Scelte da Renato Bricchetti

1. Interpretazione dell’art. 27, primo comma, Cost.: il fatto “proprio” colpevole

C. Cost. 24 marzo 1988, n. 388

(omissis)

Le critiche rivolte all’art. 5 c.p. (e al principio d’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale) dopo l’entrata in vigore della Costituzione
7. – Prima d’iniziare il confronto tra l’ art. 5 c.p. e la Carta fondamentale, va … ricordato che, a seguito dell’entrata in vigore di quest’ultima, lo stesso articolo é stato oggetto di numerose, pesanti critiche.
Partendo da ben note premesse sistematiche (l’imperatività della norma penale); ricordata la strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale (già nel 1930 tal principio, trasferito dal capitolo dell’imputabilità, nel quale era inserito dal codice del 1879, a quello dell’obbligatorietà della legge penale, era divenuto “cardine” del sistema); ed affermata la necessità, per la punibilità del reato, dell’effettiva coscienza, nell’agente, dell’antigiuridicità del fatto; é stata con forza sottolineata la stridente incompatibilità dell’ art. 5 c.p., qualificato come “incivile”, con la Costituzione.
E’ stato, tuttavia, agevole, sul versante delle premesse sistematiche, contrapporre alla tesi dell’effettiva imperatività della norma penale, la formula dell’idoneità della stessa norma a funzionare come comando e, sul versante dell’illegittimità dell’ art. 5 c.p., contrapporre alla richiesta di totale abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’intero articolo l’inesistenza, nella Costituzione, d’un vincolo, per il legislatore ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d’effettiva coscienza dell’antigiuridicità.
Le risposte, indubbiamente corrette, da una parte hanno, tuttavia, finito col “chiudere” ogni indagine sulla relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una determinata concretezza storica, in una particolare situazione sociale e d’altra parte hanno precluso, tranne lodevolissime eccezioni, ogni ulteriore esame della Costituzione, allo scopo di verificare se, in mancanza del precitato “vincolo” dell’effettiva presenza della coscienza dell’antigiuridicità, non esistessero altri vincoli, per il legislatore ordinario, mirati ad escludere l’incriminazione di fatti commessi in carenza di altre, anche se meno penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale.
Sorge, invero, spontanea la domanda: a che vale richiedere come essenziale requisito subiettivo (minimo) d’imputazione uno specifico rapporto tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni “preliminare” esame delle relazioni tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e fatto considerato nel suo “integrale” disvalore antigiuridico viene eluso?
E come é possibile risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve le osservazioni che, in proposito, saranno prospettate in seguito) del principio di colpevolezza, intesa quest’ultima come relazione tra soggetto e fatto, quando, non “rimuovendo” il principio d’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, sancito dall’ art. 5 c.p., vengono “stroncate”, in radice, le indagini sulle metodiche d’incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonché sulle “certezze” che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto, sulle garanzie che, in materia, di libertà d’azione, il soggetto attende dallo Stato?

Valore e funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) del principio di colpevolezza nel sistema costituzionale vigente. Il principio di colpevolezza costituisce il “secondo aspetto” del principio, garantistico, di legalità,
8.- Allo scopo d’un attento approccio all’esegesi dell’art. 27, primo comma, Cost., occorre preliminarmente accennare al valore ed alla funzione che il momento subiettivo dell’antigiuridicità penale, il personale contrasto con la norma penale, assume nel sistema della vigente Costituzione.
Si noti: una parte della dottrina richiede anche un mutamento terminologico, valido a distinguere la concezione della colpevolezza quale fondamento etico della responsabilità penale dalla concezione che ne accentua la sua funzione di limite al potere coercitivo dello Stato.
A parte ogni questione sull’ammissibilità d’un’idea di colpevolezza che limiti senza fondare la potestà punitiva dello Stato, i richiesti mutamenti terminologici appaiono necessari ed anche urgenti; e, tuttavia, in questa sede, é preferibile mantenersi fermi alla tradizionale etichetta “colpevolezza” sia per ovvii motivi di chiarezza sia per sottolineare, pur nel variare, storicamente condizionato, delle nozioni dommatiche, la continuità dell’esigenza costituzionale del rispetto e tutela della persona alla quale viene attribuito il reato.
Va, a questo proposito, sottolineato che non é stato sufficientemente posto l’accento sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza.
La prima, tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato, denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell’illecito penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena.
Qui si userà il termine colpevolezza soprattutto in quest’ultima accezione mentre lo stesso termine, all’infuori della prospettiva costituzionale (nell’impossibilità di ritenere “costituzionalizzata”, come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con l’ art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi dell’intera Costituzione, al fine di chiarire come l’art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza (attraverso l’esclusione d’ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa si che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi d’imputazione.
Va, a questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato.
Limpidamente testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza.
Sia nella concezione che considera quest’ultima “fondamento”, titolo giustificativo dell’intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il “valore” della colpevolezza, la sua insostituibilità.
Per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su “congrui” elementi subiettivi.
La strutturale “ambiguità” della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d’intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale.
Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento.
Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto.
A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai quali non e in grado, senza la benché minima sua colpa, di ravvisare il dovere d’evitarli nascente dal precetto.
Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto.

L’esegesi dell’ art. 27, primo comma, Cost.
9.- Le premesse precisazioni indicano la “chiave di lettura”, il quadro garantistico entro il quale inserire l’esegesi dell’ art. 27, primo comma, Cost.
Va, intanto, notato che l’ art. 27 Cost. non può esser adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire, spezzettata, senza collegamenti “interni”.
I commi primo e terzo vanno letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono un’unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve possedere perché abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente, nel terzo comma.
Delle due l’una: o il primo é in palese contraddizione con il terzo comma dell’ art. 27 Cost. oppure é, appunto, quest’ultimo comma che svela, ove ve ne fosse bisogno, l’esatto significato e la precisa portata che il principio della responsabilità penale personale assume nella Costituzione.
Sicchè, quand’anche la lettera del primo comma dell’ art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati da un’attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.

(segue) I dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori
10. – Nell’esame del merito dell’interpretazione dell’art. 27, primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori.
E’ anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della norma in esame non risulta essere stata l’unico argomento dei dibattiti svoltisi, nella seduta del 18 settembre 1946, presso la 1a sottocommissione (della “Commissione per la Costituzione”) anzi, tale motivazione venne introdotta, come opinione personale del presidente della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta ed allo scopo di “mantenere” la norma (che costituiva il capoverso dell’ art. 5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della sua soppressione.
Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia pur erronea, interpretazione della formula normativa potesse desumersi la legittimità di responsabilità penali senza partecipazione subiettiva.
Alcuni Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero premonitrice, forti preoccupazioni sulla possibilità di equivoci nell’interpretazione della formula “La responsabilità penale é personale” e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere “configurabile” una responsabilità penale senza elemento subiettivo. La terminologia é spesso imprecisa ma la volontà certa.
Si inizio, da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono casi in cui e “discutibile se si tratti di responsabilità personale o non si tratti di responsabilità penale anche per fatto altrui”.
Si prosegui sottolineando che non si devono creare equivoci, anche “avuto riguardo agli artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice civile, articoli che non trovano la loro corrispondenza nel codice fascista”.
Si sostenne, da altro Costituente, che la formula “La responsabilità penale é personale” fosse da mantenersi, essendo essa affermazione di libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo: “Si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio.
Questo e il principio del diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di responsabilità personale significa richiamarsi ad un principio che domina nell’odierno pensiero della scienza giuridica”.
Intorno ai “dubbi” (ripetiamo, non sulla necessita dell’elemento subiettivo per la responsabilità penale ma sulla possibilità che, interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere ammissibile una responsabilità senza elemento subiettivo) si chiesero “chiarimenti” sui “fatti penali commessi per ordine altrui” e, dando all’espressione “fatto altrui” un significato che includeva nel termine “fatto” anche l’elemento subiettivo, si osservò che quest’ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma materialmente il reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser chiamato a rispondere penalmente.
Se chi opera materialmente, s’affermo esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l’esecuzione d’un ordine, la responsabilità non é più dell’esecutore dell’ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato l’ordine.
Non é, dunque, responsabile “chi ha eseguito un ordine legittimo dell’autorità” perché manca di elemento subiettivo ed é responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all’esecutore) perché nel fatto é incluso il predetto elemento.
Si replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti, affermando che “colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire”: “altrimenti risponderà colui che ha dato l’ordine e risponderà in persona propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso”.
E si aggiunse che colui che esegue l’ordine “non risponde penalmente perché da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente”.
Vi fu, poi, chi osservo che la responsabilità personale non é un principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell’anima, aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame da un canto perché scontata e dall’altro perché, ritornando sul principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che sono in colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui azioni non sono causa diretta o prossima dell’evento (“non sono direttamente colpevoli”).
Tutti i Costituenti, dunque, almeno fino a questo momento del dibattito, sostennero che la responsabilità penale personale implicava necessariamente, oltre all’elemento materiale, un requisito subiettivo e, per alcuni Costituenti, l’esistenza, in particolare, della possibilità di muovere rimprovero all’agente, potendo da lui pretendersi un comportamento diverso.
Esaminando gli ulteriori interventi ci s’accorge che, soltanto quasi alla fine della discussione, mirandosi a respingere le richieste di soppressione della norma in esame, si sposto il dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma sostenendo che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla vita di Mussolini, si erano perseguiti i familiari dell’attentatore od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona che aveva consumato l’attentato e che, pertanto, la norma andava mantenuta.
Da ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne usato, da chi sosteneva la motivazione politica dell’attuale primo comma dell’ art. 27 Cost., come comprensivo dell’elemento subiettivo (attentare alla vita di Mussolini e agire colpevolmente) e dall’altro che tale motivazione tendeva (di chiarata per l’avvenire l’illegittimità costituzionale di sanzioni collettive) a non far ricadere su innocenti “colpe” altrui. L’intervento successivo a quello del presidente della prima sottocommissione é oltremodo eloquente in proposito: “…Proprio in questi ultimi tempi si sono viste delle persone pagare con la vita colpe che non avevano assolutamente commesso”.
La motivazione politica della norma é, dunque, quella d’impedire che “colpe altrui” ricadano su chi é estraneo alle medesime.
Né va dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre 1946) della stessa prima sottocommissione, allorchè si tratto di sostituire il termine “colpevole” con quello di “reo”, dapprima si suggerì d’usare la parola “condannato” ma, successivamente, di fronte alla contestazione sull’inusualità del termine “condannato” fuori dalla sede processuale, si torno, per un momento, alla parola “colpevole”, dichiarandosi espressamente: “Questa parola é più chiara, specialmente quando si parla di rieducazione del colpevole, perché il termine di rieducazione presuppone una colpa”.
Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con la norma di cui al primo comma dell’ art. 27 Cost., ad escludere la responsabilità penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che alcuni Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame, sostitutivo della parola “personale” con l’espressione “solo per fatto personale” e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell’Assemblea costituente, si motivo l’emendamento, fra l’altro, affermando che si doveva armonizzare la responsabilità penale per fatto proprio con la responsabilità del direttore di giornali per reati di stampa, “cosi che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in presunzione iuris tantum”.
E nella seduta pomeridiana del 27 marzo 1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora una volta, da parte d’altro autorevole presentatore, il citato emendamento, dichiarandosi: “… E qui conviene stabilire che la responsabilità penale é sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così delimitandosi quell’arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità presuntiva in materia giornalistica”.
La responsabilità penale sorge, dunque, solo nell’effettiva presenza dell’elemento subiettivo: non si può mai dare per presunta la colpa.
Se si tien presente che il caso della responsabilità penale del direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era considerato, nel 1946-47, dall’assoluta maggioranza della dottrina, classico caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo di collegamento con l’evento, non si può non dare il giusto rilievo all’“assicurazione” che il Presidente della prima sottocommissione, nella seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell’Assemblea, diede ai presentatori del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo, sull’inesistenza delle preoccupazioni affacciate, data la formulazione proposta dalla Commissione.
In conclusione, va confermato che, per quanto si usino le espressioni fatto proprio e fatto altrui, che possono indurre in errore, in realtà, in tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell’ art. 27 Cost., i Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d’imputazione del reato, ad escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di elementi subiettivi di collegamento con l’evento e, sul piano politico, a non far ricadere su “estranei” “colpe altrui”.
E mai, in ogni caso, venne usato il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale, dell’azione cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso termine come comprensivo anche d’un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell’azione.

(segue) L’ art. 27, primo comma, Cost. nei suoi rapporti con il terzo comma dello stesso articolo
11. – Ma il significato del primo comma dell’art. 27 Cost. va chiarito, anche a parte i citati lavori preparatori, nei suoi particolari rapporti con il terzo comma dello stesso articolo e con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost.
Anzitutto, é significativa la “lettera” del primo comma dell’ art. 27 Cost.
Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità penale é “per fatto proprio” ma la responsabilità penale é “personale”.
Sicché, chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo, per quanto, in sede penale, superato, della distinzione tra fatto proprio ed altrui (salvo a precisare l’esatta accezione, in materia, del termine “fatto”) dovrebbe almeno leggere la norma in esame come equivalente a: “La responsabilità penale é per personale fatto proprio”.
Ma é l’interpretazione sistematica del primo comma dell’ art. 27 Cost. che ne svela l’ampia portata.
Collegando il primo al terzo comma dell’ art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque s’intenda la funzione rieducativa di quest’ultima, essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica.
Non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto) non ha, certo, “bisogno” di essere “rieducato”.
Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò é sicuramente da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si dirà in tema d’ignoranza inevitabile della legge penale) alla predetta colpa dell’agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento.

(segue) Il primo comma dell’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di “responsabilità oggettiva
12.- Non é dato qui scendere ad ulteriori precisazioni: va soltanto chiarito che quanto sostenuto é in pieno accordo con la tendenza mostrata dalle decisioni assunte da questa Corte allorché é stata chiamata a decidere sulla costituzionalità di ipotesi criminose che si assumeva non contenessero requisiti subiettivi sufficienti a realizzare il dettato dell’ art. 27 Cost. Qui quella tendenza si completa e conclude.
A parte un momento le affermazioni “di principio” contenute nelle citate decisioni, nessuno può disconoscere che, sempre, le sentenze, in materia, hanno cercato di ravvisare, nelle ipotesi concrete sottoposte all’esame della Corte, un qualche “requisito psichico” idoneo a renderle immuni da censure d’illegittimità costituzionale ex art. 27 Cost.
Le stesse decisioni, pur muovendosi nell’ambito dell’alternativa tra fatto proprio ed altrui, non hanno mancato di ricercare spesso un qualche coefficiente soggettivo (anche se limitato) sul presupposto che il “fatto proprio” debba includere anche simile coefficiente per divenire “compiutamente proprio” dell’agente: cosi, ad esempio, nella sentenza n. 54 del 1964, nella quale si afferma che il reato in esame “presuppone nell’agente la volontà di svolgere quell’attività che va sotto il nome di ricerca archeologica e che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal necessario provvedimento amministrativo.
Il fatto punito é perciò sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la sanzione penale viene comminata”: si noti che l’attività indicata, in mancanza d’evento naturalistico, integra l’intero fatto, oggettivo che, in conseguenza del riferimento ad esso della volontà dell’autore, “perciò sicuramente” costituisce “fatto proprio” dell’agente; così nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell’ art. 539 c.p., si rileva come, pur in presenza dell’errore sull’età dell’offeso, “la condotta del delitto di violenza carnale, essendo posta in essere volontariamente (e si badi: non esistendo, nell’ipotesi esaminata, evento naturalistico, tal condotta esaurisce il fatto, oggettivamente considerato, al quale va riferita la volontarietà) é con certezza riferibile all’autore come “fatto suo proprio”; e così ancora, a tacere di altre decisioni, in quella del 17 febbraio 1971, n. 2l.
Ed anche a proposito delle dichiarazioni “di principio” contenute nelle citate sentenze va sottolineato che, se si deve qui confermare che il primo comma dell’ art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto della responsabilità “per fatto altrui, va comunque precisato che ciò deriva dall’altro, ben più “civile” principio, di non far ricadere su di un soggetto, appunto estraneo al “fatto altrui”, conseguenze penali di “colpe” a lui non ascrivibili.
Come è da confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per “fatto proprio” non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale (da notare che, anzi, nella fattispecie plurisoggettiva il fatto comune diviene anche “proprio” del singolo compartecipe in base al solo “favorire” l’impresa comune) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla “colpa” in senso stretto.
Ed anche a proposito dell’esclusione, nel primo comma dell’art. 27 Cost., del tassativo divieto di responsabilità oggettiva va precisato che (ricordata l’incertezza dottrinale in ordine alle accezioni da attribuire alla predetta espressione) se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non e coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente (c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria) si deve anche qui ribadire che il primo comma dell’ art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di “responsabilità oggettiva”.
Diversamente va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto, per la c.d. responsabilità oggettiva pura o propria.
Si noti che, quasi sempre e in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole “preventive” che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell’agente la colpa per il fatto realizzato.
Ma, ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva “pura” alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere “coperti” almeno dalla colpa dell’agente perché sia rispettato da parte del disposto di cui all’ art. 27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto.
E non va, infine, dimenticata la sentenza n. 3 del 1956, nella quale limpidamente si afferma: “Ma appunto il direttore del periodico risponde per fatto proprio, per lo meno perché tra la sua omissione e l’evento c’é un nesso di causalità materiale, al quale s’accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 c.p.) sufficiente, come é opinione non contrastata, a conferire alla responsabilità il connotato della personalità”.
A parte ogni rilievo, peraltro già sottolineato, in ordine all’alternativa tra fatto proprio ed altrui, é altamente indicativa l’affermazione per la quale al nesso di causalità materiale s’accompagna “sempre” un certo nesso psichico.

(segue) Il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica
13.- La verità é che non va “continuata” la polemica sulla costituzionalizzazione, o meno, del principio di colpevolezza, di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado l’evidente inversione metodologica, sia consentito interpretare le norme costituzionali alla luce delle norme ordinarie (qual é, peraltro, tra le tante concettualizzazioni scientifiche, la nozione di colpevolezza che dovrebbe essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i contenuti delle norme costituzionali che determinano i requisiti subiettivi “minimi” d’imputazione, a prescindere un momento dal sistema ordinario, desunto dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., occorre verificare, di volta in volta, se le singole ipotesi criminose di parte speciale (collegate con le disposizioni di parte generale) siano o meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai requisiti minimi richiesti dalle autonomamente interpretate norme costituzionali.
La stessa possibilità (che si chiarirà, fra poco, essere essenziale per il giudizio di responsabilità penale) di muovere al l’autore un “rimprovero” per la commissione dell’illecito non equivale ad accoglimento da parte della Costituzione (a costituzionalizzazione) d’una delle molteplici concezioni “normative” della colpevolezza prospettate in dottrina bensì costituisce autonomo risultato, svincolato da ogni premessa concettualistica, dell’interpretazione dei commi primo e terzo dell’ art. 27 Cost., anche se, per accidens, tale “rimprovero” venga a coincidere con una delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in dottrina o desunte da un determinato sistema ordinario.
A conclusione del primo approccio interpretativo del disposto di cui al primo comma dell’ art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica.
Il fatto (punibile, “proprio” dell’agente) va, dunque, nella materia che si sta trattando, costituzionalmente inteso in una larga, anche subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva, d’insieme di elementi oggettivi.
La “tipicità” (oggettiva e soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle diverse ipotesi criminose, ulteriori elementi subiettivi, come il dolo ecc.) costituisce, cosi, primo, necessario “presupposto” della punibilità ed é distinta dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso.

(segue) L’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali
14. – Dal collegamento tra il primo e terzo comma dell’ art. 27 Cost. risulta, altresì, insieme con la necessaria “rimproverabilità” della personale violazione normativa, l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali.
La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole contrasto od indifferenza.
Il ristabilimento dei valori sociali “dispregiati” e l’opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della dimostrata “soggettiva antigiuridicità” del fatto.
Discende che, anche quando non si ritenesse la “possibilità di conoscenza della legge penale” requisito autonomo d’imputazione costituzionalmente richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla conclusione che, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere d’osservare le leggi penali (che, per i cittadini, e specificazione di quello d’osservare le leggi della Repubblica, sancito dal primo comma dell’ art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere, implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od in una “subiettiva”, limitata alla colpa del fatto.
Trattandosi, appunto, dell’applicazione d’una pena, da qualunque teoria s’intenda muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s’é già avvertito, non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere essere “rimproverabile”, l’impossibilita di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell’illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà dell’interessato deve necessariamente escludere la punibilità.
Il vigente sistema costituzionale non consente che l’obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti sorga e si violi (attraverso la commissione del fatto di reato) senza alcun riferimento, se non all’effettiva conoscenza del contenuto dell’obbligo stesso, almeno alla “possibilità” della sua conoscenza.
Se l’obbligo giuridico si distingue dalla “soggezione” perché, a differenza di quest’ultima, richiama la partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere l’obbligo d’osservanza delle leggi (delle “singole”, particolari leggi) penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare la sua violazione soltanto ai requisiti “subiettivi” attinenti al fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d’altra parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza.
Quanto ora precisato già basterebbe a far ritenere l’ art. 5 c.p. incostituzionale nella parte in cui impedisce ogni esame della rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell’ignoranza della (od errore sulla) legge penale.
Anche quando non si sia dell’avviso che l’art. 5 c.p. operi nell’ambito della colpevolezza e lo si agganci, come nel codice Rocco, all’obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritenere contrastante con l’ art. 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all’ignoranza od errore sul precetto dovute all’impossibilità (non rimproverabile) di conoscerlo.

La possibilità di conoscere la norma penale come autonomo presupposto necessario d’ogni forma d’imputazione
15.- Ma il modo più appagante per convalidare tutto ciò é quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la “possibilità di conoscere la norma penale” autonomo presupposto necessario d’ogni forma d’imputazione e che estende la sfera d’operatività di tale “presupposto” a tutte le fattispecie penalmente rilevanti, comprese le dolose.
Considerando il combinato disposto del primo e terzo comma dell’ art. 27 Cost. nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla “possibilità di conoscere la norma penale” va, infatti, attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti: tale “possibilità” é, infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato.

(segue) L’ art. 27, primo comma, nei suoi rapporti con l’art. 25, secondo comma, Cost.: i principi di tassatività e d’irretroattività delle norme penali incriminatrici
16.- Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non esser puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelano la funzione d’orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali.
Non é, infatti, senza significato che il principio di legalità, inteso come “riserva di legge statale” sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall’ art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex scripta.
I principi di tassatività e d’irretroattività delle norme penali incriminatrici, nell’aggiungere altri contenuti al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire i cittadini, attraverso la “possibilità” di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione.
E tutto ciò si chiarisce ancor più (come é stato sottolineato in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello “Stato di diritto”, anche il principio di riserva di legge penale e gli altri precedentemente indicati, sono espressione della contropartita (d’origine contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto, dell’obbligatorietà della legge penale: lo Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli su ciò che é vietato o comandato ma richiede dai singoli l’adempimento di particolari doveri (sui quali ci si soffermerà fra breve) mirati alla realizzazione dei precetti “principali” relativi ai fatti penalmente rilevanti.

(segue) Il principio di riconoscibilità dei contenuti delle norme penali implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost.
17.- Va qui, subito, precisato che le garanzie di cui agli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., per loro natura formali, vanno svelate nelle loro implicazioni: queste comportano il contemporaneo adempimento da parte dello Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla formulazione, struttura e contenuti delle norme penali.
Queste ultime possono essere conosciute solo allorché si rendano “riconoscibili”.
Il principio di “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessita che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da esser percepite anche in funzione di norme “extrapenali”, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare.
L’osservazione dell’ “istante” in cui si viola la legge penale nell’ignoranza della medesima non può far dimenticare, come s’é avvertito all’inizio, che, “prima” del rapporto tra soggetto e “singola” legge penale, esiste un ben definito rapporto tra ordinamento e soggetto “obbligato” a non violare le norme, dal quale ultimo rapporto il primo e necessariamente condizionato.
E’ stato osservato e ribadito, esattamente, che un precetto penale ha valore, come regolatore della condotta, non per quello che e ma per quel che appare ai consociati.
E la conformità dell’apparenza all’effettivo contenuto della norma penale dev’essere assicurata dallo Stato che é tenuto a favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale dell’effettivo contenuto precettivo delle norme.
Oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste, pertanto, un altro “presupposto” della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla “riconoscibilità” dell’effettivo contenuto precettivo della norma.
L’oggettiva impossibilita di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi “chiunque” (non soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato) non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della personale responsabilità penale.

