Scelte da Renato Bricchetti
1. Concorso eventuale nel reato plurisoggettivo “improprio”
Cass. S.U. 28 novembre 1981, Emiliani
Nei giorni 4 e 5 maggio 1980 furono pubblicati sul quotidiano “Il Messaggero” artt. scritti dal giornalista Fabio ISMAN, nei quali erano riportati stralci testuali degli interrogatori resi da Fabrizio Peci, imputato di gravi reati di matrice terroristica, a magistrati istruttori di Roma e Torino.
Il 7 maggio 1980 il procuratore generale di Roma emise ordine di cattura contro l’ISMAN per il delitto di rivelazione di segreti di ufficio, in concorso con un pubblico ufficiale da identificare, appartenente al ministero dell’Interno, commesso col mezzo della stampa (artt. 81 cpv., 110, 326 prima parte c.p., 21 della legge 8 febbraio 1948 n. 47).
Nello stesso giorno ed in quelli immediatamente successivi il procuratore generale procedette all’audizione del ministro dell’Interno e di alcuni funzionari appartenenti a quel dicastero, al fine di identificare l’autore della rivelazione.
Il 13 maggio 1980 Silvano RUSSOMANNO, vicedirettore del servizio per le informazioni e la sicurezza democratica(SISDE),si presentò spontaneamente al pubblico ministero, che gli contestò i reati di cui agli artt. 326 e 684 c.p., commessi in concorso con l’ISMAN, poi emettendo contro di lui ordine di cattura immediatamente eseguito.
Il 14 maggio 1980 il procedimento fu trasmesso per competenza al procuratore della Repubblica in Roma, il quale trasse l’ISMAN ed il RUSSOMANNO al giudizio direttissimo del tribunale di Roma per l’udienza del 16 maggio perché rispondessero, in concorso tra loro dei reati più volte indicati, contestati con riferimento all’art. 21 della legge sulla stampa e con la circostanza aggravante, quanto al delitto dell’art. 61 n. 2 c.p.
All’udienza del 21 maggio, cui il dibattimento era stato differito per concessione di termine per la predisposizione della difesa, fu disposta la riunione del procedimento ad altro, instaurato egualmente con rito di direttissimo contro Vittorio EMILIANI, direttore responsabile de “II Messaggero”, per la contravvenzione prevista dall’art. 684 c.p.
Con sentenza del 24 maggio 1980 il tribunale dichiarò gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti, escludendo tuttavia che il delitto di cui all’art. 326 fosse stato commesso col mezzo della stampa; e condannò l’ISMAN alla pena complessiva di un anno sei mesi di reclusione e quattrocentomila lire di ammenda; il RUSSOMANNO a quella di due anni otto mesi di reclusione e quattrocentomila lire di ammenda nonché alla pena dell’interdizione dai pubblici uffici
per la durata di tre anni; l’Emiliani alla pena di quattrocentomila lire di ammenda.
Con sentenza del 12 settembre 1980 la corte d’appello di Roma, decidendo sui gravami degli imputati, in parziale riforma della decisione del tribunale, ha escluso il concorso dell’ISMAN nel reato
di rivelazione di segreti di ufficio commesso dal RUSSOMANNO, assolvendo l’ISMAN medesimo da tale imputazione perché il fatto non sussiste; ha concesso a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche, ritenute prevalenti sull’aggravante contestata per il delitto, e ha ridotto la pena inflitta al RUSSOMANNO a mesi nove di reclusione e lire duecentocinquartamila di ammenda, e quella accessoria della interdizione dai pubblici uffici limitandola ad un anno; quella inflitta all’ISMAN a lire trecentomila di ammenda ; ed a lire trecentocinquantamila l’ammenda inflitta all’Emiliani; ha concesso a tutti gli imputati i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ordinando l’immediata scarcerazione del RUSSOMANNO e dello ISMAN.
Ricorrono per cassazione il procuratore generale e i difensori del RUSSOMANNO e dell’Emiliani.
(omissis)
3.- É invece fondato il ricorso del procuratore generale, limitatamente ai motivi concernenti il proscioglimento dell’ISMAN dal delitto di rivelazione di segreti di ufficio.
La corte romana ha esattamente qualificato tale reato come una fattispecie plurisoggettiva anomala, con riguardo alla imprescindibile correlazione soggettiva che lega a condotta di rivelazione a colui che riceve la notizia, ed alla previsione normativa della punizione esclusivamente nei confronti dell’autore della rivelazione.
Altrettanto esattamente la corte ha negato che il mero recettore della notizia possa essere punito, vietandolo il principio di legalità; ha affermato tuttavia che é ammissibile, in base alla ordinaria disciplina del concorso di persone nel reato, la partecipazione eventuale anche da parte della rivelazione, normalmente non punibile.
Anche questa proposizione, nuovamente avversata dalla difesa dell’ISMAN nella discussione orale, deve essere condivisa.
L’impunità del soggetto che riceve la notizia è collegata al rispetto dei limiti entro i quali si realizza la condotta enunciata nella fattispecie, vale a dire il mero ricevimento della notizia, che é elemento necessario della condotta di rivelazione.
Ma quando il soggetto destinatario non a questo si sia limitato, ma abbia ottenuto la rivelazione mediante lo svolgimento di una attività ulteriore, che eccede dalla descrizione del modello legale, non esistono ragioni per negarne la punibilità secondo la disciplina del concorso eventuale nel reato, sia per la funzione complementare dell’art. 110 c.p. rispetto al principio di legalità sia perché in tal caso il contributo del destinatario della notizia alla realizzazione della fattispecie non é quello espressamente tipicizzato nella norma incriminatrice.
Questo rilievo svuota di contenuto la contraria deduzione fondata sul richiamo alle analoghe fattispecie degli artt. 261 e 262 c.p.(rivelazione di segreti di Stato e di notizie riservate), nelle quali é prevista la punizione anche del soggetto che riceve la notizia: ciò deriva dalla più intensa protezione dell’interesse con riguardo alla qualità della notizia, e dalla necessità di punire , attraverso l’espressa previsione, condotte che altrimenti, in base ai principi non sarebbero punibili.
La situazione ipotizzata é ben diversa: il soggetto non si limita a ricevere la notizia, ma realizza un quid pluris che non é affatto necessario alla integrazione della fattispecie.
Il criterio interpretativo dell’ubi voluit dixit resta dunque inutilizzabile.
Sul punto, la giurisprudenza della corte é uniforme (sez.VI, 30.11.1967 , Bartoli; 14.1.1976, Castiglia; 7.12.1977, Straziota), avendo manifestato analogo convincimento con riguardo ad altre fattispecie plurisoggettive anomale, in particolare alla bancarotta cosiddetta preferenziale (di più accentuata simiglianza rispetto al caso in esame) per la quale il concorso (eventuale) del creditore favorito é stato sempre ammesso quante volte la condotta di costui travalichi i limiti del ricevimento della prestazione, che già appartiene alla fattispecie di pagamento come elemento necessario (sez.III^,6.12..1965, Oneglia; sez. V^ 25.6.1968, Cianfrocca; 18.3.1969, Girombelli; 30.7.1973, Gualtieri).
Peraltro i giudici di secondo grado, nel fare applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, hanno enunciato il principio che uniche forme di partecipazione morale sono la determinazione e l’istigazione, restandone escluso, in particolare, l’accordo.
Questa affermazione non é suscettiva di conferme o di smentite da parte delle precedenti decisioni della corte (cui si é fatto invece richiamo nelle sentenze dei giudici di merito sia negli scritti difensivi), per l’essenziale motivo che quelle decisioni non affrontarono affatto il problema della esclusività di talune forme di concorso morale, e di esse discorsero in termini prevalentemente esemplificativi.
Orbene la proposizione della corte romana, pur esatta sotto certi aspetti, é inaccettabile nella sua assolutezza, traducendosi in una visione riduttiva del fenomeno della partecipazione criminosa, con rilevanti conseguenze nella economia della decisione sotto il profilo, come si vedrà, del vizio della motivazione.
Il nucleo di verità recepito nel pensiero della corte romana è nella constatazione che, attuandosi il concorso morale nella fase non esecutiva, ma di ideazione del reato, in tanto é in esso individuabile il necessario contributo causale del raggiungimento dell’unico risultato in quanto, l’azione del concorrente abbia l’effetto o di suscitare in altri un proposito criminoso che prima non esisteva, o di rafforzare un proposito criminoso già esistente.
Queste sono appunto le categorie tradizionali della determinazione e della istigazione le quali son capaci di comprendere ogni possibile forma di partecipazione morale, ma solo in funzione dell’effetto prodotto sulla psiche del destinatario dell’azione del concorrente.
