Di Renato Bricchetti

1. Consumazione e tentativo

Cass. S.U. 14.12.1999, Campanella

Momento consumativo dell’estorsione

1. Con sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila del 30 ottobre 1998 in parziale riforma di decisione del Tribunale di Teramo del 26 giugno 1995, CARLO è stato condannato alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione e lire un milione di multa per il delitto di estorsione tentata in danno di <CESARE>.
Il fatto era avvenuto in CASTELLALTO il 14 novembre 1994 allorché il <CARLO> è stato arrestato, a seguito di intervento dei Carabinieri predisposto su richiesta del <CESARE>, subito dopo aver ricevuto da questi una busta contenente cinquecentomila lire, pretese per proteggerlo da aggressioni che avrebbe altrimenti subito da concorrente in affari.
Il Tribunale, a causa del predisposto intervento dell’Arma, aveva ritenuto la figura del tentativo in luogo dell’estorsione consumata contestata (con la continuazione e la recidiva) e, a seguito dell’impugnazione del Procuratore della Repubblica, che aveva chiesto che fosse riconosciuta la sussistenza del reato consumato, e dell’imputato, che aveva affermato che il reato non sussisteva perché la somma gli era stato offerta del <CESARE> per appianare divergenze con un concorrente in affari senza che fosse intervenuta violenza alcuna, e comunque la riduzione della pena, la Corte dell’Aquila aveva diminuito la pena nella misura già indicata (esclusa la continuazione e la recidiva ritenuta equivalente all’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. concessa) mantenendo però la qualificazione del fatto come estorsione tentata.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione sia l’imputato sia il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila.
Per il primo la decisione deve essere annullata perché il fatto non costituisce reato in quanto il fatto stesso, come apprezzato dalla Corte, non è inquadrabile in alcuna fattispecie di reato.
Il Procuratore Generale invece chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per erronea applicazione della legge penale sul momento consumativo del delitto di estorsione. Invero, sostiene il ricorrente i fatti estranei al rapporto estorsore – estorto non influiscono sugli elementi costitutivi del reato, sicché il conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno sono dati oggettivi che si realizzano con il semplice passaggio del denaro dalle mani della vittima a quelle dell’estorsore, anche se ciò avviene alla occulta presenza delle forze dell’ordine, e nessuna rilevanza può accordarsi alla durata della detenzione, che può essere anche di estrema brevità.
La Seconda Sezione della Corte, rilevando che sul punto vi è contrasto nelle decisioni della Corte stessa, ha rimesso il ricorso a queste Sezioni Unite per la sua soluzione.
3. La questione controversa nelle decisioni delle Sezioni Semplici della Corte, e rimessa alle Sezioni Unite per la sua risoluzione, concerne il momento consumativo del delitto di estorsione, se cioè tale delitto debba ritenersi consumato o solo tentato allorché la cosa estorta, e nel caso una somma di denaro, venga consegnata dalla vittima all’estorsore previa predisposizione di intervento della polizia che provveda immediatamente all’arresto del reo e alla restituzione della cosa estorta alla vittima.
Il contrasto sorge sulla determinazione del momento in cui l’estorsore consegue il profitto con danno della vittima perché il delitto di cui all’art. 629 c.p., che è un reato di evento, richiede, per la sua consumazione, che l’autore, del fatto, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
Ed è proprio sulla nozione del conseguito profitto con altrui danno, esaltata nelle particolari ipotesi di immediato intervento predisposto dalla polizia, che si incentra il contrasto.
Infatti, la giurisprudenza meno recente aveva costantemente ritenuto necessario, ai fini della consumazione del delitto di estorsione, la sussistenza di un “effettivo danno” per la vittima e di un “effettivo arricchimento” per il reo, nel senso che, nel caso di predisposto intervento della polizia, si verifica sempre l’ipotesi tentata, salvo che il reo nonostante ciò sia riuscito a dileguarsi, perché l’ingiusto profitto si consegue quando la cosa sia entrata effettivamente nel patrimonio dell’agente in modo che questi possa liberamente disporne (Cass. Sez. II, 8 novembre l966, n. 15l4, <B.>, 103996; Sez. I, 28 gennaio 1966, n. 112, <P.>, 100765; Sez. I 29 gennaio 1973, n. 188, <N.>, 124227).
Successivamente – pur in presenza di alcune decisioni intermedie che avevano ritenuto il tentativo, oltre che nel caso in cui il servizio di polizia fosse riuscito ad impedire la consegna, anche “in estrema ipotesi” quando, pur avvenuta la consegna, il possesso della cosa si fosse limitato a brevi istanti (Sez. I, 10 dicembre 1971, n. 4004, <T.>, 121244) o, in peculiari fattispecie, avevano ritenuto il reato consumato con la mera disponibilità della cosa per un breve periodo di tempo, non essendo necessario che il profitto siasi materialmente realizzato (Sez. I, 29 aprile 1977, n.10637, <T.>, 136687), peraltro ricordando che il tentativo era configurabile soltanto se il servizio di polizia avesse impedito la consegna (Sez. I, 7 dicembre 1978, n. 1589, <F.>, 141140) – la giurisprudenza della Corte si è attestata nel ritenere che, nella fattispecie qui in considerazione, il profitto si consegua non appena l’estorsore ha ricevuto la somma o il bene estorto, indipendentemente dalla durata dell’impossessamento, che è svincolato da criteri spazio temporali e che può essere anche momentaneo, sicché l’evento si realizza e la fattispecie è integrata con il profitto così conseguito, non essendo richiesta né l’autonoma disponibilità del bene, né il perdurare o il protrarsi del profitto e del danno patrimoniale (tra le tante: Sez. II, 23 maggio 1972, Monne, 122623; Sez. I, 12 marzo 1982, <T.>, 153396; Sez. II, 16 febbraio 1987, n. 9454, <B.>, 176613; sez. VI, 2 maggio 1987,n. 10877, <C.>, 176854; Sez. II, 25 maggio 1990, n. 3772, <B.>, 186776; Sez. II, 17 novembre 1992,n. 47, <B.>, 193156; Sez. II, 18 febbraio 1997, n. 640, <C.>).
Invece, secondo l’orientamento minoritario e non recente (Sez. II, 28 ottobre 1988, n. 17410, <F.>, 182843; Sez. I, 17 marzo 1982, n. 7836, <F.> 154993; sez. II, 19 aprile 1983, <G.>, n. 8572, 160748; Sez. II, 12 dicembre 1984,n. 2929, <B.>, 168541), che la Seconda Sezione di questa Corte che ha rilevato il contrasto condivide, il profitto si realizza quando vi sia l’impossessamento del bene estorto e cioè la cosa sia uscita dalla sfera giuridico – patrimoniale del soggetto passivo e, correlativamente, sia entrata in quella del soggetto attivo, con la conseguenza che quel fugace contatto con il bene determinato dall’immediato intervento della forza pubblica fa sì che il possesso sia meramente apparente e fittizio; il possesso del bene deve avere quindi una durata apprezzabile, e ciò anche in relazione al servizio di polizia: se questo non è stato efficiente il reato è consumato ancorché il colpevole sia stato arrestato poche ore dopo il fatto (sent. <F.>), mentre se è stato efficiente il delitto rimane allo stadio di tentativo perché l’agente, malgrado la momentanea detenzione, non ha tratto alcuna utilità dal bene e, d’altro canto, nessun danno ha patito il soggetto passivo per la momentanea perdita del bene stesso (sent. <F.>).
Per quanto concerne infine le posizioni della dottrina conviene segnalare che quella meno recente è per la ravvisabilità del reato consumato perché non bisogna confondere il profitto con l’uso che il colpevole intendeva fare, ad esempio con l’atto o con la somma, fatti questi che sono oltre la perfezione e la consumazione del delitto; e del resto il ricupero immediatamente fatto non è che la prova che il danno già sussisteva, ‘mentre il ricupero non ha funzione diversa da quella del risarcimento e della restituzione.
L’orientamento dottrinario più recente è invece concorde nel ritenere – e l’indirizzo minoritario della giurisprudenza riflette tale posizione – che nell’ipotesi prefigurata sussiste solo il tentativo perché il conseguimento del profitto richiede l’acquisizione di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori del controllo dell’offeso o di terzi, mentre la semplice apprensione momentanea del bene non costituisce impossessamento; si precisa peraltro che, potendo essere il profitto anche non patrimoniale, integra il reato consumato l’uso momentaneo della cosa che dia piacere o godimento ancorché la cosa sia restituita subito dopo l’uso, e cosi anche la distruzione della cosa nel momento della sua apprensione.
Qui giunti si deve constatare come la controversia si incentri, sia varie sfumature, sulla nozione di conseguito profitto, o meglio sulla sua estensione, senza peraltro inquadrarlo nella struttura della fattispecie considerata nella sua modalità lesiva, per trarne conseguenze coerenti, non influenzate dalla ipotesi del predisposto intervento della polizia, alla cui casistica peraltro si possono trarre solo incerti parametri di riscontro.
Il rilevare che nell’estorsione il conseguito ingiusto profitto (con altrui danno) è l’evento del reato, mentre nel furto o nella rapina il profitto è riguardato solo sotto il profilo soggettivo del dolo specifico, non fornisce il limite di tale profitto, dal momento che è pacifico che esso non possa essere confuso con l’utilizzazione del bene estorto mentre si discute solo se debba consistere in un impossessamento inteso come disponibilità autonoma.
Del resto il profitto è evento del reato non solo nella estorsione ma anche nella truffa ed è comunemente ammesso che perché in questo delitto sussista il profitto non è necessario che l’agente consegua il vantaggio o la locupletazione sperati.
È altresì noto che quando il legislatore usa termini pregnanti di significati, questi non possono essere delineati se non vengono considerati nello stampo della singola fattispecie che li connota secondo il suo specifico modello lesivo. Per un esempio di questo tipo si pensi al concetto non unitario di “abuso”, di poteri o di altre situazioni, che può indicare sia l’esercizio di un potere inesistente (art. 498 c.p.), sia l’approfittarsi di una data situazione (artt. 643, 661 c.p.), sia l’esercizio di potere in modo difforme da quello in cui doveva effettuarsi (art. 486,487 c.p.), sia un cattivo uso del potere (artt. 61 n. 9, 326 c.p.), sia un uso della qualità o del potere a fini coattivi (art. 317 c. p.)
La nozione di profitto del delitto di estorsione, quindi, si può definire solo se inserita nella struttura della fattispecie di estorsione, della quale è l’evento.
La modalità lesiva di tale fattispecie, che la tipicizza rispetto ad altre, anche di confine, è infatti costituita da una condotta coattiva dell’agente che priva della libertà di autodeterminarsi nelle disposizioni patrimoniali il soggetto passivo, che così è costretto a fare o ad omettere qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto od omesso, da cui consegue il profitto per l’agente o per altri, con altrui danno patrimoniale.
Pertanto, il nucleo lesivo dell’estorsione è costituito dal comportamento coatto della vittima e il profitto, collegato al comportamento coatto, al facere o al pati, di tale comportamento segna l’esito, l’evento, appunto.
E, quindi, come per la sussistenza del profitto non si richiede l’utilizzazione del bene estorto secondo gli intendimenti del colpevole così non si può esigere che il profitto sia mediato dall’impossessamento inteso come disponibilità autonoma, estremo questo che non solo non è contemplato dalla legge, ma la cui introduzione viola la tassatività della fattispecie perché, determina restrizioni di operatività non desumibili dalla sua struttura e che, quindi, ne possono renderne arbitraria la applicazione: si pensi al caso di arresto del colpevole nella quasi flagranza perché inseguito dalla polizia e in cui può sorgere questione sulla conseguita disponibilità autonoma della cosa in base a dati spazio – temporali a dir poco irrilevanti.
Peraltro, non a caso, nell’ipotesi delittuosa di confine, la rapina propria, compare l’impossessamento: in. questa, non nell’estorsione, la violenza alla persona media il diretto impossessamento della cosa mobile altrui, laddove nella estorsione è la volontà che, piegata, media il profitto, che non può essere esteso all’impossessamento senza acquisire singolarmente note che sono proprie della rapina, per ridurre così la distinzione tra questi due delitti al tipo di coazione, se relativa vi è estorsione, se assoluta rapina.
E ciò sembra irragionevole,’ se non altro perché, di fronte ad un eguale risultato, l’impossessamento, il trattamento punitivo più severo verrebbe riservato al delitto ‘in cui la forma di coazione è meno grave, l’estorsione appunto.
Pertanto, confermando l’indirizzo interpretativo prevalente, deve ritenersi sussistente il delitto di estorsione consumato, e non solo tentato, allorché la cosa estorta venga consegnata dalla vittima all’estorsore anche se sia predisposto l’intervento della polizia, che provveda immediatamente all’arresto del reo e alla restituzione della cosa estorta alla vittima. Infatti, in tale figura delittuosa la modalità di lesione si incentra sulla coazione esercitata dall’agente sulla vittima perché tenga una condotta positiva o negativa in ambito patrimoniale, il cui esito è il profitto che il reo intende procurarsi, che non può essere integrato da altre note, quali la disponibilità autonoma della cosa, senza violare la tassatività della fattispecie.
Ne consegue che deve essere accolto il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila avverso la sentenza di quella Corte, che erroneamente ha ritenuto, nell’ipotesi in esame, l’estorsione tentata e non quella consumata, che deve quindi essere annullata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma per nuovo giudizio.
Invece il ricorso dell’imputato deve essere dichiarato inammissibile perché il motivo di censura, con il quale afferma genericamente che il fatto, come apprezzato dalla Corte, non è inquadrabile in alcuna fattispecie di reato, è privo del requisito della specificità.