(segue) I doveri strumentali di informazione e conoscenza delle leggi
18.- Ma il problema centrale, per il nostro tema, attiene ai doveri “strumentali” di conoscenza delle leggi, incombenti sui c.d. destinatari dei precetti penali e, conseguentemente, ai limiti dei predetti doveri.
Il passaggio dall’oggettiva possibilità di conoscenza delle leggi penali, assicurata dallo Stato all’effettiva, concreta conoscenza delle leggi stesse avviene attraverso la “mediazione”, ovviamente insostituibile, dell’attività conoscitiva dei singoli soggetti.
Supposta esistente, in fatto, l’oggettiva possibilità di conoscenza d’una particolare legge penale, i soggetti privati, divenendo diretti destinatari dell’obbligo (principale) d’adempimento del precetto oggettivamente conoscibile, devono operare la predetta, insostituibile mediazione.
A questo fine incombono sul privato, preliminarmente, strumentali, specifici doveri d’informazione e conoscenza: ed é a causa del non adempimento di tali doveri che é costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche chi ignora la legge penale.
Gli indicati doveri d’informazione, di conoscenza ecc. costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale, di cui all’ art. 2 Cost.
La Costituzione richiede dai singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del rispetto degli interessi dell’“altrui” persona umana: ed é per la violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi non conoscendone positivamente la tutela giuridica.
Posto, dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista, cioé, per l’agente l’oggettiva “possibilità” di conoscere le leggi penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi.
L’assoluta, “illuministica” certezza della legge sempre più si dimostra assai vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di “entrate in vigore” di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori “seconde” mediazioni.
La completa, in tutte le sue forme, sicura interpretazione delle leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni: quelle ad es. di tecnici, quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le violazioni delle norme, ecc.).
Specifici, particolari doveri, nei destinatari delle leggi penali (di richiesta e controllo delle informazioni ricevute, ecc.) discendono da un sistema di norme strumentali”, la violazione delle quali già denota quanto meno una “trascuratezza” nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell’ordinamento tutto.
D’altra parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle “richieste” preventive dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all’ art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri.
Come é stato rilevato, discende dall’ideologia contrattualistica l’assunzione da parte dello Stato dell’obbligo di non punire senza preventivamente informare i cittadini su che cosa é vietato o comandato ma da tale ideologia discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli s’informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima d’agire.
La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell’ignoranza delle legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l’attenzione “dovuta”.
Ma se non v’é stata alcuna violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si e dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma, Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza é “inevitabile” e, pertanto, scusabile.
Non esiste, é vero, un “autonomo” obbligo di conoscenza delle singole leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia, l’esistenza in testa ai c.d. destinatari dei precetti “principali”, nei confronti di tutto l’ordinamento, di doveri “strumentali”, d’attenzione, prudenza ecc. (simili a quelli che caratterizzano le fattispecie colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di “interessi altrui”; doveri già incombenti prima della violazione delle singole norme penali, mirati, attraverso il loro adempimento e, conseguentemente, attraverso la raggiunta conoscenza delle leggi, a prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle medesime.
Inadempiuti tali doveri, l’ignoranza della legge risulta inescusabile, evitabile.
Adempiuti ai medesimi la stessa ignoranza, divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile, esclude, la rimproverabilità e, pertanto, la responsabilità penale.

(segue) L’effettiva possibilità di conoscere la legge penale é requisito subiettivo minimo d’imputazione che integra e completa quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la la rimproverabilità del fatto
19. – L’effettiva possibilità di conoscere la legge penale é, dunque, ulteriore requisito subiettivo minimo d’imputazione, che si ricava dall’intero sistema costituzionale ed in particolare dagli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost.
Tale requisito viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato.
Non si creda, peraltro, che, ricavandosi il requisito della “possibilità” di conoscere la legge penale” dall’intero sistema costituzionale (ed in particolare dai precitati artt.) esso sia estraneo all’ art. 27, primo comma, Cost., quasi che quest’ultimo comma si riferisca soltanto alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle ipotesi di colpa in senso stretto, delle norme preventive che caratterizzano la colpa oltre, se mai, alla “rimproverabilità” dell’autore del reato.
Vero é che l’ art. 27, primo comma, Cost., dichiarando che la responsabilità penale e personale, non soltanto presuppone la “personalità” dell’illecito penale (la pena, appunto “in virtù” della “personalità” della responsabilità penale, va subita dallo stesso soggetto al quale é personalmente imputato il reato) ma compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d’imputazione.
Il comma in discussione, interpretato in relazione al terzo comma dello stesso articolo ed in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma, e 25, secondo comma, Cost., svela non soltanto l’essenzialità della colpa dell’agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica ma anche l’indispensabilità del requisito minimo d’imputazione costituito dall’effettiva “possibilità di conoscere la legge penale”, essendo anch’esso necessario presupposto della “rimproverabilità” dell’agente.
Il principio della “personalità dell’illecito penale” é “totalmente” implicato dal principio della “responsabilità penale personale” espresso, appunto, dal primo comma dell’art. 27 Cost.: che l’integrale contenuto di questo comma debba esser svelato anche in base alla sua interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso.

L’interpretazione “costituzionale” da dare all’art. 5 c.p.
20. – A questo punto va precisata l’interpretazione da dare all’art. 5 c.p. nel momento in cui lo si “confronta” con gli articoli della Costituzione innanzi richiamati e con l’intero sistema, in materia penale, della Carta fondamentale.
Per quanto occorra allontanare le tentazioni di sopravvalutazione dell’ art. 5 c.p. (é quasi impensabile, infatti, che un soggetto “imputabile” commetta i c.d. delitti naturali nell’ignoranza della loro “illiceità” mentre l’ignoranza delle norme incriminatrici dei c.d. reati di pura creazione legislativa, tenuto conto del loro sempre crescente numero e del relativo “più intenso” dovere di conoscenza da parte dei soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono, si rivela, di regola, inescusabile) lo stesso articolo costituisce, tuttavia, norma fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali ordinarie.
Le interpretazioni che dottrina e giurisprudenza offrono dell’art. 5 c.p., soprattutto allo scopo di distinguere l’irrilevante errore sul precetto dal rilevante errore sulla legge extrapenale di cui all’ art. 47, terzo comma, c.p., sono tanto varie e così diverse tra loro che é impossibile tentarne una sia pur sommaria esposizione.
Qui occorre prendere le mosse dalla “rigorosa” interpretazione che dello stesso articolo danno una parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità (esclusa la “parentesi” della rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni).
Non é questa, infatti, la sede per procedere ad un’interpretazione “esaustiva” della norma impugnata: non, essendo invero, possibile qui chiarire, con precisione, neppure l’oggetto sul quale cade il “vizio”, che l’ art. 5 c.p. sottende ed in base al quale, ove lo stesso articolo non esistesse, l’agente sarebbe scusato, vale qui riportarsi, in materia, alle dottrine che risultano in accordo con la citata “rigorosa” interpretazione dell’articolo in discussione: tali dottrine sottolineano che, incidendo l’ art. 5 c.p. sul momento subiettivo dell’antigiuridicita, l’errore che, ai sensi dello stesso articolo, non scusa é quello che cade sul precetto, sull’aspetto determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che valutazione e determinazione sono inscindibili nella norma penale.
Per nessuno degli aspetti dai quali viene considerato l’art. 5 c.p. si può, infatti, qui partire dalle riduttive interpretazioni che dello stesso articolo alcuni Autori offrono, pur nel lodevole tentativo di “mitigarne” il rigore: non foss’altro perché tali interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente.
Vero é che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale, tra soggetto e norma penale, vanno impostati, come impone la Costituzione, nell’ambito dell’autonomo requisito “possibilità di conoscenza della legge penale” sulla quale ci si e soffermati innanzi: allorché s’ignori la legge penale e l’ignoranza sia inevitabile la mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, diviene, ai sensi dell’ art. 27, primo comma, Cost., rilevante (risultando esclusa la personalità dell’illecito e non essendo legittima la punizione in carenza del requisito della colpevolezza costituzionalmente richiesta) mentre, ove l’ignoranza della legge penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, non esclude la punizione dell’agente che versa in errore di diritto (sempre che si realizzino tutti gli altri requisiti subiettivi ed obiettivi d’imputazione) giacchè, in quest’ultima ipotesi, tale mancata relazione già rivela quanto meno un’“indifferenza” dell’agente nei confronti delle norme, dei valori tutelati e dell’ordinamento tutto.
Richiamato l’art. 5 c.p. alla logica dell’elemento subiettivo, della colpevolezza, che lo stesso articolo arbitrariamente mutila; rilevato il contrasto tra l’articolo in discussione e l’art. 27, primo comma, Cost. (espressivo quest’ultimo, come s’é innanzi chiarito, dell’intero sistema costituzionale in materia di elemento subiettivo del reato); la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’ art. 5 c.p. esclude, in ogni caso, che siano chiamati a rispondere penalmente coloro che versano in stato d’inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.

2l.- Allo stesso modo non é, in questa sede, consentito riferirsi all’interpretazione dell’art. 5 c.p., secondo la quale quest’ultimo, mentre dichiarerebbe irrilevante la conoscenza effettiva della legge penale, nulla disporrebbe in ordine alla possibilità di tale conoscenza.
Questa tesi é degna di particolare considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla possibilità di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo dall’ art. 27, primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo la necessita di considerazione d’una qualche relazione psicologica del soggetto con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti, ai principi di fondo della convivenza democratica a termini dei quali, si ribadisce, così come il cittadino é tenuto a rispettare l’ordinamento democratico, quest’ultimo é tale in quanto sappia porre i privati in grado di comprenderlo senza comprimere la loro sfera giuridica con divieti non riconoscibili ed interventi sanzionatori non prevedibili.
Sennonché, alla predetta interpretazione riduttiva dell’ art. 5 c.p. é stato esattamente osservato che quest’ultimo, escludendo ogni efficacia scusante dell’ignoranza della legge penale, non consente alcuna distinzione attinente alla causa dell’ignoranza, in modo da ritenere l’ignoranza scusabile, a differenza di quella inescusabile, suscettibile di diverso trattamento.
D’altra parte, la proposta interpretazione “adeguatrice”, ex art. 27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in stridente contrasto con l’interpretazione che il diritto vivente da all’art. 5 c.p.: non solo s’interpreta questo articolo, soprattutto da parte della giurisprudenza di legittimità (tranne l’“eccezione” della buona fede nelle contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all’art. 5 c.p. la massima “espansione”, si é, da parte della stessa giurisprudenza, finito, praticamente, con l’addivenire ad una interpretatio abrogans dell’ art. 47, terzo comma, c.p.

22.- E poiché anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza alla “positiva” buona fede nelle contravvenzioni non trova fondamento nell’attuale sistema del Codice Rocco (l’art. 5 c.p., statuendo, in ogni caso, l’irrilevanza dell’ignoranza della legge penale, non consente di distinguere la disciplina giuridica delle ipotesi che danno luogo all’ignoranza “inqualificata” da quelle che la “qualificano” per esser fondate sulla “positiva” buona fede del soggetto; e poiché anche le diverse interpretazioni “evolutive” dell’ art. 5 c.p., secondo le quali lo stesso articolo statuirebbe soltanto una presunzione iuris tantum e non iuris et de iure d’irrilevanza dell’ignoranza della legge penale (tutte, peraltro, degne di considerazione, in quanto mirate ad attenuare l’incostituzionale rigore della statuizione in esame) contrastano con l’interpretazione che dell’ articolo in discussione da il diritto vivente; non resta, dunque, che partire qui da quest’ultima interpretazione.

L’ art. 5 c.p. viola l’ art. 27, primo comma, Cost.
23. – Non può tacersi, a questo punto, che l’art. 5 c.p. ha natura “bifronte”: da un canto nega efficacia scusante all’ignoranza della legge penale e dall’altro esclude ogni rilevanza all’errore sull’illiceità del fatto e, pertanto, alla consapevolezza della stessa illiceità.
E’ stato, invero, in dottrina, precisato che l’art. 5 c.p. non disciplina l’ignoranza della legge penale in astratto ma l’ignoranza (od errore) “essenziale”, anche incolpevole, sull’illiceità d’un concreto comportamento.
Si possono, é vero, attenuare gli inconvenienti che si producono a seguito del disposto di cui all’ art. 5 c.p., in sede di dolo, sostenendo essenziale al medesimo, ex art. 43 c.p., la coscienza della violazione dell’interesse tutelato ed assumendo che l’art. 5 c.p. renda irrilevante soltanto la coscienza dell’illiceità penale (= punibilità) del fatto.
Ma per le ipotesi colpose il soggetto agente verrebbe ad esser punito senza nemmeno la più lontana possibilità (carenza incolpevole) di conoscere la “giuridicità” delle regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali lo stesso soggetto vien punito.
Va aggiunto che l’esistenza d’una norma, quale quella dell’art. 5 c.p., diretta ad escludere ogni giuridico rilievo all’ignoranza (od errore) sulla legge penale, presuppone la contrapposta possibilità, almeno teorica, che il reo, in assenza di tale norma, pretenda scusarsi: ed il reo, in tal caso, si scuserebbe adducendo il “turbamento”, prodotto dall’ignoranza della legge penale sul processo formativo della volontà del fatto.
Nell’ipotesi prospettata, tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una “pretesa” d’essere scusati (nell’inesistenza dell’ art. 5 c.p.) sol in base all’ignoranza , anche inescusabile, della sola punibilità del fatto (pur essendo coscienti di ledere il bene tutelato) e d’altro canto sarebbe sempre l’errore nella formazione della concreta volontà dell’illecito, al quale consegue la carenza di coscienza dell’illiceità penale del fatto, anche se dovuta all’ignoranza (od errore) sulla legge penale, a costituire la ragione della “scusa”, che appunto, lo stesso art. esclude.
Sennonché, a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova che l’art. 5 c.p., nell’attuale vigore, non soltanto determina un uguale trattamento di chi agisce con la coscienza dell’illiceità (totale o soltanto penale) del fatto e di chi opera senza tale coscienza ma esclude ogni possibilità di valutazione della “causa” della mancata coscienza (della sola punibilità o dell’“intera” antiprecettività del fatto) trattando allo stesso modo errore scusabile, inevitabile ed errore inescusabile, evitabile, sull’illiceità.
Punendo, in ogni caso, l’agente che versa in errore di diritto l’art. 5 c.p. presume, iuris et de iure, comunque si delimiti l’oggetto di tale errore, la “rimproverabilità” del medesimo.
Vero é che l’ art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a questa l’importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge penale e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto.
Ma l’ art. 5 c.p. “snatura”, togliendone fondamento, anche la residua materia che non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del fatto ecc.).
Allorchè l’agente ignora, del tutto incolpevolmente, la legge penale e, pertanto, incolpevolmente ignora l’illiceità del fatto, non mostra alcuna opposizione ai valori tutelati dall’ordinamento: può il suo dolo costituire oggetto di rimprovero ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.?
Certo, includendo nel dolo la coscienza dell’offesa (a parte ogni discussione sulla conseguente riduttiva interpretazione dell’art. 5 c.p.) si attenuano gli effetti che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione dello stesso articolo.
Sennonché, pur ammettendo che l’art. 5 c.p. sottragga alla colpevolezza soltanto il rapporto tra soggetto e coscienza del significato illecito “penale” del fatto e non dell’intero disvalore antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a prescindere dalla pratica “inoperatività”, in tal caso, dell’art. 5 c.p.) rimarrebbero del tutto “scoperte” le ipotesi colpose (contravvenzionali ad es.).
Per assumere il soggetto agente “in colpa” dovrebbe, invece, almeno essergli offerta la “possibilità” di conoscere le norme penali che “trasformano” in doverose le regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali, nella prevedibilità ed evitabilità concreta dell’evento, si viene chiamati a rispondere: se l’agente, del tutto incolpevolmente, ignorasse le predette norme penali, la sua “colpa” (del fatto) non dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.
La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto, arricchita, in attuazione dell’art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale nell’ignoranza di quest’ultima, l’atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri d’informazione o d’attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla base della convivenza civile.
Né si tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma di “colpa per la condotta della vita”: risalire alle “cause” dell’ignoranza della legge penale, per verificarne l’evitabilità, costituisce verifica dell’esistenza, in concreto, almeno d’un atteggiamento d’indifferenza, da parte dell’agente, nei confronti della doverosa informazione giuridica.
Tale verifica non solo non viola il principio della responsabilità penale “per il singolo fatto” ma mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del particolare episodio criminoso e può, condurre, come più volte ribadito, all’esclusione della colpevolezza per il singolo fatto, nell’ipotesi d’inevitabilità dell’ignoranza.

L’ art. 5 c.p. viola l’ art. 3, primo e secondo comma, Cost.
24. – In ordine alla violazione del primo comma dell’ art. 3 Cost. va anzitutto ricordato (a conferma di quanto innanzi osservato in ordine all’uguale trattamento che, ai sensi dell’ art. 5 c.p., riceve chi agisce con la coscienza dell’illiceità del fatto e chi invece con tale coscienza non opera) che, come ha avuto modo di rilevare recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell’ignoranza della legge penale dovuta ad impossibilita di prenderne conoscenza viene punito con una pena che, rispetto a quella cui soggiace chi commette lo stesso reato conoscendone l’illiceità, può esser diminuita soltanto entro i limiti edittali ex art. 133 c.p. o, se mai, ex art. 62-bis c.p.
La diversità tra le predette situazioni (conoscenza effettiva ed impossibilita incolpevole di conoscenza della legge penale) é, invece, notevole sia sotto il profilo del disvalore sia sotto quello della “sintomaticità”.
L’ art. 5 c.p. viola, dunque, anche il primo comma dell’ art. 3 Cost.
Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell’ articolo ora citato va ribadito che il non poter addurre a scusa dell’ignoranza della legge penale l’obiettiva o la subiettiva (nei limiti anzidetti) impossibilita di conoscere la stessa legge equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe della predetta ignoranza.
Ben é, invece, almeno possibile, come s’é già sottolineato, che lo Stato non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o “prevedibili”) alcune leggi; oppure che, malgrado ogni positiva predisposizione di determinanti soggetti all’adempimento dei predetti doveri strumentali d’informazione ecc., l’ignoranza della legge penale sia dovuta alla mancata rimozione degli “ostacoli” di cui al secondo comma dell’ art. 3 Cost.

L’art. 5 viola lo spirito stesso dell’intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori
25. – In conclusione: oltre agli specifici articoli della Costituzione indicati in precedenza, l’ art. 5 c.p., nell’interpretazione che del medesimo danno una parte della dottrina e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s’é sottolineato più volte, lo spirito stesso dell’intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori.
Far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.

Criteri in base ai quali va stabilita l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale.
26. – Non resta che accennare ai criteri, ai parametri in base ai quali va stabilita l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale.
E’, invero, di gran rilievo impedire che, in fase applicativa, vengano a prodursi, insieme alla “vanificazione” delle risultanze qui acquisite, altre violazioni della Carta fondamentale.

(segue) Il valore dell’errore comune sul divieto penale
E’ doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare conoscenza, da parte del soggetto agente, consenta al medesimo la possibilità di conoscere la legge penale, non é legittimo che lo stesso soggetto si giovi d’un (eventuale) errore generale, comune, sul divieto.
Ciò va rilevato non perché si disconoscano i tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della dottrina mirati, attraverso l’oggettivazione, per quanto possibile, dei criteri di misura della colpevolezza, a sottolinearne l’aspetto, peraltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d’azione ma perché non é desumibile dalla Costituzione la legittimità d’una concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare il soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei prescritti elementi subiettivi) quando esista, in concreto, la possibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale, comune errore sul divieto) per il singolo agente di conoscere la legge penale e, pertanto, l’illiceità del fatto.
Ammettere, allo stato attuale della normativa costituzionale ed ordinaria, il soggetto agente (che é in errore sull’illiceità del fatto per ignoranza della legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest’ultima e di non errare sulla predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto, determinato dall’altrui, generale, inevitabile ignoranza della legge penale, val quanto riconoscere all’errore comune sul divieto penale il valore di consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali.

(segue) Criteri oggettivi: l’errore sul precetto é inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato
27.- Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto é inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato.
Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravita va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc.
La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comportava, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall’esame di eventuali, particolari conoscenze ed “abilità” possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all’autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della legge penale escludono che l’ignoranza della legge penale vada qualificata come inevitabile.

(segue) Criteri misti: l’errore sul precetto é inevitabile anche nei casi in cui sia determinato da particolari, positive, circostanze di fatto in cui si é formata la deliberazione criminosa
Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l’inevitabilità dell’errore sul divieto, ci si valga di “altri” criteri (c.d. “misti”) secondo i quali la predetta inevitabilità può esser determinata, fra l’altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s’é formata la deliberazione criminosa (es. “assicurazioni erronee” di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell’agente per lo stesso fatto ecc.) occorre tener conto della “generalizzazione” dell’errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto nell’errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell’agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dall’indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche “cognizioni” (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l’origine lassistica o compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali ecc.) é tenuto a “controllare” le informazioni ricevute.
Il fondamento costituzionale della “scusa” dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’inferiorità e non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali.

28.- La casistica relativa all’“inevitabilità” dell’errore sul divieto va conclusa con alcune precisazioni.
E’ stato, in dottrina, osservato che, realisticamente, l’ipotesi d’un soggetto, sano e maturo di mente, che commetta un fatto criminoso ignorandone l’antigiuridicità é concepibile soltanto quando si tratti di reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale (es. violazione di alcune norme fiscali ecc.).
E, in relazione a queste categorie di reati, sono state opportunamente prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella in cui l’agente neppure si rappresenti tale possibilità.
Or qui occorre precisare che, mentre nella prima ipotesi, esistendo, in concreto (ben più della possibilità di conoscenza dell’illiceità del fatto) l’effettiva previsione di tale possibilità, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale (essendo il soggetto obbligato a risolvere l’eventuale dubbio attraverso l’esatta e completa conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad astenersi dall’azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia dell’azione sia dell’astensione e soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s’incorre, ugualmente, nella sanzione penale); la seconda ipotesi comporta, da parte del giudice, un’attenta valutazione delle ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge penale, non s’é neppure prospettato un dubbio sull’illiceità del fatto.
Or se l’assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non colpevole carenza di socializzazione dell’agente, l’ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile.
Inevitabile si palesa anche l’errore sul divieto nell’ipotesi in cui, in relazione a reati sforniti di disvalore sociale é, per l’agente, socializzato oppur no, oggettivamente imprevedibile l’illiceità del fatto.
Tuttavia, ove (a parte i casi di carente socializzazione dell’agente) la mancata previsione dell’illiceità del fatto derivi dalla violazione degli obblighi d’informazione giuridica, che sono, come s’é avvertito, alla base d’ogni convivenza civile deve ritenersi che l’agente versi in evitabile e, pertanto, rimproverabile ignoranza della legge penale.
Come in evitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale versa chi, professionalmente inserito in un determinato campo d’attività, non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo.
La casistica non può esser qui approfondita: basta aver indicato che (alla luce del fondamento costituzionale della scusa dell’inevitabile ignoranza della legge penale) allo scopo di verificare, in concreto, tale inevitabilità, da un canto é necessario (per garantire la certezza della libertà d’azione del cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. “puri” e “misti” e dall’altro canto é doveroso recuperare la spersonalizzazione, causata dall’uso preponderante di tali criteri, con l’esame delle particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto agente.
La giurisprudenza va, infine, rinviata, nell’interpretazione ed applicazione del nuovo testo dell’ art. 5 c.p. ai criteri generali che, in tema di responsabilità a titolo di colpa e di buona fede nelle contravvenzioni, la stessa giurisprudenza é andata via via adottando.
Il nuovo testo dell’art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo che qui si va a dichiarare, risulta cosi formulato: “L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile”.