L’errore di prospettiva della corte romana é consistito nell’aver considerato, dall’angolo della esclusività i modi del concorso morale piuttosto che gli effetti psichici di esso.
Così non é, perché nell’ordinamento positivo, fondato sul principio della equivalenza degli apporti causali di tutti i concorrenti, i modi nei quali può manifestarsi la partecipazione psichica (purché capaci di produrre gli effetti già sottolineati)sono indifferenziati e non catalogabili essendo per natura atipici: la tipicità si riferisce invero alla condotta dello autore del reato, cioè del concorrente che esegue l’azione descritta nella fattispecie incriminatrice, mentre la condotta del partecipe non ricalca il modello normativo e si sottrae ad ogni tentativo di tipizzazione.
É dunque inesatto escludere dal novero dei (possibili) modi di partecipazione morale l’accordo criminoso: certo non é discutibile la non punibilità intrinseca dell’accordo per commettere un reato,
quando questo non sia commesso; ma dalla disposizione dell’art.115 del codice penale, e dalla eccezionale previsione, in talune fattispecie di parte speciale , di punizione dell’accordo non deriva
l’esclusione di questo dall’ambito del concorso morale, perché anche l’accordo, quale attività psichica di più soggetti convergente al raggiungimento di un risultato di comune interesse può costituire l’area di confluenza di contributi, reciproci o non, al rafforzamento o alla nascita di un proposito criminoso; sicché, ove questo poi si materializzi ad opera di taluno dei soggetti in
una matrice normativa omogenea, la rilevanza causale dell’accordo non potrà essere esclusa.
L’errore della corte romana ha avuto conseguenze decisive sulla motivazione della sentenza. L’ipotesi di un accordo RUSSOMANNO-ISMAN é stata considerata per completezza espositiva; ma i giudici del merito, sostanzialmente convinti della inutilità dell’indagine, si sono limitati alla apodittica negazione della prova dell’accordo.
Esistevano al contrario elementi di fondamentale rilievo che i giudici del merito non avrebbero potuto trascurare; come é stato esattamente rilevato dal ricorrente procuratore generale é stata omessa ogni considerazione delle concrete modalità delle operazioni eseguite dal RUSSOMANNO al fine di far pervenire la voluminosa documentazione all’ISMAN; modalità che, nella discrezionale valutazione delle prove riservata al giudizio di merito, avrebbero potuto non escludere l’esistenza di un preventivo accordo, raggiunto attraverso l’assenso dell’ISMAN alla pubblicazione, con conseguente possibile rafforzamento del proposito delittuoso del RUSSOMANNO.
E a questo proposito non può sottacersi, a riprova della fallacia di certe etichettature, che la corte romana ha omesso di valutare altra possibile modalità di concorso morale, emergente dallo stesso
memoriale RUSSOMANNO, e consistente nella promessa, da parte dell’estraneo, di pubblicare gli atti del procedimento; il che avrebbe significato, se quella ipotesi avesse ricevuto conferma
dall’insindacabile apprezzamento giudiziale, la promessa di aiuto da prestare dopo la commissione del reato, della cui capacità di rafforzare l’idea delittuosa, non si é mai dubitato, così come mai si é dubitato che é rafforzata l’idea delittuosa dell’autore materiale di un furto cui un commerciante prometta, prima dell’esecuzione del reato, di acquistargli la refurtiva.
(omissis)
2. Concorso eventuale nel reato plurisoggettivo “proprio” (cd. concorso esterno), nella specie un reato associativo. Efficienza causale del contributo del concorrente esterno
Cass. S.U. 12 luglio 2005, Mannino
IN SINTESI
In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di “concorrente esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell'”affectio societatis”, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. (In motivazione la Corte, rilevando come la efficienza causale in merito alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisca elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, ha specificato che non è sufficiente una valutazione “ex ante” del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento “ex post”, in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale”, l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente).
omissis
3. — Chiamata a pronunziarsi sull’appello del pubblico ministero, che aveva censurato la prima decisione per non avere osservato i principi giurisprudenziali in tema di requisiti della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, per essersi disancorata dai dati certi costituiti dalle plurime e convergenti dichiarazioni, dirette o de relato, dei collaboratori e per avere valutato frammentariamente la portata dei numerosi indizi raccolti a carico dell’imputato, la Corte di appello di Palermo, criticata la “destoricizzazione e destrutturazione” del compendio probatorio effettuate dal primo giudice, all’esito di una rinnovata disamina dei fatti ha dichiarato il Mannino colpevole del reato di cui agli articoli 110 e 416-bis c.p..
Premesso che costituisce un compito davvero arduo procedere a una ordinata esposizione del ragionamento probatorio della sentenza di secondo grado per la palese farraginosità dei passaggi argomentativi (taluni temi vengono prima trattati, poi abbandonati per essere infine ripresi in contesti diversi e lontani) e per la complessiva disorganicità, anche grafica, della motivazione sia in fatto che in diritto, se ne segnalano in estrema sintesi i contenuti, contrapposti al ragionamento del giudice di primo grado.
La Corte palermitana, sembrando prestare formale adesione ai parametri giurisprudenziali fissati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa dalle sentenze delle Sezioni Unite 5/10/1994, Demitry e 30/10/2002, Carnevale, ne ha così illustrato gli elementi costitutivi: – il dolo del concorrente è quello generico, dato dalla consapevolezza e volontà dell’efficienza causale del proprio contributo rispetto al conseguimento degli scopi dell’associazione, anche soltanto nella forma dell’accettazione del rischio, non quello specifico che caratterizza la posizione del partecipe; – la prova da acquisire è quella di ogni singolo contributo apportato dall’agente e della sua portata agevolativa rispetto agli scopi dell’associazione, non essendo sufficiente la mera “disponibilità”; – il patto stretto tra esponenti di una cosca e il politico che si impegni a fornire utilità di tipo economico-imprenditoriale in cambio di sostegno elettorale appare di per sé idoneo ad integrare la responsabilità per concorso esterno quando la promessa, per la caratura e l’affidabilità del promittente, sia in grado di determinare un immediato salto di qualità nel livello di efficienza dell’organizzazione criminale, mentre il successivo adempimento degli impegni assunti costituisce condotta susseguente al reato valutabile sotto il profilo probatorio, e parimenti indifferente è l’esito delle consultazioni elettorali; il reato di cui all’articolo 416 ter c.p., che punisce la promessa di voti in cambio di somme di denaro, è un reato di pericolo astratto che resta integrato senza che occorra la prova che il contributo del politico abbia avuto efficacia causale per il rafforzamento del sodalizio mafioso.
Quindi, movendo dal rilievo critico del metodo seguito dal primo giudice, che aveva assolto l’imputato per carenza dell’elemento soggettivo circa la consapevolezza della mafiosità di taluni soggetti con i quali aveva avuto significativi rapporti o per insufficienza probatoria della rilevanza causale di talune condotte ai fini del rafforzamento dell’associazione, considerate solo come espressione di una politica clientelare e corruttiva, il giudice di appello ha proceduto all’integrale rilettura degli indizi per verificarne l’effettiva portata con una valutazione sintetica e aggregata. E, all’esito di tale operazione, condotta anche mediante il ricorso all’analisi storico-sociologica del fenomeno criminale “per orientarsi nella zona grigia della contiguità compiacente”, ha ritenuto che ogni singolo episodio, in sé spiegabile come frutto di malcostume o di attività politico-clientelare, fosse in realtà sintomatico di un fascio di relazioni di scambio dipendenti da un accordo “occulto”, comportante l’adesione del Mannino alle finalità dell’associazione mafiosa secondo lo schema del concorso esterno. In particolare, si è affermato che: tra le strategie di rafforzamento della mafia vi è quella di trarre profitto dalle relazioni intessute con esponenti del potere politico-amministrativo per il conseguimento di finanziamenti e appalti, potendo la consorteria a sua volta contare su un vasto potenziale elettorale; negli anni ’80 il Mannino aveva bisogno di voti per la sua ascesa politica e ne chiese, in occasione delle consultazioni regionali e nazionali, ad esponenti mafiosi di spicco agrigentini e palermitani; dei “favori” fatti dal Mannino hanno parlato taluni collaboratori di giustizia, riferendosi alla “vicinanza” e “disponibilità” del politico, assistita dalla consapevolezza e volontà di interagire con l’associazione mafiosa; in questa prospettiva andava interpretato il patto stretto nel 1980-1981 tra il Mannino e Pennino, col quale il primo manifestò la sua “disponibilità” in cambio dell’appoggio elettorale nell’area palermitana, anche se non erano predeterminate nel dettaglio le controprestazioni in termini di “favori” all’associazione mafiosa, subordinati alla positività dei risultati elettorali che arrivarono con notevole incremento nel 1983. Mannino favorì dunque Cosa nostra senza soluzione di continuità, fin dall’accordo del 1981, susseguendosi da allora una serie di episodi indicativi della sua persistente efficacia nel tempo, cronologicamente elencati e qualificati come condotte di adempimento della promessa.