Cass. s.u. 17 luglio 2014, P.G. in proc. Prevete

La condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, non è qualificabile come furto consumato ma come furto tentato, anche allorquando l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza deliberata l’11 febbraio 2013 e depositata il 25 febbraio 2013, il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, giudicando col rito abbreviato, instaurato in esito alla convalida dell’arresto e alla presentazione per il giudizio direttissimo, ha condannato, nel concorso della attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (reputata equivalente alla aggravante dell’uso della violenza sulle cose e alla recidiva), nonchè della diminuente del rito, alla pena della reclusione in tre mesi e della multa in cento Euro C.J. e P.G., dichiarati responsabili del furto tentato, commesso, in concorso tra loro, a danno del centro commerciale (OMISSIS), così riqualificata la originaria imputazione di furto consumato.
Il Tribunale ha accertato che i giudicabili, entrambi confessi, avevano prelevato dai banchi di esposizione del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti; avevano lacerato le confezioni, rimuovendo la “placchette antitaccheggio”; avevano occultato la refurtiva, celandola dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato); ed erano usciti dal centro commerciale.
All’esterno del fabbricato l’addetto alla sicurezza, F.M., il quale si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l’intervento della polizia giudiziaria che aveva tratto in arresto i due imputati.
2. Con riferimento a quanto serba rilievo nella sede del presente scrutinio di legittimità, sul punto della definizione giuridica del fatto, il Tribunale ha motivato che la concorsuale condotta delittuosa doveva essere derubricata nella ipotesi del tentativo, in quanto tutta la azione si era “svolta sotto gli occhi dell’addetto alla sicurezza il quale aveva monitorato ogni spostamento” dei due imputati e aveva deciso “di bloccarli alla rectius: dopo la barriera delle casse, anziché durante la sottrazione, per mere ragioni di opportunità”.
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte territoriale ha proposto ricorso immediato per cassazione … omissis

4. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 30 aprile 2014 l’ha rimesso alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 c.p.p..
La ordinanza ha rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, oggetto del ricorso, della qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all’atto del passaggio davanti al cassiere, quando tutta la azione delittuosa si è svolta sotto il controllo costante del personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la barriera delle casse.
4.1. Secondo un primo orientamento, invocato dal Procuratore generale ricorrente e che è stato, da ultimo ribadito con sentenza Sez. 5, n. 20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv. 256499, la condotta in parola integra gli estremi del delitto di furto consumato, nulla rilevando, al riguardo, “la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza” (così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin, Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650; Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010, Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto, Rv. 240493).
L’indirizzo in parola sostiene che il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera la cassa, senza mostrare (nè pagare) la refurtiva celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale, solo allora, “consegue istantaneamente il possesso illegittimo … indipendentemente dal monitoraggio svolto dal personale del supermercato”. Mentre, nulla rileva che fino a quell’istante il cliente, autorizzato ad apprendere dal banco di esposizione e a portare con sè la merce prelevata, “non la lasci in vista, avendola riposta nelle tasche dell’abito o in un qualsiasi contenitore”.
4.2. Secondo l’orientamento opposto, pur citato dal ricorrente, la concomitante “sorveglianza continua dell’azione criminosa” da parte del soggetto passivo o dei suoi dipendenti impedisce la consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella “sfera di vigilanza e di controllo diretto dell’offeso, il quale può in ogni momento interrompere” la condotta delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010, Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del 06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 4, n. 38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; Sez. 5, n. 7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D’Aniello, Rv. 249835; e, in tema di rapina impropria, Sez. 2, n. 8445 del 05/02/2013, Niang, n.m.).
4.3. In conclusione, sulla base del rilevato contrasto, la Sezione rimettente ha sottoposto la questione della consumazione del delitto di furto, in costanza del concomitante monitoraggio ad opera degli addetti alla sorveglianza, della condotta dell’agente, il quale, appresa la merce in esposizione, abbia superato la barriera della cassa, occultando quanto sottratto prima di essere bloccato dal personale di vigilanza.
5. Con decreto del 30 maggio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali e ne ha fissato la trattazione per la odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite, siccome formulata dalla Sezione rimettente, si sostanzia nel quesito seguente: “Se la condotta di sottrazione di merce all’interno di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato allorchè l’autore sia fermato dopo il superamento della barriera delle casse con la merce sottratta”.
omissis
3. Superata la questione preliminare in rito, lo scrutinio del quesito di diritto proposto involge, innanzi tutto, l’analisi dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (invocato dal ricorrente) nel senso della ritenuta consumazione del furto, nelle circostanze indicate, a dispetto della concomitante vigilanza del soggetto passivo del reato (o di suoi addetti) e dell’immediato recupero della refurtiva.
3.1. Oltre alle sentenze Rissotto, Piccolo, Nasi, Marin e Fornella, citate nella ordinanza di rimessione, la tesi della consumazione è stata affermata da pronunce della Cassazione sia risalenti nel tempo, che recentissime: tra le altre, Sez. 2, n. 938 del 24/05/1966, Delfino, Rv. 102532; Sez. 2, n. 2088 del 18/06/1973, dep. 1974, Mucci, Rv. 126456; Sez. 4, n. 7235 del 16/01/2004, Coniglio, Rv. 227347; Sez. 2, n. 48206 del 12/01/2011, Pezzuolo; Sez. 5, n. 25555 del 15/06/2012, Magliulo, n.m.; Sez. 5, n. 41327 del 10/07/2013, Caci, Rv. 257944; Sez. 5, n. 8395 del 2/10/2013, dep. 2014, La Cognata, n.m.; Sez. 5, n. 1701 del 23/10/2013, dep. 2014, Nichiforenco, Rv. 258671; Sez. 7, n. 6832 del 20/11/2013, dep. 2014, Pulsoni, n.m.; Sez. 5 n. 677 del 21/11/2013, dep. 2014, Flauto, n.m.; Sez. 4, n. 8079 del 12/12/2013, dep. 2014, Molinari, n.m.; Sez. 4, n. 7062 del 09/01/2014, Bergantino, Rv. 259263.
Nell’ambito di tale indirizzo talune pronunce hanno ravvisato la consumazione del furto ancor prima del superamento della barriera delle casse, allorchè l’agente, prelevata la mercè dal banco, “l’abbia nascosta sulla propria persona oppure in una borsa o, comunque, l’abbia occultata” (Sez. 2, Delfino, Rv. 102532, cit.), sulla base della considerazione che la condotta in parola “oltre alla amotio … determina l’impossessamento della res (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico gli elementi costitutivi del delitto di furto” (Sez. 5, Marin, Rv. 249842, cit.).
Altre sentenze hanno distinto: per un verso hanno ammesso la possibilità del tentativo (praticamente esclusa dalle decisioni testè citate in considerazione della immediatezza della consumazione), circoscrivendo la relativa ipotesi al caso dell’intervento della persona offesa o dei suoi incaricati, là dove costoro, avendo sorvegliato tutte le fasi della azione furtiva, la interrompano prima che l’agente abbia oltrepassato la barriera delle casse; per altro verso hanno ribadito che, in ogni caso, “il momento consumativo” del reato si realizza indefettibilmente quando il soggetto attivo sia passato davanti all’addetto alla cassa senza pagare, a prescindere dal concomitante monitoraggio della condotta delittuosa (Sez. 4, Coniglio, cit., richiamata, tra altre, da Sez. 4, Molinari, cit.).
3.2. La tesi della consumazione è, in generale, sostenuta dalla duplice affermazione: a) del perfezionamento della condotta tipizzata dello impossessamento della refurtiva, per effetto del prelievo della mercè, senza il successivo pagamento dovuto all’atto del passaggio davanti alla cassa; b) della irrilevanza della circostanza che “il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza” (così, da ultimo, Sez. 4, Bergantino, cit.).
La citata sentenza Sez. 5, n. 25555 del 2012, Magliulo, ha offerto un contributo di approfondimento, postulando essere condizione “necessaria e sufficiente perchè il … reato possa dirsi consumato che la persona offesa sia stata privata della detenzione e, per ciò, stesso sia stata posta nella condizione di doversi attivare, se vuole recuperala, nei confronti del soggetto che l’ha acquisita” e, in proposito, argomentando che l’agente, tosto che abbia “oltrepassato la barriera delle casse senza pagare la merce”, consegue “da quel momento la detenzione esclusiva e illecita” della refurtiva, “mentre, in precedenza, salvo il caso dell’occultamento, detta detenzione non poteva dirsi, nè esclusiva, nè illecita”.
La sentenza n. 8395 del 2013, La Cognata, cit., ha negato che il concomitante “controllo” dello sviluppo della azione delittuosa da parte del personale del personale di vigilanza impedisca la consumazione del furto, motivando: la circostanza è “del tutto estranea all’operato dell’agente”; la sorveglianza non ha impedito la violazione della norma; il recupero della refurtiva, in seguito all’eventuale intervento degli addetti alla sorveglianza, si colloca “nella fase post delictum”.
4. Anche il contrario orientamento trova ancoraggio (oltre che nelle più recenti sentenze Finizio, Lazaar, Bonora, D’Aniello e Niang, menzionate nella ordinanza di rimessione) in altre pronunce di legittimità, scandite nell’ampio arco temporale durante il quale si è protratto il contrasto di giurisprudenza: Sez. 5, n. 398 del 27/10/1992, dep. 1993, De Simone, Rv. 193177; Sez. 5, n. 11947 del 30 ottobre 1992, Di Chiara, Rv. 192608; Sez. 5, n. 837 del 03/11/1992, dep. 1993, Zizzo, Rv. 193486; Sez. 5, n. 3642 del 21 gennaio 1999, Imbrogno, Rv. 213315; nonchè (non massimate sul punto in esame) Sez. 4, n. 31461 del 03/07/2002, Carbone; Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano.
L’indirizzo si fonda sulla considerazione che la concomitante osservazione da parte della persona offesa, ovvero del dipendente personale di sorveglianza, dell’avviata azione delittuosa (al pari dei controlli strumentali mediante apparati elettronici di rilevazione automatica del movimento della merce, scilicet: sensori, placche antitaccheggio) e la correlata e immanente possibilità di intervento nella immediatezza, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del reato, per non essersi perfezionata la fattispecie tipizzata – dell’impossessamento, mediante sottrazione, della cosa altrui – in quanto l’agente non ha conseguito l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo, la cui “signoria sulla cosa” non è stata eliminata.
In proposito la sentenza n. 31461 del 2002, Carbone, cit., distingue, opportunamente, “l’intervento in re ipsa” a difesa della detenzione esercitato dalla persona offesa, dai dipendenti della stessa addetti alla vigilanza (o, quale atto dovuto, dalle forze dell’ordine) dall’intervento (meramente eventuale) dispiegato da un terzo estraneo (a tutela dell’altrui possesso); ed esclude che quest’ultimo tipo di intervento, connotato da accidentalità e “aleatorietà”, sia di ostacolo al riconoscimento della consumazione del reato, in quanto il recupero della refurtiva a opera del terzo estraneo presuppone la intervenuta perdita della signoria sulla cosa da parte del derubato.
Incisivamente la sentenza n. 8445 del 2013, Niang, cit., ha argomentato a sostegno dell’orientamento in esame che è da “ritenersi preferibile la tesi che tende a privilegiare un connotato di “effettività” che deve caratterizzare l’impossessamento quale momento consumativo del delitto di furto, rispetto al semplice momento sottrattivo, con la conseguenza che l’autonoma disponibilità del bene potrà dirsi realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto autonoma signoria che sul bene esercitava il detentore”.
5. Le Sezioni Unite ritengono di dover comporre il contrasto giurisprudenziale mediante la riaffermazione di tale secondo orientamento, nel senso della qualificazione giuridica della condotta in esame in termini di furto tentato.
La soluzione si colloca, peraltro, in linea di continuità col dictum della sentenza Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153.
Nel risolvere positivamente la questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria (anche) in difetto della materiale sottrazione del bene all’impossessamento del quale l’azione delittuosa era finalizzata, la citata sentenza ha argomentato, proprio con espresso riferimento al furto: “finchè la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore” e “questi è ancora in grado di recuperala” tanto fa “degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo”.
5.1. La quaestio iuris in esame involge il più ampio tema della definizione giuridica della azione di impossessamento della cosa altrui, tipizzata dalla norma incriminatrice.

5.2. L’art. 624, primo comma, cod. pen. contempla la condotta di chi “si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trame profitto per se o per altri”.
La formulazione normativa riecheggia e riproduce nel nucleo essenziale la previsione dell’art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889, salvo che per la significativa sostituzione dell’inciso modale del predicato verbale, contenuto nella previgente disposizione, che recitava “togliendola dal luogo in cui si trova”, avendo in tali termini il legislatore del 1989 recepito la teoria della amotio, eletta dalla dottrina dell’epoca per denotare l’impossessamento mediante, appunto, l’adozione del criterio c.d. spaziale.
La norma vigente ha espunto siffatto criterio introducendo quello personale o funzionale della sottrazione.
Sicché la descrizione della condotta delittuosa risulta scandita dal sintagma impossessamento-sottrazione.
5.3. L’analisi della dottrina in punto di definizione e di rapporto reciproco dei due segmenti della condotta delittuosa, sinergicamente configurati nel costrutto sintattico della norma incriminatrice, caratterizzato dalla adozione del verbo “sottrarre” nella subordinata, non ha, per vero, approdato a condivise conclusioni, ora accentuandosi la distinzione cronologica e logica dei momenti della sottrazione e dell’impossessamento, ora controvertendosi in ordine alla relativa sequenza, ora enfatizzando la pregnanza dell’uno piuttosto che dell’altro.
Nel caso in esame le difficoltà sono acuite da due ordini di fattori:
a) la sovrapposizione, rilevata in talune delle sentenze citate, dei piani affatto diversi della qualificazione della condotta e della prova del reato e, segnatamente, dell’elemento psicologico;
b) la relazione di tipo prenegoziale, presupposta dalla condotta delittuosa, che lega l’agente al soggetto passivo, offerente in vendita della mercè esposta, e che abilita il primo al prelievo dei beni dai banchi di esposizione.
In tale prospettiva la condotta dell’agente il quale oltrepassi la cassa, senza pagare la merce prelevata, rende difficilmente contestabile l’intento furtivo, ma lascia impregiudicata la questione se la circostanza comporti di per sè sola la consumazione del reato, quando l’azione delittuosa sia stata rilevata nel suo divenire dalla persona offesa, o dagli addetti alla vigilanza, i quali, nella immediatezza intervengano a difesa della proprietà della merce prelevata.
La nozione di impossessamento
5.4. Decisiva è, al riguardo, la premessa che in difetto del perfezionamento del possesso della refurtiva in capo all’agente è, comunque, certamente da escludere che il reato possa ritenersi consumato.
La considerazione assorbe la disamina del controverso rapporto tra la sottrazione e l’impossessamento.
Orbene, appare difficilmente confutabile – e il dato deve ritenersi acquisito per generale consenso e in carenza di veruna apprezzabile obiezione – che l’impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell’agente.
Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall’intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell’impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell’ambito del tentativo.
La conclusione riceve conforto dalla considerazione dell’oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività.
In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei “singoli tipi di reato” da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Affatto coerente risulta, pertanto, l’aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione (anche se istantanea) della “signoria che sul bene esercitava il detentore”, come esattamente individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo dell’azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di controllo dell’offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la qualificazione della condotta in termini di tentativo.
6. La conclusione raggiunta resiste alle obiezioni espresse nelle sentenze che si sono uniformate al contrario indirizzo.
6.1. Sono ricorrenti nelle pronunce in parola i riferimenti alla amotio della refurtiva da parte dell’agente.
La teoria della amotio, in linea generale, appare anacronistica in quanto non è confortata dall’addentellato normativo, in precedenza offerto dell’art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889.
Inoltre, con specifico riferimento al caso in esame, il criterio spaziale dello spostamento della cosa “dal luogo in cui si trova” non è certamente applicabile alla apprensione della merce dal banco di esposizione del negozio in quanto il sistema di vendita selfservice abilita l’avventore al prelievo.
6.2. L’argomento che la sorveglianza dell’offeso non ha impedito la violazione della norma penale non è nè concludente, nè oltretutto pertinente.
Ciò che è in discussione non è la sussistenza della attività delittuosa, bensì la relativa definizione giuridica.
6.3. Neppure appare calzante, per confutare la qualificazione della condotta de qua in termini di tentativo, la obiezione che la concomitante sorveglianza della persona offesa e la correlata possibilità di intervento immediato, a tutela della detenzione, costituiscano “circostanza del tutto estranea all’operato dell’agente”: per vero il delitto tentato si caratterizza per la mancata verificazione dell’evento dovuta a cause indipendenti dalla volontà dell’agente (Sez. U, n. 7523 del 21/05/1983, Andreis, Rv.
160247; Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153), ricorrendo altrimenti la ipotesi alternativa della desistenza prevista dall’art. 56 c.p., comma 3.
6.4. Gli ulteriori argomenti (non privi di suggestione) in ordine al rilievo della attivazione della persona offesa per il recupero della refurtiva e in ordine alla collocazione della relativa attività “nella fase post delictum” devono essere disattesi per la petizione di principio che sottendono: assumono a premessa la tesi da dimostrare della consumazione del furto colla intervenuta perdita del bene da parte del soggetto passivo; mentre si tratta della difesa della detenzione esercitata dall’offeso in continenti e resa possibile dalla perdurante presenza della res nella sfera di vigilanza e di controllo del detentore.
7. Le considerazioni che precedono consentono di formulare il seguente principio di diritto: “il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell’ordine presenti in loco,), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l’agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo”.
8. In conclusione, alla stregua del principio di diritto enunciato, il ricorso risulta infondato, sicché esso deve essere rigettato.
Cass. S.U. 19.4.2012, Reina

Momento consumativo della rapina “impropria”

È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.