29.- Non resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre all’eventuale emanazione di norme “di raccordo”) stabilire se l’ignoranza evitabile della legge penale meriti un’attenuazione di pena, come per gli ordinamenti tedesco occidentale ed austriaco, oppure se il sistema dell’ignoranza della legge penale debba restare quello risultante a seguito della qui dichiarata parziale illegittimità costituzionale dell’ art. 5 c.p.
Ogni altra questione sollevata dalle ordinanze di rimessione rimane assorbita dalla predetta illegittimità costituzionale.

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

C. Cost. 13 dicembre 1988, n. 1085

(omissis)

2.- L’ordinanza di rimessione non può essere condivisa nella parte in cui censura l’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, in mancanza d’effettiva restituzione della cosa sottratta, non è configurabile il tentativo di furto d’uso, ex artt. 56 e 626, primo comma, n. 1, c.p..
La stessa ordinanza é, invece, da condividere nella parte in cui ritiene costituzionalmente illegittima l’applicazione, all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, dell’art. 624 c.p.
A tale ipotesi va, invero, applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., che incrimina e disciplina il c.d. furto d’uso consumato.
Inquadramento sistematico della fattispecie di cui all’art. 626, primo comma. n. 1.
Alcune chiarificazioni di fondo vanno premesse ai fini dell’esatto inquadramento sistematico della fattispecie tipica di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., in relazione al tipo previsto nell’art. 624 c.p.
Il furto d’uso è alternativo al furto semplice ed è caratterizzato dalla presenza nel reo della specifica intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo
Vero è che l’“immediata restituzione” della cosa sottratta, dopo l’uso momentaneo della cosa stessa, rileva nella fattispecie di cd. furto d’uso, prima ancora che quale elemento obiettivo, quale momento del contenuto intenzionale del soggetto attivo del fatto, “accanto ed oltre” lo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta.
Ed è appunto l’intero contenuto volitivo del reo che, almeno inizialmente, nettamente distingue, nel sistema del vigente codice penale, l’ipotesi di cd. furto d’uso dal tipo di cui all’art. 624 c.p., che qui si denominerà, per esigenze di chiarezza espositiva, furto semplice, ordinario o comune.
Deve, preliminarmente, esser precisato che il furto d’uso non va configurato quale furto semplice (soltanto) ulteriormente caratterizzato ed attenuato dal momentaneo uso e dalla restituzione, immediatamente dopo l’uso, della cosa sottratta.
Quand’anche non s’accolga la peraltro convincente tesi, autorevolmente proposta, della sostanziale e strutturale autonomia, rispetto al furto comune, della fattispecie tipica di furto d’uso, certo é che, dall’interpretazione sistematica dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., s’evince che o già al momento della sottrazione della cosa mobile altrui esiste, nel reo, oltre allo scopo di far (soltanto) uso momentaneo della cosa che si sta sottraendo, anche l’intenzione di restituire la cosa stessa immediatamente dopo l’uso, ed in tal caso é applicabile (a parte, un attimo, i problemi relativi all’effettiva restituzione della cosa, dei quali ci si occuperà oltre) la disciplina prevista per il furto d’uso; oppure tale intenzione specificamente relativa alla restituzione della cosa (si ribadisce: già nel momento dell’impossessamento) non esiste, ed in questo secondo caso è applicabile la disciplina prevista per il furto comune.
E’, infatti, la presenza nel reo della specifica intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo (oltre, s’intende agli altri requisiti essenziali) che caratterizza, in relazione al furto comune, e sin dall’origine, il furto d’uso.
Quest’ultimo non nasce come furto semplice, solo successivamente “trasformato”, a seguito dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa sottratta, in furto d’uso, bensì, e sin dall’origine, si manifesta per il particolare, caratteristico contenuto intenzionale del reo, consistente nello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta ed insieme nell’intenzione di restituire quest’ultima immediatamente dopo l’uso.
Alla tesi secondo la quale, nello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta, sarebbe necessariamente implicita l’intenzione di restituire la medesima, é stato giustamente obiettato che non sempre (così, ad es., nell’ipotesi di esistenza, nel reo, di tale scopo e dell’intenzione di abbandonare, poi, la cosa) e necessariamente implicita, nello scopo dell’uso momentaneo, anche l’intenzione d’immediatamente restituire la cosa sottratta.
Sennonché, appunto l’esempio proposto (presenza nel reo, al momento della sottrazione, dello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta ed insieme dell’intenzione d’abbandonare la cosa stessa dopo l’uso) rende evidente la volontà del soggetto attivo del fatto, fin dall’inizio, d’appropriarsi della cosa sottratta, ossia d’agire con animus domini.
Insomma: se al momento della sottrazione c’è, nel soggetto attivo, oltre allo scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta, anche l’intenzione di restituire la cosa stessa immediatamente dopo l’uso, si realizza, almeno inizialmente (salve le successive vicende relative a mutamenti volitivi) l’ipotesi del furto d’uso; se, invece, l’intenzione, nel reo, d’immediata restituzione della cosa non c’è, si realizza, sempre ab initio, l’ipotesi del furto comune.
Il furto d’uso é alternativo al furto semplice: o si verifica, in concreto, almeno ab initio, un’ipotesi di furto d’uso (in presenza dell’intenzione di restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta) oppure, in alternativa, con l’ovvia conseguente esclusione di detta ipotesi, si attua (in mancanza di tale intenzione ed in presenza, s’intende, di tutti gli altri requisiti di cui agli artt. 624, 42 e segg. c.p.) un’ipotesi di furto semplice.
Ad avviso della Corte, è appunto dall’inserimento, nel sistema, della fattispecie di furto d’uso (che non esisteva nel codice penale Zanardelli) che risulta particolarmente caratterizzato anche il dolo specifico del furto semplice, se di dolo specifico si tratta: se l’intenzione d’immediatamente restituire dopo l’uso momentaneo la cosa sottratta caratterizza il furto d’uso, l’intenzione di non restituire la stessa cosa (anche dopo un eventuale uso momentaneo) ossia di spossessare definitivamente gli aventi diritto, caratterizza il furto ordinario.
Ma, anche quando, con una parte della giurisprudenza, queste, peraltro sicure, conclusioni, desunte dall’interpretazione sistematica degli artt. 624 e segg. c.p., non venissero condivise, non si potrebbe disconoscere, almeno in ordine al furto d’uso, la necessita dell’“ulteriore” positiva intenzione (al momento della sottrazione) d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
A conferma vale ricordare, in materia, i lavori preparatori; ed in particolare la Relazione ministeriale sui libri II e III del progetto (Lavori preparatori del codice penale, vol. V, parte II, n. 741) ove espressamente si legge: “… si risponderà di furto semplice… sia quando siasi sottratta la cosa allo scopo di usarla e poi di restituirla, ed in effetti non siasi restituita sia quando, pur di fronte ad una avverata restituzione, non sia provato che la sottrazione fu commessa con lo scopo di restituire. Potrà in quest’ultima ipotesi concedersi la diminuente di pena per la circostanza della restituzione del tolto”.
Non c’e dubbio, dunque, che la sottrazione e l’impossessamento, perché si abbia furto d’uso, devono avvenire con l’intenzione d’immediatamente restituire, subito dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
Da quanto osservato s’evince non soltanto che, prima ancora che sul piano obiettivo, la restituzione opera quale iniziale, “ulteriore” contenuto intenzionale caratterizzante il furto d’uso ma anche che soltanto un mutamento, intervenuto successivamente alla sottrazione, del predetto contenuto intenzionale può porre problemi relativi all’applicabilità della disciplina prevista per il furto ordinario; a meno che, come si preciserà in seguito, non s’intenda illegittimamente escludere dalla comprensione dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., l’ipotesi della mancata restituzione dovuta a caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta.

(omissis)

L’effettiva restituzione della cosa sottratta è necessaria per l’integrazione del furto d’uso ma non è l’evento del reato
4. – La restituzione assume un particolare rilievo, sul piano obiettivo, nella legislazione italiana: questa, infatti, a differenza di altre legislazioni, non soltanto prevede una fattispecie tipica generale (ossia applicabile alla sottrazione di qualunque genere di cose mobili) di furto d’uso ma richiede, per l’integrazione della medesima, l’effettiva restituzione della cosa sottratta.
Non interessano, in questo momento, le motivazioni delle scelte operate dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.: potrà anche esser stata la necessita d’individuare un elemento valido a provare, in maniera inconfutabile, l’iniziale intenzione, nel reo, di restituire la cosa sottratta (contro gli artifici difensivi in ordine alla prova di tale intenzione) ad indurre il legislatore a richiedere, per l’integrazione del furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta.
Certo è che, come risulta anche dal citato passo della Relazione ministeriale al vigente codice penale, si risponde di furto comune (e non di furto d’uso) anche quando, pur essendosi sottratta la cosa altrui con lo scopo di momentaneamente usarla e, subito dopo, di restituirla al legittimo detentore, la stessa cosa non sia stata (salvo quanto si osserverà di qui a poco) effettivamente restituita.
Difficile è l’inquadramento, nel sistema, del requisito obiettivo del quale si sta discutendo, e tenace é la tentazione, nella quale cade anche il giudice a quo, d’allargare, “in avanti”, il fatto di furto d’uso, ritenendolo perfezionato soltanto nel momento dell’avverata restituzione della cosa sottratta e, così, di ravvisare, nell’ipotesi di sottrazione ed uso momentaneo della cosa, con conseguenti atti diretti a restituirla interrotti in itinere, tentativo di furto d’uso e non furto d’uso consumato.
Sembra, infatti, a prima vista, agevole argomentare che, se la pena prevista per il furto d’uso scatta nel momento dell’avvenuta restituzione, questa ultima (rappresentando, peraltro, la realizzazione “finale” della volontà del reo) costituisce l’evento della fattispecie di furto d’uso e, pertanto, come nella specie all’esame del giudice a quo, gli atti idonei, realizzati dopo la sottrazione e l’uso momentaneo della cosa sottratta, diretti a restituire la medesima interrotti “in itinere” integrano tentativo di furto d’uso.
Sennonché, va intanto preliminarmente ribadito che, in caso di volontaria mancata restituzione della cosa sottratta, non può che esservi stato, nel soggetto attivo del fatto, un mutamento volitivo, se e vero che, nel momento della sottrazione, lo stesso soggetto ha nutrito l’intenzione di restituire la cosa e che solo successivamente, “mutando d’avviso”, ha deciso di spossessare definitivamente l’avente diritto.
Ma, quel che più conta, la restituzione non può costituire l’evento del delitto di furto d’uso, giacche essa, a differenza della sottrazione (ed eventualmente dell’uso momentaneo) non e “negativamente valutata” dal legislatore.
L’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. si dirige al privato, in questi termini: “Non impossessarti, sottraendola a chi la detiene, della cosa mobile altrui, neppure con lo scopo d’un uso momentaneo della cosa stessa; ove ti fossi impossessato della medesima con l’intenzione di restituirla e l’avessi momentaneamente usata, restituiscila immediatamente”.
Nel furto d’uso, la restituzione non soltanto non viola alcun divieto normativo ma realizza una condotta positivamente valutata dal legislatore.
La restituzione non può, dunque, costituire evento del delitto di furto d’uso: è, invece, la mancata restituzione, negativamente valutata dal legislatore, a far divenire applicabili le più gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Tale mancata restituzione, esaminata, come si osserverà fra poco, alla stregua dei principi generali, costituisce un dato esclusivamente obiettivo, che necessita, secondo la vigente Costituzione, d’essere integrata dai correlativi requisiti subiettivi: in carenza di questi ultimi, la mancata restituzione della cosa non può esser addebitata al soggetto agente.
La distinzione tra fatto e fattispecie vale ad inquadrare il tema: il fatto di furto d’uso comprende tutti gli estremi che integrano l’oggetto del divieto normativo e s’estende fino al momento della restituzione, compreso, pertanto, anche il divieto d’uso momentaneo (ed inclusi anche gli estremi subiettivi).
Poiché non può denominarsi dolo l’intenzione di realizzare una condotta positivamente valutata dal legislatore (la restituzione della cosa sottratta) non può includersi nel dolo specifico anche l’intenzione di tale restituzione: la stessa intenzione – si ripete – deve, peraltro, esistere (ed esser rigorosamente provata) insieme al dolo generico ed allo scopo d’uso momentaneo della cosa perché siano, in concreto, integrati, nel momento dell’impossessamento, tutti gli estremi subiettivi del furto d’uso.
La restituzione della cosa sottratta costituisce, dunque, condotta susseguente, che fa parte della fattispecie di furto d’uso in senso ampio, fattispecie che include il fatto (integrato, come si e detto, da tutti gli estremi violativi del divieto normativo) e la predetta condotta susseguente.
Caratteristica peculiare della fattispecie di furto d’uso é che, mentre solitamente la condotta susseguente costituisce realizzazione d’un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto ed ha come effetto, di regola, l’estinzione del reato, la restituzione della cosa sottratta realizza, invece, l’iniziale intenzione del reo ed ha, insieme agli altri elementi del furto d’uso, l’effetto d’attenuare la pena e di condizionare la perseguibilità (a querela) del reato.
L’impossessamento della cosa è l’evento consumativo del furto d’uso
Da ciò discende che, pur essendo configurabile il tentativo di furto d’uso, la sottrazione e l’impossessamento segnano il momento oltre il quale tale tentativo non può più esser integrato.
E’ l’impossessamento della cosa l’evento consumativo del furto d’uso.
Anche l’uso momentaneo (che si potrebbe inquadrare, quale condotta di mantenimento, in un sia pur breve stato di perdurante consumazione, inclusa, sempre, tale condotta, in quanto normativamente vietata, nel fatto di furto d’uso) perde i caratteri dell’essenzialità: ove il reo, impossessatosi della cosa altrui con lo scopo d’usarla momentaneamente, rinunciasse ad usarla e, subito dopo la sottrazione, la restituisse all’avente diritto, ugualmente si configurerebbe un’ipotesi di furto d’uso consumato: in tal caso lo stato di “perdurante” consumazione si ridurrebbe a brevissimo tempo.
Le precedenti considerazioni conducono a non condividere l’ordinanza di rimessione, nella parte in cui ritiene che, nell’ipotesi all’esame del giudice a quo, sia ravvisabile un tentativo di furto d’uso: poiché gli imputati s’erano già impossessati del veicolo, e l’avevano anche momentaneamente usato, non é costituzionalmente illegittimo escludere, nella stessa ipotesi, il tentativo di furto d’uso e ravvisare, invece, il furto d’uso consumato.

La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune
5. – La norma di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. viola, invece, l’art. 27, primo comma, Cost., in quanto esclude che, nella specie all’esame del giudice a quo, sia applicabile la disciplina dettata per il furto d’uso.
La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune.
Non dovrebbe residuare dubbio alcuno, dopo quanto é stato osservato, sul rilievo per il quale la restituzione della cosa sottratta costituisce elemento essenziale e particolarmente significativo della fattispecie di furto d’uso.
Ma, altrettanto essenziale e significativa é la mancata restituzione della cosa sottratta, tenuto conto dell’eventuale esclusione dell’applicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto d’uso e della conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
II comando legislativo, diretto al soggetto attivo del reato, si configura in questi termini: “se hai sottratto la cosa mobile altrui allo scopo di momentaneamente usarla, restituiscila immediatamente”.
In altre parole: “opera, attivati a restituirla (nel qual caso otterrai una notevole riduzione di pena ed il delitto sarà perseguito soltanto a querela di parte); se, invece, non la restituirai, immediatamente dopo l’uso, si applicheranno le gravi sanzioni determinate dalla legge per il furto ordinario e non saranno invocabili restrizioni alla perseguibilità del delitto”.
Nella sistematica dei rapporti tra furto comune e furto d’uso, allo stesso modo per il quale l’effettiva restituzione della cosa sottratta (in quanto realizzazione dell’iniziale intenzione del reo) esclude l’ipotesi, e le ridotte sanzioni, del furto comune, la (volontaria) mancata restituzione della predetta cosa – salvo quanto si preciserà fra poco – esclude il disposto relativo al furto d’uso e, conseguentemente, rende applicabili le gravi sanzioni previste per il furto comune.
Non resta che stabilire i criteri in base ai quali valutare, nel furto d’uso, la mancata restituzione della cosa sottratta.
Poiché tale mancata restituzione, nel furto d’uso, risulta essere positivamente valutata dal legislatore, essa va trattata in maniera analoga alle omissioni: la mancata restituzione va considerata, come per l’omissione, soltanto estremo oggettivo.
L’analisi deve, pertanto, incentrarsi sull’esistenza del correlativo elemento subiettivo: l’elemento oggettivo della condotta negativa, per esser imputato, va integrato dai corrispondenti requisiti subiettivi e cioè dalla volontà di non restituire la cosa sottratta.
Or nella specie all’esame del giudice a quo non soltanto non é stata dimostrata, nel soggetto attivo del fatto, la volontà di “non restituire” ma risulta provata, secondo l’assunto dello stesso giudice, l’esistenza nel reo, già al momento della sottrazione e dell’impossessamento della cosa, della contraria volontà, mai mutata, d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
La giurisprudenza e la dottrina che sono dell’avviso che sia applicabile la normativa del furto comune anche all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta interpretano l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. alla luce del sistema del vigente codice penale, nel quale non soltanto é prevista la responsabilità oggettiva ma vige il principio: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu”.
Ed infatti, la dottrina esplicitamente afferma che, in caso di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, risponde di furto comune anche chi ha sottratto la cosa allo scopo di farne uso momentaneo e con l’intenzione d’immediatamente restituirla, a cagione della vigenza, nel codice penale del 1930, del principio ora ricordato.
Sennonché, tale principio contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.
La sentenza di questa Corte n. 364 del 1988, nell’interpretare, alla luce dell’intero sistema costituzionale, il parametro ora richiamato, ha sancito che dal medesimo risulta richiesto, quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato.
Ed innanzi si è sottolineato che, se l’intenzione di restituire la cosa e l’effettiva sua restituzione sono altamente significativi e caratterizzanti la fattispecie tipica di furto d’uso, anche la mancata restituzione della cosa sottratta non può che essere particolarmente significativa ai fini d’escludere l’applicabilità delle ridotte sanzioni di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. e di rendere conseguentemente applicabili le gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Non può tacersi che ben a ragione, quasi unanimemente, dottrina e giurisprudenza concludono nel senso che, per l’applicazione del disposto relativo al furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta deve, in concreto, costituire realizzazione della particolare intenzione di restituire, già presente al momento dell’impossessamento, nell’autore del reato e non “oggettivo” evento dovuto al caso: or non si comprende perché mai la restituzione della cosa sottratta non operata, direttamente od indirettamente, dallo stesso reo non si ritiene integrare l’estremo dell’effettiva restituzione richiesto dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. ed invece la mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore, del tutto estranea alla volontà del reo, debba aver rilevanza, ai fini dell’esclusione dell’applicabilità delle disposizioni relative al furto d’uso; con l’assurda conseguenza che il soggetto agente, che fortunatamente fosse riuscito a restituire la cosa sottratta, verrebbe perseguito soltanto a querela di parte e sanzionato con le pene ridotte di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. mentre altro soggetto, con la stessa intenzione del primo in ordine alla restituzione della cosa, sol perché impedito sfortunatamente a riconsegnare la cosa sottratta, dovrebbe essere più gravemente punito per furto ordinario.
E’ ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita”: così, nella specie all’esame del giudice “a quo”, il dolo della sottrazione e dell’impossessamento della cosa mobile altrui.
Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (nella specie, mancata restituzione della cosa per caso fortuito o forza maggiore) nella produzione dei quali la volontà del reo e rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo.
Dal primo comma dell’art . 27 Cost., come é stato chiarito nella citata sentenza n. 364 del 1988, non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o, nella specie, tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento.
E’ ben vero che la fattispecie di furto d’uso è unitaria ed unitariamente valutata dal legislatore: in essa, oltre all’effettiva restituzione della cosa sottratta, il dolo dell’impossessamento per lo scopo di momentaneamente usare della cosa altrui e l’intenzione di restituirla immediatamente dopo l’uso sono elementi costitutivi della tipica, attenuata illiceità del furto d’uso, prima ancora di divenire, in sede di colpevolezza, elementi indispensabili per il rimprovero da muovere all’autore del delitto.
L’unitarietà e la valutazione unitaria, in sede d’illiceità, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie tipica di furto d’uso, non esclude, tuttavia, che, in sede di colpevolezza, si analizzino i diversi dati, i singoli elementi che contribuiscono a contrassegnare il disvalore oggettivo del tipo: ed è in relazione a ciascuno di tali elementi che va ravvisata la rimproverabilità dell’autore del fatto per che possa concludersi per la sua personale responsabilità penale.
Soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost.
Si è già notato che le due condotte della fattispecie tipica di furto d’uso (sottrarre e restituire) sono diversamente (l’una negativamente e l’altra positivamente) valutate dal legislatore.
L’ipotesi della sottrazione e della mancata restituzione della cosa sottratta prospetta, pertanto, due condotte, entrambe negativamente valutate e fra loro strutturalmente distinte.
Poiché entrambe contribuiscono ad integrare quella illiceità che, nel l’escludere il furto d’uso, riconduce la medesima a quella del furto comune, per determinare se questo ultimo effetto debba prodursi e indispensabile ravvisare, in relazione a ciascuna delle due condotte (sottrazione e mancata restituzione) gli elementi subiettivi idonei a generare il rimprovero di cui all’art. 27, primo comma, Cost.
L’elemento subiettivo attinente alla sottrazione od all’impossessamento della cosa altrui, ed il conseguente rimprovero relativo ai medesimi, non può estendersi alla condotta di mancata restituzione della cosa: il dolo della sottrazione e dell’impossessamento non e estensibile alla mancata restituzione, così come il rimprovero, la disapprovazione etico- sociale attinente alla sottrazione ed all’impossessamento non può esser arbitrariamente esteso alla mancata restituzione della cosa sottratta.
Detta mancata restituzione, se dovuta a caso fortuito o forza maggiore, non è addebitabile al soggetto agente: il caso fortuito e la forza maggiore – non consentendo il rimprovero di colpevolezza, attinente all’oggettiva mancata restituzione della cosa sottratta, non consentendo, cioè, l’addebitabilità d’uno degli elementi che contribuiscono ad integrare la singolare illiceità (che caratterizza l’ipotesi in esame)-impediscono, di conseguenza, il rimprovero, a titolo di furto comune, dell’unitaria predetta ipotesi.
Rimanendo, peraltro, dolosi e addebitabili gli altri elementi della fattispecie concreta, va applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.
Perché l’art. 27, primo comma, Cost, sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, é indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed e altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.

6.- Dalla illegittimità costituzionale dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., consegue che soltanto un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto in ordine alla restituzione della cosa sottratta può rendere applicabile la disciplina del furto ordinario.
Se il reo, sottratta la cosa con lo scopo di momentaneo uso e con l’intenzione, dopo l’uso, d’immediatamente restituirla, successivamente decidesse di non restituirla, all’iniziale contenuto volitivo caratterizzatore del furto d’uso si sostituirebbe altra intenzione, almeno parzialmente contrastante con la prima. Solo in tal caso, tenuto conto della progressione criminosa (da una fattispecie meno grave, peraltro ancora non compiutamente attuata, si passerebbe, in un unico contesto d’azione, alla realizzazione d’una fattispecie più grave) determinata dal mutamento dell’iniziale intenzione del reo, risulterebbero applicabili le sanzioni previste per il furto ordinario.
Valutando, da un diverso punto di vista, unitariamente, dato l’unico contesto d’azione, l’ipotesi della mancata restituzione della cosa sottratta dovuta al mutamento dell’iniziale intenzione del soggetto attivo del fatto, dovrebbe osservarsi che -avendo il reo, successivamente al realizzato impossessamento della cosa mobile altrui con il dolo generico del furto ordinario (che coincide con il dolo generico del furto d’uso) integrato il dolo specifico (se di dolo specifico si tratta) del furto ordinario – sarebbe stata completata la realizzazione di quest’ultimo e che, pertanto, l’iniziale intenzione del furto d’uso (scopo di momentaneo uso della cosa sottratta ed intenzione di restituire la medesima immediatamente dopo l’uso) verrebbe assorbito dalla contraria intenzione, successivamente insorta, di non restituire la cosa.
E’, invece, di certo costituzionalmente illegittimo, nell’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, chiamare a rispondere di furto ordinario il reo del quale é rimasto intatto il dolo, generico e specifico, del furto d’uso, senza che si siano aggiunti diversi, rilevanti contenuti intenzionali.
Una volta verificato che l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., nel sistema delle leggi ordinarie e nel diritto vivente, contrasta con il primo comma dell’art. 27 Cost., si rende superflua l’indagine sull’eventuale contrasto della norma impugnata con gli altri parametri indicati nell’ordinanza di rimessione; tanto più che, come si e avuto modo di rilevare, la violazione dell’art. 27, primo comma, Cost. già di per se comporta disparità di trattamento di soggetti in identica posizione.