Così ricostruito, il patto elettorale politico-mafioso è stato ritenuto rilevante ai sensi degli articoli 110 e 416-bis c.p., essendosi ravvisata l’immediata idoneità causale della “disponibilità” manifestata dal politico (la cui affidabilità era desumibile dai rapporti da tempo instaurati con i capi della famiglia agrigentina e dalla gravità delle reazioni cui sarebbe andato incontro se non avesse tenuto fede agli impegni) e, con essa, dell’acquisizione di un rapporto privilegiato con un referente istituzionale (“sicuro punto di riferimento” e “interfaccia politica” dell’associazione), rispetto al fine di consolidamento e rafforzamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso, che dal patto trasse linfa vitale quantomeno in alcuni settori di influenza.
Rispetto a siffatto apparato argomentativo la difesa del ricorrente, dopo averne preliminarmente sottolineato l’adesione acritica alle tesi del pubblico ministero, la sistematica pretermissione delle proposizioni difensive, il “disordine”, la “frammentarietà” e la “prolissità” nella superficiale analisi dei fatti, ha denunziato, con due motivi di impugnazione, il cui assunto appare sostanzialmente unitario, da un lato, l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai requisiti della condotta qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa e, dall’altro, l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova dichiarativa, nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. E’ stato anche rilevato che, a differenza della chiara ricostruzione delle vicende effettuata dai giudici di primo grado all’esito di una complessa e laboriosa istruttoria dibattimentale, la sentenza impugnata risultava inficiata dalla disordinata trattazione dei temi e dalla mancanza di linearità dell’iter logico e argomentativo, che rendeva incomprensibili e insuscettibili di controllo il ragionamento probatorio e le modalità di formazione del convincimento del giudice.
In particolare, a fronte dell’ineccepibile metodo di interpretazione del primo giudice, coerente ante litteram con i principi poi fissati da Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale in tema di efficacia causale del contributo e di dolo del concorrente, la Corte di appello, con una confusa e ridondante disamina del patto elettorale politico-mafioso, si sarebbe discostata da essi e, nell’esprimere un giudizio di disvalore essenzialmente etico-sociale, avrebbe attribuito alla “disponibilità” mostrata dal politico nell’incontro con Pennino e Vella, di per sé, rilevanza causale nel determinare l’immediato salto di qualità del livello di efficienza del sodalizio criminoso, per la particolare caratura, serietà e affidabilità del politico, senza verificare l’oggettivo e concreto contributo effettivamente dato al consolidamento o al rafforzamento del medesimo sodalizio o di un suo particolare settore. Nella sentenza impugnata si sarebbe altresì affermata la sufficienza del dolo generico o addirittura eventuale del concorrente, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà di perseguire il programma criminale dell’associazione mafiosa, nonché sostenuto che dalle aspettative di “impunità” e “favori” create dalla promessa del politico il sodalizio avrebbe tratto “sostegno morale”, concorrendo la “carica psicologica” e il “prestigio” acquisito al rafforzamento della struttura associativa, sebbene nel capo di imputazione si facesse esclusivo riferimento a condotte di natura materiale e il concorso morale non avesse mai trovato ingresso nel processo.
Quanto alle indicazioni di metodo nella valutazione della prova dichiarativa, il ricorrente ha dedotto che, mentre la sentenza di primo grado aveva analizzato singolarmente gli elementi indiziari indicati a sostegno dei temi di accusa, applicando a ciascuna delle dichiarazioni, dirette o indirette, dei collaboratori di giustizia le regole stabilite dagli articoli 192 e 195 c.p.p. sulla attendibilità intrinseca ed estrinseca e sul carattere individualizzante dei riscontri, il giudice di appello, accedendo alla critica del P.M. di “frammentazione”, “atomizzazione” e “destoricizzazione” delle prove e pervenendo all’indebito capovolgimento della decisione assolutoria, aveva invece assemblato l’intero compendio probatorio secondo una lettura totalizzante e d’assieme, corroborata anche da parametri socio-culturali in tema di “contiguità compiacente”, pure in assenza di obiettivi riscontri individualizzanti, soprattutto per le propalazioni de relato dei collaboratori, e della verifica analitica di certezza, conferenza, gravità e precisione di ciascuno degli indizi, che deve metodologicamente precedere la sintesi finale degli stessi in una prospettiva dimostrativa globale.
Il mancato rispetto dei criteri legali di valutazione della prova in riferimento alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia era censurabile anche perché le stesse non avevano superato il vaglio di attendibilità all’esito del contraddittorio in prime cure, sì che la diversa valutazione in senso favorevole all’accusa imponeva un onere motivazionale particolarmente rigoroso nell’indicazione delle ragioni del contrario avviso, onere in realtà non assolto; con riferimento ai collaboranti Brusca e Siino, l’omissione appariva ancora più grave, posto che le dichiarazioni dei due sulla collocazione temporale del c.d. accordo del tavolino – 1988 o 1991 – o sulla genesi mafiosa degli attentati di Sciacca e sull’incontro col boss Di Ganci erano risultate in contrasto a seguito della riapertura dell’istruzione dibattimentale. Si sarebbe inoltre fatto largo uso del criterio secondo cui Mannino “non poteva non conoscere” la mafiosità di alcuni soggetti con i quali era entrato in contatto (Ignazio e Nino Salvo, Settecasi, Caruana, Mortillaro, Inzerillo, Ferraro ecc.), senza però tenere conto di insuperabili elementi storici e logici di segno contrario a tale apodittica presunzione, ovvero utilizzando passaggi argomentativi o valutativi di sentenze non irrevocabili e neppure acquisite ritualmente al dibattimento.
4. — Le Sezioni Unite ritengono innanzi tutto di confermare il principio giurisprudenziale (Sez. Un., 5/10/1994, Demitry, Foro it. 1995, II, 422; Sez. Un., 27/9/1995, Mannino, Cass. pen. 1996, 1087; Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale, Foro it. 2003, II, 453) secondo cui anche per il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’articolo 416-bis c.p. è configurabile il concorso esterno.
Nel tracciare il criterio discretivo tra le rispettive categorie concettuali della partecipazione interna e del concorso esterno, si definisce “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima.
Di talché, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
Assume invece la veste di concorrente “esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Può dunque dirsi ormai incontroversa in giurisprudenza e pressoché unanimemente asseverata dalla dottrina (ma anche il più recente progetto di riforma del codice penale elaborato nel 2005 dalla Commissione Nordio estende espressamente, all’articolo 47, le disposizioni sul concorso eventuale ai reati associativi, intendendosi per tali i “reati di associazione criminale” o a concorso comunque necessario) l’astratta configurabilità della fattispecie di concorso “eventuale” di persone, rispetto a soggetti diversi dai concorrenti necessari in senso stretto, in un reato necessariamente plurisoggettivo proprio, quale è quello di natura associativa.
Ed invero, anche in tal caso la funzione incriminatrice dell’articolo 110 c.p. (mediante la combinazione della clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato) consente di dare rilevanza e di estendere l’area della tipicità e della punibilità alle condotte, altrimenti atipiche, di soggetti “esterni” che rivestano le caratteristiche suindicate.
Ma siffatta opzione ermeneutica, favorevole in linea di principio alla configurabilità dell’autonoma fattispecie di concorso “eventuale “ o “esterno” nei reati associativi, postula ovviamente che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato.
E cioè:
– da un lato, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi (arg. ex articolo 115 c.p., circa la non punibilità del mero tentativo di concorso, nelle forme dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione accolta a commettere un reato, non seguite però dalla commissione dello stesso);
– dall’altro, che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate – per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.
La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”.
E, sotto questo profilo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia altresì consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.
In merito allo statuto della causalità, sono ben note le difficoltà di accertamento (mediante la cruciale operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura o generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali, soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva e natura associativa.
E però, trattandosi in ogni caso di accertamento di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito, ritiene il Collegio che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo.
L’opposta tesi, che pretende di prescindere dal paradigma eziologico, tende ad anticipare arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso.
D’altra parte, ferma restando l’astratta configurabilità dell’autonoma categoria del concorso eventuale “morale” in associazione mafiosa, neppure sembra consentito accedere ad un’impostazione di tipo meramente “soggettivistico” che, operando una sorta di conversione concettuale (e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa.