3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 25 gennaio 2012, depositata il successivo 9 febbraio, ha rilevato l’esistenza di due distinti orientamenti sulla questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in cui la condotta di sottrazione della cosa non venga completata.
L’ordinanza mette a confronto le argomentazioni che sostengono i due indirizzi.
In particolare, l’indirizzo maggioritario “presta scarsa attenzione al tenore letterale della disposizione ed individua la medesima ratio, sul piano delle valutazioni politico-criminali delle fattispecie: nel delitto di rapina il legislatore, in ragione del nesso teleologico che unisce le due offese – alla libertà morale e fisica, da un lato, al patrimonio dall’altro, – ha attribuito maggior gravità al furto proprio perché per commetterlo si aggredisce un interesse ben più rilevante afferente alla persona. La stessa ratio presiederebbe la disciplina del tentativo di rapina impropria nel caso che il nesso teleologico ed il rapporto di immediatezza si configuri tra la violenza e la ricerca della impunità perché maggior gravità deve ricollegarsi alla condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene integrità fisica o morale alla persona rispetto alle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici, non collegate, le lesioni, nemmeno da un nesso di immediatezza e di strumentalità”.
Quanto all’indirizzo minoritario, secondo l’ordinanza, esso “richiamandosi al principio di stretta legalità e di tassatività della norma penale, valorizza il dato letterale che pone la sottrazione quale prius ontologico della condotta tipica della rapina impropria e configura il delitto quale fattispecie a tempo circoscritto ovvero vincolato: la sottrazione non costituirebbe una parte della condotta tipica della rapina impropria, ma solo un presupposto fattuale che deve sussistere nella sua compiutezza tanto nella consumazione quanto nel tentativo. Se così non si ragionasse, si dovrebbe configurare la sottrazione quale inizio della esecuzione della fattispecie, con risultati ingiusti e paradossali perché in violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali e del favor rei. Si aggiunge, peraltro, che, in difetto di una sottrazione completamente attuata, la violenza o la minaccia non potrebbero essere considerati diretti e in modo inequivoco a commettere una rapina impropria. Ed, ancora, che il dolo volto solo alla sottrazione non potrebbe, in corso di opera, in seguito ad una condotta volta a garantirsi l’impunità, convertirsi nel dolo di rapina, anche impropria, che presupporrebbe una volontà rappresentativa fin dall’inizio di usare comunque violenza e minaccia anche dopo solo una sottrazione tentata. Ed infine, quanto alla ratio ed alle ragioni di politica criminale, si sottolinea il minor disvalore giuridico – sociale della condotta di chi usi minaccia e violenza per garantirsi solo l’impunità, senza aver sottratto nulla, dalla condotta di chi agisce con l’intento di sottrarre ad altri ed impossessarsi così della cosa altrui e di conseguenza, in aggiunta, di garantirsi l’impunità”.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2012, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
… omissis
Considerato in diritto
1. Il motivo di ricorso pone la seguente questione di diritto, in relazione alla quale il ricorso stesso è stato rimesso a queste Sezioni Unite: “Se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità”.
2. Come già rilevato dall’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario della Cassazione ed anzi consolidato fino al 1999, è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Per tale soluzione, volendo limitare la citazione alle pronunce massimate degli ultimi anni, si esprimono Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011, Lanza, Rv. 249390; Sez. 2, n. 44365 del 26/11/2010, Panebianco, Rv. 249185,; Sez. 2, n. 42961 del 18/11/2010, CI., Rv. 249123; Sez. 2, n. 36723 del 23/09/2010, Solovchuk Rv. 248616; Sez. 2, n. 22661 del 19/05/2010, Tushe, Rv. 247431; Sez. 2, n. 23610 del 12/03/2010, Russomanno, Rv. 247292; Sez. 6, n. 25100 del 29/04/2009, Rosseghini, Rv. 244366; Sez. 2, n. 3769 del 16/12/2008, dep. 2009, Solimeo, Rv. 242558; Sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, Bastea, Rv. 241666; Sez. 2, n. 19645 del 08/04/2008, Petocchi, Rv. 240408; Sez. 2, n. 20258 del 26/03/2008, Boudegzdame, Rv. 240104; Sez. 2, n. 29477 del 29/02/2008, Chirullo, Rv. 240640; Sez. 2, n. 38586 del 25/09/2007, Mancuso, Rv. 238017; Sez. 2, n. 40156 del 10/11/2006, Taroni, Rv. 235448.
Tale orientamento si basa su una serie di argomentazioni.
La prima è espressa da una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma secondo, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare quella che configura la forma tentata del reato in questione ogni qual volta l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi, fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi.
Pertanto allorché un tentativo di furto sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria (Sez. 2, n. 42961 del 2010 cit. e Sez. 2, n. 7264 del 2004 cit.).
Altra argomentazione fa riferimento al concetto di fattispecie criminosa complessa, alla quale deve ricondursi anche la rapina impropria, ed afferma che le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, sicché l’unitarietà della rapina resta tale anche quando dette condotte si arrestino ad ipotesi tentate. Non sarebbe, in altri termini, consentito procedere, proprio per l’unità della figura delittuosa, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfocia in violenza o minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due tronconi, l’uno configurante un delitto consumato contro la persona (lesioni, minaccia o altro) e l’altro un delitto tentato contro il patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti ad un reato complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione organica, la quale non può non portare a concludere che è stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria, anche se non si era conseguita la sottrazione del bene altrui (Sez. 2, n. 19645 del 2008 cit. e altre). Su tali basi si precisa che la violenza successiva alla sottrazione non sta a rappresentare, in questa prospettiva, un concetto di esaurimento “consumativo” del primo momento in cui si articola la condotta criminosa, ma intende normativamente sottolineare esclusivamente il profilo cronologico e funzionale che colloca quella condotta come un prius rispetto all’altra, lasciando inalterata l’applicabilità, a quella stessa condotta, degli ordinari principi in tema di tentativo (Sez. 2, n 19645 del 2008, cit.).
Sotto il profilo della ratio legis, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che pur sempre usando violenza o minaccia attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
3. L’orientamento minoritario prende le mosse da Sez. 5, n. 3796 del 12/07/1999, Jovanovic, Rv. 215102, che, per la prima volta, contrasta la consolidata giurisprudenza, aprendosi piuttosto alle argomentazioni della dottrina maggioritaria, seguendola nell’opposta direzione della non ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in mancanza del presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare, nel caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Rimasta inizialmente del tutto isolata, detta tesi è stata, successivamente, seguita anche da Sez. 5, n. 16952 del 14/12/2009, dep. 2010, Mezzasalma, Rv. 246860; Sez. 6, n. 4264 del 10/12/2008, dep. 2009, Coteanu, Rv. 243057; Sez. 6, n. 10984 del 27/11/2008, dep. 2009, Strzezek, Rv. 243683; Sez. 6, n. 43773 del 30/10/2008, Muco, Rv. 241919; Sez. 5, n. 32551 del 13/04/2007, Mekhatria, Rv. 236969.
Tale orientamento si basa in primo luogo e principalmente sull’elemento letterale, affermando che “il capoverso dell’art. 628 c.p. impone claris verbis che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di violenza o minaccia (..adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione..) sicché l’agente, qualora – sorpreso prima di aver compiuto la sottrazione – usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata rapina ma di tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia […] Nella formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile nesso temporale tra sottrazione e violenza/minaccia finalizzata rappresenta l’essenza caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il secondo comportamento, qualora rimanga avulso dal primo (venuto a mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato di lesioni e/o minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti all’impossessamento (che non raggiungano, tuttavia, la soglia della sottrazione) consente ancora la configurabilità del tentativo di furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina impropria. In definitiva, la mancanza di sottrazione della cosa impedisce che la violenza successiva possa assurgere anche solo al rango di atto idoneo diretto in modo non equivoco alla commissione di una rapina impropria” (Sez. 5, n. 3796 del 1999).
4. Ad avviso delle Sezioni Unite non si ravvisano argomentazioni idonee a superare il risalente e più volte ribadito, anche in tempi recenti, orientamento maggioritario.
5. Occorre, in primo luogo, sgombrare il campo dalla suggestiva argomentazione, sostenuta dal ricorrente sulla scia della prevalente dottrina, secondo la quale il tenore letterale del capoverso dell’art. 628 c.p. sarebbe tale che la tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il principio di legalità e con il divieto di analogia.
Queste Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano) che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vivente” quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta interpretazione (Corte EDU, 02/11/2006, Milazzo e. Italia; Grande Camera, 17/02/2004, Maestri e. Italia; 17/02/2005, K.A. e A.D. c. Belgio; 21/01/2003, Veeber c. Estonia; 08/07/1999, Baskaya e Okcuoglu c. Turchia; 15/11/1996, Cantoni c. Francia; 22/09/1994, Hentrich c. Francia; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; 08/07/1986, Lithgow e altri c. Regno Unito).
Non vi è dubbio che nel caso in esame la prevedibilità del risultato interpretativo con riferimento al “diritto vivente” è piuttosto rappresentata da una giurisprudenza, non proprio maggioritaria, ma addirittura granitica, per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi. Si discute, pertanto, della modifica di un risultato interpretativo “normalmente” prevedibile, in quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, e ciò può avvenire solo nel caso in cui tale risultato contrasti, in modo chiaro ed evidente, con i principi di precisione e di stretta interpretazione. In verità, si tratta di una questione sulla quale si è manifestata in modo evidente la differenza tra gli orientamenti assunti dalla quasi totalità della giurisprudenza di legittimità e gli approdi ermeneutici cui è pervenuta la maggior parte della dottrina. Gli argomenti a favore della tesi giurisprudenziale minoritaria si traggono, quindi, soprattutto dalla dottrina, alla quale si richiama il ricorrente, e con tali argomenti occorre confrontarsi.
6. Su alcune considerazioni di base può ritenersi che vi sia sufficiente concordia di opinioni.
Nelle diverse fattispecie descritte nell’art. 628 c.p. si manifesta chiaramente la scelta normativa di tutelare i beni giuridici patrimonio e persona, o, per meglio dire, i beni della inviolabilità del possesso e contestualmente della sicurezza e libertà della persona.
Vi è ampio consenso nel riconoscere il carattere plurioffensivo del reato di rapina e la sua caratteristica di reato complesso: la condotta disegnata nell’art. 628 c.p., infatti, è costituita dalla stessa azione di sottrazione-impossessamento tipica del furto, cui si aggiunge l’elemento della violenza alla persona o della minaccia. Da qui la natura complessa del reato, risultante dalla commistione del reato di furto con il corrispondente reato relativo al tipo di violenza di volta in volta esercitata (percosse, minacce).
Sotto la comune denominazione di rapina il codice colloca, però, due ipotesi distinte dalla diversa successione delle condotte che compongono il delitto di rapina e da una differente direzione finalistica del comportamento violento o minaccioso. Nel caso in cui la violenza o la minaccia esercitate rappresentino il mezzo, precedente o concomitante rispetto all’impossessamento, usato per perseguire l’offesa al patrimonio, si realizza l’ipotesi della rapina c.d. propria.
Quando invece la violenza o la minaccia servono come mezzo per assicurare il possesso della cosa sottratta o, in alternativa, per procurare a sé o ad altri l’impunità, si avrà la diversa fattispecie definita rapina impropria.
Nelle due figure certamente il ruolo centrale è assunto dalla violenza o dalla minaccia, che nella rapina propria precedono lo spossessamento e sono funzionali ad esso, mentre nella rapina impropria seguono al medesimo, ma entrambe le figure presuppongono che l’agente non abbia il possesso della cosa che vuole sottrarre.
Entrambe le fattispecie legali sono considerate dal legislatore equivalenti sotto il profilo sanzionatorio.
7. Alla tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria anche nel caso in cui non venga portata a compimento la sottrazione della cosa mobile altrui si muove, principalmente, la critica di trascurare il dato testuale del capoverso dell’art. 628 c.p., che sarebbe esplicito nel richiedere che violenza e minaccia siano utilizzate “dopo la sottrazione”.
Tale critica appare infondata.
Deve osservarsi che la formulazione della norma in esame ha una spiegazione logica ben precisa: il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” intendeva stabilire il nesso temporale che deve intercorrere tra i segmenti dell’azione criminosa complessa, ma non anche definire le caratteristiche, consumate o tentate, di tali segmenti. In altri termini, nella formulazione della norma svolge un ruolo centrale la necessità di un collegamento logico-temporale tra le condotte di aggressione al patrimonio e di aggressione alla persona, attraverso una successione di immediatezza. È necessario e sufficiente che tra le due diverse attività concernenti il patrimonio e la persona intercorra un arco temporale tale da non Interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere. Questo è il punto centrale e il solo indefettibile della norma incriminatrice del comma secondo dell’art. 628 c.p. che giustifica l’equiparazione del trattamento sanzionatorio tra la rapina propria e quella impropria, indipendentemente dall’essere quelle stesse condotte consumate o solo tentate.
Del resto, lo stesso dato testuale suggerisce, ponendo in alternativa la finalità di assicurarsi il possesso e quella di procurarsi l’impunità, che quest’ultima finalità può sussistere anche senza previa sottrazione. In altri termini, la norma in esame punisce la violenza o la minaccia anche se queste vengano poste in essere per assicurarsi l’impunità, cioè esse non vengono considerate per sé sole o in un contesto distinto e separato e, pertanto, il legislatore ha voluto che fossero punite non come tali, cioè come entità giuridiche a sé stanti, ma con riferimento all’attività criminosa per la quale il reo intendeva assicurarsi l’impunità, attività la quale, pur se sintetizzata nel termine “sottrazione”, non può non comprendere tutte le fasi in cui essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del tentativo di impossessamento a quello finale dell’impossessamento della cosa che ne è oggetto.
8. La tesi propugnata dal ricorrente richiama quella dottrina che configura la sottrazione come un mero presupposto del reato di rapina impropria e non come parte della condotta di tale reato. Ma proprio tale ricostruzione teorica della fattispecie dimostra che il semplice dato testuale non è così chiaro e univoco come si afferma, se per interpretarlo è necessario fare ricorso a categorie dogmatiche quanto meno di dubbia applicabilità nel caso di specie.
Secondo tale tesi, la sottrazione del bene è presupposto di fatto e non condotta tipica del reato, con la conseguenza che, se l’art. 56 c.p. consente di equiparare sul piano della tipicità la condotta compiuta e gli atti idonei diretti in modo non equivoco al suo compimento, la clausola di apertura del tentativo può riguardare solo la condotta tipica del reato e non i presupposti di fatto della condotta. In questa costruzione teorica, inoltre, non ha senso porsi il problema di una causazione volontaria del presupposto, essendo invece determinante ai fini del dolo che il soggetto se ne rappresenti l’esistenza.
Di contro deve osservarsi che è ben difficile attribuire natura di mero presupposto alla sottrazione, trattandosi pur sempre di una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo di un elemento naturale o giuridico anteriore all’azione delittuosa ed indipendente da essa. L’unico presupposto della rapina, nelle sue varie forme, è la mancanza di possesso della cosa oggetto dell’azione.
Non si comprende, poi, perché nella struttura della rapina propria, in cui la violenza o la minaccia precedono e sono funzionali all’impossessamento, si possano ravvisare due condotte tipiche, entrambe suscettibili di estensione con il meccanismo del tentativo, mentre nel caso della rapina impropria la sola condotta tipica sarebbe quella della violenza o minaccia e la sottrazione si configurerebbe come mero presupposto. Il delitto di rapina ha, nelle sue due configurazioni, natura unitaria, quale reato plurioffensivo, in cui, con l’azione violenta e la sottrazione del bene, si aggrediscono contemporaneamente due beni giuridici, il patrimonio e la persona. Del resto, è opinione ampiamente condivisa quella della natura unitaria del reato complesso; pertanto, se la rapina costituisce un reato composto risultante dalla fusione di due reati, non se ne può scindere l’unità valutando separatamente i componenti costitutivi delle figure criminose originarie; e se l’art. 628 c.p., opera un’unificazione tra fattispecie consumate, la stessa unificazione dovrebbe continuare a valere, salvo il diverso titolo di responsabilità, quando una di esse si presentasse nello stadio del tentativo.
D’altro canto, non condivisibile appare la lettura dell’elemento della sottrazione come presupposto di fatto che non deve necessariamente essere oggetto di dolo, purché l’agente se ne rappresenti l’esistenza, poiché ciò equivarrebbe a dire che l’elemento soggettivo di un delitto contro il patrimonio mediante violenza alle persone non dovrebbe necessariamente cadere sulla condotta di aggressione al patrimonio, limitandosi ad investire la condotta di violenza o minaccia, con la conseguenza paradossale che si potrebbe rispondere di rapina impropria per una sottrazione non voluta. In realtà, il dolo richiesto dalla fattispecie è stato definito doppiamente specifico, in quanto integrato dal dolo del furto, implicitamente richiamato, e dall’ulteriore scienza e volontà di usare la violenza o minaccia al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o di procurare a sé o ad altri l’impunità.
9. La tesi che sta a fondamento del ricorso, sempre per giustificare l’affermazione di indefettibilità del dato, che si pretende testuale, della sottrazione compiutamente realizzata, fa ricorso alla impostazione teorica secondo cui lo schema del delitto tentato può ritenersi riferibile al reato complesso globalmente considerato anche allorquando un troncone della condotta sia giunto a perfezione e l’altro sia rimasto allo stadio del tentativo penalmente significativo, ma soltanto se la porzione della condotta compiutamente realizzata è quella che la norma richiede sia realizzata per prima, oppure allorquando l’ordine cronologico di realizzazione appaia indifferente, condizione quest’ultima che non si realizzerebbe nella fattispecie di rapina impropria, nella quale l’ordine dei fatti è sovvertito rispetto alla sequenza tipica.
In verità, è opinione largamente diffusa, e certamente preferibile, che si ha tentativo di delitto complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell’una né dell’altra componente, sia quando sia stata raggiunta la consumazione dell’una e non quella dell’altra.
Ciò, come si è detto, può ritenersi pacifico con riferimento al delitto di rapina propria, né diversamente può opinarsi con riguardo al delitto di rapina impropria, trattandosi di affermazione indimostrata che l’ordine dei fatti di cui alla rapina propria debba considerarsi ^tipica”; anzi, è lo stesso legislatore che, equiparando le due fattispecie del primo e del secondo comma dell’art. 628 c.p., mostra di considerare indifferente la sequenza, ferma rimanendo la tipologia delle singole componenti del reato complesso.
Del resto, anche i sostenitori dell’interpretazione qui disattesa riconoscono che sia configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato un’azione violenta o anche minacciosa nei confronti della vittima del reato o di terzi per assicurarsi il possesso del bene. Non si vede, pertanto, la ragione di negare la configurabilità del tentativo nel caso in cui rimanga incompiuta l’azione di sottrazione della cosa altrui.
Si afferma anche che una violenza tentata che non segua ad una sottrazione completamente realizzata non potrebbe dirsi diretta in modo non equivoco alla realizzazione della rapina impropria. Ma tale affermazione si scontra già con il dato concreto della realtà criminale, quale è ben evidenziata proprio nel caso di cui al presente processo, nel quale gli autori del reato si erano introdotti nell’abitazione della vittima e la avevano “messa a soqquadro” senza nulla sottrarre a causa dell’intervento della vittima medesima: è di tutta evidenza il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa mobile altrui.
Piuttosto deve osservarsi che il comma secondo dell’art. 628 c.p. fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, ciò che conduce a ritenere che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma dello stesso.
Il requisito della violenza o minaccia che caratterizza il delitto di rapina, certamente può comportare una differenziazione in ordine al momento consumativo rispetto al furto. Mentre, infatti, con riferimento al furto, finché la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore questi è ancora in grado di recuperarla, così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo, al contrario, nella rapina, la modalità violenta o minacciosa dell’azione non lascia alla vittima alcuna possibilità di esercitare la sorveglianza sulla res. Per la consumazione del delitto di rapina è quindi sufficiente che la cosa sia passata sotto l’esclusivo potere dell’agente, essendone stata la vittima spossessata materialmente, così perdendo di fatto i relativi poteri di custodia e di disposizione fisica. In considerazione della successione “invertita” delle due condotte di aggressione al patrimonio e alla persona che caratterizza la rapina impropria, il legislatore, al fine di mantenere equiparate le due fattispecie criminose del primo e del secondo comma dell’art. 628 c.p., non richiede il vero e proprio impossessamento della cosa da parte dell’agente, ritenendo sufficiente per la consumazione la sola sottrazione, così lasciando spazio per il tentativo ai soli atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa altrui, atti che sono di tutta evidenza sussistenti nel caso di cui al presente procedimento.
Ne consegue la fondatezza della tesi della maggioritaria giurisprudenza, secondo la quale, combinando la norma incriminatrice dell’art. 628, comma secondo, c.p. con l’art. 56 c.p., se ne trae che se si tenta un furto senza realizzare la sottrazione della cosa e si commette immediatamente dopo un’azione violenta contro una persona, che ha per fine di assicurare l’impunità per il tentativo di furto, l’azione violenta resta strumentale a quella già realizzata e, pertanto, assorbita.
Ammessa, dunque, concettualmente la ipotizzabilità del tentativo con riferimento alla fase della sottrazione, ne deriva che la successiva violenza esercitata per procurarsi l’impunità, non resta avulsa dal modello legale prefigurato nell’art. 628 comma secondo, c.p., ma ad esso si coniuga a perfezione, dando così vita alla figura tentata di rapina impropria, senza alcuna illogica scansione del reato complesso in autonome figure di tentato furto e violenza o minaccia.
10. Altro argomento a favore della non ipotizzabilità del tentativo di rapina impropria fa leva su ragioni di politica criminale: si è sostenuto che una volta venuto meno il rapporto tra l’offesa alla persona e quella al patrimonio, ossia il legame di consequenzialità che unisce le due offese, non avrebbe senso applicare il regime sanzionatorio della rapina, giustificato proprio in ragione del nesso teleologico tra l’aggressione ai due beni. In altri termini, l’allargamento delle maglie della fattispecie di rapina impropria nel senso indicato dalla prevalente giurisprudenza comporterebbe l’applicazione di una sanzione particolarmente grave anche per un fatto che non si ritiene dotato di significativo disvalore.
Anche tale argomentazione non può essere condivisa, poiché la mancata consumazione della condotta di aggressione al patrimonio o della condotta di aggressione alla persona non fanno venir meno il legame tra le due forme di aggressione, come struttura portante del reato complesso di rapina, che persiste nelle due forme propria e impropria e che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave.
È ben vero che nella rapina impropria non sussiste il nesso funzionale e strumentale che in quella propria unisce l’aggressione alla persona all’aggressione al patrimonio, ma un volta che il legislatore ha stabilito che la mancanza di tale specifico nesso non esclude l’equiparabilità ai fini sanzionatori della rapina impropria, deve ritenersi che la congiunta e contestuale aggressione ai due beni giuridici attribuisce di per sé maggiore gravità alle condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene sicurezza e libertà della persona e perciò è previsto che sia punita più severamente delle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici.
Se il legislatore ha ritenuto con il delitto di rapina di sanzionare in maniera ben più severa le condotte di per sé autonomamente punibili della violenza o minaccia e del furto, in ragione del nesso di contestualità che unisce le due offese, attribuendo così maggiore gravità anche al furto, appare ragionevole ritenere che tale ratio sussista anche nel caso in cui il soggetto agente tenta di sottrarre il bene altrui ed è poi disposto per assicurarsi l’impunità ad usare violenza o minaccia. Non vale l’obiezione che l’equiparazione del trattamento sanzionatorio può essere fondata su una connessione “analoga”, quale sarebbe quella che lega l’offesa al patrimonio già realizzata e l’offesa alla persona commessa per assicurarsi il possesso della cosa sottratta o per conseguire l’impunità; poiché il rapporto di “analogia” rispetto al trattamento sanzionatorio deve essere tra termini corrispondenti e, quindi, tra tentativo di rapina impropria e tentativo di rapina propria e quest’ultimo, come dimostrano i molteplici casi giurisprudenziali (ad es. Sez. 2, n. 18747 del 20/03/2007, Di Simone, Rv. 236401; Sez. 2, n. 21955 del 10/02/2005, Granillo, Rv. 231966; Sez. 2, n. 3596 del 01/02/1994, Evinni, Rv. 197753), è configurabile anche nelle ipotesi in cui non siano perfezionate né l’offesa al patrimonio né quella alla persona, quando Ja condotta dell’agente sia potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia, e la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso.
Pertanto, il legame posto dal legislatore tra la condotta di aggressione al patrimonio e la condotta di violenza al fine di guadagnare l’impunità per il delitto precedentemente commesso è frutto della valutazione del maggior disvalore sociale che caratterizza l’azione violenta o minacciosa comunque connessa ad un aggressione al patrimonio, a prescindere che l’intento si sia realizzato o meno.
11. Sulla base delle esposte argomentazioni deve essere formulato il seguente principio di diritto: “È configurabile il tentativo di rapina impropria nei caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alfa sottrazione della cosa altrui, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità”.
12. In applicazione del suddetto principio il ricorso deve essere rigettato con la conseguenza della condanna del ricorrente al pagamento della spese processuali.

