecie incriminatrice, appare anche quella più corrispondente allo speciale procedimento legislativo prescelto.

le condizioni occorrenti per dare luogo ad una ipotesi di consumo di gruppo
10. Deve pertanto concludersi nel senso che le modifiche portate dalla Legge di conversione n. 49 del 2006, al testo del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75, non abbiano inciso sulla correttezza e validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 1997, Iacolare, in relazione al c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, in quanto non hanno ne’ introdotto una nuova norma penale incriminatrice di questa ipotesi ne’ determinato una restrizione, rispetto a quella previgente, dell’area dei comportamenti rientranti nell'”uso personale”, trasferendo nell’area dell’illecito penale le condotte qualificate come finalizzate al consumo personale dei componenti il gruppo.
Va pertanto confermata la ricostruzione del sistema sanzionatolo su cui si fonda la sentenza Iacolare e va riaffermato, pur a seguito delle modifiche normative portate dalla L. n. 49 del 2006 al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75, che non sono punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio anche per conto di soggetti diversi dall’agente, quando è certa fin dall’inizio l’identità dei medesimi nonché manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo.
Ciò in sostanza perché l’omogeneità teleologia della condotta dell’acquirente rispetto allo scopo degli altri componenti del gruppo caratterizza la detenzione quale codetenzione ed impedisce che il primo si ponga in rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di connotare la sua condotta quale cessione.
Vanno evidentemente confermate le condizioni enucleate dalla sentenza Iacolare ed occorrenti per dare luogo ad una ipotesi di consumo di gruppo, dal momento che qualora l’acquirente non sia anche uno degli assuntori oppure abbia effettuato l’acquisto senza averne ricevuto mandato dagli altri, non sarebbe ravvisabile una omogeneità teleologia tra le condotte e la consegna della droga sarebbe qualificabile come cessione, sia pure gratuita, o spaccio.
Occorre quindi, in sostanza, che l’acquirente sia uno degli assuntori; che l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è destinata; che quindi sia certa sin dall’inizio l’identità di questi altri soggetti i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia di concorrere ai mezzi finanziari occorrenti all’acquisto.
Ricorre invece una normale ipotesi di cessione qualora tutte queste condizioni non si verifichino, come nel caso in cui il soggetto abbia ceduto per il consumo in comune sostanza di cui era autonomamente in possesso per averla acquistata senza alcun mandato degli altri, ovvero abbia acquistato su mandato di terzi ma senza essere a sua volta assuntore, ovvero abbia ceduto parte della droga a soggetti estranei al gruppo dei mandanti.

Nel consumo di gruppo rientrano sia l’ipotesi di acquisto congiunto sia quella di acquisto da parte solo di uno (o alcuni) dei futuri consumatori su mandato degli altri
11. Appare opportuno anche precisare che le ragioni che inducono a preferire questa interpretazione riguardano entrambe le situazioni che si fanno rientrare nel c.d. consumo di gruppo, e cioè sia l’ipotesi di acquisto congiunto sia quella di acquisto da parte solo di uno (o alcuni) dei futuri consumatori su mandato degli altri.
Del resto già la sentenza Iacolare aveva evidenziato come entrambi i casi attengano pur sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato rispetto al consumo da parte dei componenti il gruppo.
Non è quindi condivisibile la tesi che propone una soluzione di compromesso, differenziando le due ipotesi e limitando l’illecito amministrativo al solo caso in cui i soggetti acquistino congiuntamente e materialmente la droga.
Questa differenziazione potrebbe anzi, nei diversi casi concreti, dar luogo ad incertezze nell’individuazione del confine tra illecito penale ed amministrativo e comunque determinare irragionevoli disparità di trattamento.