2. Rilettura delle ipotesi di sospetta responsabilità oggettiva

Cass. S.U. 22 gennaio 2009, Ronci
(omissis)
Svolgimento del processo

1.1. Il 15 dicembre 1995 i tre amici Egisto Morasca, Roberto Nera e Bernardino Bennuti, di Bellegra (Roma), si accordarono per acquistare eroina da consumare insieme.
Il Nera, raccolto il denaro, si recò nel vicino paese di Cave rivolgendosi ad uno spacciatore dal quale si era già in precedenza rifornito e che incontrò in un bar.
Acquistate due dosi e tornato a Bellegra, i tre amici assunsero l’eroina.
Subito dopo il Morasca accusò un malore, al quale seguì il suo decesso.
Sulla base delle indicazioni fornite dal Nera e dal Bennuti ai Carabinieri, lo spacciatore fu identificato in Ivano Ronci, nei cui confronti venne emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 73 d.p.R. 309/90, 83 e 586 c.p.
Il 21 marzo 1996 fu anche perquisita la sua abitazione, ove furono rinvenuti e sequestrati mg. 875 di eroina pura, trovata suddivisa in due distinti involucri e frammista a sostanza da taglio, nonché un bilancino di precisione.

1.2. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10.9.1996, esclusa la destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente rinvenuta durante la perquisizione, ravvisò in tale detenzione il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 5, d.P.R. 309 del 1990 e, concesse le attenuanti generiche, condannò l’imputato alla pena di dieci mesi di reclusione e lire quattro milioni di multa.
Assolse, invece, il Ronci dalle ulteriori imputazioni relative alla cessione delle due dosi di eroina al Nera e alla causazione del decesso del Morasca, e ciò per la mancata conferma da parte del Nera delle indicazioni fornite alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dei fatti, atteso che il medesimo al dibattimento aveva reso dichiarazioni confuse e contraddittorie e, pur avendo confermato di conoscere il Ronci, aveva escluso che fosse stato questi a vendergli la sostanza stupefacente poi rivelatasi letale.
Proposero appello l’imputato (sostenendo che lo stupefacente sequestrato era destinato ad uso personale) e il pubblico ministero.

1.3. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17.12.2002, confermò la responsabilità del Ronci per il reato di detenzione di sostanza stupefacente (capo C) mentre, in riforma della precedente decisione, lo dichiarò colpevole anche degli ulteriori reati sub A) (cessione di sostanza stupefacente) e B) (reato di cui agli artt. 83 e 586 c.p., per avere determinato quale conseguenza non voluta la morte del Morasca, deceduto a seguito della assunzione di parte della sostanza stupefacente ceduta al Nera).
Quindi, qualificato il delitto sub A) ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.p.R. 309/90 e riconosciuta la continuazione tra i reati sub A) e C), determinò la pena in anni due di reclusione per il reato di cui al capo B) (omicidio colposo ex art. 586 c.p.) e in anni uno, mesi sei di reclusione ed € 750,00 di multa per i restanti reati.
In particolare, con riferimento al reato di cui al capo C) (detenzione di sostanza stupefacente), la corte d’appello osservò che non vi era la prova che lo stupefacente fosse detenuto ad uso esclusivamente personale. Con riferimento ai reati di cui ai capi A) (cessione dell’eroina al Nera) e B) (art. 586 c.p.), la corte ritenne invece sussistente la prova che era stato proprio il Ronci a cedere al Nera la droga che aveva poi cagionato la morte del Morasca.

omissis

Motivi della decisione

omissis

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge perché la morte del Morasca gli è stata addebitata sulla base del solo nesso di causalità materiale, senza tener conto che egli, al momento in cui aveva venduto un ridotto quantitativo di droga al Nera, non poteva prevedere che questi avrebbe organizzato con gli amici un festino a base di alcol e sostanze stupefacenti, né poteva conoscere il precario stato di salute del Morasca, il quale assumeva notevoli quantità di medicinali ed era dedito all’alcol.
Effettivamente, la corte d’appello ha rilevato che la consulenza tecnica aveva attribuito la morte a narcotismo, esaltato nei suoi effetti dalla contemporanea assunzione di alcol etilico, anch’esso depressivo del sistema nervoso centrale.
La Corte ha quindi ritenuto che ai fini dell’art. 586 c.p. «il rapporto tra il fatto doloso (lo spaccio di sostanza stupefacente) e l’evento non voluto (la morte del tossicodipendente) è di causalità materiale, sicché l’imputato, autore del delitto doloso, deve rispondere a titolo di colpa dell’evento morte non voluto indipendentemente o anche in assenza di qualsiasi errore o altro fatto colposo o accidentale: in altri termini, l’azione dell’agente è considerata causa dell’evento, ancorché altre circostanze, a lui estranee e di qualsiasi genere, abbiano concorso alla sua produzione, perché il comportamento (doloso) dell’agente costituisce pur sempre una delle condizioni dell’evento».
La corte ha anche precisato che chi cede la droga risponde della morte del tossicodipendente essendo prevedibile che dalla cessione possa conseguire un effetto letale, trattandosi di conseguenza non infrequente. Ha poi escluso che vi sia stata una interruzione del rapporto di causalità a seguito della successiva cessione dal Nera al Morasca, e «ciò perché la morte è pur sempre derivata dalla originaria sua abusiva cessione dell’eroina».
Ed ha infine affermato che «il delitto di cui all’art. 586 c.p. non è caratterizzato da mera responsabilità oggettiva, ma da una responsabilità a titolo di colpa per avere l’agente, col proprio comportamento doloso, posto una delle condizioni idonee a cagionare, su un piano di concreta prevedibilità, l’evento dannoso o letale per l’assuntore della sostanza stupefacente».

Nonostante queste precisazioni, è tuttavia evidente che la corte d’appello ha in realtà ritenuto l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 586 c.p. per la morte del Morasca, a puro titolo di responsabilità oggettiva e sulla sola base del nesso di causalità materiale.

Criterio di imputazione della responsabilità per la morte o le lesioni non volute ai sensi dell’art. 586 c.p.
4. Sebbene il quesito sottoposto alle Sezioni Unite sia stato formulato con specifico riferimento alla responsabilità penale dello spacciatore in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente cui sia seguita la morte dell’assuntore, la questione deve essere esaminata e risolta considerando, in via generale, la natura e l’ambito della responsabilità prevista dall’art. 586 c.p.
Come è noto, l’art. 586 c.p. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) dispone che «Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate».
L’art. 83 c.p. (Evento diverso da quello voluto dall’agente) a sua volta prevede che «Fuori dei casi preveduti dall’art. precedente, se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati».
Secondo l’opinione prevalente, condivisa dal Collegio, l’art. 586 è norma speciale rispetto all’art. 83, comma 2 (aberratio delicti plurilesiva), avendo in comune una condotta base dolosa ed una conseguente produzione non voluta anche di un’altra e diversa offesa, e come elementi specializzanti la natura del reato base che deve essere un delitto e la natura dell’offesa non voluta che deve consistere nella morte o nelle lesioni (Sez. I, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo; Sez. I, 2.4.1986, n. 11486, Navarino, m. 174058; Sez. II, 6.11.1984, n. 1352, Frisina, m. 167810). Secondo altra opinione, invece, dovrebbe escludersi un rapporto di genere a specie perché l’art. 586, a differenza dell’art. 83, comma 2, non subordina la responsabilità alla presenza di un «errore nell’uso dei mezzi di esecuzione» o di «un’altra causa» (Sez. IV, 20.6.1985, n. 1673, Perinciolo, m. 171976; Sez. I, 25.3.1985, n. 6395, Di Maio, m. 169934).
Morte o lesioni devono comunque costituire una conseguenza non voluta, e quindi non devono essere sorrette da alcun coefficiente di volontà, nemmeno nel grado minimo del dolo eventuale, giacché in tal caso l’agente risponde anche dell’ulteriore delitto di omicidio volontario o di lesioni volontarie in concorso con il delitto inizialmente voluto (Sez. I, 19.6.2002, Persechino; Sez. I, 21.12.1993, Rodaro, m. 197756; Sez. I, 3.6.1993, Piga, m. 195270; Sez. I, 11.10.1988, Scavo, m. 182196; Sez. I, 13.10.1097, Lollo, m. 178194; Sez. III, 13.11.1985, Salvo, m. 171945; Sez. II, 6.11.1984, Frisina, m. 167810; Sez. IV, 20.12.1984, Boncristiano, m. 169186).

Primo orientamento: imputazione all’autore del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità materiale
5.1. In ordine alla natura ed al criterio di imputazione della responsabilità per la morte o le lesioni non volute ai sensi dell’art. 586 c.p., sono ravvisabili in giurisprudenza ed in dottrina diversi orientamenti.
Secondo un primo  e per lungo tempo assolutamente prevalente  orientamento giurisprudenziale, morte e lesioni non volute devono essere imputate all’autore del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità materiale.
Sarebbe quindi superflua una indagine specifica sulla sussistenza, in concreto, degli estremi della colpa in relazione all’evento non voluto, essendo necessaria semplicemente l’indagine sulla condotta esecutiva del delitto doloso e l’accertamento che il nesso eziologico non sia stato spezzato da fattori eccezionali non ascrivibili all’agente ed al di fuori della sua sfera di controllo, e cioè da cause sopravvenute che siano state da sole sufficienti a determinare l’evento.
L’art. 586, dunque, al pari della norma «generale» sull’aberratio delicti plurilesiva di cui all’art. 83, comma 2, prevederebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva, ispirata alla regola del qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu, in forza della quale l’autore di un delitto deve rispondere oggettivamente per le conseguenze ulteriori non volute di tale delitto.
Questo indirizzo interpretativo risale a Cass. 17.4.1939, Rossi, ed è stato seguito, tra l’altro, da Cass. 10.4.1945, Gatta; Sez. I, 14.4.1982, Maccanti, m. 156067; Sez. I, 25.3.1985, Di Maio, m. 169934; Sez. VI, 8.3.1988, Lucarelli, m. 179343; Sez. II, 14.2.1990, Bevilacqua, m. 184598 (secondo cui l’art. 586 c.p. stabilisce il rapporto tra delitto voluto ed evento non voluto in termini di pura e semplice causalità materiale; perché se l’autore ha agito nonostante avesse previsto l’evento mortale, ne risponde a titolo di dolo indiretto; mentre se quest’ultimo manca e il nesso di causalità non sia interrotto ne risponde a titolo colposo); Sez. I, 28.5.1993, Cimare, m. 194773; Sez. II; 15.2.1996, Caso, m. 205374 (secondo cui si tratta di un caso in cui «l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione» ai sensi dell’art. 42, comma 3, c.p.); Sez. IV, 25.1.2006, Bellino, m. 234187.
La teoria della responsabilità oggettiva e della sufficienza del solo nesso di causalità è stata applicata soprattutto in tema di morte conseguente alla cessione illecita di sostanze stupefacenti.
Secondo la giurisprudenza dominante, invero, l’art. 586 può trovare applicazione nei confronti di colui che, a qualsiasi titolo illecito, cede una sostanza stupefacente (così integrando il delitto di cui all’art. 73 d.p.R. 309 del 1990) in caso di morte del cessionario intervenuta a seguito della assunzione della sostanza ceduta. In questa ipotesi, lo spacciatore risponderebbe a titolo di responsabilità oggettiva, e sarebbe quindi sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l’eventomorte, non interrotto da cause sopravvenute di carattere eccezionale, mentre non occorrerebbe espletare alcuna indagine sull’esistenza della colpa, la cui presenza non sarebbe necessaria.
In particolare, in caso di successive, plurime, cessioni dello stupefacente, l’art. 586 sarebbe applicabile sia al cedente immediato (ossia a colui che ha direttamente ceduto alla vittima la dose rivelatasi fatale) sia anche al cedente mediato (ossia al fornitore del cedente immediato).
E ciò perché il nesso di causalità tra la prima cessione e la morte dell’ultimo cessionario, sopravvenuta quale conseguenza non voluta dell’assunzione della sostanza, non sarebbe interrotto in conseguenza delle successive cessioni, le quali vanno considerate come fattori concausali non eccezionali ed anzi del tutto prevedibili.
In questo senso, cfr., tra le altre, Sez. I, 3.5.1986, Volta, m. 174082; Sez. VI, 4.11.1988, Soloperto, m, 179930 (per le cessioni successive); Sez. VI, 7.3.1989, Foianesi, m. 181546; Sez. IV, 19.10.1989, Angelelli, m. 183623; Sez. VI, 4.3.1989, Bodini, m. 183885; Sez. VI, 22.3.1990, Pergolesi, m. 186020; Sez. IV, 28 giugno 1991, Greco, m. 188768 (secondo cui l’autore del delitto doloso risponde a titolo di colpa dell’evento morte non voluto anche in assenza di qualsiasi errore o altro fatto colposo o accidentale, mentre non esclude il nesso di causalità il fatto che la dose venduta ed assunta fosse non eccessiva, e che la morte fosse dovuta non ad overdose ma ad una assunzione di alcol, ignota al cedente, che aveva accentuato l’effetto del narcotico); Sez. IV, 28.2.1994, Preto, m. 197762; Sez. IV, 31.10.1995, D’Aguanno, m. 203618; Sez. VI, 19 novembre 1997, Paralupi, m. 210441; Sez. VI, 5.6.2003, Ciceri, m. 226254 (secondo cui l’assunzione di alcol non è una concausa sopravvenuta, non prevedibile, tale da interrompere il nesso causale).

5.2. La tesi secondo la quale nella fattispecie prevista dall’art. 586 c.p. (ed in quella più generale di cui all’art. 83 c.p.), la responsabilità per l’evento non voluto (morte o lesioni) si fonderebbe sul solo nesso causale ed avrebbe quindi natura oggettiva è stata sostenuta anche da una parte della dottrina, principalmente sulla base di tre argomenti.
Innanzitutto, si è osservato che la lettera della legge non richiede esplicitamente che la produzione dell’evento sia determinata da colpa; l’inciso «a titolo di colpa», contenuto nell’art. 83 (richiamato dall’art. 586), si riferirebbe, quindi, solo alle conseguenze sanzionatorie (nel senso che l’evento non voluto viene punito come se fosse colposo), e non al fondamento della responsabilità, che rimarrebbe oggettiva.
In secondo luogo, e soprattutto, si è fatto leva sulla considerazione che altrimenti la norma sarebbe superflua, perché sia l’art. 83 (nella parte in cui prevede la responsabilità dell’agente e nella parte in cui richiama le regole sul concorso di reati) sia l’art. 586 sarebbero del tutto inutili qualora si limitassero a stabilire l’imputabilità dell’evento non voluto solo in presenza dei requisiti ordinari della colpa.
In terzo luogo, si è affermato che il criterio di imputazione fondato sulla responsabilità oggettiva sarebbe conforme alla logica di rigore, ispirata a ragioni repressive, che connoterebbe l’atteggiamento del legislatore storico nei confronti del complessivo fenomeno del reato aberrante.
Nessuno di questi argomenti è però decisivo, come ha rilevato altra parte della dottrina.
Quanto al primo, si è invero osservato che non solo in dottrina e in giurisprudenza, ma anche nello stesso linguaggio legislativo, l’espressione «a titolo di colpa» è utilizzata per designare, insieme, sia il titolo sia il fondamento della responsabilità. Il legislatore, ad esempio, ha utilizzato tale formula per indicare fattispecie strutturalmente colpose con le riforme che hanno novellato il testo dell’art. 57 c.p. e dell’art. 1217 cod. nav. (rispettivamente l. 4 marzo 1958 n. 127 e l. 5 giugno 1962 n. 616). Invero, pronunciandosi in ordine a queste ultime ipotesi criminose, la Corte costituzionale (rispettivamente con la sent. n. 198 del 1982 e la sent. n. 42 del 1966) ha riconosciuto il fondamento colposo della responsabilità; ed anche questa Corte ha individuato nella colpa il fondamento della responsabilità prevista dal nuovo testo dell’art. 57 c.p. (Sez. Un., 18 novembre 1958 n. 18, Clementi, m. 98038).
Quanto alla funzione delle previsioni normative, si è rilevato  oltre al fatto che nella parte generale del codice penale del 1930 sono numerose le norme superflue  che l’art. 586 c.p., non si limita a ribadire i principi generali, ma sancisce anche un aggravamento della pena irrogabile per l’omicidio e le lesioni colpose, mentre l’art. 83 fu introdotto allo scopo di impedire una imputazione dolosa di ipotesi ordinarie di fatti colposi. Inoltre, nelle intenzioni del legislatore storico, il secondo comma dell’art. 83 aveva una finalità meramente dichiarativa, cioè quella di «non lasciare alcun dubbio sull’applicabilità della regola sul concorso di reati» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 138). In ogni caso, nella alternativa tra una interpretazione che assegni ad una disposizione una funzione innovativa, ma costituzionalmente inaccettabile, ed una diversa interpretazione che le assegni una funzione meramente esplicativa di principi altrove affermati, ma compatibile con il dettato costituzionale, si deve optare per la seconda, tanto più se essa è in linea con l’intenzione del legislatore e compatibile con la lettera della legge.
Quanto al terzo argomento, si è osservato che dall’analisi dei lavori preparatori emerge che con il testo definitivo dell’art. 586 si intese invece attenuare l’asprezza sanzionatoria originariamente introdotta nel progetto preliminare per l’ipotesi di morte o lesioni quale conseguenza non voluta di altro delitto, e che la previsione dell’aberratio delicti venne inserita nel progetto definitivo allo scopo di evitare che «potesse (…) giungersi ad un trattamento troppo severo, elevando a casi di responsabilità dolosa ed obiettiva ipotesi ordinarie di fatti colposi» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 135). Del resto, anche durante i lavori della Commissione Parlamentare, fu più volte sottolineata l’opportunità di riservare all’aberratio delicti un trattamento sanzionatorio meno rigoroso di quello previsto per l’aberratio ictus.

Secondo orientamento: responsabilità per colpa specifica costituita dalla inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso
6.1. Un secondo orientamento ravvisa nella fattispecie prevista dall’art. 586 c.p. una responsabilità per colpa specifica, fondata sulla inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso. Si è affermato, in questo senso, che l’art. 586 «è norma di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela della vita e della incolumità fisica e trova applicazione ogni qual volta la morte sia conseguenza non voluta di un delitto doloso qualunque ne sia la natura, e, quindi, anche quando il fatto tipico, di per sé, non costituisca pericolo per il bene giuridico protetto, sempre che tra l’illecito comportamento del soggetto e l’evento non voluto (morte o lesione) sussista un rapporto di causalità materiale. L’evento lesivo, conseguente dal delitto doloso commesso, è imputato al colpevole, a titolo di colpa, per violazione di legge, perché l’art. 43 c.p. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza, imperizia e negligenza), anche l’inosservanza della legge. Invero tale espressione non limita questo modo di essere della colpa alla sola violazione di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare, ma comprende anche la violazione delle stesse norme penali incriminatrici, mentre l’art. 586 attribuisce alle disposizioni incriminatrici, che prevedono i singoli delitti, oltre la funzione loro propria di tutela del singolo bene, anche il carattere ulteriore ed accessorio di norme che mirano a prevenire, attraverso la sanzione penale, l’eventuale lesione di beni giuridici, tutelati mediante le ipotesi di reato colposo, che possono essere prodotte a causa della commissione dei delitti dolosi» (così Sez. I, 2.4.1986, Navarino, m. 174058; nello stesso senso Sez. IV, 11.1.1995, Masser, m. 201242; secondo cui la commissione stessa del reato doloso si pone come ipotesi di colpa specifica, sicché non è necessaria la presenza in concreto di una colpa generica; Sez. III, 6.12.1995, Sonderegger, m. 204469). Con particolare riguardo all’ipotesi di morte conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, si è sostenuto che l’evento morte è addebitato al fornitore, anche non immediato, della sostanza, a norma dell’art. 586, a titolo di colpa, consistita nella violazione della legge sullo spaccio di stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale (Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848).
Alla base di questo indirizzo vi è quindi l’idea che la disciplina legislativa sulle sostanze stupefacenti svolgerebbe anche un ruolo di prevenzione delle offese all’integrità fisica dei cittadini.

6.2. Anche una parte della dottrina ha individuato nella colpa per violazione di legge penale il criterio di imputazione dell’evento non voluto di cui agli artt. 83 e 586 c.p., sostenendo che ogni norma penale svolge, accanto alla funzione repressiva, anche una funzione preventiva, contenendo il divieto di realizzare una determinata condotta che, per la sua spiccata pericolosità, appare contraria alle esigenze di prevenzione poste alla base dell’incriminazione di un reato colposo. Poiché, nei casi di aberratio, la condotta costituisce violazione della legge penale che punisce il reato doloso, ne discende che l’ulteriore evento non voluto, cagionato da tale condotta, risulta colposo per inosservanza di legge, ai sensi dell’art. 43 c.p.. Si tratterebbe di una colpa presunta, che rende superflua qualsiasi indagine sulla prevedibilità dell’evento o comunque sulla configurabilità di una effettiva imprudenza, negligenza o imperizia.

6.3. E’ bene mettere subito in rilievo che la tesi della colpa specifica per violazione della legge penale, o della colpa presunta, nella sostanza non si differenzia dalla tesi della responsabilità oggettiva, la quale viene in realtà verbalmente camuffata sotto le vesti di una colpa (sempre ed immancabilmente presente), consistente nella violazione di quella stessa legge penale che incrimina il delitto base doloso. Le due tesi invero portano a risultati sostanzialmente identici, ossia a ritenere la sufficienza del solo nesso causale per fondare la responsabilità rispetto all’evento non voluto. Ciò del resto è stato avvertito anche dalla più accorta giurisprudenza, che ha evidenziato la sostanziale identità dell’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo di responsabilità oggettiva o di «colpa presunta», pur se mascherata dietro il riferimento alla colpa specifica da inosservanza della legge penale secondo la tradizionale regola del «versari in re illicita» (Sez. I, 19.10.1998, D’Agata, m. 211611).
La tesi è stata peraltro giustamente criticata da gran parte della più moderna dottrina, che ha rilevato come essa comporta uno stravolgimento dell’essenza dell’illecito colposo, costituita dalla violazione di una determinata regola cautelare preventiva, ossia di precauzioni doverose al fine di impedire il verificarsi di un determinato evento in pregiudizio di terzi. Ed infatti, anche le leggi richiamate dall’art. 43 c.p. (insieme ai regolamenti, ordini o discipline) per individuare il fondamento di una colpa specifica, sono costituite solo da quelle fonti che pongono regole e prescrizioni di carattere preventivo di un certo evento in danno di terzi. Ora, se è vero che le norme penali hanno una finalità genericamente preventiva, è altrettanto vero che non tutte le norme penali sanzionano la violazione di regole specificamente cautelari, del tipo di quelle necessarie ad integrare una responsabilità colposa. Sono quindi, ad esempio, escluse dall’ambito delle leggi di cui all’art. 43 c.p. quelle con finalità direttamente repressiva, ossia destinate a punire la lesione di determinati beni giuridici e non a prescrivere cautele relativamente a fatti diversi, conseguenti alla loro violazione.
Più in generale si osserva che l’attribuzione alle norme penali di una duplice funzione, repressiva e preventiva, sarebbe insostenibile anche sotto il profilo logico. La medesima norma penale, invero, diventerebbe in tal modo espressione di due significati confliggenti: da un lato, il divieto di tenere una condotta dolosa; dall’altro, il comando di eseguire tale condotta con cautela. L’obbligo di cautela, quindi, non può scaturire dalla stessa norma penale repressiva della condotta dolosa, ma esclusivamente da una diversa ed autonoma regola cautelare. Del resto, le regole cautelari che si pretenderebbe di desumere dalle singole norme incriminatrici non contengono solitamente l’indicazione di alcuna specifica modalità di condotta diretta a prevenire l’evento morte o lesioni. Tutt’al più si potrebbe individuare un obbligo di cautela assolutamente generico ed indifferenziato, ma la colpa non consiste nella violazione di una generica obbligazione di diligenza dal contenuto neutro ed indeterminato, bensì nella violazione di una specifica regola di diligenza, il cui contenuto va di volta in volta determinato in base alle circostanze del caso concreto. La colpa è invero violazione di una regola di condotta che prescrive le modalità di comportamento da adottare in un caso concreto per evitare il verificarsi di uno specifico evento offensivo.
Per quanto riguarda più in particolare l’assunto secondo cui le norme penali sugli stupefacenti sarebbero poste a tutela della salute pubblica, intesa come autonomo bene di sintesi rispetto alle offese alla vita e alla incolumità personale dei singoli individui e quindi svolgerebbero anche un ruolo di regole di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, si è ricordato (anche sulla base delle indicazioni contenute nella sent. n. 333 del 1991 della Corte costituzionale) che lo scopo immediato e diretto della legislazione in materia di stupefacenti è costituito dalla repressione del mercato illegale della droga; mentre la tutela della salute pubblica rappresenta, insieme alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, soltanto uno scopo ulteriore della normativa oggettiva. Si è inoltre osservato che, attribuendo alle incriminazioni speciali della normativa sugli stupefacenti il ruolo di regole cautelari volte direttamente a prevenire i singoli eventi di lesioni o di morte dei potenziali consumatori, si corre il rischio di sfuocare il giudizio di colpa, che sorgerebbe anche in relazione ad eventi cagionati con violazione delle norme con un fine non direttamente precauzionale ma piuttosto di tutela anticipata dei beni giuridici. Un analogo ragionamento dovrebbe valere per tutte le incriminazioni di offese a beni collettivi, indipendentemente dalla verifica se esse codifichino o meno regole di diligenza, prudenza, perizia nello svolgimento delle rispettive attività. In tal modo però si finirebbe per ampliare enormemente il novero delle leggi penali idonee a costituire la responsabilità per colpa.