2. Elementi costitutivi del delitto tentato
Cass. S.U. 25 ottobre 2000, Morici

Atti diretti in modo non equivoco a commettere il delitto di frode in commercio

Con sentenza del 18 novembre 1994, il pretore di SCIACCA condannò MORICI Santo alla pena di 1 mi­lione di lire di multa, avendolo ritenuto responsa­bile del reato di cui agli artt. 56 e 515 c.p. , per avere detenuto per la vendita, nell’esercizio del commercio ambulante di prodotti alimentari presso il mercato rionale di Mentì, in data 11 settem­bre 1993, 154 barattoli di pomodoro contenenti un prodotto scaduto, sulla cui dicitura relativa al così detto «termine minimo di conservazione» era stata applicata un’etichetta recante una data suc­cessiva a quella originariamente indicata dal pro­duttore: e per avere così posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare ai po­tenziali acquirenti alimenti per qualità diversi da quelli dichiarati.
Avverso tale provvedimento l’imputato propose impugnazione, ma la Corte di appello di Palermo, con sentenza del 12 aprile 1999. respinse il grava­me, confermando la decisione di primo grado.
Ricorre per cassazione il MORICI personalmente, denunciando violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p. in relazione agli artt. 56 e 515 c.p., e sostenendo:
a) che i 154 barattoli di pomodoro, sui quali erano state apposte le etichette recanti una data di sca­denza diversa da quella originale, erano stati da lui recentemente acquistati dal suo solito fornitore, per cui facendo affidamento sulla frequenza dei rap­porti non aveva provveduto a controllarli;
b) che la vendita di prodotti con data di scadenza superata non integrerebbe il reato di tentata frode in commercio, ma la semplice violazione ammi­nistrativa sanzionata dagli artt. 10, comma 7, e 18 comma 2, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, nu­mero 109;
c) ed infine, che la semplice detenzione di quella mercé non sarebbe di per sé sola idonea a realizza­re gli estremi del tentativo di frode in commercio, difettando il requisito della univocità degli atti, in assenza di un inizio di contrattazione con un acqui­rente determinato.
Il ricorso venne assegnato alla terza sezione di questa Corte, la quale – con ordinanza del 29 marzo 2000 – lo rimise alle sezioni unite, eviden­ziando un contrasto nella giurisprudenza di legit­timità circa l’idoneità della semplice detenzione per la vendita di alimenti scaduti ad integrare il tentativo di frode in commercio, a norma degli artt. 56 e 515 c.p.
All’udienza odierna il procuratore generale, dopo avere concluso per la configurabilita del tentativo, ha sostenuto che il Collegio dovrebbe limitarsi a prendere in esame semplicemente la questione di diritto, per la cui definizione il ricorso è stato ri­messo alle sezioni unite, disponendo la restituzio­ne degli atti alla sezione remittente per la decisione sugli altri motivi di impugnazione.

Motivi della decisione

(omissis)

2. Ciò posto, è opportuno procedere all’analisi dei motivi di ricorso cui alle lettere a) e b) giacché il loro eventuale accoglimento precluderebbe l’esame della questione che ha dato luogo al contrasto giu­risprudenziale.
Ma come si vedrà tra breve, anche quelle censure non possono trovare accoglimento.
Con la prima di esse, il ricorrente ha sostenuto di non sapere che i 154 barattoli di pomodoro rinvenuti nel suo esercizio contenevano un prodotto sca­duto e che sugli stessi era stata incollata un’etichet­ta con una data diversa da quella originale: sennon­ché, i giudici della Corte di appello di Palermo hanno chiarito, con argomenti privi di vizi logici, che la giustificazione dell’imputato non è credibi­le; mentre il MORICI – attraverso la pretestuosa de­duzione di una manifesta illogicità della motiva­zione della sentenza impugnata – ha tentato di otte­nere una rivalutazione delle prove, che si risolve­rebbe in un sostanziale nuovo giudizio sul fatto: e tale giudizio, per costante giurisprudenza di questa Corte, è sottratto, come tutte le valutazioni di meri­to, al sindacato di legittimità della Cassazione.

3. Quanto al motivo di ricorso di cui alla lettera b), si osserva invece che l’assunto difensivo – secondo cui la pura e semplice detenzione per la vendita di prodotti con data di scadenza superata non integre­rebbe il reato di tentata frode in commercio, ma una semplice violazione amministrativa – si risol­ve in una prospettazione astratta, che richiede una verifica rispetto alla fattispecie concreta.
Osserva, infatti, il Collegio che, nel caso in esame l’imputato non si è limitato a porre in vendita pro­dotti alimentari con data di scadenza superata, a-vendo esposto sul suo bancone alcuni barattoli di pomodoro recanti un «termine minimo di conser­vazione» diverso da quello originariamente indi­cato dal produttore; e ciò in quanto sulla scritta o-riginale impressa sulle confezioni era stata sovrap­posta un’etichetta recante una data diversa che impediva ai consumatori di accertare la reale data en­tro la quale gli alimenti avrebbero dovuto essere consumati.
Ed un caso del genere non è certo riconducibile alla violazione amministrativa di cui agli artt. 10, comma 7, e 18, comma 2, citati, nella quale l’acquirente può agevolmente accertare se il pro­dotto offerto ha i requisiti da lui voluti.
Si verte, dunque, in tema di consegna di cosa di­versa per qualità da quella dichiarata, integrante gli estremi del delitto di tentata frode in commercio e non di semplice illecito amministrativo.