12. In conclusione, va ritenuta corretta l’interpretazione in base alla quale il giudice del merito ha dichiarato non luogo a procedere per insussistenza del fatto non essendo ravvisabile nella specie una condotta di cessione a terzi, mentre, per le ragioni indicate, non può condividersi l’opposta tesi della punibilità del c.d. consumo di gruppo sostenuta dalla ricorrente. Il giudice ha altresì accertato, con adeguata motivazione, la presenza (del resto non contestata con il ricorso) delle condizioni occorrenti per escludere la punibilità.
Il ricorso deve dunque essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

6. Pubblicizzazione e offerta in vendita di semi di piante dalle quali sia ricavabile una sostanza stupefacente

Cass. s.u. 18 ottobre 2012, p.m. in proc. Bargelli

La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rilevante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi dedurne l’effettiva destinazione dei semi.

L’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, accompagnata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990.
(La S.C. ha precisato che la predetta condotta può integrare, ricorrendone i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti, ex art. 414 c.p.).

La condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico l’esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all’uso di sostanze stupefacenti, integra l’illecito amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990) e non il reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990).

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 1 giugno 2011, il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Firenze, in esito a giudizio abbreviato, ha assolto gli imputati B.L. e G.M., con la formula perché il fatto non sussiste, dai reati previsti dagli artt. 110, 81 e 414 c.p., art. 82 T.U. stup. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) loro contestati per avere istigato all’uso illecito, o alla coltivazione, di marijuana offrendo e pubblicizzando via internet la vendita di semi delle piante unitamente ad un opuscolo recante precise indicazioni per la loro coltivazione.
Per giungere a tale conclusione, il Giudice ha osservato, in punto di fatto, che l’addebito faceva riferimento alla sola commercializzazione dei semi con indicazioni botaniche relative esclusivamente alla loro crescita.
Indi, il Giudice ha scartato le ipotesi della configurabilità del reato previsto dall’art. 414 c.p. (essendo più specifico quello di istigazione ex art. 82, cit. T.U. stup.) e della sussunzione della condotta nel concetto di proselitismo, contemplata dall’art. 82, per il mancato coinvolgimento di più persone ad un determinato stile di vita caratterizzato dalla assunzione di stupefacenti.
Il Giudice ha rilevato che, nel caso di specie, mancavano consigli per estrarre dalle piante il principio attivo, per cui difettava quella spinta emotiva o morale all’uso di sostanze stupefacenti che distingue la condotta di istigazione penalmente rilevante, prevista dall’art. 82, T.U. stup., dalla semplice propaganda, che configura un illecito amministrativo a sensi del successivo art. 84.

2. Per l’annullamento della sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, deducendo, con un unico motivo, erronea applicazione di legge.
omissis

3. Il processo è stato assegnato alla Terza Sezione penale, che alla udienza del 29 maggio 2012, rilevando come il caso fosse stato risolto in modo difforme in sede di legittimità, ha provveduto a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite a sensi dell’art. 618 c.p.p.

4. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali con decreto del 5 luglio 2012, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.  La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è la seguente: “Se integra il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti la pubblicizzazione e la messa in vendita di semi dì piante idonee a produrre dette sostanze con la indicazione delle modalità di coltivazione e della resa”.

2. Sul tema, la giurisprudenza di legittimità si è espressa in modo contrastante.

2.1. Un primo orientamento (rappresentato dalle sentenze Sez. 4, n. 26430 del 20/05/2009, Pesce, Rv. 244503; Sez. 4, n. 23903 del 20/05/2009, Malerba Rv. 244222; Sez. 4, n. 2291 del 23/03/2004, D’Angelo, Rv. 228788) interpreta l’art. 82, comma 1, cit. T.U. stup. nel senso che la condotta istigatoria in esso delineata comprende l’attività di pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre sostanze stupefacenti con precisazioni sulla coltivazione delle stesse. L’argomentazione posta alla base della conclusione si incentra nel rilievo che, anche in mancanza di pubblicità volta ad esaltare la qualità del prodotto e l’uso dello stupefacente che si ricava dalle piante, la normale finalità della coltivazione è l’ottenimento e l’utilizzo della droga. Sussiste, pertanto, una interconnessione tra pubblicizzazione di semi, coltivazione degli stessi e utilizzo di sostanze stupefacenti. Conforme alle ricordate decisioni è quella della Sez. 4, n. 15083 del 08/04/2010, Gracis, non massimata.