Terzo orientamento: responsabilità per prevedibilità in astratto dell’evento
7. Un terzo orientamento  sovente sostenuto dalla giurisprudenza unitamente alla tesi della colpa presunta per violazione della legge penale  richiede, per poter imputare l’evento morte o lesioni ex art. 586 c.p., oltre al nesso causale, anche la prevedibilità dell’evento, facendo però riferimento ad una prevedibilità in astratto.
Questo indirizzo  seguito soprattutto da decisioni in tema di morte da assunzione di sostanze stupefacenti  si sostanzia nella quasi totalità dei casi, in un richiamo ad un criterio di prevedibilità in re ipsa, meramente formale e di stile, senza che sia condotta in realtà nessuna indagine, in concreto, sul decorso causale e sull’evento finale, per ricostruire le specifiche modalità di verificazione dell’evento che, nel caso di specie, avrebbero reso prevedibili la morte o le lesioni. Solitamente si parla di prevedibilità desunta dalla notorietà, dall’ordinarietà o dalla frequenza del pericolo connesso ad un certo tipo di condotta, o di prevedibilità secondo l’id quod plerumque accidit, o desunta dal pericolo insito, in via presuntiva, nel delitto doloso di base. In particolare, nel caso di violazioni della legge sugli stupefacenti, la prevedibilità, sempre valutata in astratto, viene desunta dalla notorietà della frequenza di casi letali dopo l’assunzione di determinate sostanze stupefacenti (come l’eroina).
Possono, ad esempio, collocarsi in questo ambito: Sez. VI, 6.12.1988, Coppola, m. 180420 (secondo cui è noto, e pertanto prevedibile, che l’eroina provoca azione depressiva del sistema nervoso centrale, con riflessi su quello circolatorio e che tale azione è, nei casi più gravi, la causa ultima del decesso); Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 14.11.1988, Buzzo, m. 179839; Sez. VI, 24.1.1989, Irritano, m. 180747 (secondo cui l’evento morte è fatto non imprevedibile e non eccezionale); Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848.
In tutti questi casi la prevedibilità dell’evento è automaticamente dedotta, in astratto, dalla indubbia destinazione della droga ceduta all’assunzione e dalla constatazione che ciò, secondo la comune esperienza, può cagionare la morte dell’assuntore. E’ però evidente che il criterio della prevedibilità in astratto è invocato come mero omaggio formale al principio di colpevolezza, e che in realtà anche questa tesi della prevedibilità in astratto si pone sullo stesso piano di quella della responsabilità oggettiva e di quella della colpa presunta per violazione della legge penale. In tutti e tre i casi, infatti, in sostanza la responsabilità viene fondata sul solo nesso causale, perché l’evento morte non voluto viene sempre messo a carico del soggetto che ha compiuto il delitto doloso sulla sola base del nesso di causalità tra tale delitto e l’evento non voluto, indipendentemente da una indagine sull’elemento psicologico ad esso relativo.

Quarto orientamento: responsabilità da rischio totalmente illecito
8. Un quarto orientamento  soprattutto dottrinario  è costituito dalla tesi della c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito.
Secondo questa tesi, nella fattispecie di cui all’art. 586 c.p. l’autore del reato base risponde dell’evento letale non voluto a titolo di responsabilità oggettiva, ossia per una responsabilità senza dolo né colpa, fondata sul solo nesso causale, ma che tuttavia non si porrebbe in contrasto con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.
E ciò perché il principio di responsabilità colpevole, o della personalità dell’illecito, non implicherebbe necessariamente una responsabilità per dolo o per colpa, ma solo che il soggetto sia eticamente rimproverabile per il fatto, ossia che vi sia la possibilità di un suo dominio personale sul fatto.
Questa possibilità sarebbe assicurata dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento nella situazione concreta, requisiti questi che risulterebbero dal combinato disposto dell’art. 42, comma 3, con l’art. 45 c.p., che dà rilevanza al caso fortuito (imprevedibilità dell’evento) ed alla forza maggiore (inevitabilità dell’evento) in tutte le forme di responsabilità.
Questa teoria parte dal presupposto che la colpa richiede la violazione di una regola cautelare nell’ambito di una attività in se stessa lecita, ossia che il soggetto superi il limite di rischio, che accompagna tutte le attività lecite e che gli è consentito dall’ordinamento.
Sarebbe invece impossibile muovere un rimprovero per colpa a chi agisce in un ambito illecito, poiché, quando è già vietata l’attività di base, non è possibile configurare regole cautelari e quindi non si può parlare di colpa. Quindi, responsabilità per colpa e responsabilità da rischio totalmente illecito avrebbero in comune il requisito della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, ma mentre nella prima ipotesi la colpa si connoterebbe, ulteriormente, per la violazione di una regola cautelare con superamento del rischio consentito, nella seconda ipotesi, poiché l’agente tiene una condotta base illecita, non sarebbero necessari la violazione di regole cautelari o il superamento del rischio consentito, ma l’assunzione del rischio totalmente illecito giustificherebbe di per sé l’attribuzione della responsabilità ed un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello previsto per i reati colposi.
Non è questa la sede per esaminare criticamente questa teoria.
E’ sufficiente rilevare che, nella pratica, l’ambito di applicazione di una responsabilità da rischio totalmente illecito potrà essere notevolmente diverso a seconda del concetto di prevedibilità ed evitabilità dell’evento che poi si adotta ed in particolare a seconda che si richieda una prevedibilità ed evitabilità da valutarsi in astratto o in concreto, e, in questa seconda ipotesi, da valutarsi da un punto di vista soggettivo (cioè del concreto soggetto agente) ovvero oggettivo (cioè di un agente ideale, più o meno modellato sulle caratteristiche dell’agente concreto). Ed invero, nella prima ipotesi i risultati pratici saranno simili a quelli della teoria della responsabilità oggettiva, mentre se si giunge ad adottare un criterio di valutazione della prevedibilità ed evitabilità secondo gli stessi parametri che si utilizzano ai fini del giudizio sulla colpa, la responsabilità da rischio totalmente illecito viene a differenziarsi notevolmente dalla responsabilità oggettiva finendo per avvicinarsi sempre più a quella per colpa.
Si è peraltro ricordata qui questa teoria perché generalmente si ritiene che essa sia stata accolta, nel suo nucleo essenziale, da due pronunce di questa Corte, e precisamente da Sez. I, 28.5.1993, n. 7566, Cimare, m. 194773, e da Sez. I, 29.1.1997, n. 2955, Sambataro, m. 207274.
Con la prima decisione (relativa ad una condanna, ex art. 586 per morte conseguente al delitto di violazione di domicilio, di un soggetto che era entrato nel cortile dell’abitazione di un tizio che lo aveva rimproverato e che successivamente era morto per fissurazione di un aneurisma da cui era affetto), è stato affermato il principio che «nel reato di cui all’art. 586 c.p. è solo il nesso di causalità materiale, legato alla precedente condotta delittuosa dell’agente, che giustifica il giudizio di responsabilità per l’evento non voluto», ma si è peraltro escluso che si tratterebbe di una ipotesi di responsabilità obiettiva essendo invece l’evento punito a titolo di colpa, perché è «già punita l’attività volontaria di base, di guisa che se essa è rischiosa non v’è motivo per sollevare il colpevole per una parte del rischio corso, collegata con nesso di causalità materiale», aggiungendo che «dove manca l’area lecita di rischio ed il soggetto affronta il rischio ugualmente, non c’è motivo di sostenere che il principio di colpevolezza sarebbe incompatibile con questo tipo di reato». Si può però constatare che nella motivazione non vi è alcun accenno non solo sull’esistenza di una colpa ma nemmeno sui requisiti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento ed anzi si afferma che è il solo nesso di causalità materiale che giustifica la responsabilità.
Con la seconda decisione (relativa a morte conseguente al reato di porto abusivo di arma, commesso da un soggetto che aveva una pistola nella tasca del giubbotto ed aveva inavvertitamente premuto il grilletto, morte che il giudice del merito aveva esattamente attribuito a colpa effettiva ed in concreto per imprudenza ed imperizia), si è sostenuto esplicitamente che la colpa effettiva è un elemento «non richiesto per l’affermazione di responsabilità ai sensi dell’art. 586 c.p.», ma che tale responsabilità «non si può considerare oggettiva, riguardando casi in cui la condotta delittuosa di base ha in sé insito il rischio, non imprevedibile né eccezionale, di porsi come concausa di morte o lesioni; per cui, se uno di questi eventi (ricollegabile psicologicamente, per la non imprevedibilità del pericolo, all’agente) si verifica, si giustifica l’ulteriore conseguenza sanzionatoria dalla suddetta norma prevista. Deve pertanto escludersi che la norma in questione sia in contrasto con l’art. 27 Cost. che sancisce il principio di personalità della responsabilità penale». Anche questa decisione nega la necessita di una colpa effettiva, ed individua il criterio di imputazione dell’evento morte nella non imprevedibilità e non eccezionalità del rischio, sembrando però ritenere sufficiente una valutazione oggettiva ed in astratto di questi due elementi.
Deve quindi convenirsi sull’osservazione di parte della dottrina che, in realtà, anche queste due decisioni utilizzano solo formalmente le nozioni di «rischio totalmente illecito» e di «non imprevedibilità dell’evento», ma nella sostanza effettuano una imputazione dell’evento basata sul mero nesso di causalità.

Quinto orientamento: responsabilità per colpa in concreto
9.1. Un ultimo orientamento  sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni  infine ravvisa nell’art. 586 una ipotesi di responsabilità per colpa in concreto, concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari, imperniata quindi sulla violazione di regole cautelari di condotta e sulla necessità di un accertamento della effettiva prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento non voluto da parte dell’agente.
Questo orientamento è stato affermato, tra l’altro, da Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 11055, D’Agata, m. 211611 (secondo cui nell’art. 586, «poiché l’accollo dell’evento ulteriore e più grave rispetto a quello voluto appare incompatibile con il principio di colpevolezza, secondo l’interpretazione dei principi costituzionali sulla personalità della responsabilità penale e sulla necessaria imputazione soggettiva degli elementi più significativi della fattispecie criminosa, l’affermazione di responsabilità dell’agente per l’evento non voluto deve necessariamente ancorarsi a un coefficiente di prevedibilità, concreta e non astratta, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base»); da Sez. I, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo, m. 223841; e da Sez. VI, 29.11.2007, n. 12129, Passafiume, m. 239585 (secondo cui, in tema di reato di maltrattamenti in famiglia, l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base).
Nella specifica materia di morte derivante da assunzione di sostanze stupefacenti, la tesi è stata seguita, tra l’altro, da Sez. V, 7.2.2006, n. 14302, Giancaterino, m. 234584 (secondo cui «si deve ritenere sussistente la responsabilità non sulla base del mero rapporto di causalità materiale … fra la precedente condotta e l’evento diverso ed ulteriore, ma solo allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di “prevedibilità” della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di “responsabilità per colpa”», rilevando che il giudice del merito aveva accertato la «prevedibilità in concreto, in capo al cedente, del rischio connesso all’assunzione dello stupefacente, in ragione delle “visibili menomate condizioni della parte offesa” alla ricerca “spasmodica” della sostanza stupefacente, assunta immediatamente dopo l’acquisto, e considerato, del resto, il fatto notorio del grave rischio per la salute derivante dall’assunzione di “droga pesante”).

9.2. La tesi della responsabilità da colpa in concreto è sostenuta da quella parte della dottrina, secondo la quale nella fattispecie dell’art. 586 c.p. la responsabilità si fonda sull’ordinario parametro della colpa, il cui accertamento va condotto in concreto con un criterio individualizzato, imperniato sulla violazione di una regola cautelare di condotta, che mira a prevenire proprio quel determinato evento verificatosi, nonché sulla prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento.
Si afferma che la tesi è rispettosa dell’originaria intenzione storica del legislatore del 1930, il cui intento, come emerge con chiarezza dai lavori preparatori del codice penale, era quello di individuare nell’art. 586, e nella norma generale dell’art. 83, «ipotesi ordinarie di fatti colposi» (cfr. la Relazione del Guardasigilli, in Lav. Prep., vol. V, pt. I, 135, a proposito dell’opinione espressa dalla maggioranza dei Commissari durante la discussione del 27 aprile 1928). Nella Relazione del Guardasigilli si osservava che «mentre l’art. 587 del progetto preliminare puniva il fatto predetto a titolo di responsabilità obiettiva, nel progetto definitivo la disposizione venne modificata in correlazione con l’art. 86 [poi divenuto art. 83] del progetto medesimo, per il quale gli eventi diversi da quelli voluti dall’agente sono punibili a titolo di colpa, se la legge li prevede tra i delitti colposi. L’art. 586 non è, pertanto, che una conferma e una particolare applicazione di questo principio generale, e trova la sua ragione nel fatto che viene stabilito un aumento di pena per l’omicidio e le lesioni personali colposi» (Relazione a S.M. il Re, vol. I, p. 86).
La tesi, inoltre, valorizza adeguatamente il dato testuale del richiamo alla colpa, contenuto sia nell’art. 83, sia anche nell’art. 586, che fa rinvio, oltre all’art. 83, anche alle fattispecie colpose degli artt. 589 e 590. Si rileva anche che l’art. 83 comma 2, prevede l’applicazione delle regole sul concorso di reati, il quale può sussistere solo se il reato non voluto di omicidio o lesioni è imputato come reato colposo.
Ma soprattutto si sostiene che è il rispetto del principio di colpevolezza e della sua portata liberalgarantistica (art. 27, comma 1, in combinato disposto col comma 3 e con l’art. 25, comma 2, Cost.) ad imporre che la fattispecie di cui all’art. 586 c.p. debba essere connotata dal requisito della colpa in concreto.

L’interpretazione adeguatrice che rispetti il principio costituzionale di colpevolezza esige che nella fattispecie dell’art. 586 c.p. la morte o le lesioni non volute siano imputate per colpa accertata in concreto
10. Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango costituzionale.
E’ noto che già con la fondamentale sentenza n. 364 del 1988, la Corte costituzionale, sulla base di una approfondita esegesi dell’art. 27 Cost. (imperniata sul collegamento tra il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa della pena, nell’ambito di una generale visione liberalgarantistica dell’ordinamento penale e dei rapporti tra Stato e cittadino), giunse ad identificare la «responsabilità personale», richiesta da tale norma, con la «responsabilità per fatto proprio colpevole» e ad affermare che lo Stato ha il dovere di assicurare al cittadino che non lo punirà senza preventivamente informarlo su ciò che è vietato o comandato e di assicurargli che «sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate». Il principio di colpevolezza, dunque, «più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto», e pone «un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena». E, secondo la Corte, tali requisiti subiettivi minimi richiedono che «il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica». Invero, «non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere “rieducato”».
Ora, già queste affermazioni assumono una importanza decisiva perché è evidente che fra gli elementi più significativi della fattispecie dell’art. 586 c.p. va compreso anche l’evento non voluto, in quanto esso è significativo sia rispetto all’offesa (in quanto offensivo di autonomi beni giuridici penalmente tutelati), sia rispetto alla pena (in quanto determina l’inflizione di una pena ulteriore).
E’ vero che la Corte affermò anche che l’art. 27, comma 1, Cost. non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, ma fin d’allora precisò che ciò vale solo per la c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria, ossia per quella ipotesi in cui non è coperto da dolo o colpa un solo elemento del fatto, magari accidentale. E specificò che invece diverso è il problema per la responsabilità oggettiva pura o propria, perché «è in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole “preventive” che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell’agente la colpa per il fatto realizzato». Ora, poiché il complessivo ultimo risultato vietato nell’art. 586 c.p. è costituito dalla produzione dell’evento non voluto, è in relazione a tale evento che deve essere accertata la violazione di regole preventive, al fine di riscontrare nell’agente la colpa per il fatto realizzato.
Con la successiva sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale precisò che «perché l’art. 27, primo comma, Cost., sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili». E ciò a prescindere dalla circostanza che l’elemento in discussione si identifichi o meno con l’evento del reato: rimanendo sottratti alla esigenza della «rimproverabilità» unicamente «gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi)».
La medesima pronuncia ha inoltre esplicitato in modo chiaro che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu «contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.», affermando che da tale parametro è richiesto «quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. (…)
E’ ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita” (…). Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (…) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo. Dal primo comma dell’art. 27 Cost. (…) non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o … tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento». E’ interessante ricordare che la sentenza in esame riferì il requisito della colpa anche ad attività illecite, come la sottrazione e l’impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo (art. 626 comma 1 n. 1, c.p.), osservando che «la mancata restituzione (…) non è addebitabile al soggetto agente (…) se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore», ossia se non dovuta a colpa.
Successivamente, la sentenza n. 2 del 1991 confermò l’illegittimità del principio «qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu», mentre la sentenza n. 179 del 1991 ribadì che l’art. 27, comma 1, Cost. richiede quale requisito subiettivo d’imputazione «almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato»; principio questo ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 61 del 1995.
Da ultimo, con la sentenza n. 322 del 2007, la Corte costituzionale ha confermato le sentenze nn. 364 e 1085 del 1988 in ordine alla costituzionalizzazione ed al contenuto del principio di colpevolezza, osservando che questo «partecipa, in specie, di una finalità comune a quelli di legalità e di irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.): esso mira, cioè, a garantire ai consociati libere scelte d’azione, sulla base di una valutazione anticipata (“calcolabilità”) delle conseguenze giuridicopenali della propria condotta; “calcolabilità” che verrebbe meno ove all’agente fossero addossati accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio, perché non solo non voluti né concretamente rappresentati, ma neppure prevedibili ed evitabili. In pari tempo, il principio di colpevolezza svolge un ruolo “fondante” rispetto alla funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.)», non avendo senso rieducare chi non versi almeno in colpa rispetto al fatto commesso.
La Corte ha altresì aggiunto che «la finalità rieducativa non potrebbe essere obliterata dal legislatore a vantaggio di altre e diverse funzioni della pena, che siano astrattamente perseguibili, almeno in parte, a prescindere dalla “rimproverabilità” dell’autore. Punire in difetto di colpevolezza, al fine di “dissuadere” i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale “negativa”) o di “neutralizzare” il reo (prevenzione speciale “negativa”), implicherebbe, infatti, una strumentalizzazione dell’essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale contrastante con il principio personalistico affermato dall’art. 2 Cost.». Pertanto il legislatore «ben può  nell’ambito delle diverse forme di colpevolezza  “graduare” il coefficiente psicologico di partecipazione dell’autore al fatto, in rapporto alla natura della fattispecie e degli interessi che debbono essere preservati: pretendendo dall’agente un particolare “impegno” nell’evitare la lesione dei valori esposti a rischio da determinate attività. Ma in nessun caso gli è consentito prescindere in toto dal predetto coefficiente».
Infine, la Corte ha evidenziato che «il principio di colpevolezza … si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti», ribadendo «l’esistenza nella tavola dei valori costituzionali di un principio di necessaria colpevolezza, ragguagliato quanto meno al “minimum” dell’ignoranza o dell’errore inevitabile: incida esso sulla norma o sugli elementi normativi del fatto … ovvero sugli elementi del fatto stesso».

11. Orbene, alla luce dei principi costituzionali appena ricordati per come affermati dalla Corte costituzionale, è evidente come una interpretazione adeguatrice dell’art. 586 c.p. imponga di disattendere sia il primo orientamento che formula una ipotesi di responsabilità oggettiva pura e propria, fondata esclusivamente sul nesso di causalità materiale, sia gli altri orientamenti che, come rilevato, nella sostanza e negli effetti non si differenziano da una ipotesi di responsabilità oggettiva (che viene in realtà camuffata, ma non superata), come quello della colpa presunta per violazione di legge penale (immancabilmente presente in tutti i casi), o come quello che richiede, oltre al nesso causale, una prevedibilità in astratto dell’evento, ossia una prevedibilità in re ipsa meramente formale e (sempre immancabilmente) presunta in tutti i casi sulla base dalla notorietà della frequenza delle conseguenze letali derivate dall’assunzione di certe sostanze stupefacenti.
Le richiamate sentenze costituzionali, invero, hanno esplicitamente affermato che si pone in contrasto con l’art. 27 Cost. la previsione sia di una responsabilità oggettiva pura o propria sia del principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. Inoltre, l’evento non voluto rientra certamente fra quelli più significativi della fattispecie dell’art. 586 c.p. e quindi, per la legittima punibilità del fatto, deve essere accertata la colpa dell’agente in relazione a tale evento. Ed il chiaro riferimento fatto dalla sentenza n. 364 del 1988 alla colpa quale «violazione di regole preventive» collegate «al complessivo risultato ultimo vietato», esclude che possa ritenersi conforme al principio costituzionale qualsiasi interpretazione che si basi sulla teoria della colpa presunta per violazione di legge penale.
D’altra parte, la ricostruzione del principio di colpevolezza per come operata dalla Corte costituzionale, non si concilia nemmeno con la tesi della responsabilità da rischio totalmente illecito.
Il principio invero richiede, come requisito subiettivo minimo di imputazione, la colpa dell’agente in relazione a tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie, o quanto meno agli elementi più significativi di essa, ed impedisce di addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi che a lui non sono rimproverabili. Inoltre, la sentenza n. 364 del 1988 ha anche fatto esplicito riferimento alla colpa quale violazione di regole preventive collegate al complessivo risultato ultimo vietato, in tal modo non accogliendo la tesi di una colpa contrassegnata solo dalla prevedibilità ed evitabilità e non anche dalla violazione di una regola cautelare. La stessa sentenza ha anche precisato che «la colpevolezza costituzionalmente richiesta … non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato». In definitiva, secondo la Corte costituzionale, non vi è posto nel nostro ordinamento per una terza forma di responsabilità colpevole, diversa da quella dolosa o colposa, e quindi la colpevolezza non potrebbe essere sostituita, a discrezione del legislatore, da altri elementi, quale il rischio da attività totalmente illecita.
Ne consegue che l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell’art. 586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base.
Un diverso orientamento in ordine al collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’ulteriore evento non voluto imporrebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli «elementi più significativi della fattispecie», fra i quali il «complessivo ultimo risultato vietato», se non si vuole incorrere nel divieto, ex art. 27, commi 1 e 3, Cost. della responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.
Questa interpretazione, del resto, non solo è l’unica conforme ai principi costituzionali, ma è anche quella che si pone più in armonia con il vigente sistema penale, dal momento che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per l’evento più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità in concreto, sarebbe anche incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di cui all’art. 59, comma 2, c.p., come innovato dall’art. 1 della legge 7.2.1990 n. 19 (Sez. I, 19.10.1998, D’Agata, n. 11055).