4. Resta a questo punto da esaminare l’ultimo motivo di ricorso, con cui è stata prospettata la questione che ha dato luogo al contrasto giuri­sprudenziale.
Il problema, come si è prima cennato, è quello concernente i limiti della configurabilità del tenta­tivo di frode in commercio: in particolare si deve stabilire se per la sussistènza del delitto di cui agli artt. 56 e 515 c.p. sia sufficiente la sola esposi­zione per la vendita della mercé, indipendentemente da qualsiasi rapporto con il cliente, ovvero sia necessario un inizio di trattativa con l’eventua­le acquirente.
La questione sarà affrontata con specifico riferi­mento alla vendita di prodotti alimentari recanti un «termine minimo di conservazione» differente da quello originariamente indicato dal produttore, perché alterato o sostituito dal venditore.
Va precisato che nella giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte di cassazione si registrano due opposti indirizzi in ordine alla configurabilità del tentativo nel delitto di frode in commercio relativo ai prodotti alimentari scaduti con etichetta alterata o sostituita al primo ravvisa la sussistenza dell’ipo­tesi di cui all’art. 56 c.p. solo allorquando tra l’esercente dell’attività commerciale ed il poten­ziale acquirente vi sia stato un effettivo contatto, mentre per il secondo è sufficiente che il commerciante si limiti ad esporre per la vendita la mercé in questione.
L’argomento principale utilizzato dai fautori del primo indirizzo è relativo ad una ragione di carat­tere sistematico: si sostiene cioè che quando il le­gislatore ha voluto colpire la frode che si annida nella fase della «messa in vendita» di una sostanza alimentare, lo ha fatto espressamente; tanto che l’art. 516 c.p. punisce con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a 2 milioni di lire «chiunque pone in vendita o mette altrimenti in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine».
Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalente ri­tengono, peraltro, che la disposizione di legge da ultimo indicata contenga un’incriminazione sussi­diaria, cui è affidato il compito di reprimere penal­mente comportamenti i quali non cadono nella sfo­ra di efficacia dell’art. 515 c.p., per essere sol­tanto preparatori del fatto criminoso; si tratterebbe, insomma, di norma che prevede una difesa avan­zata contro la frode: e ciò spiegherebbe, da un can­to la minore pena rispetto a quella prevista dall’art. precedente, e dall’altro come non sia richie­sta la consegna della sostanza alimentare, essendo sufficiente In sua messa in commercio.
Comunque, non può dubitarsi che la disposizione di legge in questione si ponga come nonna specia­le rispetto al tentativo di frode in commercio (e non ovviamente al delitto consumato), atteso che contiene in sé tutti gli elementi del più grave delitto previsto dagli artt. 56 e 515 c.p., con un elemen­to specializzante che è quello della particolare na­tura del bene offerto al pubblico (sostanza alimen­tare non genuina).
Ma nel caso concreto il richiamo a siffatta viola­zione non è conducente, dal momento che il supe­ramento della data di scadenza dei prodotti alimen­tari non comporta necessariamente una perdita di genuinità degli stessi, come del resto hanno pun-tualizzato le sezioni unite di questa Corte, affer­mando che «il configurare il prodotto scaduto di validità come prodotto intrinsecamente degradato o depauperato ovvero alterato non sarebbe possibi­le se non in forza di una presunzione iuris et de iure quanto mai arbitraria per il diritto positivo vi­gente» (Cassazione pen., sez. un., 27 settembre 1995, Timpanaro, citata): con la conseguenza che la messa in vendita di siffatti prodotti, essendo gli stessi «genuini», non integra (salvo a dimostrare concretamente che la singola mercé abbia perso le sue qualità specifiche) gli estremi del delitto previ­sto dal citato art. 516 c.p.
Accertato» dunque, che la disciplina prevista dalla norma da ultimo citata non può trovare applicazio­ne nella fattispecie, la Corte rileva che per stabilire se, in ipotesi come quella per cui è processo, si sia in presenza di un delitto tentato ovvero di semplici atti preparatori non punibili, occorre fare riferimento ai concetti di «idoneità» e di «univocità» di cui all’art. 56 c.p.
Ebbene, nel caso concreto non viene in discussione il requisito della «idoneità» degli atti posti in essere dall’imputato: non può, infatti, dubitarsi che esporre sul bancone di un esercizio commerciale dei prodotti alimentari scaduti, ma con la data di scadenza alterata, costituisca – per usare le parole della Relazione al Re del codice penale – un atto di per sé «capace di produrre l’evento» del delitto di frode in commercio e cioè la consegna all’acquirente di una cosa mobile non conforme a quella convenuta.
È stato, invece, posto in dubbio che siffatta attività integri gli estremi di quella «univocità», in difetto della quale non sussiste il tentativo, ma solo azioni preliminari esenti da pena.
L’art. 56 c.p. richiede, infatti, per la punibilità del delitto tentato che gli atti posti in essere dall’a­gente siano «diretti in modo non equivoco» alla commissione di un delitto.
Ebbene, a tal fine sembra opportuno richiamare la citata Relazione al Re del codice penale, nella quale si affermava che per essere univoci gli atti devono avere «un valore tale:
– da rivelare l’intenzione di delinquere;
– da escludere il dub­bio che si tratti di un principio d’estrinsecazione dell’intenzione di compiere un fatto lecito o giuri­dicamente indifferente;
– da manifestare l’inten­zione di commettere un determinato delitto.
Partendo da tali concetti, autorevole dottrina ha so­stenuto che l’azione dell’agente è univoca allor­quando in sé, per quello che è e per il modo in cui è compiuta, ne rivela l’intenzione; ed ha, altresì, specificato che per potersi parlare di univocità è necessario che sia posta in essere un’azione che, secondo l’id quod plaerumque accidit, non viene compiuta se non per commettere quel dato fatto criminoso.
Ma anche la giurisprudenza è giunta a conclusioni sostanzialmente uguali: la Corte di cassazione ha, infatti, deciso che «l’estremo dell’univocità degli atti, necessario, unitamente a quello della idoneità, per configurare un tentativo punibile, va accertato sulla base delle caratteristiche oggettive della con­dotta criminosa, nel senso che questa, per sé e per il modo in cui si è estrinsecata, deve rivelare l’in­tenzione dell’agente» (Cassazione penale, sez. I, 7 dicembre 1978 Ruocco, n. 141139); ed ha preci­sato, in altra più recente occasione, che «gli atti sono univoci – o meglio diretti in modo non equi­voco alla commissione di un delitto – allorquando. considerati in sé medesimi, per il contesto nel qua­le si inseriscono, per la loro natura ed essenza rive­lino – secondo le norme di esperienza e l’id quod plaerumque accidit – l’intenzione, il fine dell’agen­te» (Cassazione penale, sez. 1, 28 ottobre 1986, Molinari, n. 175567).
Ora, muovendo dal concetto di univocità su espo­sto, ne deriva – in riferimento alla fattispecie con­creta – che la semplice detenzione all’interno del negozio o di un deposito di prodotti alimentari scaduti e con etichetta alterata o sostituita, senza che questi siano esposto o in qualche modo offerti al pubblico, non integra gli estremi del tentativo, potendo esservi motivi diversi per simile accanto­namento e non potendosi quindi desumere con certezza da tale detenzione la reale intenzione dell’agente.
Ma se i prodotti in questione vengono esposti sui banchi dell’esercizio (come si è verificato nel caso concreto), o sono comunque offerti al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente dell’attività commerciale è invece idonea a dimostrare che la sua intenzione era quella di venderli agli acquirenti che si sarebbero presentati, con conseguente configurabilità del tentativo di frode in commercio.
(omissis)
Cass. S.U. 18.10.2012, p.m. in proc. Bargelli

La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rilevante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi dedurne l’effettiva destinazione dei semi.
L’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, accompagnata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990. (La S.C. ha precisato che la predetta condotta può integrare, ricorrendone i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti, ex art. 414 c.p.).
La condotta di chi si limiti a rendere nota al pubblico l’esistenza di una sostanza stupefacente, veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all’uso di sostanze stupefacenti, integra l’illecito amministrativo di propaganda pubblicitaria di sostanze stupefacenti (art. 84 d.P.R. n. 309 del 1990) e non il reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti (art. 82 d.P.R. n. 309 del 1990).

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 1 giugno 2011, il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Firenze, in esito a giudizio abbreviato, ha assolto gli imputati B.L. e G.M., con la formula perché il fatto non sussiste, dai reati previsti dagli artt. 110, 81 e 414 c.p., art. 82 T.U. stup. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) loro contestati per avere istigato all’uso illecito, o alla coltivazione, di marijuana offrendo e pubblicizzando via internet la vendita di semi delle piante unitamente ad un opuscolo recante precise indicazioni per la loro coltivazione.
Per giungere a tale conclusione, il Giudice ha osservato, in punto di fatto, che l’addebito faceva riferimento alla sola commercializzazione dei semi con indicazioni botaniche relative esclusivamente alla loro crescita.
Indi, il Giudice ha scartato le ipotesi della configurabilità del reato previsto dall’art. 414 c.p. (essendo più specifico quello di istigazione ex art. 82, cit. T.U. stup.) e della sussunzione della condotta nel concetto di proselitismo, contemplata dall’art. 82, per il mancato coinvolgimento di più persone ad un determinato stile di vita caratterizzato dalla assunzione di stupefacenti.
Il Giudice ha rilevato che, nel caso di specie, mancavano consigli per estrarre dalle piante il principio attivo, per cui difettava quella spinta emotiva o morale all’uso di sostanze stupefacenti che distingue la condotta di istigazione penalmente rilevante, prevista dall’art. 82, T.U. stup., dalla semplice propaganda, che configura un illecito amministrativo a sensi del successivo art. 84.

2. Per l’annullamento della sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, deducendo, con un unico motivo, erronea applicazione di legge.

3. Il processo è stato assegnato alla Terza Sezione penale, che alla udienza del 29 maggio 2012, rilevando come il caso fosse stato risolto in modo difforme in sede di legittimità, ha provveduto a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite a sensi dell’art. 618 c.p.p..
4. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali con decreto del 5 luglio 2012, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è la seguente: “Se integra il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti la pubblicizzazione e la messa in vendita di semi dì piante idonee a produrre dette sostanze con la indicazione delle modalità di coltivazione e della resa”.
2. Sul tema, la giurisprudenza di legittimità si è espressa in modo contrastante.
2.1. Un primo orientamento (rappresentato dalle sentenze Sez. 4, n. 26430 del 20/05/2009, Pesce, Rv. 244503; Sez. 4, n. 23903 del 20/05/2009, Malerba Rv. 244222; Sez. 4, n. 2291 del 23/03/2004, D’Angelo, Rv. 228788) interpreta l’art. 82, comma 1, cit. T.U. stup. nel senso che la condotta istigatoria in esso delineata comprende l’attività di pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre sostanze stupefacenti con precisazioni sulla coltivazione delle stesse. L’argomentazione posta alla base della conclusione si incentra nel rilievo che, anche in mancanza di pubblicità volta ad esaltare la qualità del prodotto e l’uso dello stupefacente che si ricava dalle piante, la normale finalità della coltivazione è l’ottenimento e l’utilizzo della droga. Sussiste, pertanto, una interconnessione tra pubblicizzazione di semi, coltivazione degli stessi e utilizzo di sostanze stupefacenti. Conforme alle ricordate decisioni è quella della Sez. 4, n. 15083 del 08/04/2010, Gracis, non massimata. 2.2. Ad analogo risultato, pervengono due sentenze con un iter motivazionale più articolato. Si afferma, in particolare, che il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti si configura quando la condotta dell’agente, per il contesto in cui si realizza e per le espressioni usate, sia idonea ad indurre i destinatari delle esortazioni all’uso delle dette sostanze; consegue che la condotta di istigazione può astrattamente consistere nel fornire agli acquirenti dettagliate notizie sulle modalità di coltivazione di piante dalle quali sono ricavabili sostanze stupefacenti. L’apprezzamento di fatto relativo alla efficacia ed idoneità in concreto delle modalità di pubblicizzazione è riservato al giudice di merito, il quale può desumere la condotta concretamente antigiuridica anche dal fatto che l’offerta sia indirizzata ad una platea indeterminata dì soggetti (Sez. 6, n. 38633 del 24/09/2009, Barsotti, Rv. 244559). Un’altra decisione, quella della Sez. 5, n. 16041 del 05/03/2001, Gobbi, Rv. 218484, è stata in tale modo massimata: “Ai fini della configurabilità del reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti occorre che l’agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, abbia, sul piano soggettivo, l’intento di promuovere tale uso e, dal punto di vista materiale, di fatto si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti o anche con il ricorso al linguaggio simbolico affinchè l’uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato (fattispecie nella quale la Corte ha escluso il reato nel caso di volantinaggio da parte di studenti favorevoli alla liberalizzazione di droghe leggere)”.

2.3. Una diversa opinione (espressa da Sez. 4, n. 6972 del 17/01/2012, Bargelli, Rv.251953) si discosta dalle precedenti, movendo dal principio giurisprudenziale secondo il quale la vendita di semi di piante dai quali sono ricavabili sostanze stupefacenti non costituisce reato perchè riconducibile agli atti preparatori privi di potenzialità causale rispetto alle attività vietate. Alla luce di tale principio, la sentenza interpreta il rapporto tra la fattispecie penale dell’art. 82, comma 1, riferita a chi pubblicamente istiga all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, e l’illecito amministrativo, di cui al successivo art. 84, concernente la propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’art. 14. In particolare, rileva che la condotta dell’art. 84 non possa consistere in un propaganda finalizzata alla vendita, ma semplicemente in un’opera di diffusione senza induzione all’acquisto; nella condotta dell’art. 82, invece, si riscontra un qualcosa di aggiuntivo che spinge all’uso del prodotto da parte del destinatario della propaganda. Ne consegue che, nei casi in cui la pubblicità si soffermi solo sulla illustrazione delle caratteristiche delle piante che nascono dai semi e sulle modalità della loro coltivazione, il reato dell’art. 82 non può ritenersi sussistente perchè l’azione non è idonea a suscitare consensi ed a provocare il concreto pericolo dell’uso di stupefacenti da parte dei destinatari del messaggio.

ogni tipo di inserzione pubblicitaria avente per oggetto prodotti droganti deve essere oggetto di divieto
3. Innanzi tutto, è opportuno precisare che ogni tipo di inserzione pubblicitaria avente per oggetto prodotti droganti deve essere oggetto di divieto. Il principio ha un fondamento sovrannazionale nell’art. 10, comma 2, della Convenzione di Vienna del 1971, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. del 25 marzo 1981, n. 385, che stabilisce: “Ciascuna parte, tenendo debito conto delle norme della sua Costituzione, proibirà le inserzioni pubblicitarie riguardanti le sostanze psicotrope e destinate al grosso pubblico”. Il nostro ordinamento, nell’alveo della lotta alla droga, colpisce, con una forte anticipazione della tutela penale, ogni forma di propaganda degli stupefacenti ed ogni condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stessi.
Non è, tuttavia, ineludibile nel settore della inibita propaganda la mera offerta in vendita di semi dalla cui pianta sono ricavabili sostanze stupefacenti; l’attività che ha tale oggetto, di per sé, non è vietata configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato per la considerazione che non è dato dedurre la effettiva destinazione dei semi (sentenze Sez. 2, n. 10496 del 01/09/1988, Lanzuisi, Rv. 179539; Sez. 4, n. 13853 del 04/12/2008, Kurti, Rv. 243194; Sez. 4, n. 6972 del 22/02/2012, Bargelli, Rv. 251953).

4. Poiché la sentenza impugnata incentra il suo apparato argomentativo sulla applicabilità al caso dell’art. 84 e non sul contestato art. 82 (mentre il Pubblico Ministero nel suo ricorso ed il Procuratore Generale nella sua requisitoria opinano il contrario), si ritiene puntualizzare la distinzione tra le due norme anche se, come si dirà, la risoluzione del caso sottoposto alle Sezioni Unite si rinviene altrove in un diverso referente normativo.