2.2. Ad analogo risultato, pervengono due sentenze con un iter motivazionale più articolato. Si afferma, in particolare, che il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti si configura quando la condotta dell’agente, per il contesto in cui si realizza e per le espressioni usate, sia idonea ad indurre i destinatari delle esortazioni all’uso delle dette sostanze; consegue che la condotta di istigazione può astrattamente consistere nel fornire agli acquirenti dettagliate notizie sulle modalità di coltivazione di piante dalle quali sono ricavabili sostanze stupefacenti. L’apprezzamento di fatto relativo alla efficacia ed idoneità in concreto delle modalità di pubblicizzazione è riservato al giudice di merito, il quale può desumere la condotta concretamente antigiuridica anche dal fatto che l’offerta sia indirizzata ad una platea indeterminata dì soggetti (Sez. 6, n. 38633 del 24/09/2009, Barsotti, Rv. 244559). Un’altra decisione, quella della Sez. 5, n. 16041 del 05/03/2001, Gobbi, Rv. 218484, è stata in tale modo massimata: “Ai fini della configurabilità del reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti occorre che l’agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, abbia, sul piano soggettivo, l’intento di promuovere tale uso e, dal punto di vista materiale, di fatto si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti o anche con il ricorso al linguaggio simbolico affinchè l’uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato (fattispecie nella quale la Corte ha escluso il reato nel caso di volantinaggio da parte di studenti favorevoli alla liberalizzazione di droghe leggere)”.

2.3. Una diversa opinione (espressa da Sez. 4, n. 6972 del 17/01/2012, Bargelli, Rv.251953) si discosta dalle precedenti, movendo dal principio giurisprudenziale secondo il quale la vendita di semi di piante dai quali sono ricavabili sostanze stupefacenti non costituisce reato perché riconducibile agli atti preparatori privi di potenzialità causale rispetto alle attività vietate. Alla luce di tale principio, la sentenza interpreta il rapporto tra la fattispecie penale dell’art. 82, comma 1, riferita a chi pubblicamente istiga all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, e l’illecito amministrativo, di cui al successivo art. 84, concernente la propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’art. 14. In particolare, rileva che la condotta dell’art. 84 non possa consistere in un propaganda finalizzata alla vendita, ma semplicemente in un’opera di diffusione senza induzione all’acquisto; nella condotta dell’art. 82, invece, si riscontra un qualcosa di aggiuntivo che spinge all’uso del prodotto da parte del destinatario della propaganda. Ne consegue che, nei casi in cui la pubblicità si soffermi solo sulla illustrazione delle caratteristiche delle piante che nascono dai semi e sulle modalità della loro coltivazione, il reato dell’art. 82 non può ritenersi sussistente perché l’azione non è idonea a suscitare consensi ed a provocare il concreto pericolo dell’uso di stupefacenti da parte dei destinatari del messaggio.

inserzione pubblicitaria avente per oggetto prodotti droganti
3. Innanzi tutto, è opportuno precisare che ogni tipo di inserzione pubblicitaria avente per oggetto prodotti droganti deve essere oggetto di divieto.
Il principio ha un fondamento sovrannazionale nell’art. 10, comma 2, della Convenzione di Vienna del 1971, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. del 25 marzo 1981, n. 385, che stabilisce: “Ciascuna parte, tenendo debito conto delle norme della sua Costituzione, proibirà le inserzioni pubblicitarie riguardanti le sostanze psicotrope e destinate al grosso pubblico”.
Il nostro ordinamento, nell’alveo della lotta alla droga, colpisce, con una forte anticipazione della tutela penale, ogni forma di propaganda degli stupefacenti ed ogni condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stessi.
Non è, tuttavia, ineludibile nel settore della inibita propaganda la mera offerta in vendita di semi dalla cui pianta sono ricavabili sostanze stupefacenti; l’attività che ha tale oggetto, di per sé, non è vietata configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato per la considerazione che non è dato dedurre la effettiva destinazione dei semi (sentenze Sez. 2, n. 10496 del 01/09/1988, Lanzuisi, Rv. 179539; Sez. 4, n. 13853 del 04/12/2008, Kurti, Rv. 243194; Sez. 4, n. 6972 del 22/02/2012, Bargelli, Rv. 251953).