Occorre ribadire che pretese difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto e degli elementi oggettivi che lo compongono non possono mai legittimare – come queste Sezioni Unite hanno già in altra occasione affermato (sent. 10 luglio 2002, Franzese, Foro it., 2002, II, 601) – un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che, collocandosi sul terreno della teoria dell’ “aumento del rischio”, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale.
Ed invero, poiché la condizione “necessaria” si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa l’identico rigore dimostrativo e il conseguente standard probatorio dell’ “oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.
Si è peraltro sottolineato da parte delle Sezioni Unite, nella citata sentenza Franzese, che, attesa la natura preminentemente induttiva dell’accertamento e del ragionamento inferenziale nel giudizio penale, “il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente è condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di certezza processuale, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo [ispirato ai criteri valutativi delineati nell’articolo 192 commi 1 e 2 e, quanto alla doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste, nell’articolo 546 comma 1 lett. e c.p.p.], ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da alto grado di credibilità razionale o conferma dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio [nella specie, quello in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente esterno] enunciato anche in termini di elevata probabilità logica o probabilità prossima alla – confinante con la – certezza ”.
Che il criterio di imputazione causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale costituisca il presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato e la fonte ascrittiva della responsabilità del singolo concorrente, secondo il classico modello condizionalistico della spiegazione causale dell’evento, è infine ribadito tanto dal progetto 2001 della Commissione Grosso quanto da quello 2005 della Commissione Nordio di riforma della parte generale del codice penale. Nella relazione al primo, in tema di concorso di persone nel reato, si segnala la specificazione aggiunta all’articolo 43 comma 1 – “causalmente rilevanti per la sua esecuzione” – per sottolineare “l’elemento fondamentale della efficacia causale rispetto alla realizzazione del reato che ogni condotta atipica deve in ogni caso possedere”, sì da “assicurare l’esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo”. Parimenti, nella relazione al secondo si avverte, nel definire le forme di partecipazione consistenti in specifici “atti di agevolazione”, che anche per essi “l’articolo 43 comma 5 rapporta il contributo agevolatore alla sua efficacia causale”, in modo da rendere “l’accertamento del contributo nettamente più concreto perché impone al giudice di verificare se realmente il singolo concorrente abbia materialmente portato al fatto un quid pluris (contributo individualizzante) che abbia effettivamente influenzato il fatto storico”.
5. — Calogero Mannino è imputato del delitto di concorso eventuale in associazione mafiosa, “per avere – avvalendosi del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente di rilievo della Democrazia Cristiana siciliana – contribuito sistematicamente e consapevolmente alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra, mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché delle attività politiche ed amministrative di esponenti della stessa area, collocati in centri di potere istituzionale (amministratori comunali, provinciali e regionali) e sub-istituzionali (enti pubblici e privati), onde agevolare la attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro ed altre utilità in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo mafioso”.
Il thema decidendum sotteso alla vicenda processuale, che sembra scontare fin dall’origine l’insufficiente determinatezza nella descrizione fattuale dell’imputazione contestata, riguarda quella particolare forma di contiguità alla mafia comunemente definita come “patto di scambio politico-mafioso”. In forza dell’accordo, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione mafiosa nelle competizioni elettorali succedutesi nel corso della sua carriera locale o nazionale, il personaggio politico, senza essere organicamente inserito come partecipe nelle logiche organizzatorie del sodalizio criminoso, s’impegna a strumentalizzare i poteri e le funzioni collegati alla posizione pubblica conseguente all’esito positivo dell’elezione a vantaggio dello stesso sodalizio, assicurandone così dall’esterno l’accesso ai circuiti finanziari e al controllo delle risorse economiche, ovvero rendendo una serie di favori quale corrispettivo del richiesto procacciamento di voti.
Chiamate a rispondere al quesito interpretativo se sia configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato, le Sezioni Unite ne condividono la soluzione affermativa unanimemente offerta dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. I, 8/6/1992, Battaglini, Foro it. 1993, II, 133, in una fattispecie nella quale è stata ravvisata, peraltro, l’ipotesi di partecipazione “interna” del politico; Sez. V, 16/3/2000, P.G. in proc. Frasca, Foro it. 2001, II, 80; Sez. VI, 15/5/2000, P.M. in proc. Pangallo, rv. 216815; Sez. V, 26/5/2001, Allegro, rv. 220266; Sez. I, 17/4/2002, Frasca, Foro it. 2003, II, 5; Sez. V, 13/11/2002, Gorgone, rv. 224274; Sez. I, 25/11/2003, Cito, rv. 229991-993; Sez. I, 4/2/2005, Micari), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano.
In linea di principio non può escludersi, infatti, per questa particolare tipologia di relazioni collusive con la mafia che anche la promessa e l’impegno del politico di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa possano già integrare, di per sé, gli estremi del contributo atipico del concorrente eventuale nel delitto associativo, a prescindere dalle successive condotte di esecuzione dell’accordo valutabili sotto il profilo probatorio.
D’altra parte, la scelta legislativa di incriminare con la nuova fattispecie dell’articolo 416 ter c.p. (introdotta dall’articolo 11 ter d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992, in funzione complementare rispetto al precetto dell’articolo 416-bis, comma 3, ultima parte, al pari inserito dall’articolo 11 bis del medesimo decreto legge) l’accordo elettorale politico-mafioso in termini di scambio denaro/voti non può essere intesa come espressiva dell’intento di limitare solo a questa fattispecie l’ambito di operatività dei variegati patti collusivi in materia elettorale con un’associazione mafiosa, negandosi dunque rilievo penale ad ogni altro accordo diverso da quel tipo di scambio.
L’esegesi storico-sistematica della disposizione incriminatrice dell’articolo 416 ter lascia invero intendere che la soluzione legislativa – in vece dell’emendamento di largo respiro elaborato al comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei deputati – sia stata dettata dalla volontà di costruire una specifica e tipica figura, alternativa al modello concorsuale, sì che (come si è già ritenuto dalle Sezioni Unite, sent. 30/10/2002, Carnevale, cit.) “la relativa introduzione deve leggersi come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, e cioè anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante quanto al combinato disposto degli articoli 416-bis e 110 c.p.”.
S’intende affermare che neppure un’ampia e diffusa frammentazione legislativa in autonome e tipiche fattispecie criminose dei vari casi di contiguità mafiosa (com’è avvenuto, ad esempio, sul terreno del distinto fenomeno terroristico, mediante l’introduzione delle nuove figure del “finanziamento” di associazioni con finalità di terrorismo – articolo 270 bis comma 1 c.p., ins. dall’articolo 1.1 d.l. n. 374/2001 conv. in l. n. 438/2001 -, ovvero dell’ “arruolamento” e “addestramento” di persone per il compimento di attività con finalità di terrorismo anche internazionale – articoli 270 quater e 270 quinquies c.p., ins. dall’articolo 15.1 d.l. n. 144/2005 conv. in l. n. 155/2005 -) sarebbe comunque in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’articolo 110 c.p. sul concorso di persone nel reato, se non introducendosi una disposizione derogatoria escludente l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi.
E però, ammessa l’astratta configurabilità delle regole del concorso eventuale anche per l’ipotesi di accordo politico-mafioso diverso dallo scambio denaro/voti, occorre trarne le conseguenze in punto di rigorosa ricostruzione dei requisiti di fattispecie, con particolare riguardo, oltre che al dolo, anzitutto all’efficacia causale del contributo atipico del concorrente esterno.
Non basta certamente la mera “disponibilità” o “vicinanza”, né appare sufficiente che gli impegni presi dal politico a favore dell’associazione mafiosa, per l’affidabilità e la caratura dei protagonisti dell’accordo, per i connotati strutturali del sodalizio criminoso, per il contesto storico di riferimento e per la specificità dei contenuti del patto, abbiano il carattere della serietà e della concretezza.
Ed invero, la promessa e l’impegno del politico (ad esempio, nel campo – pure oggetto dell’imputazione – della programmazione, regolamentazione e avvio di flussi di finanziamenti o dell’aggiudicazione di appalti di opere o servizi pubblici a favore di particolari imprese) in tanto assumono veste di apporto dall’esterno alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa, rilevanti come concorso eventuale nel reato, in quanto, all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale e non già mediante una mera valutazione prognostica di idoneità ex ante (che pure sembra acriticamente recepita in talune decisioni di legittimità, fra quelle sopra citate), si possa sostenere che, di per sé, abbiano inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali coinvolte dall’impegno assunto. Il politico, concorrente esterno, viene in tal modo ad interagire con i capi e i partecipi nel funzionamento dell’organizzazione criminale, che si modula in conseguenza della promessa di sostegno e di favori mediante le varie operazioni di predisposizione e allocazione di risorse umane, materiali, finanziarie e di selezione strategica degli obiettivi, più in generale di equilibrio degli assetti strutturali e di comando, derivandone l’immediato ed effettivo potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa con riguardo allo specifico settore di influenza.