12. Non sussistono poi ostacoli di ordine testuale o logico che impediscano questa interpretazione, la quale anzi è anche più rispettosa della originaria intenzione del legislatore storico e del dato testuale del richiamo alla colpa contenuto nell’art. 83 c.p.
In particolare, questa conclusione non è impedita da una presunta impossibilità di muovere un rimprovero di colpa per un evento non voluto nei confronti di un soggetto che ha volontariamente intrapreso un’attività illecita.
E’ stato invero sostenuto da una parte della dottrina che sarebbe impossibile configurare una combinazione di dolo (rispetto al delitto base) e di colpa (rispetto alla conseguenza non voluta). E ciò soprattutto per l’argomento che il legislatore sarebbe contraddittorio ed irragionevole se, da una parte, vietasse di tenere una determinata condotta volontaria (attraverso la previsione del delitto doloso) e, da un’altra parte, attraverso l’imputazione per colpa dell’evento ulteriore non voluto, obbligasse ad eseguire tale condotta con le cautele necessarie ad evitare la produzione di ulteriori risultati non voluti. Tesi questa che sembra essere stata ripresa anche da qualche decisione di questa Corte che, in riferimento all’omicidio preterintenzionale, ha sostenuto che «sarebbe assurdo pretendere cautela (quanto alle conseguenze) da parte di chi, comunque, mette in atto un’aggressione fisica nei confronti di un terzo» (Sez. V, 13.2.2002, n. 13114, Izzo).
Queste obiezioni non appaiono però decisive. A fronte della presunta contraddizione, si è invero evidenziato che l’esclusione della possibilità di configurare una colpa in chi versa in re illicita comporterebbe una violazione del principio di uguaglianza, ponendo sullo stesso piano chi cagioni l’evento ulteriore non voluto in circostanze che rendevano agevole la previsione del suo verificarsi e chi lo cagioni in circostanze eccezionali, tali da non renderlo prevedibile. Al contrario, ammettendo la possibilità di un rimprovero per colpa in chi realizza un evento non voluto mediante la commissione di un reato doloso, si avrà anche la possibilità di trattare in modo diverso situazioni diverse, quali quella in cui l’evento ulteriore era agevolmente prevedibile e quella in cui era assolutamente imprevedibile e quindi nessun rimprovero può muoversi al soggetto. Ed è stato altresì osservato che sarebbe ancora maggiore la contraddizione del legislatore ipotizzando che lo stesso, da un lato, con norma costituzionale (art. 27 Cost.) accoglie il principio di colpevolezza e con norma ordinaria (art. 59, comma 2, c.p.) prevede l’imputazione almeno per colpa delle circostanze, e poi, da un altro lato, con altre norme ordinarie nega il principio di colpevolezza e non richiede la colpa in ordine agli ulteriori eventi non voluti.
Né la configurabilità di una colpa in attività illecita può essere negata sulla base delle argomentazioni che portano ad escludere una colpa per inosservanza di leggi penali, ossia perché non avrebbe senso imporre a chi sta compiendo un illecito doloso di eseguirlo con cautela. Ed infatti, il ritenere che non sia accettabile la tesi secondo cui ogni norma penale, nel momento in cui punisce una condotta, porrebbe anche una regola preventiva sulla pericolosità della condotta stessa, non significa affatto negare la possibilità che, in occasione della esecuzione dolosa di un reato, l’agente possa essere anche destinatario di regole cautelari per la prevenzione di ulteriori eventi, purché, ovviamente, non si pretenda di ricavare tali regole cautelari, in modo automatico e scontato, proprio dalla stessa disposizione penale incriminatrice della fattispecie dolosa.

Si deve quindi ammettere la possibilità di concepire e praticare una colpa in attività illecite, la quale non solo è riconosciuta esplicitamente in numerosi ordinamenti positivi (che imputano per colpa l’evento non voluto, aggravante o qualificante, derivante dalla commissione di un delitto doloso), ma è anche ammessa da tempo dalla gran parte della dottrina italiana, che ha evidenziato come le norme cautelari di condotta valgano tanto per chi agisce legittimamente quanto per chi opera illegittimamente.
D’altra parte, la citata sentenza n. 1085 del 1988 della Corte costituzionale, oltre a dichiarare l’illegittimità delle forme di responsabilità oggettiva, ha esplicitamente riferito il requisito della colpa anche ad attività illecite, mentre la possibilità di una colpa ravvisabile anche nell’ambito di una attività illecita è stata recepita pure dal legislatore, il quale, con la riforma del regime di imputazione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 59, comma 2, c.p. (introdotta con l’art. 1 legge 7 febbraio 1990, n. 19) ha reso possibile una combinazione di dolo (rispetto al reato semplice) e di colpa (rispetto alla circostanza aggravante). Il nuovo testo dell’art. 59, comma 2, c.p. richiede, infatti, che le circostanze aggravanti siano «ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa»: si tratta quindi di una colpa che si innesta su un fatto già di per sé costituente reato. Il legislatore ha così espressamente riconosciuto la possibilità di ambientare il rimprovero per colpa in un ambito di illiceità dolosa. Del resto, in riferimento alla disposizione dell’art. 59, comma 2, la giurisprudenza ha affermato che, attesa l’ampia formulazione di tale disposizione, «non sussiste alcuna logica incompatibilità tra l’imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione» (Sez. VI, 6.12.1994, n. 2164, Imerti, m. 200902; Sez. I, 27.10.1997, Carelli, m. 208936).

13. Va dunque confermato che mentre, da un lato, una interpretazione adeguatrice che rispetti il principio costituzionale di colpevolezza esige che nella fattispecie dell’art. 586 c.p. la morte o le lesioni non volute devono essere imputate per colpa, da un altro lato, non esistono insuperabili ostacoli, normativi o logici, contro questa interpretazione.
Occorre però stabilire se si tratta della stessa colpa presente nelle normali fattispecie colpose ovvero di una colpa che subisca delle modificazioni nella sua struttura e nel suo contenuto in conseguenza del fatto che l’agente, attraverso il delitto base doloso, si è collocato in un’area di illiceità penale.
Ora, se si ritiene che in quest’ultima ipotesi la colpa possa avere una fisionomia ed un contenuto particolari, si corre il rischio che si possa poi giungere di fatto ad un impoverimento e ad uno svuotamento del contenuto della colpa, con risultati pratici sostanzialmente identici a quelli della responsabilità oggettiva, o della colpa presunta per violazione di legge penale, o della colpa da prevedibilità in astratto dell’evento non voluto, ossia ad applicazioni pratiche solo formalmente rispettose del principio di colpevolezza, ma sostanzialmente non conformi allo stesso. Rischio questo non meramente ipotetico, come risulta da alcune decisioni che, pur affermando formalmente la necessità, attesa la «indefettibilità del principio di colpevolezza», della «sussistenza di un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non investito dal dolo del reato di base», tuttavia poi di fatto non hanno svolto alcuna indagine sulla effettiva presenza degli elementi costitutivi di una imputazione realmente colposa, in relazione alle circostanze oggettive e soggettive della concreta situazione (cfr. Sez. I, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo).
D’altra parte, non sembrano sussistere valide e decisive ragioni per le quali, allorché si manifesti nell’ambito di una diversa condotta illecita, la colpa debba subire delle modificazioni nella sua struttura o nel suo contenuto.
Ora, secondo l’opinione più diffusa, la colpa «normale» consiste nella realizzazione di un fatto non voluto, rimproverabile al soggetto per la violazione di una regola di diligenza (di prudenza, di imperizia), che discende da una valutazione positiva di prevedibilità e di evitabilità della verificazione dell’evento. Tale valutazione, sempre secondo la tesi più diffusa, deve essere compiuta con un giudizio di prognosi postuma, collocandosi in una prospettiva ex ante, cioè riferita al momento in cui è avvenuto il fatto, da svolgersi in concreto, secondo il punto di vista di un omologo agente modello, ossia di un agente ideato mentalmente come coscienzioso ed avveduto che si trovi nella concreta situazione e nel concreto ruolo sociale dell’agente reale. Occorre, infatti, da un lato, evitare di soggettivizzare la colpa fino a renderla inattuabile; da un altro lato, mantenere alla qualificazione di negligenza, imprudenza, imperizia quel minimo di aderenza alla situazione concreta, che permetta di considerarla criterio di imputazione soggettiva; e da un altro lato ancora, differenziare il punto di vista, dal quale valutare prevedibilità ed evitabilità, a seconda della situazione concreta in cui, di volta in volta, viene e trovarsi il singolo agente. Una volta ideato mentalmente l’omologo agente modello, deve valutarsi, sulla base di tutte le circostanze di fatto della concreta situazione in cui si trovava l’agente reale  tenendo peraltro conto anche di tutte le particolari conoscenze della realtà di fatto e le particolari capacità o abilità eventualmente possedute dall’agente concreto in misura superiore al normale  la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento, per individuare la condotta che l’agente modello avrebbe tenuto a seguito di tale valutazione. In caso di divergenza, potrà affermarsi che la condotta dell’agente concreto è colposa.

14. La circostanza che l’agente reale versi in un ambito di illiceità, dunque, non influenza la fisionomia della colpa ed il procedimento di individuazione dell’omologo agente modello. Ovviamente, si dovrà fare riferimento non già alla condotta di un ipotetico «delinquente modello», bensì alla condotta che ci si poteva ragionevolmente attendere, in relazione all’evento non voluto, da un individuo medio e razionale, posto nella medesima situazione in cui si è trovato l’agente reale.
Anche in ambito illecito, pertanto, occorre pur sempre che il fatto costitutivo del reato colposo sia una conseguenza in concreto prevedibile ed evitabile dell’inosservanza di una regola cautelare.
In particolare, è opportuno ribadire che, ai fini della imputazione della conseguenza ulteriore non voluta di un reato – base doloso, la colpa non può essere presunta in forza della sola violazione della legge incriminatrice del reato doloso. Per quanto riguarda più specificamente l’ipotesi di morte o lesioni personali conseguenti alla cessione illecita di sostanze stupefacenti, la regola cautelare, la cui inosservanza può costituire base della colpa, non può individuarsi nella stessa norma penale che incrimina la cessione dello stupefacente. La legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, come già rilevato, ha come scopo diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Del resto, a conferma che l’attuale legislazione in materia non ha una destinazione diretta ed immediata alla tutela dell’integrità fisica dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non punibilità del consumo personale di stupefacenti.
E’ stato inoltre esattamente osservato che lo scopo ulteriore ed indiretto di tutelare la vita dei possibili consumatori riguarda solo un rischio ed un pericolo generali e generici per l’incolumità e la salute della massa dei consumatori, pericolo che è già incluso nel disvalore complessivo, severamente sanzionato dalle disposizioni sulla produzione e sullo spaccio degli stupefacenti. In altri termini, anche riconoscendo che lo scopo «ultimo» della sfera di protezione delle norme che vietano lo spaccio di sostanze stupefacenti sia la tutela della vita dei possibili consumatori, il disvalore di questo rischio generico si esaurisce nell’imputazione per il reato presupposto. Il pericolo «iniziale» per l’incolumità insito nel commercio di sostanze stupefacenti, che è di tipo «generico», è già ampiamente previsto e punito per una efficace difesa prodromica della vita, dalle norme speciali sugli stupefacenti. Tale disvalore e tale rischio non possono quindi essere replicati in un altro reato per il tramite di una applicazione dell’art. 586 c.p. del tutto sganciata dalla sussistenza di un profilo soggettivo di colpa e fondata esclusivamente su una responsabilità oggettiva o su una colpa presunta per violazione della legge penale, perché in tal modo si verrebbe a sanzionare nuovamente un fatto già incluso per il suo carico di disvalore nella condanna per lo spaccio di droga. In altre parole, con le incriminazioni sul divieto dello spaccio viene sanzionata la creazione di un rischio generico per la salute della potenziale platea dei consumatori della sostanza, e non anche il rischio specifico del singolo assuntore, il quale viene invece sanzionato con le incriminazioni per morte o lesioni (dolose o colpose) sempre però che sussista una connessione diretta di rischio tra spaccio e morte del tossicodipendente e sempre che questo rischio specifico sia in concreto rimproverabile allo spacciatore perché da lui prevedibile ed evitabile. E questa relazione non può  a meno di non ricadere appunto in una ipotesi di responsabilità oggettiva  essere automaticamente ed immancabilmente riconosciuta in tutti i casi ipotizzando fittiziamente che l’art. 586 c.p. attribuisca alle norme incriminatrici sullo spaccio di stupefacenti anche il valore di specifiche regole di cautela dirette a prevenire la morte o le lesioni del singolo assuntore.

15.1. Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi.
Occorrerà quindi che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali. Occorrerà poi una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tendendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. Si dovrà pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto, di una determinata dose di droga. E’ poi evidente che per agente modello non si deve intendere uno «spacciatore modello», ma una persona ragionevole, fornita, al pari dell’agente reale, di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede.
Deve peraltro farsi una ulteriore precisazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 322 del 2007, ha ribadito che il principio di colpevolezza postula un coefficiente di partecipazione psichica del soggetto al fatto, ed implica quindi che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente ed a questi rimproverabili, siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa. La Corte ha confermato che il principio di colpevolezza non può essere «sacrificato» dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale. Ma ha anche chiarito che, nell’ambito delle diverse forme di colpevolezza, il legislatore ben può «graduare» «il coefficiente psicologico di partecipazione dell’autore al fatto, in rapporto alla natura della fattispecie e degli interessi che debbono essere preservati: pretendendo dall’agente un particolare “impegno” nell’evitare la lesione dei valori esposti a rischio da determinate attività». Ed ha poi specificato che la soglia minima di compatibilità con l’art. 27, comma 1, Cost. è rappresentata «dall’attribuzione di valenza scusante all’ignoranza (o all’errore) che presenti caratteri di inevitabilità: giacché deve poter essere mosso all’agente almeno il rimprovero di non aver evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o difettosa conoscenza del dato rilevante».
Ciò significa che, qualora si tratti della tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, il legislatore non solo può prevedere che sia sufficiente la sola colpa, invece del dolo, ma può anche richiedere un grado di attenzione ed un obbligo di conoscenza maggiori di quelli normalmente richiesti. Nell’ipotesi in esame ricorre una di queste situazioni, sia per la rilevanza costituzionale dei beni (vita ed incolumità fisica) tutelati, sia perché la natura astrattamente e genericamente pericolosa dell’attività è legislativamente segnalata dall’art. 81 del d.p.R. 309 del 1990, il quale prevede la possibilità che l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope possa cagionare la morte o lesioni personali dell’assuntore e che in tal caso possano essere configurabili i reati di cui agli artt. 586, 589 o 590 c.p. per chi abbia determinato o agevolato tale uso, disponendo altresì una notevole riduzione delle pene previste dalle norme sugli stupefacenti se il colpevole presti assistenza alla persona offesa ed informi tempestivamente l’autorità sanitaria o di polizia. Ciò significa che il legislatore ha voluto che l’agente sia tenuto a prendere in considerazione tutte le eventuali circostanze del caso concreto ed a desistere dall’azione (ossia dalla cessione dello stupefacente) sia quando taluna di queste circostanze evidenzi un concreto pericolo per l’incolumità dell’assuntore, e sia anche quando rimanga in concreto un dubbio in ordine alla effettiva pericolosità della stessa.
Lo spacciatore pertanto potrà ritenersi esente da colpa quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni. La colpa potrà invece essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non sia prevista perché una circostanza pericolosa sia stata ignorata per colpa o sia stata erroneamente valutata sempre per colpa.
In sintesi, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità in astratto dell’evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella natura di talune sostanze più pericolose di altre.
La colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto. All’agente è peraltro richiesto un particolare livello di attenzione e di prudenza, sicché lo stesso potrà essere ritenuto in colpa qualora non si sia astenuto dal cedere lo stupefacente dinanzi ad una circostanza dal significato equivoco o comunque quando abbia ignorato una circostanza pericolosa o sia caduto in errore sul suo significato e l’ignoranza o l’errore siano determinati da colpa, e siano quindi a lui rimproverabili perché non inevitabili.

15.2. In via generale dovrà dunque escludersi la responsabilità del cedente per la morte del cessionario in tutte le ipotesi in cui la morte risulti in concreto imprevedibile, in quanto intervenuta per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso di cessione di una sostanza «normale» per qualità e quantità e di morte dovuta alla contemporanea assunzione di alcol che abbia accentuato gli effetti della droga (a meno che lo spacciatore sapesse che la vittima era dedita all’uso di alcol o intendesse farne uso in quella occasione); o nel caso di consumo dello stupefacente congiunto all’uso di psicofarmaci, o di consumo da parte di soggetto apparentemente giovane e in buono stato di salute, ma in realtà con gravi difetti fisici, o in precario stato di salute, o con grave vizio cardiaco; o anche nel caso in cui l’agente abbia ceduto un normale quantitativo di droga ad un soggetto presentatosi come consumatore diretto senza che fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza (e quindi altamente a rischio di overdose) e ciò quand’anche fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad altri.

Così, ad esempio, la colpa è stata esattamente esclusa (o avrebbe dovuto essere esclusa) perché il rischio non era prevedibile in concreto nel caso di cessione di un rilevante quantitativo di eroina alla vittima, la quale, accortasi della presenza della polizia, aveva repentinamente ingoiato la bustina di plastica, che però si era aperta nello stomaco (Trib. Palermo, 4.2.2005, C.R.); o di cessione di una dose non eccessiva in cui la morte era stata causata da assunzione di alcol che aveva accentuato gli effetti della droga, senza che il cedente potesse prevedere l’evento morte per effetto congiunto di droga ed alcol (contra Sez. IV, 28.6.1991, n. 11965, Greco, m. 188768, che ritenne sufficiente il solo nesso causale); o di ulteriore cessione da parte dell’acquirente ad un terzo, poi deceduto per il suo ridotto grado di tolleranza agli stupefacenti, conseguente ad un precedente tentativo di disassuefazione, senza che lo spacciatore potesse prevedere l’ulteriore cessione e comunque la cessione ad un soggetto altamente a rischio (contra Trib. Rimini, 3.11.1987, Zaouali, sulla base di un giudizio di prevedibilità in astratto); o di assunzione di una normale dose di stupefacente che abbia provocato la morte ad uno solo dei due cessionari, abituale assuntore di droga, per un meccanismo allergico o idiosincrasico, ignoto allo spacciatore e di cui non vi erano manifestazioni esteriori (Trib. Roma, 12.2.1985, Trombetti).
Potrà, invece, nei singoli casi concreti, ravvisarsi una responsabilità del cedente quando questi sia stato a conoscenza che il cessionario o il soggetto che di fatto avrebbe assunto lo stupefacente ceduto era dedito all’alcol o al consumo di psicofarmaci o aveva, al di là dell’apparenza, gravi difetti fisici ovvero anche quando la mancata conoscenza di uno di questi fattori sia derivata da errore o da ignoranza evitabili, e quindi inescusabili, come ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia ceduto la sostanza ad un acquirente che denotava un alito vinoso, o che presentava caratteristiche esteriori di fragilità fisica o di consumatore di medicinali, o abbia ceduto la droga all’interno di una discoteca o di altro locale in cui solitamente si fa uso di sostanze alcoliche (essendo quindi altamente probabile una assunzione congiunta di droga e alcol), ovvero l’abbia ceduta a soggetti minorenni di cui poteva essere conoscibile la minore resistenza a quella determinata sostanza. Analogamente, la colpa in concreto potrebbe essere configurabile quando lo spacciatore abbia ceduto eroina ad un soggetto di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione e quindi la maggiore esposizione al rischio di overdose; o quando abbia ceduto sostanza micidiale come l’eroina a persona di giovanissima età, di esile costituzione fisica e che evidenziava la precedente assunzione di tranquillanti.
E così, ad esempio, correttamente è stata ravvisata la colpa nel fatto che il tossicodipendente era in evidente stato di ebbrezza ed in condizione di sofferenza e precarietà fisica per ingestione di medicinali (Sez. VI, 9.12.1989, n. 5348, Virdis, m. 184003 e 184004); o nel caso in cui il rischio di morte per overdose era prevedibile in concreto a causa delle visibili menomate condizioni della parte offesa, alla ricerca spasmodica di una droga pesante (Sez. V, 7.2.2006, n. 14302, Giancaterino, m. 234584); o nel caso in cui il cedente era a conoscenza che il cessionario nei mesi precedenti aveva ridotto il consumo di stupefacente, esponendosi così al rischio di morte per overdose (Trib. Velletri, 11.3.1986, Mattiazzo); o in cui il soggetto aveva iniettato eroina ad una giovane pur sapendo che non era dedita all’uso di tale droga e che era particolarmente affaticata per un lungo viaggio (Trib. Firenze, 6.11.1978, Poulopoulos); o di cessione di droga pesante (eroina) a persona di giovanissima età e di assai esile costituzione fisica, che aveva assunto tranquillanti (Trib. Busto Arsizio, 26.3.1985, Irritano).
La colpa potrà poi essere rinvenuta in particolari circostanze attinenti alla quantità, natura e qualità della sostanza ceduta, come ad esempio nel caso in cui lo spacciatore predisponga dosi a composizione diversa da quelle usuali o miscelate con sostanze diverse, con consapevolezza della probabilità di particolari maggiori rischi per la vita del consumatore.
Va peraltro anche tenuto presente che l’art. 80 d.p.R. 309 del 1990 prevede un cospicuo aumento di pena, da un terzo alla metà, quando le sostanze stupefacenti siano consegnate o destinate a minori, o siano adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva, o se la cessione sia effettuata all’interno o in prossimità di scuole, comunità giovanili, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti; un aumento dalla metà a due terzi se la cessione riguardi quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope; e prevede addirittura la pena di trenta anni di reclusione nel caso di cessione di ingenti quantità delle sostanze stupefacenti più pesanti adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva. Anche questi aggravamenti di pena, peraltro, non sono finalizzati in via diretta ed immediata alla tutela della integrità fisica pur avendo indubbiamente come scopo ulteriore ed indiretto anche il contrasto ad un più elevato rischio generico per la salute della massa dei consumatori. Anche in questi casi il carico di disvalore derivante di per sé da tale maggior rischio generico è già compreso nella maggior pena comminata per la violazione delle norme speciali sugli stupefacenti in presenza di dette circostanze. Ciò non significa tuttavia che non possa eventualmente essere ravvisata, sempre in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto e non in astratto, anche una ulteriore violazione (oltre a quella della legge speciale) di una regola cautelare specificamente preventiva dell’evento dannoso morte nel caso concreto, quando un maggior pericolo concreto ed effettivo per la vita dell’assuntore fosse in concreto prevedibile in considerazione della quantità e qualità della sostanza spacciata (eventualmente anche adulterata o «tagliata» in modo pericoloso) o della conoscibile minore resistenza fisica dell’assuntore o del maggior pericolo di overdose, dovuti alla sua minore età o allo stato di tossicodipendente in riabilitazione.
Nel caso poi in cui siano intervenute plurime, successive cessioni, la necessità che la responsabilità sia fondata su una colpa da accertarsi in concreto comporta che in tanto la colpa potrà ritenersi esistente in quanto la morte sia intervenuta per un fattore che era in concreto prevedibile dal cedente. Così, ad esempio, potrebbe non ravvisarsi la colpa nella ipotesi in cui la morte del terzo assuntore (non conosciuto e non conoscibile dal cedente) sia stata determinata da fattori non noti o non conoscibili dallo spacciatore, come nel caso che l’assuntore finale abbia consumato la droga insieme ad alcol, o a psicofarmaci, o sia affetto da vizi cardiaci o da gravi difetti fisici. In via generale, quindi, nel caso di plurime cessioni non potrà ravvisarsi una responsabilità dell’originario cedente quando questi non conosceva o non era in grado di conoscere l’identità dei successivi cessionari e soprattutto la presenza di particolari fattori che abbiano aumentato il rischio di decesso. Peraltro, anche in caso di plurime successive cessioni potrà ravvisarsi una colpa del cedente qualora questi particolari fattori relativi ai successivi cessionari non siano stati nel caso concreto conosciuti dal cedente per errore o ignoranza evitabili, e quindi colpevoli, come ad esempio nel caso che l’agente abbia ceduto la droga sapendo o potendo sapere che il cedente l’avrebbe a sua volta venduta in una discoteca o in un simile locale (e che quindi vi era in concreto una elevata probabilità che fosse assunta insieme ad alcol), o l’avrebbe venduta in una scuola o a minorenni.
Analogamente, anche nel caso di plurime cessioni, potrà ravvisarsi la colpa in capo al cedente indiretto quando il maggior rischio non dipende dalla identità e dalle caratteristiche personali dell’assuntore ma è riconducibile alla quantità, natura e qualità dello stupefacente, ed in particolare alle modalità con cui esso sia stato nel caso concreto eventualmente miscelato con altre sostanze tali da accentuarne in concreto la potenzialità lesiva (a meno che, in tali specifici casi di maggiore rischio per la vita di qualsiasi potenziale consumatore, non sia addirittura ravvisabile il dolo eventuale).