4. Poiché la sentenza impugnata incentra il suo apparato argomentativo sulla applicabilità al caso dell’art. 84 e non sul contestato art. 82 (mentre il Pubblico Ministero nel suo ricorso ed il Procuratore Generale nella sua requisitoria opinano il contrario), si ritiene puntualizzare la distinzione tra le due norme anche se, come si dirà, la risoluzione del caso sottoposto alle Sezioni Unite si rinviene altrove in un diverso referente normativo.

La distinzione tra l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82) e la propaganda pubblicitaria delle medesime sostanze (art. 84)

82. (Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 20, comma 1). (Istigazione, proselitismo e induzione al reato di persona minore). – 1. Chiunque pubblicamente [c.p. 2664] istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.032 a euro 5.164 [84; c.p.p. 280, 3802 h)].
… omissis

84. (Legge 26 giugno 1990, n. 162, art. 21, comma 1). (Divieto di propaganda pubblicitaria). – 1. La propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’articolo 14, anche se effettuata in modo indiretto, è vietata. Non sono considerate propaganda le opere dell’ingegno non destinate alla pubblicità, tutelate dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore.
2. Il contravventore è punito con una sanzione amministrativa da euro 5.164 a euro 25.822, sempre che non ricorra l’ipotesi di cui all’articolo 82.
… omissis

5. Il fondamentale elemento discretivo tra le due fattispecie (i residui sono di minore significatività in rapporto al quesito in esame) deve essere reperito nella tipologia delle condotte; una loro precisa individuazione esclude già che in certe ipotesi nascano problemi di conflitto.
La pubblicità è in genere concisa, non mira a proporre modelli di comportamento ed a persuadere il pubblico facendo leva sulle presunte ragioni ideologiche che stanno alla base della scelta suggerita; quindi, non è conciliabile con la nozione di proselitismo.
Il messaggio pubblicitario non implica un rapporto personale tra il propagandista ed il destinatario con opera di diretto influenzamento dell’uno sull’altro, per cui è da scartare che possa essere classificato nel novero della induzione.
Rimane la condotta di istigazione effettuata pubblicamente (secondo la disposizione definitoria dell’art. 266 c.p., u.c.) che presenta un labile confine con quella di propaganda; dato che il Legislatore ha usato nello stesso contesto normativo termini diversi, occorre che l’interprete non li omologhi e cerchi di individuare i rispettivi ambiti di applicazione, si da rendere ragionevole la scelta della differente risposta punitiva.

6. Sul punto, la citata sentenza della Sez. 4 n. 6972 del 2012 ha focalizzato la distinzione, ponendo l’accento sulle caratteristiche del messaggio pubblicitario che, nell’art. 84, deve essere asettico e non deve indurre i destinatari all’acquisto o all’uso del prodotto stesso.
La Corte condivide questa impostazione, anche se sono eccezionali le ipotesi di propaganda pubblicitaria che non invoglino all’acquisto; tuttavia, il criterio individuato nella sentenza è l’unico reperibile che, sul piano strutturale, diversifichi le condotte, incida significativamente sul livello della offesa ed abbia come ricaduta di condurre la previsione dell’art. 84 nell’alveo di una ipotesi marginale e di scarsa lesività. Si ritiene, pertanto, che rientri nella propaganda pubblicitaria la condotta di chi si limita in modo asettico e neutro a rendere noto al pubblico la esistenza della sostanza veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all’uso di stupefacenti.

7. La delineata esegesi del rapporto tra norme trova riscontro nella clausola di riserva dell’art. 84, comma 2, non valutata dalla giurisprudenza che si è occupata dell’argomento.
Il Legislatore si è reso conto che il termine propaganda può essere interpretato con parametri non bene definiti e che tra le sue previsioni non sussiste un rapporto di specialità risolvibile a sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 bensì di gravità crescente, ed ha fornito una chiave per risolvere il conflitto apparente di norme.