Una volta prospettata l’ipotesi di accusa in riferimento al patto elettorale politico-mafioso, si rivela quindi necessaria la ricerca e l’acquisizione probatoria di concreti elementi di fatto, dai quali si possa desumere con logica a posteriori che il patto ha prodotto risultati positivi, qualificabili in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell’associazione mafiosa, sulla base di generalizzazioni del senso comune o di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità.
Con l’avvertenza peraltro che, laddove risulti indimostrata l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto del politico sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente, non è consentito convertire surrettiziamente la fattispecie di concorso materiale oggetto dell’imputazione in una sorta di -apodittico ed empiricamente inafferrabile- contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbero comunque, quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento (ove tuttavia non si accerti e si definisca “occulto” l’accordo) che “all’interno” rafforzati il senso di superiorità e il prestigio dei capi e la fiducia di sicura impunità dei partecipi.
In ordine al quesito interpretativo riportato in premessa e sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dev’essere pertanto enunciato, a norma dell’articolo 173.3 disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: “E’ configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, s’impegna ad attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che:
a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza;
b) all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali”.
Omissis
3. Cooperazione nel delitto colposo
Cass. IV 2 dicembre 2008, Tomaccio
in sintesi
La cooperazione nel delitto colposo si distingue dal concorso di cause colpose indipendenti per la necessaria reciproca consapevolezza dei cooperanti della convergenza dei rispettivi contributi, che peraltro non richiede la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli.
Fattispecie in tema di omicidio colposo relativo alla causazione da parte di agenti di polizia della morte di un arrestato per l’imprudente gestione delle procedure di immobilizzazione dello stesso. Nell’occasione la Corte ha precisato che la disciplina della cooperazione nel delitto colposo ha funzione estensiva dell’incriminazione, coinvolgendo anche condotte meramente agevolatrici e di modesta significatività, le quali, per assumere rilevanza penale, devono necessariamente coniugarsi con comportamenti in grado di integrare la tipica violazione della regola cautelare interessata.
Motivi della decisione
1. La Corte d’assise di Napoli ha affermato la responsabilità degli imputati indicati in epigrafe, agenti della Polizia di Stato, in ordine ai reati di omicidio preterintenzionale in danno di Esposito Sandro ed a quello di falso in atto pubblico; e li ha altresì condannati al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili.
La pronunzia è stata parzialmente riformata dalla Corte d’assise d’appello che ha adottato pronunzia assolutoria perché il fatto non sussiste in ordine al reato di falso ed ha riqualificato il reato di omicidio preterintenzionale in quello di omicidio colposo; ed ha conseguentemente rideterminato la pena.
La Corte d’assise ha ritenuto provato che gli imputati, nel corso delle travagliate operazioni volte a bloccare l’Esposito dopo il suo arresto, abbiano dato corso ad un deliberato pestaggio dal quale sono derivate lesioni personali sfociate nell’evento letale. Il Giudice d’appello ha diffusamente riconsiderato l’intero materiale probatorio pervenendo alla conclusione che nel corso degli accadimenti non vi furono iniziative dolose, ma solo comportamenti imperiti nell’uso della forza per immobilizzare l’arrestato. In sintesi estrema la ricostruzione dei fatti proposta dal giudice d’appello può essere tratteggiata nei seguenti termini. Intorno alle sette del mattino l’Esposito, in preda a delirio cocainico, saliva sul tetto di un capannone urlando e chiedendo aiuto a causa della presenza di cani in realtà inesistenti. Intervenne una pattuglia di polizia composta dagli agenti Tomaccio S. e Colecchia F. che tentò di calmare il giovane. Improvvisamente, questi si lanciò dapprima sul tetto dell’auto di servizio e quindi aggredì il Tomaccio S. ferendolo. Lo stato di agitazione dell’Esposito era tale che i due agenti non riuscirono ad averne ragione. Sopravvenne un’altra pattuglia composta dagli agenti Ioffredo A. e Ciffo M. che diede manforte, sicché si riuscì infine ad ammanettare il giovane ed a sistemarlo su un’auto di servizio. Le due auto si avviarono verso il Commissariato e ad esse se ne aggiunse un’altra con a bordo gli agenti Montanaro A. e Boccadifuoco V.. Nel corso del tragitto l’Esposito, con atto repentino, scalciò contro il vetro dell’auto infrangendolo e riuscì a proiettarsi all’esterno. Tutti gli agenti si diressero a piedi verso l’arrestato bloccandolo. In quel frangente sopraggiuse casualmente l’assistente De Nardo C. che, libero dal servizio ed in abiti civili, si fermò ad aiutare i colleghi. Le operazioni per bloccare l’Esposito, descritte per frammenti da diversi testi, si rivelarono drammaticamente concitate e difficili, poiché l’Esposito si mostrò animato da un’energia straordinaria.
Nel corso dell’intervento gli agenti Boccadifuoco V., Ioffredo A. e Montanaro A. si procurarono una corda con la quale, non senza fatica, legarono le gambe dell’arrestato. Infine sopraggiunse sul posto un’ambulanza con un medico a bordo che intervenne praticando un’iniezione di sostanze sedative e subito dopo constatò la morte.
La Corte d’assise d’appello, come si è accennato, ha escluso la presenza di condotte deliberatamente aggressive degli agenti ed ha ritenuto, invece, che gli imputati “si sono limitati a spiegare un’azione necessariamente violenta per la fortissima resistenza incontrata, tendente, ad immobilizzare la vittima”: un intervento sicuramente “sopra le righe” e quindi colposo.
Si è in particolare ritenuto che tutti gli imputati, nel corso dell’operazione protrattasi per oltre dieci minuti, si siano avvicendati per immobilizzare con procedure non appropriate il giovane, che si trovava prono per terra. In particolare, il De Nardo C., accovacciato, bloccò il torace della vittima premendo con le ginocchia sulla schiena, così esercitando una forza incongrua determinata anche dal suo peso di circa 90 chilogrammi.
Tali condotte violente sono state ritenute eziologicamente rilevanti in relazione all’evento letale. La Corte, sulla base delle diverse consulenze tecniche esperite ed alla luce dell’esame autoptico, è giunta ad individuare due decisivi fattori causali.
Si è in primo luogo appurato che la vittima versava in uno stato di intossicazione acuta cocainica, desunto dalla presenza della sostanza nei liquidi biologici e dai sintomi tipici quali eccitabilità, allucinazioni, abnorme incremento della forza muscolare, attacchi di panico, alternanza di stati di agitazione e di remissività; ma si è escluso che tale condizione abbia avuto un ruolo eziologico decisivo, pur avendo negativamente influenzato l’effetto dei fattori traumatici. Un fattore eziologico letale è stato individuato in un trauma polmonare evidenziato dall’autopsia, dovuto ad asfissia meccanica acuta determinata dal blocco della respirazione. Un altro fattore decisivo è stato identificato in un traumatismo cranio-encefalico. L’autopsia ha pure rivelato due focolai emorragici contrapposti indicativi di genesi da contraccolpo: un urto determina l’oscillazione della testa che cagiona a sua volta un urto dal lato opposto. Un traumatismo di tale genere causa perdita di coscienza e successivamente, in un arco di tempo piuttosto breve, la morte. Esso, pur essendo da solo sufficiente a determinare la morte, ha nel caso di specie interagito sinergicamente con l’asfissia, anticipando l’arresto cardiocircolatorio.
Il blocco respiratorio è stato determinato dalla abnorme pressione esercitata dal De Nardo C. sulla schiena dell’Esposito per immobilizzarlo. L’eziologia del danno encefalico è stata ricostruita sulla base della deposizione di una teste che ha riferito di un agente che bloccò la nuca dell’Esposito con un piede. Questi, che sino a quel momento si era agitato in modo convulso, smise di gridare e cominciò a rantolare. La parte compressa dall’agente corrisponde all’area della lesione nucale riscontrata in autopsia: il contraccolpo viene spiegato con l’impatto al suolo che certamente vi fu, atteso che in quel momento la vittima si dimenava con forza. Il trauma cranico determina perdita di coscienza e ciò spiega la cessazione improvvisa dell’attività motoria del giovane riferita dalla teste. Non vi è dubbio, conclude la Corte, che il trauma cranico fu prodotto dall’azione immobilizzante dei poliziotti. La Corte stessa reputa che tutti gli agenti a turno cooperarono con il De Nardo C. nel bloccare a terra l’Esposito. Tale condotta era in sè scriminata dalla causa di giustificazione dell’adempimento del dovere, essendovi necessità di bloccare il giovane arrestato e poi evaso. Tuttavia gli agenti superarono il vincolo di proporzione: non vi era necessità di ridurre il giovane all’assoluta impotenza, di bloccargli il torace e la testa e di adoperare i piedi per tenerlo immobile al suolo.