Il principio affermato
16. In conclusione, va dunque affermato il principio che, nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.
Venendo al caso in esame, si è già rilevato come la sentenza impugnata non si sia conformata al suddetto principio di diritto, avendo affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 586 c.p. a puro titolo di responsabilità oggettiva e sulla sola base del nesso di causalità materiale, pur avendo accertato che la morte del terzo cessionario (non conosciuto dall’imputato) era stata causata, o quanto meno favorita, dalla contemporanea assunzione di alcol etilico e pur essendo stato dedotto che la vittima si trovava in un precario stato di salute per l’assunzione di notevoli quantità di medicinali.
La corte d’appello ha osservato che l’effetto letale era prevedibile, ma ha fatto riferimento esclusivamente ad una prevedibilità in astratto derivante dalla stessa cessione della sostanza stupefacente senza esaminare né indicare se vi fossero nel caso concreto specifiche circostanze, conosciute o conoscibili dal cedente, che rendevano probabile in concreto, e non solo astrattamente possibile, un maggior rischio di esito letale. In particolare, non ha accertato se l’imputato sapesse o potesse sapere che il Nera avrebbe a sua volta ceduto parte dello stupefacente a terzi e che uno di costoro era consumatore di notevoli quantità di medicinali, si trovava in precario stato di salute e avrebbe ingerito alcol etilico contemporaneamente all’assunzione dello stupefacente. La corte ha anche parlato di colpa dell’agente e di concreta prevedibilità dell’evento letale per l’assuntore della sostanza stupefacente, ma si tratta di affermazioni apodittiche e di motivazione di stile, non essendo stata indicata nessuna circostanza di fatto che dimostrasse una prevedibilità della morte in concreto ed una colpa in concreto dell’agente.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata limitatamente al reato di cui agli artt. 83 e 586 c.p. per totale mancanza di motivazione sull’esistenza in concreto di una colpa dell’imputato rispetto all’evento morte non voluto, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte d’appello di Roma, che si uniformerà al principio di diritto dianzi affermato.
Per il resto il ricorso deve essere rigettato.

3. Dolo

Cass. I 18 marzo 2003, Iovino

Quando la condotta dell’agente sia consapevolmente diretta a realizzare un determinato evento, ma questo si verifica non per effetto di quella condotta, bensì di un comportamento sorretto dall’erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell’evento, quest’ultimo non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato, mentre l’ulteriore frammento della condotta può essere ascritto solo a titolo di colpa, ove il fatto da essa integrato sia previsto come delitto colposo.
Nella specie è stata censurata la sentenza di merito la quale aveva ritenuto configurabile l’omicidio volontario in capo a soggetti che, nel dichiarato intento di dare una “lezione” alla vittima della loro aggressione, le avevano provocato lesioni gravi e che, subito dopo, nell’erronea convinzione del già avvenuto e non voluto decesso, allo scopo di occultare il presunto cadavere, ne avevano dato alle fiamme il corpo, così cagionandone la morte.

Svolgimento del processo
1. Il G.U.P. del Tribunale di Monza, con sentenza pro­nunciata il 17 maggio 2001 all’esito di giudizio abbre­viato, dichiarava I. G., D. B. G. e G. F. colpevoli, in concorso con altri, dei delitti di sequestro di persona e di omicidio aggravato dalle sevizie in danno di R.A. (per avere cagionato al R., dopo averlo privato della libertà personale, lesioni personali, percuotendolo reiteratamente e violentemente per oltre 5 ore, stato di in­coscienza e morte a seguito di carbonizzazione), non­ché dei reati di furto e incendio del veicolo destinato al trasporto e all’eliminazione della vittima, e, applicate la continuazione e le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle contestate aggravanti quanto a I. e G. e prevalenti quanto a U. B., li condannava rispettiva mente, con la diminuente del rito, alla pena della reclusione di anni 19 per I., di anni 20 per G. e di anni 9 mesi 8 per D. B.

1.1. La vicenda omicidiaria, alla luce delle parziali ammissioni degli imputati circa la partecipazione alle condotte di sequestro di persona, lesioni personali, trasporto e distruzione del corpo mediante combustione, degli esiti delle intercettazioni telefoniche e ambientali, delle risultanze investigative e dei rilievi autoptici e medico – legali, è stata storicamente ricostruita dal giudice di primo grado nei seguenti termini, quanto alla dinamica degli avveni­menti, al movente del delitto e allo specifico ruolo svol­to da ciascuno degli imputati.
Essa, determinata dall’intento di dare una lezione al R. per il comportamento scorretto da questi tenuto nei confronti della O., compagna del G., si è svolta in tre tempi: prima il sequestro del R., che, prelevato dal G. e dal M., è stato condotto nel capannone adiacente all’a­bitazione dello I., per essere ivi rinchiuso, legato ai piedi con una catena e sottoposto ad un feroce pestaggio, an­che con colpi di spranga alle gambe e alla testa, da parte di tutti i presenti; poi, a seguito di un’accesa discussione sul da farsi – proseguire nel pestaggio o desistere – la de­liberata prosecuzione dell’azione lesiva in danno della vittima inerme e già malridotta, anche mediante tenta­tivi di strangolamento e sbattimento della testa sul pavi­mento; infine, il trasporto e la carbonizzazione del corpo del R., che non dava più segni di vita e sembrava morto.
Il G.U.P. rilevava peraltro che dall’esame autoptico ese­guito sul cadavere del R., rinvenuto carbonizzato con gli arti inferiori legati da una catena e con il collo stretto da un filo elettrico, e dalla deposizione del consulente me­dico legale, dott. S. era emerso che:
a) tutte le, pur gra­vi e politraumatiche, lesioni al capo e al torace erano ca­ratterizzate da «aspetti di intravitalità» e, attesa la presenza di residui carboniosi di grandi dimensioni a livello del tratto respiratorio superiore, «allorché il corpo fu dato alle fiamme il soggetto poteva essere in stato d’incoscienza, anche se non è plausibile che l’aggressore lo abbia potuto ritenere deceduto per il persistere dell’attività respiratoria durante la fase di combustione»;
b) il R., se fosse stato soccorso quando era ancora in stato di vita, invece di essere dato alle fiamme, si sarebbe probabil­mente salvato.
Ciò posto, il G.U.P., disattendendo la tesi difensiva secondo cui gli imputati avrebbero dovuto rispondere della morte del R. solo a titolo di colpa ex art. 83 o 586 c.p. o di preterintenzione ex art. 584 c.p., con­cludeva nel senso che gli stessi non erano incorsi in un errore sul fatto, credendo di realizzare l’occultamento e la combustione di un cadavere ed in realtà provocando la morte della vittima ancora in vita, poiché si era inve­ce realizzata l’adesione dei correi ad un nuovo piano cri­minoso, sopravvenuto nel corso dell’esecuzione dell’a­zione lesiva, che, in una progressione criminosa, era or­mai degenerato nell’intento omicida con la previsione della morte del R.

1.2. La Corte d’assise d’appello di Milano, con sentenza in data 29 aprile 2002, dopo avere analiticamente ripercor­so la ricostruzione probatoria del fatto criminoso anche alla luce degli articolati motivi di gravame, ne ribadiva la valutazione in termini di responsabilità degli imputati per il delitto di omicidio volontario, avendo gli stessi vo­luto e posto in essere entrambe le condotte, quella diret­ta a cagionare la morte e quella diretta a distruggere il corpo della vittima, dalle quali doveva necessariamente e complessivamente conseguire la morte della persona offesa, anche se questa, per circostanze meramente acci­dentali e contingenti, sia stata causata dalla carbonizza­zione del soggetto ritenuto già morto dagli imputati.
Quanto alla misura della pena, la Corte, considerata equa un’ulteriore riduzione degli aumenti fissati per i rea­ti satelliti ritenuti in continuazione, rideterminava la complessiva pena inflitta a G. e I. in anni 18 di reclusione ciascuno; mentre, in conformità alla concorde richie­sta delle parti e preso atto della rinunzia a tutti gli altri motivi di gravame, riconosciuta al D. B. l’attenuante di cui all’art. 116 c.p. per avere la morte del R. integrato un delitto più grave di quelli di sequestro di persona e di le­sioni personali da lui voluti e realizzati, rideterminava la pena nei confronti dello stesso nella misura di anni 6 e mesi 8 di reclusione.
(omissis)

Motivi della decisione

(omissis)
2. I giudici del merito, ai fini della completa ricostru­zione delle ragioni e delle modalità esecutive del fatto omicidiario e dell’individuazione del ruolo svolto nella vicenda da ciascuno degli imputati, hanno valorizzato il complessivo materiale probatorio costituito dalle parzia­li ammissioni degli imputati circa la partecipazione alle condotte di sequestro di persona, lesioni personali, tra­sporto e distruzione del corpo mediante combustione, convergenti nel nucleo essenziale del racconto e riscon­trate dagli esiti delle intercettazioni telefoniche e ambientali, dalle investigazioni svolte nelle indagini preli­minari e dai rilievi autoptici e medico – legali.
Essi, analiticamente «soffermandosi sulle posizioni dei singoli imputati I. e O. ed enucleando gli elementi di fat­to raccolti a loro carico, hanno dunque adeguatamente valorizzato, ai fini dell’identificazione della condotta di partecipazione dei ricorrenti alla vicenda criminosa, il contenuto di siffatti dati probatori, dai quali hanno de­sunto, con puntuale apparato argomentativo, che gli stessi avessero svolto lo specifico ruolo analiticamente delineato nell’imputazione elevata a loro carico.
E tale conclusione non è sindacabile in questa sede per­ché sorretta da logica e puntuale motivazione, salda­mente ancorata alle risultanze del descritto quadro pro­batorio.

la corretta qualificazione giuridica dei fatti di reato come storicamente ricostruiti dai giudici del merito
3. Ma la più seria doglianza mossa dai difensori dello I. e del G., previa enunciazione dei limiti della loro parte­cipazione materiale alla vicenda criminosa, ha per og­getto la corretta qualificazione giuridica dei fatti di reato come storicamente ricostruiti dai giudici del merito, ri­badendosi la tesi per la quale, non essendo la morte deri­vata dalla condotta lesiva, ma dalla successiva azione di carbonizzazione del corpo della vittima, ritenuta erro­neamente già deceduta a seguito delle violente e reitera­te percosse, ispirata perciò non dall’animus necandi ma dall’intento di occultare il presunto cadavere, dovrebbe ravvisarsi nella condotta lesiva il tentativo di omicidio, mentre l’evento letale, siccome non voluto, poteva ad essi ascriversi solo a titolo di colpa e non di dolo omicidiario, neppure nella forma del dolo eventuale.

3.1. La Corte d’assise d’appello ha innanzi tutto proce­duto all’analitica ricostruzione delle tre fasi temporali della vicenda (il sequestro e il feroce pestaggio del R. – l’accesa discussione se proseguire nel pestaggio fino alla morte o desistere e soccorrere il ferito, seguita dalla rei­terazione del pestaggio – la carbonizzazione del corpo del R. ritenuto erroneamente morto), ribadendone quindi la valutazione in termini di responsabilità degli imputati per il delitto di omicidio volontario, avendo gli stessi vo­luto e posto in essere entrambe le condotte, dirette pri­ma a cagionare la morte e poi a distruggere il corpo della vittima, dalle quali doveva necessariamente conseguire la morte della persona offesa, anche se questa, per circo­stanze meramente accidentali e contingenti, era stata causata dalla carbonizzazione del soggetto ritenuto già morto.
La sentenza impugnata (essenzialmente argomentata, sui punti, sulla base di valutazioni sostanzialistiche di politica criminale circa il disvalore soggettivo del fatto, che rifletterebbe per intero la volontà omicida dell’agen­te), prendendo esplicitamente le distanze dai contributi dogmatici della pressoché unanime dottrina e dalle ra­gioni poste a fondamento della più recente giurispruden­za di legittimità, ha ritenuto la responsabilità degli impu­tati per il delitto di omicidio volontario sulla base dell’affermazione per cui il dolo omicidiario, che aveva si­curamente sorretto l’originaria attività esecutiva, diretta al conseguimento del risultato letale voluto, sebbene da essa non determinato, aveva investito anche l’attività successiva, consistita nella distruzione del corpo della vittima mediante combustione, che ne aveva in effetti cagionato la morte, in un complessivo intreccio di atti tra essi causalmente collegati e comunque finalizzati all’eliminazione della vittima.
Il dolo che aveva assistito l’attività esecutiva originaria, arrestatasi nel momento in cui gli agenti avevano erro­neamente ritenuto di avere già prodotto l’evento letale, avrebbe investito anche la successiva e diversa attività compiuta dagli stessi sulla base di tale erroneo convinci­mento, sussistendo una connessione eziologica fra i due comportamenti.

sul tema del «dolo colpito a mezza via dall’errore durante l’itinerario di realizzazione del fatto ti­pico
3.2. Ma, alla stregua delle approfondite riflessioni svolte da parte della dottrina penalistica, italiana e conti­nentale, e della più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. I 2 maggio 1988, Auriemma) sul tema del «dolo colpito a mezza via dall’errore durante l’itinerario di realizzazione del fatto ti­pico, il principio in tali termini enunciato non può esse­re condiviso.
Da un lato, appare insufficiente ancorare tale figura al mero criterio causale.
E, dall’altro, l’ormai vetusta nozio­ne del “dolus generalis” (a favore della quale era orientale il più tradizionale indirizzo giurisprudenziale che negava ogni rilevanza a tale forma di errore: Cass. II 20 aprile 1945, Mottola; Cass. I 23 maggio 1961, Cossu; Cass. I 27 novembre 1961, Meloni) risulta estranea alla nozione di dolo accolta dal vigente ordinamento giuridico che, postulando la doverosa identificazione della struttura oggettiva e dei reali contenuti del coeffi­ciente psicologico della specifica condotta finale, costi­tuente il reale fattore eziologico dell’evento letale, non può non attribuire rilevanza decisiva all’errore sul fatto in cui è incorso l’agente.
Ed invero, il più stretto nesso psichico fra l’agente e il fat­to è espresso dall’elemento del dolo, che secondo l’art. 42 comma 2° c.p. costituisce l’archetipo dell’impu­tazione soggettiva per l’attribuzione della responsabilità nella configurazione delle singole fattispecie incriminatrici, mentre dalla definizione che di esso offre il succes­sivo art. 43 comma 1° s’evince che la struttura del dolo ri­sulta normativamente caratterizzata, non solo dall’ele­mento di natura intellettiva della previsione/rappresen­tazione, ma anche dall’ulteriore dato della volizione dell’evento.
Per quanto riguarda in particolare l’aspetto della condot­ta, si avverte che, se per i reati a forma vincolata oggetto del dolo è la condotta specificamente descritta nella nor­ma incriminatrice, nei reati a forma libera – e cioè nelle fattispecie causalmente orientate – in cui il legislatore pone l’accento con espressioni come “cagionare”, “de­terminare” e simili, piuttosto che sul tipo di azione, sulla produzione di un certo tipo di risultato naturalistico, la possibilità di imputare a titolo di dolo il fatto nel suo insieme postula che sia effettiva la volontà dello “ultimo atto” causalmente idoneo a produrre l’evento.
Ne deriva, come logico corollario, che, nei casi come quello in esame, non è consentito configurare il supporto psicologico dell’illecito in via ipotetica o secondo schemi congetturali alla stregua dell’id quod plaerumque accidit sulla base di una presunta, unitaria, rappresenta­zione finalistica dell’agente, nella presunzione che, se questi avesse tempestivamente riconosciuto l’errore sul­la permanenza in vita della vittima, avrebbe comunque perseverato nell’intenzione di ucciderla.
Neppure appare lecita una ricostruzione giuridica della vicenda in termini di non rilevanza della deviazione, nel compimento complessivo dell’azione, del decorso causa­le comunque consapevolmente avviato dall’agente (cd. “aberratio causae” irrilevante), mediante il richiamo all’oggettivo criterio di collegamento fra l’azione dolosa precedentemente spiegata per il conseguimento di un certo risultato e la successiva condotta volontaria dello stesso agente, pure assistita da un elemento psicologico non direttamente pertinente all’evento letale da esso realmente causato, evento questo che viene tuttavia rappresentato come sviluppo ed esito “indiretto” o “me­diato” dell’iter causale avviato dall’iniziale comporta­mento.
Che la rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fatti­specie tipica – condotta, evento inteso in senso naturali­stico e nesso di causalità materiale – e non il solo even­to causalmente dipendente dalla condotta, lo si desume chiaramente, d’altra parte, dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nel primo comma dell’art. 47, secondo cui siffatto errore, facendo venire me­no il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevo­lezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente.
Quando l’errore sopravvenuto cade su dati essenziali del fatto ti­pico e in concomitanza con un secondo segmento ese­cutivo della condotta tipica del reato, dotato di propria ed autonoma efficienza causale, il dato volitivo dell’ele­mento psichico resta, in tal caso, irrimediabilmente infi­ciato dall’atteggiarsi di quello intellettivo e l’errore ha un’efficacia escludente il dolo.
Si è altresì osservato che, quando l’agente tiene un de­terminato comportamento sulla base di una direttiva psicologica rapportabile ad una falsa rappresentazione della realtà fenomenica ed in tali condizioni realizzi il ri­sultato preso di mira anteriormente al formarsi dell’erro­neo convincimento di averlo cagionato, in siffatto epi­sodio criminoso si verte nell’ipotesi, non di uno o più at­ti tipici contestuali o strettamente consecutivi ma co­munque deponenti a favore dell’unicità dell’azione, ben sì di azioni plurime, non solo frazionate cronologica­mente, ancorché immediatamente consecutive, ma al fresi differenziate per l’aspetto attinente all’offesa del be­ne giuridico protetto ed all’efficacia lesiva, giuridicamente autonome per i profili di tipicità di ciascun seg­mento comportamentale, sorrette infine da distinti coef­ficienti psicologici.
E più precisamente; il dolo di un omicidio non realizzato per la prima fase della condotta; il dolo di un reato non realizzato (la distruzione e l’oc­cultamento del cadavere) e una colpa effettiva (da ac­certare in concreto, non in forza della mera imputazione oggettiva, secondo il modello normativo dell’aberratio criminis di cui all’art. 83 comma 1° c.p.) per l’evento letale prodotto, quanto alla seconda parte della condot­ta che si pone come immediato e diretto fattore eziologi­co della morte, ascrivibile cosi a titolo di omicidio col­poso.
Due fattispecie tipiche di reato, dunque, strutturalmente autonome e sottoposte a distinto regime giuridico.

3.3. – Contro la desueta logica del dolus generalis e sulla base del principio dell’essenziale dominio finalistico dell’atto umano e della necessaria persistenza dell’originaria intenzione omicida per tutto l’iter della condotta fino al­la fase terminale, va pertanto ribadita la soluzione inter­pretativa adottata da questa Corte con la storica, citata, sentenza “Auriemma” (RV. 179560) che il Collegio con­divide: «Quando la condotta dell’agente sia consapevolmen­te diretta a realizzare un determinato evento, ma que­sto si verifica non per effetto di quella condotta, bensì di un comportamento sorretto dall’erroneo convinci­mento della già avvenuta produzione dell’evento, que­st’ultimo non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato, mentre l’ulte­riore frammento del fatto può essere punito solo a ti­tolo di colpa, se esso e previsto come delitto colposo»; nel senso che «allorché la serie degli atti ricompresi nella parte finale del comportamento dell’agente, po­sto in essere dopo il presunto verificarsi dell’evento, manifesti l’esistenza di un errore essenziale sul fatto, nell’episodio devono ravvisarsi due distinte figure cri­minose in concorso reale tra loro, il tentativo di omi­cidio e l’omicidio colposo».
Avvertiva però la Corte Suprema, nell’annullare con rinvio la sentenza d’appello, che «soltanto se l’originaria intenzione omicida persista nella fase terminale, nel sen­so che l’agente ad essa dia corso con una direttiva psico­logica che rivesta il contenuto del dolo eventuale (con la volontà quindi che, ove mai gli atti già compiuti non fossero stati sufficienti per il conseguimento del risultato preso di mira, esso sia da quelli successivi cagionato), in detta ipotesi soltanto l’evento potrebbe essere ritenuto doloso, abbracciando evidentemente l’animus occidendi la condotta in tutto il suo iter».
Rileva anzi il Collegio che qualora l’agente, non essendo certo di averne già cagionato la morte nella prima fase, realizzi anche il secondo segmento della condotta con la deliberata intenzione di uccidere la vittima, in tal caso, pur instaurandosi un nuovo decorso causale, è ravvisabile il dolo diretto nella forma del dolo “alternativo”, per­ché la condotta successiva, sebbene ispirata, allo scopo di distruggere e occultare il cadavere, è mirata tuttavia a cagionare la morte della vittima nell’ipotesi in cui questa non si sia già verificata.
La realizzazione dell’azione effet­tivamente produttiva dell’evento letale non è, in siffatta ipotesi, assistita dall’errata supposizione e dalla certezza soggettiva di avere già con la prima attività consumato il delitto voluto.
Costituisce invero consolidata affermazione nella giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, Cass. I 19 novembre 1999, Denaro, RV 215521; Cass. I 11 febbraio 1999, Andretti, RV 211534; Cass. I 20 ottobre 1997, Trovato, RV 208933; Cass. VI 10 maggio 1994, Nannarini, RV 200940) quella secondo cui, in tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi “diretta” e non “eventuale” la par­ticolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo “alternativo”, che sussiste allorquando l’agente, al mo­mento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole indifferentemente e alter­nativamente che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro evento, egli risponde per quello effetti­vamente realizzato.