8. Occorre ora prendere in considerazione la fattispecie concreta e verificare se, come sostenuto dal ricorrente, sia corretto il suo inquadramento nella ipotesi di reato dell’art. 82, sotto la previsione della istigazione all’uso di stupefacenti; sul tema, la Corte non condivide la opinione delle sentenze che hanno risposto positivamente, perché la condotta contestata solo indirettamente ed eventualmente conduce al consumo di sostanze droganti.
Non è possibile equiparare la nozione di stupefacente a quella di pianta dalla quale, con determinati procedimenti chimici neppure menzionati nella pubblicità, è ricavabile una sostanza drogante che, allo stato naturale, è compresa nelle tabelle; una simile esegesi non rientra nel novero di una plausibile interpretazione estensiva perché travalica l’ambito dei possibili significati letterali, sia pure amplificati all’estremo, del termine stupefacente e dilata il fatto tipico integrandolo con una ipotesi non espressamente inclusa con palese violazione del principio di tassatività e del divieto di analogia nel diritto penale. Inoltre, se si fosse trattato di offerta in vendita di sostanze stupefacenti, la condotta sarebbe sussumibile nella previsione dell’art. 73, comma 1, cit. TU. stup..

9. Quanto precisato sul divieto della analogia (valevole anche per le sanzioni amministrative per il principio di legalità inserito nella L. n. 689 del 1991, art. 1, comma 2) non è trasferibile anche all’art. 84 per il quale la propaganda può essere effettuata anche indirettamente, cioè, facendo sorgere nel pubblico – in modo obliquo, dissimulato o per associazioni di idee – il riferimento implicito alla sostanza stupefacente.
La citata norma, tuttavia, non è applicabile perché la offerta del prodotto da parte degli imputati era correlata da ulteriori, allettanti specificazioni.
La precisazione rende il caso non inquadrabile nella previsione dell’art. 84, perché il messaggio non era neutro ed asettico: indicando i metodi botanici più appropriati per la resa dei semi, la pubblicità invitava i destinatari all’acquisto dei semi come attività prodromica al successivo comportamento consistente nella coltivazione di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente.
Questa ultima condotta è vietata dall’art. 26, cit. T.U. stup. e prevista come delitto dal successivo art. 73, comma 3, perché accresce la disponibilità di droghe con conseguente pericolo di diffusione illecita delle stesse.

10. Poiché gli imputati istigavano a commettere un reato con le modalità esecutive dell’art. 266 c.p., comma 4, il caso può rientrare nella previsione dall’art. 414 c.p.; tale fattispecie si pone come norma generale e non è applicabile in presenza di reati di istigazione più specifici.
In virtù di questo principio, il Giudice ha rilevato che il delitto previsto dall’art. 82 sarebbe una specie rispetto alla previsione codicistica; la tesi non è condivisibile perché raffronta il reato di istigazione a delinquere con quello di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti che deve essere escluso per la già detta ragione (al paragrafo 8).
La esatta comparazione tra norme, rapportata alla ipotesi che ci occupa, porta a concludere che l’art. 82 non è strutturato come species rispetto al genus dell’art. 414 c.p., perché non annovera tra le condotte punibili la illegale coltivazione di stupefacenti.

11. Tanto premesso, è appena il caso di osservare come, al fine della possibile sussunzione del fatto in esame nel delitto di istigazione a delinquere, non rilevi che la pubblicità fosse carente di indicazioni circa le modalità con le quali è estraibile lo stupefacente perché la mera coltivazione (sia pure alla condizione specificata al paragrafo 13) è punita dall’art. 73, cit. T.U. stup..
E’, pure, ininfluente che il comportamento suggerito fosse privo della sua qualificazione penale essendo sufficiente il requisito della indicazione degli elementi fattuali della condotta suggerita (ed il delitto evocato aveva un inequivoco livello di determinatezza).