La distinzione tra l’art. 84 e l’art. 82
82. (Istigazione, proselitismo e induzione al reato di persona minore). – 1. Chiunque pubblicamente [c.p. 2664] istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.032 a euro 5.164 [84; c.p.p. 280, 3802 h)].
… omissis
84. (Divieto di propaganda pubblicitaria). – 1. La propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’articolo 14, anche se effettuata in modo indiretto, è vietata. Non sono considerate propaganda le opere dell’ingegno non destinate alla pubblicità, tutelate dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore.
2. Il contravventore è punito con una sanzione amministrativa da euro 5.164 a euro 25.822, sempre che non ricorra l’ipotesi di cui all’articolo 82.
… omissis

5. Il fondamentale elemento discretivo tra le due fattispecie (i residui sono di minore significatività in rapporto al quesito in esame) deve essere reperito nella tipologia delle condotte; una loro precisa individuazione esclude già che in certe ipotesi nascano problemi di conflitto.
La pubblicità è in genere concisa, non mira a proporre modelli di comportamento ed a persuadere il pubblico facendo leva sulle presunte ragioni ideologiche che stanno alla base della scelta suggerita; quindi, non è conciliabile con la nozione di proselitismo.
Il messaggio pubblicitario non implica un rapporto personale tra il propagandista ed il destinatario con opera di diretto influenzamento dell’uno sull’altro, per cui è da scartare che possa essere classificato nel novero della induzione.
Rimane la condotta di istigazione effettuata pubblicamente (secondo la disposizione definitoria dell’art. 266 c.p., u.c.) che presenta un labile confine con quella di propaganda; dato che il Legislatore ha usato nello stesso contesto normativo termini diversi, occorre che l’interprete non li omologhi e cerchi di individuare i rispettivi ambiti di applicazione, si da rendere ragionevole la scelta della differente risposta punitiva.
6. Sul punto, la citata sentenza della Sez. 4 n. 6972 del 2012 ha focalizzato la distinzione, ponendo l’accento sulle caratteristiche del messaggio pubblicitario che, nell’art. 84, deve essere asettico e non deve indurre i destinatari all’acquisto o all’uso del prodotto stesso. La Corte condivide questa impostazione, anche se sono eccezionali le ipotesi di propaganda pubblicitaria che non invoglino all’acquisto; tuttavia, il criterio individuato nella sentenza è l’unico reperibile che, sul piano strutturale, diversifichi le condotte, incida significativamente sul livello della offesa ed abbia come ricaduta di condurre la previsione dell’art. 84 nell’alveo di una ipotesi marginale e di scarsa lesività. Si ritiene, pertanto, che rientri nella propaganda pubblicitaria la condotta di chi si limita in modo asettico e neutro a rendere noto al pubblico la esistenza della sostanza veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all’uso di stupefacenti.

7. La delineata esegesi del rapporto tra norme trova riscontro nella clausola di riserva dell’art. 84, comma 2, non valutata dalla giurisprudenza che si è occupata dell’argomento. Il Legislatore si è reso conto che il termine propaganda può essere interpretato con parametri non bene definiti e che tra le sue previsioni non sussiste un rapporto di specialità risolvibile a sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 bensì di gravità crescente, ed ha fornito una chiave per risolvere il conflitto apparente di norme.

8. Occorre ora prendere in considerazione la fattispecie concreta e verificare se, come sostenuto dal ricorrente, sia corretto il suo inquadramento nella ipotesi di reato dell’art. 82, sotto la previsione della istigazione all’uso di stupefacenti; sul tema, la Corte non condivide la opinione delle sentenze che hanno risposto positivamente, perché la condotta contestata solo indirettamente ed eventualmente conduce al consumo di sostanze droganti.
Non è possibile equiparare la nozione di stupefacente a quella di pianta dalla quale, con determinati procedimenti chimici neppure menzionati nella pubblicità, è ricavabile una sostanza drogante che, allo stato naturale, è compresa nelle tabelle; una simile esegesi non rientra nel novero di una plausibile interpretazione estensiva perché travalica l’ambito dei possibili significati letterali, sia pure amplificati all’estremo, del termine stupefacente e dilata il fatto tipico integrandolo con una ipotesi non espressamente inclusa con palese violazione del principio di tassatività e del divieto di analogia nel diritto penale. Inoltre, se si fosse trattato di offerta in vendita di sostanze stupefacenti, la condotta sarebbe sussumibile nella previsione dell’art. 73, comma 1, cit. TU. stup..

9. Quanto precisato sul divieto della analogia (valevole anche per le sanzioni amministrative per il principio di legalità inserito nella L. n. 689 del 1991, art. 1, comma 2) non è trasferibile anche all’art. 84 per il quale la propaganda può essere effettuata anche indirettamente, cioè, facendo sorgere nel pubblico – in modo obliquo, dissimulato o per associazioni di idee – il riferimento implicito alla sostanza stupefacente.
La citata norma, tuttavia, non è applicabile perché la offerta del prodotto da parte degli imputati era correlata da ulteriori, allettanti specificazioni.
La precisazione rende il caso non inquadrabile nella previsione dell’art. 84, perché il messaggio non era neutro ed asettico: indicando i metodi botanici più appropriati per la resa dei semi, la pubblicità invitava i destinatari all’acquisto dei semi come attività prodromica al successivo comportamento consistente nella coltivazione di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente.
Questa ultima condotta è vietata dall’art. 26, cit. T.U. stup. e prevista come delitto dal successivo art. 73, comma 3, perché accresce la disponibilità di droghe con conseguente pericolo di diffusione illecita delle stesse.

10. Poiché gli imputati istigavano a commettere un reato con le modalità esecutive dell’art. 266 c.p., comma 4, il caso può rientrare nella previsione dall’art. 414 c.p.; tale fattispecie si pone come norma generale e non è applicabile in presenza di reati di istigazione più specifici.
In virtù di questo principio, il Giudice ha rilevato che il delitto previsto dall’art. 82 sarebbe una specie rispetto alla previsione codicistica; la tesi non è condivisibile perché raffronta il reato di istigazione a delinquere con quello di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti che deve essere escluso per la già detta ragione (al paragrafo 8).
La esatta comparazione tra norme, rapportata alla ipotesi che ci occupa, porta a concludere che l’art. 82 non è strutturato come species rispetto al genus dell’art. 414 c.p., perché non annovera tra le condotte punibili la illegale coltivazione di stupefacenti.

11. Tanto premesso, è appena il caso di osservare come, al fine della possibile sussunzione del fatto in esame nel delitto di istigazione a delinquere, non rilevi che la pubblicità fosse carente di indicazioni circa le modalità con le quali è estraibile lo stupefacente perchè la mera coltivazione (sia pure alla condizione specificata al paragrafo 13) è punita dall’art. 73, cit. T.U. stup.. E’, pure, ininfluente che il comportamento suggerito fosse privo della sua qualificazione penale essendo sufficiente il requisito della indicazione degli elementi fattuali della condotta suggerita (ed il delitto evocato aveva un inequivoco livello di determinatezza).

12. E’, anche, inconferente, per il perfezionamento della fattispecie dell’art. 414 c.p., l’esito della azione istigatrice, in virtù della clausola di indifferenza inserita nel comma 1 (che costituisce una deroga al generale principio contenuto nell’art. 115 c.p.), ma è necessaria la potenziale offensività della condotta che è richiesta per tutti i reati anche quando il precetto tenda ad evitare la messa in pericolo del bene oggetto di tutela penale.
Occorre, pertanto, una ponderazione – riservata al magistrato di merito e da effettuarsi con giudizio ex ante – circa la reale efficienza della azione stimolatrice a spronare le persone con modalità tali da persuaderle a passare alla azione e da porsi come antecedente adeguato per indurle a commettere il fatto illecito (sulla natura di delitto di pericolo concreto della fattispecie dell’art. 414 cod. pen,, v. tra le altre, Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001, Vencato, Rv.219888).

13. Si evidenzia, inoltre, che, per la configurabilità del delitto ex art. 414 c.p., non è richiesta la punibilità in concreto della condotta istigata, ma è necessario che la stessa sia prevista dalla legge come reato.
Sul punto, occorre tenere nel debito conto il principio enucleato dalle Sezioni Unite che (dopo avere precisato come costituisca un reato di pericolo astratto qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente) hanno ricordato il canone nullum crimen sine infuria sotteso a tutti i reati che, secondo la giurisprudenza costituzionale, opera per il Legislatore in astratto e per gli interpreti in concreto quale criterio ermeneutico. Consegue che necessita verificare, con una valutazione di fatto improponibile in sede di legittimità, se la condotta contestata all’agente ed accertata sia assolutamente inidonea a mettere a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva; tale ipotesi ricorre quando la sostanza ricavabile dalla coltivazione non produca un effetto drogante rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Silvia, Rv. 239920).

14. Da quanto esposto, emerge che la risoluzione del caso implica, anche, questioni di fatto che esulano dai limiti cognitivi della Cassazione che può solo osservare come, allo stato, non emerga in modo palese che la pubblicità degli imputati fosse inoffensiva; deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze trattandosi di ricorso immediato a sensi dell’art. 569 c.p.p., comma 1.

15. In relazione a questa statuizione, non rileva la circostanza che il ricorso del Pubblico Ministero non contiene un riferimento specifico alla fattispecie di istigazione a delinquere perché questa limitazione non interferisce con il principio devolutivo della impugnazione; la esatta qualificazione giuridica dei fatti è questione di diritto la cui risoluzione compete a questa Corte che non è vincolata alle prospettazioni delle parti. Si precisa che la contestazione dell’art. 414 c.p. era stata correttamente effettuata dal Pubblico Ministero nel capo di imputazione sia con la indicazione della norma sia con la precisazione della condotta materiale posta in essere; pertanto la conclusione non pone problemi sulla fattiva possibilità degli imputati di comprendere l’accusa e di difendersi.

16. Nel giudizio di rinvio, la Corte di appello si confermerà al seguente principio di diritto: “La offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavatole una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato dell’art. 82, cit. T.U. stup., salva la possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall’art. 414 c.p. con riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti”.

17. Inoltre, i nuovi Giudici dovranno effettuare, quanto alla idoneità della condotta, la valutazione concreta rapportata alle peculiarità del caso, inerente alla reale attitudine della azione istigatrice a porsi come antecedente adeguato per influire sulla altrui volontà e fare sorgere, o rafforzare, il proposito di coltivare illecitamente piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti; dovranno verificare, sul piano della lesività, se la pubblicità non solo inducesse alla coltivazione, ma se fosse articolata in modo tale da sollecitare gli acquirenti del semi a porre in essere un comportamento penalmente rilevante, cioè, atto a determinare una germinazione dalla quale fosse ragionevolmente prevedibile il ricavo dì un prodotto finito con effetto drogante. In merito alla volontà degli imputati di determinare altri a commettere il reato, i Giudici del rinvio dovranno analizzare la indicazione, contenuta nella inserzione pubblicitaria (che segnalava come la coltivazione necessitasse di previa autorizzazione) e considerare se l’ammonimento fosse serio ed il suo rispetto controllato al momento della vendita dei semi al fine di valutare la sua efficacia deterrente per i destinatari ed esimente per gli imputati. Per costoro, l’assoluzione per un fatto identico a quello in esame non rileva ai fini del dolo perché successiva alla inserzione pubblicitaria per cui è processo.
3. Circostanze e delitto tentato

Cass. S.U. 28.3.2013, Zonni Sanfilippo
Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità si applica anche al delitto tentato.
1. Z.S.G., giudicato con rito abbreviato, fu condannato dal Tribunale di Torino, con sentenza in data 24 aprile 2008, alla pena di mesi cinque di reclusione in quanto riconosciuto colpevole dei delitti di tentato furto aggravato da violenza sulle cose e dall’uso di mezzo fraudolento (artt. 56 e 624 c.p., art. 625 c.p., n. 2, capo A), nonchè di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p., capo B), aggravata ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 2, per aver commesso il fatto al fine di conseguire l’impunità dal delitto di tentato furto.

1.1. Considerato più grave tale secondo delitto, ritenuta la continuazione, riconosciute le attenuanti generiche, valutate equivalenti alle aggravanti, tenuto conto della diminuente del rito, la pena è stata determinata come prima indicato.

2. La Corte di appello di Torino, con sentenza 19 dicembre 2011, ha integralmente confermato la pronunzia di primo grado, in particolare ritenendo inapplicabile al delitto tentato l’attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4, c.p., pur richiesta con il primo motivo dell’atto di appello.

3. La condotta addebitata a Z.S. con riferimento al delitto del capo A è la seguente: “avere compiuto, al fine di trame profitto, atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad impossessarsi delle monete custodite nell’apposito cassetto di un distributore automatico di bevande, ubicato in un ospedale, mediante la forzatura di una griglia di protezione, con l’uso di un pezzo di ferro, non riuscendo nel suo intento per l’intervento di una guardia giurata”.

4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, articolando un unico motivo e lamentando violazione di legge sostanziale in relazione all’omesso riconoscimento della attenuante del danno di speciale tenuità, in relazione al delitto di furto tentato e sostenendo che la giurisprudenza di legittimità, cui aveva fatto riferimento la Corte di appello per negare detta attenuante, doveva ritenersi superata, alla luce delle più recenti sentenze della Corte di cassazione, che hanno riconosciuto che, anche con riferimento al tentativo di furto, possa sussistere (e debba quindi esser valutata) l’attenuante comune di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, in considerazione delle concrete modalità dell’azione e dei vari indici sintomatici, desumibili dalle stesse risultanze processuali. Essa dunque ricorrerebbe tutte le volte in cui, se il delitto fosse stato portato a esecuzione, la vittima avrebbe subito un danno di speciale tenuità.

5. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione penale, che, ravvisando sul punto oggetto dell’unico motivo di ricorso un permanente contrasto di giurisprudenza, ha rimesso, con ordinanza 19 dicembre 2012, il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p..

6. Il Primo Presidente, con decreto del 20 novembre 2012, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione la odierna udienza.

7. Ha depositato memoria il difensore dell’imputato, con la quale ribadisce e argomenta la compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto di furto tentato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: “se, nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità possa, o meno, applicarsi anche al delitto tentato”.

2. Sul punto, come si rileva nell’ordinanza della Seconda Sezione, effettivamente la giurisprudenza di questa Corte non si è mostrata univoca, pur essendo, a far tempo dagli anni ’70 del secolo scorso, nettamente prevalenti – di certo dal punto di vista quantitativo – le pronunzie ispirate alla tesi che sostiene la compatibilità della attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4, c.p. con i delitti tentati contro il patrimonio, in genere, e con il delitto di furto tentato, in particolare.

2.1. A fronte di tale orientamento, ne sussiste altro – come si è premesso, di minor consistenza numerica – che giunge alla opposta conclusione.
Si sostiene infatti, da parte della “corrente minoritaria” che, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l’attenuante in questione non può trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, per definizione e per presupposto, il danno non è presente (tra le più recenti: Sez. 5, n. 11923 del 27/01/2010, Luongo, Rv. 2465S6, relativa al tentato furto di una serranda; Sez. 5, n. 11142 del 06/10/2005, dep. 2006, Buonarota, Rv. 233885, relativa al tentato furto di un ciclomotore).
Poiché, in sintesi, si sostiene, l’attenuante in questione presuppone Indefettibilmente la consumazione del reato e l’esistenza di un danno (effettivo e non ipotetico), che appunto della sottrazione della cosa è conseguenza, essa può essere invocata solo in presenza di furto consumato (Sez. 4, n. 14204 del 09/07/1990, Venuti, Rv. 185566).

3. In realtà, sin dall’entrata in vigore del codice Rocco, la giurisprudenza di legittimità si era interrogata sulla rilevanza delle circostanze nel delitto tentato (nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, in particolare).
Al proposito, la Prima Sezione, aveva avuto modo di sviluppare, sul finire degli anni ’30, una riflessione di carattere generale, sostenendo che “l’oggetto del tentativo non può non influire sulla punibilità del tentativo stesso; e, inoltre, quando il danno è elemento imprescindibile della nozione del reato, esso deve funzionare, tanto in rapporto al reato consumato, quanto in rapporto a quello tentato” (Sez. 1, 15/02/1939, Fabbri, in tema di tentata concussione, in Giust. pen., 1939, parte seconda, col. 759).
In tema di furto, tuttavia, proprio in considerazione del fatto che il danno non è elemento costitutivo del reato di cui all’art. 624 c.p., la Seconda Sezione aveva decisamente escluso l’applicabilità dell’attenuante del danno di speciale tenuità in relazione a tutti i delitti tentati contro il patrimonio (cfr. sent. 11/04/1938, Aglieri; sent. 21/07/1938, Pellegrini; sent. 14/12/1938, Abruzzese; sent. 10/02/1939, Barbanti; sent. 01/03/1939, Ronchi; sent. 19/06/1939, Schiavini; tutte in Giust pen., 1939, parte seconda, col. 359 ss., nonchè sent. 13/11/1940, Dell’Ara, in Riv. pen., 1941, p. 27).