Solo nel corso dell’intervento fu compreso che l’unica cosa da fare era legare le gambe, azione che venne compiuta dagli agenti Boccadifuoco V., Ioffredo A. e Montanaro A.. La condotta descritta, nel complesso inappropriata, trova spiegazione, secondo la Corte di merito, nella carenza di addestramento del personale che, tuttavia, non elide l’obbligo di agire con prudenza, diligenza e buon senso. Si configura, quindi, un eccesso colposo nell’esecuzione dell’azione scriminata, rilevante ai sensi dell’art. 55 c.p..
È da escludere, argomenta ancora la Corte, che si sia in presenza di errore scusabile. Tutti gli agenti, tranne De Nardo C. che intervenne in un secondo momento, erano consapevoli di non avere a che fare con un criminale e che si trattava non di sottomettere un avversario riottoso, ma di evitare solo che l’Esposito si allontanasse. Sarebbe stato sufficiente un po’ di buon senso per comprendere che non era necessario bloccare al suolo il giovane per conseguire tale scopo. Dunque, la condotta in discussione è da ritenersi colposa per imperizia. Essa coinvolge la responsabilità di tutti gli imputati essendosi in presenza di cooperazione colposa rilevante ai sensi dell’art. 113 c.p.. Infatti gli agenti concordemente dettero corso a modalità d’immobilizzazione non necessarie e si servirono di tecniche pericolose per l’incolumità della persona da bloccare. Senza questa decisione, le condotte dei singoli, che materialmente cagionarono le lesioni mortali, non avrebbero potuto compiersi.
Riqualificato il fatto, la Corte ha rideterminato la pena. A tal fine si è considerato che il fatto presenta rilevante gravità: la vittima era un giovane nel fiore degli anni e, se pure assuntore di cocaina, di buona salute ed incensurato. D’altra parte l’inconsueta vicenda, svoltasi davanti ad un pubblico numeroso, con le sue connotazioni tra il tragico ed il grottesco, ha recato discredito all’immagine delle forze dell’ordine.
Più grave delle altre viene reputata la condotta del De Nardo C.. Costui, superiore per età e grado, assunse la direzione delle operazioni pur non essendovi obbligato ed è l’unico la cui condotta evidenzia una sicura azione lesiva consistita nell’irrazionale compressione del torace.
Quanto all’attenuante cosiddetta generica, la Corte conferma la valutazione del primo giudice quanto alla possibilità di ravvisarla; tuttavia ritiene che essa non possa condurre alla diminuzione di pena nella misura massima consentita, così controvertendo la valutazione del Tribunale che aveva invece ridotto la sanzione nella misura di un terzo in considerazione dell’incensuratezza ed in relazione alla particolare situazione in cui gli agenti si erano trovati ad operare. Tale ponderazione viene ridimensionata, poiché l’incensuratezza è una qualità dovuta per gli agenti di polizia. D’altra parte, la particolare situazione evidenzia un’inadeguata preparazione tecnica degli agenti che è proprio il principale elemento di colpa. In conclusione il giudice individua per De Nardo C. una pena base di quattro anni ed otto mesi di reclusione, ridotta a quattro anni per effetto delle attenuanti generiche. Per gli altri imputati la pena base è di tre anni e sei mesi di reclusione, ridotta a tre anni per effetto dell’attenuante indicata.
Omissis
3.2.2. Per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 c.p., i ricorsi prospettano una questione assai delicata e complessa.
La pronunzia d’appello descrive l’azione congiunta di sei o sette agenti nei confronti dell’evaso e, a seguito di una serrata valutazione critica di alcune deposizioni testimoniali, perviene a ritenere che la violenza esercitata non fu il frutto di una volontaria deliberazione congiunta, ma di un colpevole malgoverno dell’azione di ritenzione del fuggitivo.
Nonostante la analitica descrizione dei comportamenti ultronei, la Corte non giunge ad individuare specifiche condotte analiticamente attribuibili a ciascuno degli agenti, che indossavano la divisa d’ordinanza.
L’unico imputato di cui è stata individuata la condotta specifica è il De Nardo C. che, essendo in abiti borghesi, è stato oggetto di puntuale osservazione da parte dei testi presenti alla scena.
Occorre allora chiedersi se l’applicazione dell’art. 113 c.p., consenta l’affermazione della cooperazione illecita anche degli agenti che, in ipotesi, si siano astenuti dal porre in essere personalmente le condotte violente ed esorbitanti cui si è fatto cenno.
A tale questione la Corte di assise d’appello da una risposta affermativa.
Essa, dopo aver dato conto di condotte esorbitanti protratte per un lungo lasso di tempo, culminate nelle azioni specificamente lesive (la pressione sulla cassa toracica e lo schiacciamento della testa sul terreno), afferma che gli agenti “decisero senza dissenso alcuno di attuare modalità d’immobilizzazione non necessarie e di servirsi di tecniche pericolose per l’incolumità della persona da bloccare.
Senza questa decisione, le condotte dei singoli, che materialmente cagionarono le lesioni mortali, non avrebbero potuto verificarsi”.
Tale approccio argomentativo chiama implicitamente in causa da un lato l’art. 55 c.p., e dall’altro, soprattutto, l’art. 113 c.p., cui, evidentemente, si attribuisce un ruolo estensivo dell’incriminazione nell’ambito delle situazioni di cooperazione colposa, rispetto al modello di imputazione monosoggettiva.
Quanto all’applicazione dell’art. 55 c.p., la pronunzia appare palesemente immune dalle censure che vengono prospettate da alcune difese. Invero, la sentenza, sulla base di numerose deposizioni testimoniali, perviene a ritenere, con argomentazione immune da vizi logici, che la condotta degli agenti fu macroscopicamente esorbitante rispetto alla situazione data.
In effetti, sebbene il giovane evaso agisse in modo fortemente reattivo, non può trascurarsi che egli era ammanettato e circondato da almeno sei agenti pubblici. In una situazione del genere, come correttamente ritenuto dal giudice di merito, il prudente governo della forza connessa all’azione congiunta di tante persone avrebbe dovuto senz’altro evitare condotte estreme ed inutili come quella di comprimere la cassa toracica fino al blocco della respirazione; o di schiacciare la testa con il piede calzato, determinando il danno emorragico letale in sede cranica.
Occorre piuttosto chiedersi quale sia la natura dell’imputazione per eccesso colposo nella gestione della situazione riconducibile alla causa di giustificazione; anche per rispondere alla prospettazione difensiva secondo cui si sarebbe in presenza di una forma di imputazione soggettiva incompatibile con la disciplina della cooperazione colposa, di cui all’art. 113 c.p..
L’eccesso colposo nelle scriminanti si inserisce all’interno della figura tradizionalmente denominata colpa impropria, che compendia situazioni in cui si configura un errore sull’esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo; o in cui i limiti della scriminante vengono superati, a causa di un atteggiamento interiore rimproverabile a titolo di colpa.
Tali contingenze sono disciplinate dall’art. 55 c.p.c e art. 59 c.p.c., comma 4.
In particolare l’eccesso colposo, di cui all’art. 55 c.p., è previsto solo per le scriminanti di cui agli artt. 51, 52, 53 e 54 c.p..
Tuttavia, come si è già accennato, da più parti è stato condivisibilmente osservato che la norma costituisce l’espressione di principi generali dell’ordinamento penale desumibili delle disposizioni in tema di dolo, colpa, errore sul fatto, errore sulle scriminanti; e che quindi essa è applicabile senza dubbio a tutte le cause di giustificazione. Si tratta di una situazione strutturalmente simile a quella della erronea, colposa supposizione dell’esistenza di una causa di giustificazione.
La differenza è che l’errore non verte sull’esistenza della situazione scriminante che effettivamente si configura, ma riguarda la sua valutazione e gestione. A tale proposito in letteratura si è soliti individuare due distinte situazioni.
Una riguarda l’errore di valutazione sui presupposti e sui limiti fattuali della giustificazione: si tratta del cosiddetto errore motivo. L’altra situazione si configura, invece, quando l’agente, pur non errando sui limiti della scriminante, tiene un atteggiamento che colposamente eccede rispetto ai limiti della giustificazione: si tratta del cosiddetto errore inabilità. In ambedue le situazioni, sia pure sotto profili diversi, si eccede erroneamente rispettò ai limiti fattuali di una scriminante di cui esistono i presupposti.