12. E’, anche, inconferente, per il perfezionamento della fattispecie dell’art. 414 c.p., l’esito della azione istigatrice, in virtù della clausola di indifferenza inserita nel comma 1 (che costituisce una deroga al generale principio contenuto nell’art. 115 c.p.), ma è necessaria la potenziale offensività della condotta che è richiesta per tutti i reati anche quando il precetto tenda ad evitare la messa in pericolo del bene oggetto di tutela penale.
Occorre, pertanto, una ponderazione – riservata al magistrato di merito e da effettuarsi con giudizio ex ante – circa la reale efficienza della azione stimolatrice a spronare le persone con modalità tali da persuaderle a passare alla azione e da porsi come antecedente adeguato per indurle a commettere il fatto illecito (sulla natura di delitto di pericolo concreto della fattispecie dell’art. 414 c.p., v. tra le altre, Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001, Vencato, Rv.219888).

13. Si evidenzia, inoltre, che, per la configurabilità del delitto ex art. 414 c.p., non è richiesta la punibilità in concreto della condotta istigata, ma è necessario che la stessa sia prevista dalla legge come reato. Sul punto, occorre tenere nel debito conto il principio enucleato dalle Sezioni Unite che (dopo avere precisato come costituisca un reato di pericolo astratto qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente) hanno ricordato il canone nullum crimen sine iniuria sotteso a tutti i reati che, secondo la giurisprudenza costituzionale, opera per il Legislatore in astratto e per gli interpreti in concreto quale criterio ermeneutico. Consegue che necessita verificare, con una valutazione di fatto improponibile in sede di legittimità, se la condotta contestata all’agente ed accertata sia assolutamente inidonea a mettere a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva; tale ipotesi ricorre quando la sostanza ricavabile dalla coltivazione non produca un effetto drogante rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Silvia, Rv. 239920).

14. Da quanto esposto, emerge che la risoluzione del caso implica, anche, questioni di fatto che esulano dai limiti cognitivi della Cassazione che può solo osservare come, allo stato, non emerga in modo palese che la pubblicità degli imputati fosse inoffensiva; deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze trattandosi di ricorso immediato a sensi dell’art. 569 c.p.p., comma 1.

15. In relazione a questa statuizione, non rileva la circostanza che il ricorso del Pubblico Ministero non contiene un riferimento specifico alla fattispecie di istigazione a delinquere perché questa limitazione non interferisce con il principio devolutivo della impugnazione; la esatta qualificazione giuridica dei fatti è questione di diritto la cui risoluzione compete a questa Corte che non è vincolata alle prospettazioni delle parti. Si precisa che la contestazione dell’art. 414 c.p. era stata correttamente effettuata dal Pubblico Ministero nel capo di imputazione sia con la indicazione della norma sia con la precisazione della condotta materiale posta in essere; pertanto la conclusione non pone problemi sulla fattiva possibilità degli imputati di comprendere l’accusa e di difendersi.

16. Nel giudizio di rinvio, la Corte di appello si confermerà al seguente principio di diritto: “La offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato dell’art. 82, cit. T.U. stup., salva la possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall’art. 414 c.p. con riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti”.

17. Inoltre, i nuovi Giudici dovranno effettuare, quanto alla idoneità della condotta, la valutazione concreta rapportata alle peculiarità del caso, inerente alla reale attitudine della azione istigatrice a porsi come antecedente adeguato per influire sulla altrui volontà e fare sorgere, o rafforzare, il proposito di coltivare illecitamente piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti; dovranno verificare, sul piano della lesività, se la pubblicità non solo inducesse alla coltivazione, ma se fosse articolata in modo tale da sollecitare gli acquirenti del semi a porre in essere un comportamento penalmente rilevante, cioè, atto a determinare una germinazione dalla quale fosse ragionevolmente prevedibile il ricavo dì un prodotto finito con effetto drogante. In merito alla volontà degli imputati di determinare altri a commettere il reato, i Giudici del rinvio dovranno analizzare la indicazione, contenuta nella inserzione pubblicitaria (che segnalava come la coltivazione necessitasse di previa autorizzazione) e considerare se l’ammonimento fosse serio ed il suo rispetto controllato al momento della vendita dei semi al fine di valutare la sua efficacia deterrente per i destinatari ed esimente per gli imputati. Per costoro, l’assoluzione per un fatto identico a quello in esame non rileva ai fini del dolo perché successiva alla inserzione pubblicitaria per cui è processo.