4. Nei decenni successivi, la medesima Seconda Sezione ebbe occasione di ribadire che “l’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 c.p. non può trovare applicazione nel caso di tentativo, essendo basata su elementi che possono presentarsi soltanto come conseguenza della consumazione perfetta del reato” (sent. 19/01/1957, Giordani, in Giust. pen., 1957, parte seconda, col. 461).
Si può dunque sostenere che negli anni più lontani l’orientamento prevalente era nel senso di escludere la compatibilità della attenuante in questione con i delitti tentati contro il patrimonio.

4.1. Si rinvengono, tuttavia, anche all’epoca, pronunzie in senso contrario della medesima Sezione: sent. 27/02/1957, Pozzi, in Giust. pen., 1957, parte seconda, col. 461; sent. 11/12/1957, Nardo, ivi, 1958, parte seconda, col. 465; sent. 14/07/1955, Badolin, ivi, 1956, parte seconda, col. 134, quest’ultima relativa proprio al delitto di furto tentato, la cui massima recita “l’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, c.p. può essere applicata anche nel caso di reato tentato, quando però risulti che l’azione, rimasta incompiuta, ha avuto per oggetto un compendio di valore determinabile con precisione, in maniera da aversi la matematica certezza che, se essa fosse giunta a consumazione, avrebbe cagionato alla persona offesa un danno di speciale tenuità”. Tali considerazioni, per altro, erano state anticipate da Sez. 1, sent. 05/03/1948, Manzi (in Giust pen., 1948, parte seconda, col. 808), che aveva chiarito che l’attenuante de qua non poteva ritenersi ricorrente nel caso in cui l’agente si fosse introdotto – per rubare – in una abitazione “poichè (…) l’oggetto del reato era (costituito da) una quantità indeterminata di cose”, atteso che l’attenuante ex art. 62 c.p., n. 4, ricorre, nel caso di furto tentato “solo quando il tentativo abbia avuto per oggetto una cosa determinata, il cui valore sia, appunto, di speciale tenuità”. Dunque: la possibilità di individuare in concreto l’oggetto su cui cade l’azione delittuosa è considerata da parte della giurisprudenza da ultimo citata condicio sine qua non per la eventuale applicazione della attenuante del danno di speciale tenuità, per il buon motivo che, solo in tal caso, appare possibile valutare, sia pure in via ipotetica, l’entità del danno stesso.

4.2. Anche successivamente, le pronunce favorevoli alla compatibilità, generalmente, richiederanno che risulti accertato (anche, eventualmente, attraverso l’esame delle modalità della condotta) che, se l’evento si fosse realizzato, alla persona offesa sarebbe derivato un danno di speciale tenuità (cfr., in ordine cronologico, le seguenti sentenze tutte della Seconda Sezione: n. 313 del 12/02/1968, Indelicato, Rv. 107662; n. 6825 del 17/01/1977, Gatto, Rv. 136015; n. 12742 del 31/05/1978, Predoti, Rv. 140244; n. 8586 del 03/04/1979, Cricchio, Rv. 143165; contra però ancora Sez. 2, n. 2177 del 24/11/1975, dep. 1976, Turrlsi, Rv. 132351 (che viceversa sostiene che “riguardo all’applicazione dell’attenuante del danno, (va chiarito che) essa è incompatibile con il delitto tentato, presupponendo la consumazione del reato e l’esistenza del danno conseguente alla sottrazione”).
Sempre si richiedeva, tuttavia, la prova rigorosa ed univoca che, se l’azione si fosse realizzata, il danno che ne sarebbe derivato sarebbe stato sicuramente di speciale tenuità; si vuole, insomma, che le modalità del fatto siano tali da fornire la certezza che, immaginando che l’agente avesse conseguito il suo scopo, ne sarebbe derivato un danno patrimoniale particolarmente tenue (in ordine cronologico, cfr., della Seconda Sezione: sent. n. 11676, 22/02/1980, dep. 08/11/1980, rie. Passa, Rv. 146527, sent. n. 225, 14/07/1980, dep. 17/01/1981, ric. Genco, Rv. 147303, sent. n. 5045, 28/11/1980, dep. 27/05/1981, ric. Vitale, Rv. 149056, sent. n. 538, 16/06/1981, dep. 23/01/1982, ric. Zampini, Rv. 151711, sent. n. 5642, 22/12/1981, dep. 05/06/1982, ric. Cotrona, Rv. 154113, sent. n. 7686, 09/03/1982, dep. 04/08/1982, ric. Ricciardi, Rv. 154881, sent. n. 9434, 03/03/1982, dep. 16/10/1982, ric. Flora, Rv. 155645, sent. n. 10158, 16/03/1982, dep. 28/10/1982, ric. Vona, Rv. 155870, sent. n. 1634, 23/03/1982, dep. 24/02/1983, ric. Iacobbi, Rv. 157538, sent. n. 9600, 14/04/1983, dep. 15/11/1983, ric. Guercini, Rv. 161188, sent. n. 10679, 01/06/1983, dep. 10/12/1983, rie. Foropat, Rv. 161674, n. 3768 del 11/07/1983, dep. 1984, Versace, Rv. 163855; n. 9038 del 04/05/1984, Murabito, Rv. 166288; n. 1315 del 25/10/1984, dep. 1985, Barbagallo, Rv. 167797; n. 4356 del 16/11/1984, 1985, Irrera, Rv. 169067; n. 10452 del 13/06/1985, Macalli, Rv. 171004; n. 3964 del 21/11/1988, dep. 1989, Rubino, Rv. 180823; n. 4767 del 04/12/1989, dep. 1990, De Angelis, Rv. 183915; della Quarta Sezione: n. 8241 del 01/08/1985, La Piana, Rv. 170474; n. 55 del 19/10/1988, dep. 1989, Cari, Rv. 180074; n. 876 del 14/12/1988, dep. 1989, Manfregola, Rv. 180259; della Quinta Sezione: n. 5170 del 09/02/1983, Cecilia, Rv. 159348; della Sesta Sezione: n. 8163 del 30/04/1982, Pirottina, Rv. 155156).
Va rilevato che sono specificamente relative a fattispecie di tentato furto le decisioni n. 11676 del 1980; n. 5642 del 1982; n. 7686 del 1982; n. 8163 del 1982, n. 9600 del 1983; n. 9038 del 1984; n. 1315 del 1985; n. 55 del 1989; n. 876 del 1989; è relativa a fattispecie di tentata rapina la sentenza n. 3964 del 1989; è relativa a fattispecie di tentata truffa la sentenza n. 4767 del 1990.

4.3. Il giudice, dunque – secondo questo, ormai prevalente, orientamento giurisprudenziale – deve prendere in esame le concrete modalità del fatto, concentrando la sua attenzione sull’oggetto materiale preso di mira; e ciò allo scopo di accertare l’entità del nocumento patrimoniale che il reato – se portato a consumazione – avrebbe cagionato alla persona offesa (in ordine cronologico, cfr. Seconda Sezione: n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv. 245258; Quinta Sezione, n. 8413 del 04/06/1992, Leo, Rv. 191491; n. 2063 del 12/01/1994, Calvanico Rv. 197273, n. 2335 del 19/01/1994, Vaccaro, Rv. 197278; n. 648, 05/02/1999, Gerlini, Rv. 214875; n. 32467 del 12/07/2004, Gurrieri (non massimata sul punto); n. 44153 del 30/09/2008, Chiarcesio, Rv. 241688; n. 35827 del 04/06/2010, Borgia, Rv. 248500; n. 43268 del 19/10/2011, Termine, Rv. 251711; Sesta Sezione: n. 10355 del 16/02/1992, Vestita, Rv. 192098).
Va notato, in particolare che la sentenza Chiarcesio, appena citata, utilizza l’espressione: “occorre avere riguardo al danno ipotetico che il reato, se consumato, avrebbe causato”.
5. Le sentenze, viceversa, che, in numero ormai nettamente minore, negano la compatibilità con il tentativo di furto della attenuante in questione (cfr. le già citate sentenze Sez. 4, Venuti, Rv.
185566; Sez. 5, Buonarota, Rv. 233885; Sez. 5, Luongo, Rv. 246566) insistono, come si è visto, sulla estraneità alla struttura del delitto di furto del concetto di danno, dovendosi intendere, comunque, come tale quello diretto e immediato, subito dalla persona offesa.

6. Orbene, riassunto come sopra lo sviluppo e le “linee di tendenza” della giurisprudenza di legittimità dall’entrata in vigore del codice Rocco ad oggi, si deve riconoscere che un’accorta riflessione sulla problematica che ha determinato l’assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite non può non prendere le mosse da considerazioni che, avendo riguardo alla struttura stessa del delitto tentato, approfondiscano, innanzitutto, il tema della ipotizzabilità di un delitto tentato circostanziato.

Ipotizzabilità di un delitto tentato circostanziato
7. Sul punto, la dottrina non è unanime.

7.1. Alcuni Autori, infatti, escludono in radice la compatibilità tra tentativo e circostanze. Si sostiene al proposito, da un lato, che l’art. 56 c.p., fa riferimento ai soli delitti, senza alcuna ulteriore specificazione, dall’altro, che le circostanze attengono al solo momento sanzionatorio, senza dar luogo a una autonoma fattispecie astratta.
Le circostanze “tentate”, si afferma, non esistono nel nostro sistema penale, atteso che l’art. 59 c.p., ha prefigurato un meccanismo di imputazione delle circostanze fondato sul presupposto dell’effettiva esistenza delle stesse.

7.2. Vi è anche chi esclude la configurabilità del delitto circostanziato tentato con riferimento alle sole circostanze attenuanti. A sostegno di tale conclusione si è fatto rilevare che la modifica (ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19), dell’art. 59 c.p. ha riguardato le sole circostanze aggravanti, rendendo così ammissibile il delitto circostanziato tentato, ma esclusivamente in relazione a esse, mentre per le attenuanti, sarebbe sempre valido il principio della operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente ipotizzate, atteso il testo vigente dell’art. 59 c.p..

7.3. Per quanto poi specificamente riguarda la compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato, vi è chi, pur non negando – in astratto e in generale – la possibilità di un delitto tentato cui ineriscano (possano inerire) alcune circostanze, sostiene che l’attenuante de qua dovrebbe comunque essere esclusa, in quanto il danno rilevante ai fini della sua integrazione, avuto riguardo alla lettera della disposizione, è solo quello effettivo (“avere cagionato (…) un danno patrimoniale di speciale tenuità”) e che la assenza del danno connota, appunto, il delitto tentato e costituisce la ratio della più blanda punizione rispetto al delitto consumato. L’assenza di danno (lieve, lievissimo, grave, gravissimo, che sia), dunque, in quanto già valutata – in linea generale – dal legislatore, da ragione del differente trattamento sanzionatorio, rispetto al delitto consumato.

7.4. Viene inoltre posto in campo anche un argomento testuale, comparando il testo dell’art. 62 c.p., n. 4, che fa riferimento al danno cagionato, con quello dell’art. 61 c.p., n. 8, che, viceversa, attribuisce espressamente rilievo alla condotta consistente, non solo nell'”aver aggravato”, ma anche nell’aver “tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso”.

8. Altri Autori sostengono, invece, la configurabilità del delitto circostanziato tentato e, nello specifico, la sua compatibilità con l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4.
Si assume al proposito, innanzitutto, che il delitto semplice e il delitto circostanziato costituiscono fattispecie incriminatici autonome, fattispecie che disegnano differenti titoli di reato. Non vi è ragione di non “ibridare” il disposto dell’art. 59 c.p., con la disciplina del tentativo (e ciò a maggior ragione dopo la riforma operata dalla L. n. 19 del 1990). Nel testo attualmente vigente, infatti, l’art. 59 si limita a escludere la rilevanza di circostanze meramente supposte.
Per altro, la compatibilità è stata anche ritenuta, da una parte della dottrina, sul presupposto che il divieto di configurabilità del delitto circostanziato tentato opererebbe solo con riferimento alle aggravanti e non anche alle attenuanti; ciò in coerenza con la funzione di garanzia che assume il principio di legalità-tipicità nel nostro ordinamento.

9. In realtà, è indubbio che alcune circostanze siano oggettivamente incompatibili con il tentativo.
Certamente lo sono quelle relative a una attività che neanche parzialmente sia stata posta in essere.
Proprio in dottrina, d’altra parte, si è distinto il delitto circostanziato tentato (ovvero il tentativo di delitto circostanziato), dal delitto tentato circostanziato (ovvero il tentativo circostanziato di delitto).
Il primo (delitto circostanziato tentato) è il tentativo di un delitto che, se fosse giunto a consumazione, sarebbe apparso qualificato da una o più circostanze. Il secondo (delitto tentato circostanziato) si realizza quando, nella fase esecutiva del tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggravanti, anche se il delitto avuto di mira non giunge a consumazione.
Dunque: nel primo caso, la circostanza non si è, di fatto, è realizzata, ma, per così dire, è rimasta assorbita nel tentativo (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 7, e, appunto, art. 62 c.p., comma 1, n. 4, c.p.); nel secondo gli elementi costitutivi della circostanza si sono effettivamente realizzati (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 6, art. 62 c.p., comma 1, n. 2).

9.1. Ebbene riesce difficile, per non dire impossibile, sostenere che, nella seconda ipotesi (delitto tentato circostanziato), la circostanza – aggravante o attenuante – non sia applicabile, dal momento che essa, indubitabilmente, sussiste in rerum natura.

9.2. Il problema, evidentemente, rimane, allora, circoscritto alla prima ipotesi: quella in cui la circostanza, pur inerente alla condotta dell’agente, non è stata posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza potesse essere realizzata.
Il che accade sempre quando “il venire al mondo” della circostanza coincide con la consumazione del delitto. Trattasi, ad evidenza, del caso in esame, in quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di speciale tenuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se la res non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale diretto. Il che perè è insito nel concetto stesso di delitto tentato, in quanto reato senza evento (in senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque, il delitto tentato può essere assimilato – come pure è stato fatto – ai reati di pura condotta o anche a quelli a consumazione anticipata, reati per i quali, come è noto, il legislatore ha previsto la punibilità prima del (o a prescindere dal) verificarsi dell’evento.
Invero, sia nel delitto tentato che in quello a consumazione anticipata è richiesta tanto la idoneità dell’atto, quanto un principio di esecuzione, dal quale si possa desumere la unidirezionalità della condotta (cfr. Sez. 1, n. 11344 del 10/05/1993, Algranati, Rv. 195753; Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel, Rv. 188642). D’altra parte, nei reati di pura condotta, come è noto, la consumazione coincide con il compimento di quell’azione (ovvero di quell’omissione) descritta nella norma incriminatrice.

9.3. Orbene, tali categorie di reati (di pura condotta e a consumazione anticipata) pacificamente ammettono la forma circostanziata, come può desumersi, tra le altre, dalla sentenza per ultima citata che, pur disconoscendo, nel caso specifico, la sussistenza della attenuante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 1, ciò fa per motivi attinenti alla fattispecie concreta e non per una ritenuta – astratta e generale – incompatibilità tra la predetta circostanza e i delitti di attentato.