L’eccesso colposo è stato studiato quasi esclusivamente in riferimento alla legittima difesa ed a tale contesto si riferiscono gli esempi classici dell’agente che potendosi difendere tramortendo l’aggressore, crede erroneamente che occorra sopprimerlo; o di quello che, volendo tramortire colpisce l’avversario con una forza che si rivela letale. Si tratta di analisi che può essere trasposta nell’ambito qui considerato, in cui pure si discute della misura di violenza che l’ordinamento consente.
In tali situazioni, pur essendosi in presenza di condotta sorretta dal dolo di lesioni, il fatto è addebitato a titolo di colpa allorché è possibile muovere all’agente un rimprovero.
Nella dottrina più risalente la presenza della volontà dell’evento ha condotto a ritenere che si fosse in presenza di un reato doloso che viene dalla legge trattato come un reato colposo.
Si tratta di un approccio diffusamente presente nella giurisprudenza, specialmente in quella più risalente.
Tale tesi è stata però oggetto di recise critiche ed è da tempo tramontata in letteratura. Si è infatti osservato, del tutto condivisibilmente, che il rimprovero che viene mosso all’agente non è di aver voluto l’evento ma di averlo cagionato con un atteggiamento interiore imprudente, negligente.
Qui, tuttavia, si configura qualche particolarità. Infatti non si è in presenza della classica configurazione della colpa definita dall’art. 43 c.p.: una condotta che determina un evento che non si è voluto e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia. Il rimprovero che viene mosso all’agente che eccede rispetto ai limiti della scriminante non ha a che fare direttamente con l’atteggiamento interiore in rapporto all’evento. Il rimprovero viene senza dubbio riferito all’archetipo della colpa ma riguarda per l’appunto la gestione trascurata, mal ponderata, dei poteri conferiti dalla causa di giustificazione.
Da questo punto di vista ha senso parlare di colpa impropria; purché sia chiaro che, pur essendosi in presenza di condotta volontariamente lesiva, manca la colpevolezza dolosa e si configura un atteggiamento interiore che, per i suoi connotati di negligenza o imprudenza, può essere ricondotto alla figura della colpa.
Riconosciuta la natura realmente colposa del rimprovero, sembra senz’altro escluso che vi siano ragioni pregiudizialmente ostative all’applicazione dell’art. 113 c.p., prospettata dalle difese.
La funzione dell’art. 113 c.p.
Occorre tuttavia chiarire quale sia la reale portata della norma in questione nell’ambito delle fattispecie d’evento a forma libera come quella di cui all’art. 589 c.p.
In proposito in dottrina vengono sostenute, con diverse sfumature, due tesi di fondo.
Secondo l’una l’art. 113 c.p., eserciterebbe una mera funzione di modulazione di disciplina, nell’ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva: orientamento determinato, al fondo, dal timore che applicazioni disinvoltamente estensive possano vulnerare il principio di colpevolezza.
L’altra tesi, invece, reputa che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell’incriminazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte.
Tale ultimo indirizzo è implicitamente accolto nella giurisprudenza di questa Corte.
Esso è senz’altro aderente alle finalità perseguite dal codificatore che, introducendo la disciplina di cui si discute, volle troncare le dispute esistenti in quell’epoca, esplicitando la possibilità di configurare fattispecie di concorso anche nell’ambito dei reati colposi.
Tale indirizzo interpretativo trova pure sicuro conforto nella disciplina di cui all’art. 113 c.p., comma 2 e art. 114 c.p., che prevedono, nell’ambito delle fattispecie di cooperazione, l’aggravamento della pena per il soggetto che abbia assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l’agente che abbia apportato un contributo di minima importanza.
Tale ultima contingenza, evocando appunto condotte di modesta significatività, sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole.
il confine tra la fattispecie di cooperazione colposa e quella in cui si configura il concorso di cause colpose indipendenti
Riconosciuto il ruolo estensivo dell’incriminazione svolto dall’art. 113 c.p., occorre prendere atto che, pur dopo molte dispute, il confine tra la fattispecie di cooperazione colposa e quella in cui si configura il concorso di cause colpose indipendenti è spesso incerto.
L’effetto estensivo si configura senz’altro nei reati commissivi mediante omissione, quando vi sia l’apporto di soggetto non gravato dell’obbligo di garanzia.
Una situazione analoga si può configurare quando la regola cautelare violata attiene all’obbligo di prevenire altrui condotte colpose: rientrano in tale ambito i casi di scuola dell’affidamento dell’auto a conducente totalmente inesperto e privo di patente; e quello dell’omessa custodia dell’arma carica che, così, viene imprudentemente maneggiata da persona impreparata. In tutti tali casi traspare l’esigenza di una lettura integrata delle condotte colpose, anche per verificare la realizzazione nell’evento del rischio cautelato dalla regola di diligenza.
Meno definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita nell’ottica della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie causale colposa. Mentre la condotta tipica da luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice.
A tale ambito sembrano riferirsi non solo l’intitolazione dell’art. 113 c.p., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia maleficii, di consapevolezza di concorrere con la propria all’altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il fatto incriminato.
Così definito il contesto, si pone il cruciale problema di individuare il fattore che fa per così dire da collante tra le diverse condotte, delineandone la cooperazione.
Tale elemento di coesione viene ritenuto di tipo psicologico, tanto dalla dottrina prevalente che dalla giurisprudenza: si tratta della consapevolezza di cooperare con altri.
È però discusso se tale consapevolezza debba estendersi sino a cogliere il carattere colposo dell’altrui condotta. Le contrastanti tesi espresse al riguardo presentano il fianco a qualche critica. Semplificando al massimo i termini di un dibattito ricco di sfumature: la tesi della mera consapevolezza dell’altrui condotta sembra implicare il rischio di creare un’indiscriminata estensione dell’imputazione.
D’altra parte richiedere la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare la norma e di renderla inutile, giacché una tale consapevolezza ben potrebbe implicare un atteggiamento autonomamente rimproverabile.
D’altra parte, se la problematica non eccedesse le necessità di approfondimento richieste dal processo in esame, sarebbe pure lecito chiedersi se il tratto psicologico in esame (la consapevolezza di cui si è detto) sia proprio indefettibile e tipico, fondante. Le situazioni nelle quali le condotte in cooperazione non sono concomitanti aprono qualche dubbio in proposito.
Di certo, comunque, le preoccupazioni di eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell’altrui condotta concorrente non sono certo prive di peso. Esse pare possano essere arginate solo individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche.
In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame ed un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d’interazione prudente individua, sembra a questa Corte, il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione.
La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa.
Tale ordine di idee si rinviene, ad esempio, in alcune prese di posizioni di questa Corte, che hanno tratteggiato le ragioni che, in nome della cooperazione come modello di doveroso accrescimento dell’efficienza delle cautele, possono giustificare il coinvolgimento anche di soggetti che, nell’ambito di una determinata organizzazione, svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato e che, conseguentemente, facilmente svolgono nei fatti un ruolo meno significante.
È stata così enunciata, ad esempio, la necessità di un rapporto reciprocamente critico-dialettico tra primario ed assistente ospedaliero, nonostante la posizione subordinata e meno qualificata di quest’ultimo; che ha comunque il dovere di manifestare l’eventuale dissenso rispetto alle scelte terapeutiche (da ultimo Cass. 4^, 17/11/1999, Rv. 215443).
Alla luce di tali principi la pronunzia di merito non appare censurabile per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 c.p..
Si è visto che la Corte ha correttamente ravvisato una patente, rimproverabile violazione del limite di continenza nella gestione delle procedure di immobilizzazione del fuggitivo. Come si è già evidenziato, le condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive sono state individuate da un lato nella non necessaria immobilizzazione a terra della vittima ammanettata, accompagnata dalla incongrua protratta pressione sulla gabbia toracica sino alla completa inibizione della respirazione; e dall’altro nella altrettanto inutile pressione violenta sul capo, al punto da determinare la già descritta lesione cranica, anch’essa letale. Tali condotte, peraltro, sono espressione di un approccio complessivamente altamente incauto che ha caratterizzato tutta l’azione, lungamente protratta, degli agenti. Tale impropria scelta di azione coinvolge la sfera di responsabilità di tutti gli agenti, proprio alla luce della loro convergente attività che senza dubbio da corpo al contesto fattuale di cooperazione che, come si è visto, radica l’ambito di applicazione della colpa di concorso. In breve, la consapevolezza di agire in cooperazione imponeva a ciascuno non solo di operare per proprio conto in modo appropriato, ma anche di interrogarsi sull’azione altrui se del caso agendo per regolarla moderandola. Tale azione è mancata in tutti gli agenti e per tutti, dunque, si configura la colpa concorsuale che, come pure si è detto, abbraccia tutte le condotte, non solo quelle tipiche (lo schiacciamento della testa, la compressione del torace) ma anche quelle di comune partecipazione agevolatrice.
La valutazione in questione non consente distinzione neppure per gli agenti che hanno agito per legare le gambe del giovane evaso. Tale azione, infatti, costituisce solo un frammento della protratta condotta illecita che (secondo quanto insindacabilmente ritenuto in fatto dal giudice di merito) è ancor più inutilmente proseguita senza dissenso alcuno, sino al gesto finale della compressione del capo in terra che ha determinato la cessazione di qualunque reazione della vittima, avendo cagionato la letale lesione emorragica intracranica.
Omissis
… e qualche massima interessante dell’ultimo biennio
Cass. VI, 21 luglio 2015, n.36941, M. e altri
264646
In tema di concorso di persone nel reato, il principio della pari responsabilità dei concorrenti previsto dall’art. 110 c.p. non esonera dall’individuazione dell’autore o dei coautori della condotta descritta dalla fattispecie incriminatrice, poiché l’attribuzione del fatto di reato al terzo, cui non sia ascrivibile tale condotta, presuppone una partecipazione psichica necessariamente in rapporto ad uno o più autori materiali dell’illecito penale. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza con cui il giudice di merito aveva condannato le imputate a titolo di concorso morale per i reati di cui agli artt. 613 e 591 c.p., pur non risultando possibile l’individuazione degli autori materiali di tali condotte).
Cass. III, 16 luglio 2015, n. 34985, Caradonna
264454
In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo causale alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un consapevole contributo positivo – morale o materiale – all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità a titolo di concorso del titolare dell’abitazione che aveva offerto ospitalità al detentore dello stupefacente, consentendogli l’uso di una cantina per custodire la droga e che, al momento della perquisizione, aveva tentato di occultare le chiavi dell’autovettura all’interno della quale erano custodite le chiavi della predetta cantina).
Cass. III, 12 maggio 2015, n. 27072, Bertelli
264343
Nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può eccedere nel “quantum” né l’ammontare del profitto complessivo, né in caso di imputato cui non sono attribuibili tutti i reati accertati – il profitto corrispondente ai reati specificamente attribuiti al soggetto attinto dal provvedimento ablatorio. (Fattispecie relativa ad associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento di confisca, con rinvio per l’individuazione del profitto anche avendo riguardo alla necessità di individuare gli specifici reati fine attribuibili a ciascun coimputato). M
Conforme Sezioni Unite
Cass. S.U. 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.A.
239926
In tema di responsabilità da reato degli enti, nel caso di illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso.
Difforme
Cass. V, 12 dicembre 2014, n. 20101/15, Giallongo
263835
In caso di concorso di persone nel medesimo reato, la confisca per equivalente non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di prezzo o profitto a lui attribuibile, anche quando nei confronti degli altri correi non può essere disposto alcun provvedimento ablatorio, attesa la natura sanzionatoria di tale tipologia di misura.
Cass. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani
264124
È configurabile il concorso eventuale nel delitto di corruzione, reato a concorso necessario ed a struttura bilaterale, sia nel caso in cui il contributo del terzo si realizza nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all’uno o all’altro dei concorrenti necessari, sia nell’ipotesi in cui si risolve in un’attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari. (Fattispecie in cui la Corte ha considerato immune da vizi l’ordinanza del Tribunale del riesame cha aveva ritenuto sussistente il concorso eventuale in corruzione in relazione all’attività di intermediazione svolta da persona estranea alla P.A., e consistita nell’avere assunto stabilmente una funzione di collegamento tra il pubblico ufficiale, suo diretto referente, ed il privato, dal quale aveva percepito una remunerazione mensile per tale ragione e quale corrispettivo delle condotte contrarie ai doveri d’ufficio commesse dal pubblico ufficiale).
Cass. V, 25 novembre 2014, n. 9266/15, P.C., Tronfi e altri
263619
In tema di reati fallimentari, nei confronti del responsabile del controllo interno di una società di intermediazione finanziaria è configurabile, a titolo di compartecipazione criminosa, il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in considerazione della posizione di garanzia di cui il medesimo è titolare e dei doveri che gli sono attribuiti alla luce del contenuto dell’art. 57 del regolamento adottato dalla Consob con delibera n. 11522 dell’1 luglio 1998, in attuazione del D.Lgs. 1998, n. 58, ma non anche il delitto di bancarotta documentale, non essendo egli tenuto alla verifica della contabilità dell’impresa ai differenti fini della ostensibilità ai terzi dell’esatta situazione patrimoniale e finanziaria della stessa.
Cass. IV, 27 aprile 2015, n. 22042, Donatelli,
263499
Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello della cooperazione colposa purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano presenti gli elementi della colpa, in particolare la finalizzazione della regola cautelare violata alla prevenzione del rischio dell’atto doloso del terzo e la prevedibilità per l’agente dell’atto del terzo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto configurabile il concorso colposo del medico nel delitto doloso di omicidio commesso dal paziente, suicidatosi nelle immediatezze del fatto, avendo egli, attestato, contrariamente al vero, che l’imputato non era affetto da turbe psicofisiche, così da consentirgli di ottenere il porto d’armi).
Massime precedenti Conformi: N. 875 del 1988 Rv. 177472, N. 39680 del 2002 Rv. 223214, N. 10795 del 2008 Rv. 238957, N. 4107 del 2009 Rv. 242830, N. 34748 del 2010 Rv. 248343
Massime precedenti Difformi: N. 5017 del 1991 Rv. 187331, N. 9542 del 1996 Rv. 206798
Massime precedenti Difformi Sezioni Unite: N. 2720 del 1990 Rv. 183495
Cass. VI 2 dicembre 20154, n. 11295/15, Vignati
263169
Il concorso omissivo nel reato ai sensi dell’art. 40, comma secondo, c.p. si distingue dalla fattispecie di omessa denuncia di reato, di cui all’art. 361 c.p., in quanto in quest’ultima ipotesi il pubblico ufficiale si limita ad omettere o ritardare di denunciare un reato di cui sia venuto a conoscenza, nella prima, invece, non pone in essere un comportamento doveroso, di carattere positivo che avrebbe potuto impedire la commissione di un reato.
Cass. V, 22 ottobre 2014, n. 50348, Serpetti
263225
In tema di bancarotta fraudolenta, in caso di concorso “ex” art. 40, comma secondo, c.p., dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, ad integrare il dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale.
Massime precedenti Conformi: N. 11654 del 1994 Rv. 199876, N. 12897 del 1999 Rv. 214863, N. 29896 del 2002 Rv. 222389, N. 38712 del 2008 Rv. 242022
Cass. II; 14 novembre 2014, n. 49486, Cancelli
261003
In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ex art. 116 c.p. può essere configurata solo quando l’evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale) e, dunque, a condizione che non sia stato considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto configurabile a carico dell’imputato, autore materiale di una rapina impropria, il concorso ex art. 110 c.p. in relazione alle lesioni, che i correi durante la fuga provocavano alla vittima).
Massime precedenti Conformi: N. 4330 del 2012 Rv. 251849, N. 3167 del 2014 Rv. 258604
Cass. I 13 giugno 2014, n. 39567, Treccarichi
260904
In relazione al delitto di trasferimento fraudolento di valori, colui che si rende fittiziamente titolare di denaro, beni o altre utilità, al fine di eludere le norme in materia di prevenzione patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione di reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde, a titolo di concorso, del medesimo reato ascritto a colui che ha operato la fittizia attribuzione, in quanto, con la sua condotta cosciente e volontaria, contribuisce alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Massime precedenti Conformi: N. 38733 del 2004 Rv. 230109, N. 14626 del 2005 Rv. 231379, N. 30165 del 2007 Rv. 237595
Cass. V, 5 marzo 2014, n. 26399, Zandano
260215
Sussiste la responsabilità, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, del presidente del collegio sindacale qualora sussistano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo – e, pertanto l’inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori – esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole accettazione del rischio che l’omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori. (Nella specie la S.C. ha ritenuto elementi significativi le circostanze che l’imputato fosse, 1) espressione del gruppo di controllo della società, 2) avesse rilevante competenza professionale, e 3) avesse omesso, malgrado la situazione critica della società, ogni minimo controllo).
Cass. I, 10 gennaio 2014, n. 9284, Losurdo
259250
In tema di tentativo il concorrente nel reato plurisoggettivo, per beneficiare della desistenza volontaria, non può limitarsi ad interrompere la propria azione criminosa, occorrendo, invece, un “quid pluris” consistente nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva e nella eliminazione delle conseguenze dell’azione che fino a quel momento si sono prodotte.
Massime precedenti Conformi: N. 9775 del 2008 Rv. 239175, N. 27323 del 2008 Rv. 240737