9.4. In realtà, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità dell’azione che si intende compiere.
Naturalmente è richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di semplice intendimento, ma si manifesti attraverso condotte significative, cui sia collegata una apprezzabile probabilità di “successo” (appunto: atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto). Anche le circostanze non realizzate dunque (è l’ipotesi del tentativo di delitto circostanziato, cioè del delitto circostanziato tentato), contribuiscono a integrare e a caratterizzare il proposito criminoso.
Per quel che si è detto prima, tuttavia, deve trattarsi di circostanze riconoscibili in base a quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere. E la riconoscibilità, va da sè, costituisce il riflesso nella mente dell’interprete della inequivocità dell’azione. Invero, da un punto di vista logico, il giudizio sulla inequivocità degli atti (e dunque sulla direzione dell’azione) sembra precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato sotto il profilo della sua (potenziale) efficacia. Vero è, tuttavia, che solo un atto (sia pure astrattamente) idoneo si presta a un giudizio di tipo teleologia), essendo la potenziale efficacia dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di talchè idoneità e univocità si pongono come due connotazioni dell’agire volontario che, congiuntamente apprezzate, rendono – ad un tempo – riconoscibile (dai terzi) e raggiungibile (potenzialmente) lo scopo perseguito dall’agente.

9.5. Ma l’azione diretta a uno scopo – questo è il punto – ben può inglobare quella che l’ordinamento considera una circostanza del reato, in quanto caratterizzante, come si è premesso, le modalità della condotta, ovvero in quanto inerente all’oggetto della attività criminosa.
Il problema, allora, si risolve, da un lato, nel vagliare la compatibilità logica e giuridica della circostanza (di quella circostanza) con il tentativo di delitto, dall’altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della compatibilità in concreto, cioè nel verificare la ravvisabilità, nell’ambito del singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze raccolte, della circostanza in questione. In tal senso, non a caso, si è espressa quella giurisprudenza che ha esaminato funditus il problema (cfr. Sez. 5, n. 16313 del 24/01/2006, Cartillone, Rv. 234424; Sez. 4, n. 4098 del 17/01/1989, Lamusta, Rv. 180846).

9.6. La soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea meramente astratta e non può essere univoca; in realtà essa dipende, da un lato, dalla tipologia della particolare aggravante in questione, dall’altro, dallo sviluppo dell’azione posta In essere dall’agente. E invero, In determinati casi, è indubbiamente necessaria la realizzazione dell’evento che costituisce oggetto di quella determinata circostanza, ovvero occorre il perfezionamento dei relativi presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dal soggetto agente; in altri casi non è necessario che ciò si verifichi.

9.7. E allora, anche con specifico riferimento alla problematica sottoposta alle Sezioni Unite, occorrerà procedere con la metodica sopra evidenziata, cui sembra esattamente conformarsi il dictum della già citata sentenza Sez. 2, n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv. 245258, in base alla quale, ai fini dell’applicabilità della diminuente di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, il giudice deve avere riguardo alle concrete modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato, avrebbe cagionato, in modo diretto e immediato, un danno di speciale tenuità; deve cioè aversi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato, qualora fosse stato consumato.
Ciò, ovviamente, sul presupposto (già sopra evidenziato) in base al quale “la norma dell’art. 56 c.p., non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato, ma anche a quella del reato circostanziato, per cui l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che non tocca il principio di legalità. Infatti, al fini della configurazione del tentativo di delitto aggravato, oltre al criterio della idoneità e della univocità degli atti e dei mezzi che possono indicare un proposito criminoso riferibile a un delitto aggravato, acquistano rilevanza e sono compatibili – e, dunque, estensibili al tentativo – tutte le circostanze, aggravanti o attenuanti, che attengono ai fini dell’azione criminosa” (così testualmente la appena citata sentenza De Luca).
E su tale principio di carattere generale converge gran parte della giurisprudenza di legittimità, affermando con nettezza che l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato non contrasta con il principio di legalità (cfr. Sez. 1, n. 5717 del 16/12/1987, dep. 1988, Nugnes, Rv. 177420; Sez. 1, n. 1154 del 03/03/1986, Oliva, Rv. 172378; Sez. 2, n. 2355 del 05/07/1976, dep. 1977, Serrane, Rv. 135275; Sez. 1, n. 2596 del 09/11/1971, dep. 1972, De Colombi, Rv. 120865 e 120866).

9.8. Invero, come ha osservato da Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, dep. 2007, Aquino, Rv. 235937, (in tema di stupefacenti e di applicabilità al tentativo di importazione della aggravante ex art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), “la disciplina del reato tentato si riferisce a tutti gli aspetti della tipicità, ivi compresi quelli inerenti alle circostanze. Dagli artt. 56 e 59 c.p. non si trae alcun argomento, diretto o indiretto, da cui possa inferirsi che la disciplina del tentativo sia inerente al solo reato base”.
A ben vedere, il tentativo stesso è configurabile, come è pacifico, in base alla “combinazione” di due norme: la norma incriminatrice speciale e la norma estensiva di cui all’art. 56 c.p.. Trattasi di una metodica tipica del codice penale e che si applica, ad esempio, in ipotesi di concorso di persone nel reato (norma incriminatrice speciale e norma estensiva dell’art. 110), nonchè, ovviamente, in tema di reato caratterizzato da circostanze comuni (norma incriminatrice speciale, cui ineriscono le circostanze di cui agli artt. 61 e 62 c.p.). Non vi è dunque ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio “meccanismo combinatone)”, che veda agire sulla norma incriminatrice tanto l’art. 56, quanto gli artt. 61 e/o 62 c.p.).

9.9. Né ha pregio l’obiezione – sopra anticipata – in base alla quale le circostanze hanno rilievo ed effetto solo in campo sanzionatorio. L’assunto, invero, prova troppo, in quanto anche le “semplici” norme incriminatrici hanno, ovviamente, rilievo sul versante sanzionatorio; non di meno, esse descrivono una condotta (e indicano la relativa connotazione psicologica), così come fanno le circostanze, tanto che talune condotte, a volte, sono considerate dal legislatore ipotesi autonome di reato, altre volte, elementi costitutivi di altri reati, o ancora – appunto – circostanze (es. la violenza sulle cose, cfr. artt. 635 e 392 c.p., art. 614 c.p., comma 4).

la compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato
10. Il ragionamento appena sviluppato non riceve smentita – in relazione al tema specifico oggetto della presente decisione – dall’assunto che caratterizza tutte le sentenze espressive dell’orientamento minoritario, vale a dire quello in base al quale, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, non potrebbe trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, ovviamente, il danno manca (così da ultimo la già ricordata decisione della Sez. 5, n. 11923 del 27/01/2010, Luongo, Rv. 246556, che, in verità, si è limitata a recepire una massima tralascia, ignorando l’ormai sedimentato contrasto di giurisprudenza).
In merito è appena il caso di osservare che è del tutto ovvio che la circostanza sia attinente a un fatto che non integra alcun elemento costitutivo del reato, in quanto, se così non fosse, ovviamente, non di una circostanza si tratterebbe (cioè di un quid che eventualmente accede a un reato in sè perfetto), ma – appunto – di una componente del reato stesso. La circostanza, per sua stessa definizione, è un satellite del reato (circum stat) e, come la sua eventuale mancanza non incide sulla esistenza dello stesso, così la sua presenza non postula necessariamente (e sempre) che il reato sia stato consumato, ben potendo esso essersi arrestato allo stadio del tentativo.

10.1. Al proposito, non sembra pertinente l’osservazione circa la irrilevanza delle circostanze erroneamente ritenute sussistenti (art. 59, comma terzo, c.p.), perchè, nel caso del tentativo di delitto circostanziato (delitto circostanziato tentato), la circostanza non è supposta, ma voluta e – per quel che si è detto – riconoscibile sulla base di quel frammento di condotta effettivamente posto in essere. L’agente, in altre parole, non è in errore circa la sussistenza di una circostanza, ma vuole agire realizzando (anche) una determinata circostanza.
10.2. Occorre dunque che l’Interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall’agente, allo scopo di desumere se, sulla base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circostanza sia riscontrabile.
Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma, non per questo, di una valutazione inibita al giudice, atteso che, ad esempio, del tutto ipotetico è il così detto giudizio controfattuale, cui lo stesso è chiamato in tema di reato omissivo (cfr.: Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv 222138) e ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema proprio di delitto tentato (o dei delitti a consumazione anticipata), posto che al giudicante è richiesto di valutare, non la condotta – in sè – tenuta dall’agente, ma tale condotta in relazione all’obiettivo che l’agente si proponeva di raggiungere, di valutare detta condotta, vale a dire, “come se” l’evento voluto si fosse, in realtà, realizzato.
Ed è proprio per tale ragione che la menzionata sentenza Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, rie. Aquino, Rv. 235937, ha ritenuto configurabile l’aggravante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, allorchè vi sia la prova che, se l’operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato un quantitativo ingente di sostanza psicotropa.

10.3. Ebbene, oltre alle già ricordate considerazioni in ordine al principio di legalità, la sentenza in questione svolge anche considerazioni in ordine al principio costituzionale di eguaglianza, per quel che riguarda il riconoscimento di circostanze (attenuanti o aggravanti) in tema di tentativo; ciò fa prendendo come termine di riferimento proprio il tentativo di furto e sostenendo che “è razionale che la ponderazione della gravità dell’illecito sia rapportata anche alla configurazione che il fatto e l’offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto fosse stato portato a compimento. Una diversa soluzione porterebbe a risultati contrari al principio di uguaglianza, determinando l’irrogazione della medesima pena, sia nel caso in cui fosse tentato un furto semplice, sia in quello in cui la sottrazione riguardasse un bene di grande valore”.

10.4. D’altra parte, con riferimento alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, comma primo, n. 7, c.p., che ovviamente costituisce il “reciproco” della attenuante ex art. 62, comma primo, n. 4. stesso codice), la giurisprudenza – precedente e successiva alla ricordata sentenza Aquino e altri – non dubita della sua applicabilità al tentativo (cfr. Sez. 5, n. 17275 del 26/11/2008, dep. 2009, Stendardo, Rv. 244632, in tema di furto; nonchè Sez. F, n. 33408 del 13/08/2009, Hudorovic, Rv. 244353 (in tema di truffa).

11. Le conclusioni sopra esposte ricevono conferma testuale, dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito e in quello sostanziale.
Invero, l’art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), come è noto, fa obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza di una serie di delitti non colposi – consumati o tentati – individuati in base alle pene edittali, ovvero specificamente elencati. Ebbene, detto articolo ha subito modifica, ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94, nel suo comma 2, che, attualmente, recita:
“anche fuori dei casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: (…) e) delitto di furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 4 della legge 8 agosto 1977, n. 533, o quella prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, prima ipotesi, salvo che, in quest’ultimo caso, ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4; e-bis) delitti di furto previsti dall’art. 624 bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 4”.
Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi, si deduce necessariamente che le circostanze – aggravanti o attenuanti – debbano essere valutate (quantomeno ai fini dell’arresto in flagranza), sia con riferimento ai delitti consumati, sia ai delitti tentati.

11.1. D’altra parte, la Corte costituzionale, più di un decennio prima, con la sentenza n. 54 del 1993, aveva avuto modo di occuparsi dell’arresto obbligatorio in flagranza, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 380 c.p.p. – nel testo, ovviamente, all’epoca vigente – nella parte in cui prevedeva l’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto, tanto consumato, quanto tentato, aggravato ai sensi dell’art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi (violenza sulle cose), proprio nel caso in cui ricorresse, insieme con l’aggravante di cui sopra, la circostanza attenuante prevista dall’art. 62, comma 1, n. 4, dello stesso codice.
Il Giudice delle leggi, a seguito di ricognizione del “diritto vivente”, rilevava allora che la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4, c.p. risultava applicabile anche al furto tentato; ciò anche in considerazione del fatto che “una più incisiva considerazione, in via generale, della speciale tenuità del danno emerge dall’ampliamento dell’originario art. 62, n. 4, effettuato con la L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2”.
E in effetti, con il predetto testo normativo, il legislatore ha notevolmente ampliato l’ambito di applicazione della circostanza attenuante della “speciale tenuità”, estendendola, dai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro. In tale ultimo caso, tuttavia, sembra avere esplicitamente previsto, accanto all’ipotesi in cui il lucro sia stato effettivamente conseguito, quella in cui esso sia solo sperato, ma non anche raggiunto (“(…) nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire, o l’avere comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”).

11.2. Tale essendo la lettera della legge dopo “l’innesto” operato dal legislatore del 1990, sembra inevitabile chiedersi se, per quel che riguarda l’attenuante in questione, il regime relativo ai delitti determinati da motivi di lucro si differenzi da quello relativo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, nel senso che, solo nel primo caso, e non anche nel secondo, la diminuente sarebbe applicabile anche al tentativo, secondo il criterio dell’ubi voluit dixit (“aver agito per conseguire, o avere comunque conseguito”); ovvero se si debba ritenere che il legislatore abbia semplicemente introdotto la nuova disposizione in un contesto nel quale la diminuente in questione doveva già ritenersi applicabile al tentativo, redigendo un testo più articolato, per la necessità di assicurare la tutela degli altri beni giuridici protetti dalle fattispecie qualificabili come “delitti determinati da motivi di lucro”.

11.3. In questi termini si è espressa la già ricordata sentenza Sez. 2, De Luca, per la quale nessuna incidenza ostativa alla applicazione della attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n. 4al delitto tentato può derivare dalla riforma del 1990, atteso che “l’aggiunta apportata all’art. 62 c.p., n. 4, dalla L. n. 19 del 1990, (…) ha solo esteso l’ambito applicativo della suddetta norma anche ai delitti determinati da motivi di lucro”.

11.4. D’altronde, vi è più di una ragione per scartare la prima opzione interpretativa, atteso che, non solo i delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, in quanto manifestazione dell’istinto predatorio, sono ispirati, secondo l’id quod plerumque accidit, da motivi di lucro (di talchè essi si pongono, nei confronti di tali ultimi delitti in rapporto di specie a genere), ma anche perchè la pretesa differenziazione introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento.
Disparità di trattamento che, come messo in luce da attenta dottrina, determinerebbe conseguenze davvero paradossali, sia sul versante sostanziale, che su quello procedurale.
Invero, considerando inapplicabile al furto tentato l’attenuante in questione, ben potrebbe, in ipotesi, tale delitto esser punito più gravemente di un furto consumato, se, in tale secondo caso, l’attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n. 4, dovesse trovare ingresso (eventualmente insieme con altre attenuanti).
“Aberranti” poi sono state definite le conseguenze in tema di applicazione di specifiche discipline demenziali; in particolare è stato richiamato ciò che sarebbe potuto accadere in applicazione dell’amnistia prevista dal D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, art. 4, per la quale un furto (consumato) pluriaggravato, attenuato dalla circostanza del danno patrimoniale di speciale tenuità, sarebbe rientrato nell’amnistia, mentre da questa sarebbe stato escluso il tentativo di furto dello stesso oggetto, nel caso in cui si ritenesse l’attenuante inapplicabile al delitto tentato.

11.5. E, d’altra parte, ancora in tema di arresto obbligatorio in flagranza, se si ipotizzasse che il legislatore, nel modificare l’art. 380 c.p.p., comma 2, non avesse inteso riconoscere l’applicabilità della diminuente in esame al tentativo, si arriverebbe a un risultato ermeneutico altrettanto assurdo. Sarebbe infatti obbligatorio procedere “all’arresto nel caso di flagranza di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, di tentato furto in abitazione o di tentato furto con strappo, pur se il danno in concreto ipotizzabile fosse di speciale tenuità, mentre, se il danno effettivamente causato fosse, appunto, di speciale tenuità, tale dovere non sussisterebbe, in caso di furto consumato, aggravato dalla violenza sulle cose, di furto in abitazione o di furto con strappo.

12. In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, deve affermarsi che “nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, di cui all’art. 62 c.p., n. 4, può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima”.

13. La sentenza impugnata che ha escluso in radice – ritenendola incompatibile con il tentativo di furto – l’applicabilità dell’attenuante in questione all’Imputato che aveva tentato di impadronirsi del denaro contenuto in un distributore automatico di bevande, deve dunque essere annullata sul punto, disponendosi rinvio per nuovo esame, in merito ad esso, ad altra sezione della Corte di appello di Torino.