4. E però, l’apparato motivazionale della sentenza im­pugnata risulta affetto da una grave frattura logica e da contraddittorietà argomentativa proprio in merito all’a­nalisi di questo aspetto della vicenda criminosa, che, co­me si è visto, appare davvero il nodo cruciale per la solu­zione del caso controverso e cioè se fossero, o non, con­figurabili nella condotta omicidiaria degli imputati, alla luce del materiale probatorio in atti, i profili del dolo eventuale o addirittura di quello diretto nella forma del dolo alternativo.
Per un verso, la Corte d’assise d’appello sembra non du­bitare della circostanza che sia stata la falsa rappresenta­zione della realtà, pur se dipendente da errore colpevole degli agenti, ad incidere in modo determinante sul dato volitivo, incorrendo peraltro nell’erronea qualificazione giuridica della vicenda criminosa in termini di unitarietà dell’azione omicidiaria.
Dall’altro, essa richiama nella parte narrativa dello svol­gimento del processo le risultanze dell’esame autoptico eseguito sul cadavere del R., rinvenuto carbonizzato con gli arti inferiori legati da una catena e con il collo stretto da un filo elettrico, e la deposizione del consulente me­dico legale, dott. D. S., dalle quali emergevano le se­guenti circostanze, di assoluto rilievo per la corretta so­luzione del quesito interpretativo:
a) tutte le pur gravi e politraumatiche lesioni erano ca­ratterizzate da “aspetti di intravitalità” e, attesa la pre­senza di residui carboniosi di grandi dimensioni a livello del tratto respiratorio superiore, ‘allorché il corpo fu da­to alle fiamme il soggetto poteva essere in stato d’inco­scienza, anche se non è plausibile che gli aggressori lo ab­biano potuto ritenere già deceduto per il persistere dell’attività respiratoria durante la fase di combustione e per avere la vittima reagito verosimilmente agli stimoli dolorosi provocati dai colpi violenti soprattutto se dati ai testicoli e all’intenso dolore provocato dal fuoco appic­cato al suo corpo;
b) il R., il cui stato di vita non poteva essere ignorato da coloro che l’avevano colpito o gli erano vicini, se fosse stato soccorso quando era ancora in vita, invece di esse­re dato alle fiamme, si sarebbe probabilmente salvato.
Elementi obiettivi, questi, alla stregua dei quali il giudi­ce per l’udienza preliminare del Tribunale di Monza (v., in particolare, i passaggi motivazionali della sentenza di primo grado a pagg. 36, 47, 48, 53, 62, 68 – 70) era per­venuto alla conclusione che gli imputati non erano af­fatto incorsi in un errore essenziale sul fatto, credendo di realizzare l’occultamento e la combustione di un cadave­re della cui morte sarebbero stati soggettivamente certi, bensì avevano in realtà inteso provocare la morte della vittima ancora in stato di vita, essendosi realizzata la loro adesione ad un nuovo piano delittuoso, sopravvenuto nel corso dell’esecuzione dell’azione lesiva, che, in una progressione criminosa, era ormai irreversibilmente de­generato nell’intento omicida con la previsione e la vo­lizione della morte del R.
Ad avviso del medesimo giu­dice, gli imputati, sebbene non perfettamente convinti che la vittima del pestaggio fosse davvero già morta, pu­re nel dubbio circa la sua permanenza in vita, avevano tuttavia progressivamente proseguito nella deliberata in­tenzione omicida mediante i successivi atti di combu­stione del corpo, complessivamente finalizzati all’eliminazione della vittima.
Orbene, rileva il Collegio che la Corte di assise di appel­lo. pur richiamando in narrativa i descritti elementi di prova e il convincimento espresso al riguardo dal giudice di primo grado, non ne ha tratto alcuna conseguenza sul piano della coerente ricostruzione della complessiva vicenda criminosa e dell’apprezzamento dell’effettivo elemento psicologico che aveva assistito le condotte de­gli imputati, in termini di dolo alternativo o eventuale, disattendendo implicitamente quel ragionamento pro­batorio e prediligendo invece il diverso itinerario dell’er­rore sul fatto, al quale però offriva la suesposta, inade­guata, soluzione interpretativa.
La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte di as­sise di appello che, con riferimento all’esclusivo tema della configurabilità nella condotta degli imputati dell’effettivo animus necandi, procederà con la più ampia li­bertà d’indagine e di valutazione ad un nuovo esame di tutti i dati probatori già acquisiti (tenendo in particolare considerazione le citate risultanze dell’esame autoptico e della deposizione del consulente medico – legale) ovvero degli altri che riterrà opportuno acquisire, uniformando­si ai principi di diritto sopra enunciati.
(Omissis).

Cass. S.U. 26 novembre 2009, Nucera

E’ configurabile il dolo nel delitto di ricettazione anche nel caso in cui l’agente abbia la consapevolezza della concreta probabilità che la cosa provenga da delitto.


1. Mario Nucera, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del 20 settembre 2006 con la quale la Corte di appello di Torino, riformando parzialmente la decisione di primo grado, gli ha riconosciuto le attenuanti degli artt. 62, n, 6, e 62 bis c.p. e ha rideterminato in tre mesi di reclusione e cento euro di multa la pena inflitta al ricorrente per i reati previsti dall’art. 648 c.p. e dall’art. 12 d.l. 3 maggio 1991, n. 143.
Risulta dalla sentenza impugnata che Nucera, a bordo dell’autovettura tg. BG882JV, aveva utilizzato per il pagamento del pedaggio autostradale al casello di Cigliano (VC) una tessera Viacard del valore nominale di lire 50.000, che era stata ritirata dall’operatore perché, dopo essere stata usata per l’ultima volta lecitamente il 14 aprile 1999, era stata rigenerata e poi utilizzata indebitamente il 7 giugno 2000 e successivamente altre sei volte. Nocera si era giustificato affermando di avere acquistato la tessera da uno sconosciuto, che all’interno di un’area di servizio gliela aveva venduta dicendo di essere rimasto senza benzina e con poco denaro.
Per questo fatto, in seguito a un giudizio abbreviato, il ricorrente era stato ritenuto responsabile dei reati di ricettazione e di uso indebito della tessera Viacard.
La corte di appello aveva confermato la condanna ritenendo che le circostanze dell’acquisto dimostrassero quanto meno l’esistenza di un dolo eventuale, in presenza del quale doveva ravvisarsi il reato di ricettazione e non quello di incauto acquisto. Inoltre, dopo avere aggiunto che l’imputato non aveva dato una giustificazione del proprio acquisto, perché aveva riferito circostanze incontrollabili, la Corte aveva rilevato che secondo una giurisprudenza consolidata «la mancata giustificazione del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della sua illecita provenienza».

2. La seconda sezione di questa Corte con ordinanza del 19 giugno 2009 ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., avendo rilevato l’esistenza di un contrasto sulla configurabilità del reato di ricettazione quando l’agente non conosce la provenienza delittuosa della cosa ma se ne rappresenta la probabilità o la possibilità.
Come ha ricordato la sezione rimettente, secondo un primo orientamento nel delitto ex art. 648 c. p. è ravvisabile il dolo eventuale quando la situazione fattuale – nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e dell’esperienza – sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res, ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza.
Secondo un altro orientamento invece il dolo eventuale non sarebbe compatibile con il reato di ricettazione perché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa che si acquista o comunque si riceve provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del bene, non essendo sufficiente che l’agente si sia rappresentata la possibilità di tale origine per circostanze idonee a suscitare perplessità; quest’ultima ipotesi, ricadrebbe, invece, nell’ambito dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa, ovvero anche solo contravvenzionale, ed impongano all’acquirente, indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza.
A questo indirizzo, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, possono essere ascritte anche le decisioni che ritengono necessaria la certezza della provenienza illecita della res aggiungendo però che tale certezza si può desumere anche dalla qualità delle cose e dagli altri elementi sintomatici considerati dall’art. 712 c. p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la comune esperienza la convinzione che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre.
Peraltro, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, in varie decisioni della Suprema Corte l’adesione a uno degli orientamenti indicati deriva da scelte non argomentate, che prescindono dal dibattito, anche dottrinale, sulle caratteristiche del dolo eventuale: con riguardo alla ricettazione, in particolare, non si tiene conto delle problematiche connesse ai limiti di applicabilità della categoria del dolo eventuale, elaborata principalmente nella materia dei reati di evento, ai reati non causalmente orientati e connotati dal riferimento strutturale ad un reato presupposto, ossia a un fatto già accaduto. Inoltre, non vengono approfonditi i rapporti tra le fattispecie criminose di cui agli artt. 648 e 712 c. p. né si chiarisce se e per quali aspetti il dubbio sul reato presupposto, che dovrebbe bastare per ritenere sussistente l’elemento soggettivo della ricettazione, si distingua dal “sospetto” che integra il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza, essendo difficile affermare che solo in un caso e non nell’altro l’autore del reato abbia accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, adottando una formula (quella dell’accettazione del rischio) elaborata con specifico riferimento ai reati di evento, mentre la provenienza illecita nel delitto di ricettazione costituisce un presupposto del fatto, che può essere oggetto di vari gradi di rappresentazione, ma che non è prevedibile né evitabile.

la questione della compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione
1. La questione rimessa alle Sezioni unite riguarda, come si è visto, la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, e la sezione rimettente, dopo aver ricordato gli argomenti addotti a sostegno dei due orientamenti giurisprudenziali contrastanti, ha indicato un’ulteriore ragione, di carattere preliminare, che a suo avviso potrebbe imporre una soluzione negativa, perché ha osservato che la provenienza illecita nella ricettazione costituisce un presupposto del fatto, rispetto al quale può dubitarsi che assuma rilevanza l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale.
l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale
Si tratta però di un dubbio agevolmente superabile perché il dolo eventuale è una figura di costruzione giurisprudenziale e dottrinale e non c’è ragione di ritenere che essa possa riferirsi al solo evento del reato e che l’atteggiamento psicologico nel quale la si fa consistere non possa riguardare anche i presupposti.
L’elemento psicologico del reato è costituito, prima che da una componente volitiva, da una componente rappresentativa, che investe il fatto nel suo complesso, e dunque non solo gli effetti della condotta ma anche gli altri elementi della fattispecie, e dà piena ragione della colpevolezza dell’agente.
Perciò se si ritiene che il dolo sia costituito dalla rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico o anche, nel caso di dubbio, dalla sua accettazione, alla quale si collega secondo la giurisprudenza il dolo eventuale, non c’è ragione di distinguere il caso in cui il dubbio cade sulla verificazione dell’evento, che viene accettato, da quello in cui cade su un presupposto.
In un caso e nell’altro l’agente si rappresenta la possibilità di commettere un delitto e ne accetta la realizzazione: egli non si astiene dal tenere una condotta ben sapendo che può dar luogo a un illecito, anche se questo non viene direttamente voluto.
L’agente, come è stato affermato in dottrina, deve rappresentarsi l’esistenza dei presupposti «come certa o come possibile, accettando l’eventualità della loro esistenza», sicché può dirsi che ci si trova in presenza di un dolo eventuale quando chi agisce «si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi: il soggetto decide di agire “costi quel che costi”, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto».
Deve quindi convenirsi che l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale ben può riguardare i presupposti del reato, anche se si tratta di un atteggiamento che in questo caso si riferisce a una situazione già esistente al momento dell’azione mentre quando ha ad oggetto l’evento si riferisce a una situazione futura, che potrà derivare dalla condotta dell’agente.
il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto
Del resto il contrasto di giurisprudenza sulla configurabilità del dolo eventuale nella ricettazione, nel caso in cui l’agente si rappresenti la possibilità della provenienza delittuosa della cosa, non concerne la configurabilità di un atteggiamento psicologico del genere rispetto ai presupposti del reato ma il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto, perché una parte della giurisprudenza è dell’opinione che l’ipotesi in questione rientri specificamente nella previsione dell’art. 712 c.p., che insomma per espressa previsione della legge il dolo eventuale valga a costituire la fattispecie dell’incauto acquisto, rimanendo così sottratto alla sfera applicativa dell’art. 648 c.p.
il delitto previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231)
Il contrasto concerne quindi il rapporto tra i due reati, ma nel caso sottoposto alle Sezioni unite entra in gioco anche il delitto previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231), che tra l’altro punisce l’acquisto di carte di credito o di pagamento di provenienza illecita.
Con la sentenza 28 marzo 2001, n. 22902, Tiezzi, rv. 218872 le Sezioni unite hanno ritenuto che l’acquisto di carte di provenienza delittuosa costituisca ricettazione, «dovendosi viceversa ricondurre alla previsione incriminatrice di cui all’art. 12, seconda parte, d.l. 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella l. 5 luglio 1991, n. 197 (che sanziona, con formula generica, la ricezione dei predetti documenti “di provenienza illecita”), le condotte acquisitive degli stessi, nelle ipotesi in cui la loro provenienza non sia ricollegabile a un delitto, bensì a un illecito civile, amministrativo o anche penale, ma di natura contravvenzionale».
Ciò posto, se si dovesse ritenere che l’acquisto con dolo eventuale di una carta di credito o di pagamento di origine delittuosa non costituisca ricettazione ci si dovrebbe chiedere quale delle due altre fattispecie, quella dell’art. 12 l. n. 143 cit. o quella dell’art. 712 c.p. sia integrata, e verosimilmente si dovrebbe optare per la prima soluzione.
E’ da aggiungere che nel caso in esame, se questa dovesse essere la conclusione, ci si troverebbe di fronte all’alternativa sull’applicabilità dell’art. 648 c.p. o dell’art. 12 l. n. 143 cit., ma la questione dei rapporti tra l’art. 648 c.p. e l’art. 712 c.p. resterebbe rilevante per stabilire se il dolo eventuale possa o meno integrare il delitto di ricettazione, perché un’eventuale conclusione negativa, rendendo inapplicabile l’art. 648 c.p., lascerebbe il campo all’art. 12 d.l. n. 143 cit.

2. L’orientamento contrario alla tesi della compatibilità tra ricettazione e dolo eventuale è stato ben delineato da Sez. II, 2 luglio 1982, n. 1180/83, Blanc con l’affermazione che il delitto di ricettazione, sia per la sua strutturazione giuridica sia per la sua correlazione logica con la contravvenzione di incauto acquisto, non prevede la punibilità a titolo di dolo eventuale o alternativo, ma solo a titolo di dolo diretto.
Secondo questa decisione, ad integrare gli elementi costitutivi della ricettazione «occorre, oltre al presupposto di fatto dell’effettiva esistenza di un delitto da cui il denaro o le altre cose provengano, che l’agente, al momento dell’acquisto o della ricezione, pienamente consapevole dell’origine delittuosa delle cose, volontariamente e coscientemente le abbia trasferite nella propria disponibilità, non essendo sufficiente che egli si sia rappresentata la possibilità di tale origine delittuosa per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza delle cose stesse». Quest’ultima ipotesi, osserva la sentenza Blanc, «ricade invece nell’ambito della specifica previsione dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa ovvero anche solo contravvenzionale e impongano all’acquirente, indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza».
Nello stesso ordine di idee si sono espresse successivamente numerose sentenze tra le quali merita una segnalazione Sez. II, 14 maggio 1991, n. 9271, Castelli, per la chiarezza dell’affermazione del principio di diritto, così massimato: «Il dolo eventuale non è compatibile con il delitto di ricettazione poiché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa che si acquista, o comunque si riceve, provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto. Per contro il dubbio motivato dalla rappresentazione della possibilità dell’origine delittuosa dell’oggetto per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza dello stesso, integra la specifica ipotesi di reato prevista dall’art. 712 c. p., che punisce l’acquisto di cose di sospetta provenienza».
Una parte di questa giurisprudenza aggiunge però che la certezza nell’agente della provenienza delittuosa della cosa può desumersi anche dagli elementi delineati dall’art. 712 c.p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da ingenerare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre (Sez. II, 3 aprile 1992, n. 2/93, Nicoletti; Sez. II, 21 febbraio 1995, n. 3237, Quasdallah), e analoghe affermazioni sono contenute in numerose decisioni che per riconoscere l’esistenza del dolo diretto utilizzano dati probatori che nella maggior parte dei casi avrebbero potuto più correttamente essere dimostrativi di un dolo eventuale (Sez. II, 20 giugno 1996, n. 8072, Coletto; Sez. VI, 4 giugno 1997, n. 6753/98, Finocchi; Sez. IV, 12 dicembre 2006, n. 4170/07, Azzaouzi).

Opposto a quello che riconduce alla contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. i fatti di acquisto o ricezione con dolo eventuale delle cose di provenienza delittuosa è l’orientamento giurisprudenziale che, ritenendo la contravvenzione di natura esclusivamente colposa, ravvisa un’ipotesi di ricettazione in tutti i casi in cui la condotta dell’agente è sorretta da un dolo, anche solo eventuale.
Chiara in questo senso è Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, Conti, che, dopo aver ricordato l’orientamento contrario, obietta che in realtà, confrontando il tenore testuale delle due norme incriminatrici, non emerge affatto che il dolo di ricettazione non possa sussistere se non quando vi sia la soggettiva certezza dell’illecita provenienza della res, sicché mancando questa si verterebbe automaticamente nella minore e diversa ipotesi di cui all’art. 712 c. p. Illuminante al riguardo, secondo la pronuncia in esame, appare in particolare l’esegesi di quest’ultima disposizione, che punisce non chi ha acquistato o ricevuto cose di cui “sospetti” la provenienza da reato ma chi quelle cose ha acquistato o ricevuto quando “si abbia motivo di sospettare” tale provenienza. Di qui la configurazione della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza in termini di reato colposo, perché, si dice: «emerge chiaramente da tale formulazione della norma che il legislatore con l’art. 712 c.p. ha inteso punire la mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res quando vi sia una oggettiva ragione di sospetto in ordine a detta provenienza. Ciò vale a dire che del reato di cui all’art. 712 c.p. si risponde essenzialmente per colpa consistente appunto nella suddetta mancanza di diligenza». Perciò, «quando invece la situazione fattuale, nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e dell’esperienza, sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, del tutto corretta risulta la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di ricettazione. Quest’ultimo infatti come ogni delitto, è punibile a titolo di dolo, e il dolo di regola può assumere anche la forma del c.d. dolo indiretto o eventuale, salvo che ciò sia escluso dalla particolare struttura della fattispecie incriminatrice».
Un ulteriore approfondimento a sostegno dell’orientamento in esame lo si deve a Sez. II, 15 gennaio 2001, n. 14170, Macchia, che opta per la configurabilità del dolo eventuale in relazione al delitto di ricettazione, osservando che due sono le possibilità che si presentano in concreto:
1) l’agente si è posto il quesito circa la legittima provenienza della res, risolvendolo nel senso dell’indifferenza alla soluzione;
2) l’agente è stato negligente, perché, pur sussistendo oggettivamente il dovere di sospettare circa l’illecita provenienza dell’oggetto – a causa della qualità di quest’ultimo o per la condizione di chi lo offre ovvero per la sproporzionata entità del prezzo – non si è posto il problema.
Nel primo caso, rileva la sentenza Macchia, «sussiste il dolo eventuale, poiché il soggetto ha affrontato consapevolmente il rischio di violare il codice penale, ricevendo una cosa che può provenire da delitto e d’incorrere nelle conseguenti sanzioni»; nel secondo caso, invece, la condotta tenuta dall’agente è meramente colposa, perché egli non si è avvalso degli ordinari criteri di prudenza e diligenza per svolgere l’accertamento che la situazione concreta gli imponeva. L’orientamento è stato poi ribadito da varie decisioni; tra le più recenti, favorevoli alla configurabilità del dolo eventuale nel reato di ricettazione, si possono ricordare Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, Lapertosa; Sez. II, 28 novembre 2008, n. 46966, Gorgoni; Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807/09, Dragna; Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 13358, Rubes; Sez. II, 2 aprile 2009, n. 17813, Ricciardi.

3. Le Sezioni unite ritengono che nessuno dei due orientamenti possa essere interamente condiviso.
Non il secondo, che arriva all’eccesso di espungere dalla fattispecie dell’art. 712 c.p. anche i casi in cui l’agente abbia un mero sospetto sulla provenienza della cosa.
E’ vero infatti che l’art. 712 c.p. fa riferimento, come ha osservato la sentenza Conti, a «una oggettiva situazione di sospetto», e non a una situazione soggettiva, ma è anche vero che nulla fa ritenere che la disposizione sia inapplicabile nell’ipotesi in cui i dati oggettivi in essa indicati abbiano determinato un sospetto nell’agente.
Una interpretazione siffatta finirebbe con il limitare oltre il ragionevole e senza una sicura base testuale il campo di applicazione dell’incauto acquisto.
Neppure il primo orientamento però può essere condiviso perché dal riconoscimento che nel caso di sospetto è ravvisabile un incauto acquisto trae la conclusione ingiustificata che sia di pertinenza di questa fattispecie tutta l’area che il dolo eventuale potrebbe occupare nel reato di ricettazione, sicché il delitto previsto dall’art. 648 c.p. sarebbe configurabile solo nei casi in cui l’agente abbia la certezza della provenienza della cosa da delitto, mentre sarebbe configurabile solo la contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. in tutti i casi in cui, pur non essendoci elementi dai quali trarre tale certezza, l’agente sia ben consapevole della concreta possibilità che la cosa provenga da delitto e ne accetti il rischio.
Questo orientamento non considera da un lato che il dolo eventuale può riferirsi a situazioni soggettive che investono la provenienza della cosa in forme ben più impegnative di quella del mero sospetto, pur non arrivando a costituire una forma di dolo diretto, e dall’altro che l’art. 712 c.p., a differenza dell’art. 648 c.p., non intende punire l’acquisto o la ricezione di cose con tale provenienza ma più semplicemente l’acquisto o la ricezione di cose rispetto alle quali si abbiano motivi di sospetto, senza aver prima compiuto gli opportuni accertamenti.
Correlativamente l’elemento soggettivo della contravvenzione non concerne la provenienza illecita della cosa ma i relativi accertamenti, che non avrebbero potuto essere omessi, e i motivi di sospetto che li rendevano necessari.
L’art. 712 c.p. non richiede espressamente l’effettiva provenienza della cosa, e una parte consistente della giurisprudenza (in questo senso Sez. III, 15 aprile 1994, n. 5361, La Grutta; Sez. II, 2 luglio 1982, n. 1180/83, Blanc; Sez. II, 1 ottobre 1980, n. 2232/81, Acquafredda; Sez. VI, 9 febbraio 1971, n. 162, Langella; in senso contrario, ma immotivatamente, Sez. II, 7 luglio 1994, Manduano) e della dottrina è dell’opinione che tale provenienza non debba essere accertata: la norma non lo esigerebbe.
Se si conviene che la contravvenzione sussiste anche quando, in presenza di motivi di sospetto, la provenienza illecita della cosa non viene accertata e comunque che tale provenienza esula dalla fattispecie descritta dall’art. 712 c.p. è ragionevole concludere che essa non fa parte del relativo elemento soggettivo e che quindi non è sostenibile la tesi dell’assorbimento nell’incauto acquisto dei fatti di ricettazione sorretti da dolo eventuale.
Sono i motivi di sospetto tipizzati, e non il sospetto, che caratterizzano l’incauto acquisto, e sotto questo aspetto può dirsi che la differenza dalla ricettazione è strutturale. E’ possibile che nell’agente venga ingenerato un sospetto, ma questo, quando ciò avviene, costituisce un fatto accidentale, che rimane estraneo alla struttura della contravvenzione.

In conclusione non ci sono argomenti convincenti per ritenere che in ogni ipotizzabile caso di dolo eventuale l’agente dovrebbe rispondere della contravvenzione dell’art. 712 c.p., anziché di ricettazione, sia perché si tratta di una forma di dolo di per sé compatibile con il delitto previsto dall’art. 648 c.p., sia perché non può ritenersi che tale forma integri tipicamente la fattispecie contravvenzionale.
Si pensi al caso del collezionista che di fronte all’offerta di un pezzo di pregio sia in dubbio sulla sua provenienza e, considerate le circostanze e le spiegazioni di chi glielo offre, si rappresenti la probabilità che sia di origine delittuosa, anche se non ne ha la certezza, e tuttavia non rinunci all’acquisto perché il suo interesse per il pezzo è tale che lo acquisterebbe anche se gli risultasse che per venirne in possesso chi glielo offre ha commesso un delitto.
In un comportamento del genere non c’è nulla di incauto; c’è la lucida volontà di dare soddisfazione al proprio interesse nella consapevolezza che molto probabilmente l’acquisto si risolve in una ricettazione.
E’ vero però che rispetto alla ricettazione il dolo eventuale, a meno che non emerga dalle stesse dichiarazioni dell’agente, viene desunto dalle circostanze del caso, indicative della possibilità che la cosa provenga da delitto, e che queste circostanze ben possono coincidere, e normalmente coincidono, con quelle che l’art. 712 c.p. individua come motivi di sospetto, ed è anche vero che dai semplici e soli motivi di sospetto indicati dall’art. 712 c.p. il giudice non può desumere l’esistenza di un dolo eventuale, perché altrimenti, per le cose provenienti da delitto (e non da contravvenzione), l’incauto acquisto verrebbe nella maggior parte dei casi trasformato in una ricettazione.
Fermo rimanendo quindi che la ricettazione può essere sorretta anche da un dolo eventuale resta da stabilire come debba avvenire il suo accertamento e quali debbano essere le sue caratteristiche, posto che lo stesso non può desumersi da semplici motivi di sospetto e non può consistere in un mero sospetto, se è vero che questo non è incompatibile con l’incauto acquisto. Del resto, come già si è avuto occasione di osservare, il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa: la sua costruzione è rimessa all’interprete ed è ben possibile che per particolari reati assuma caratteristiche specifiche.
Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto.
Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.

4. La sentenza impugnata ha confermato la condanna del ricorrente per il reato ricettazione sulla base di due diverse rationes decidendi: il dolo eventuale del ricorrente e la mancanza di giustificazione da parte sua del possesso della carta Viacard, che secondo un orientamento giurisprudenziale sarebbe «sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede».
E’ evidente che la seconda ratio decidendi si risolve in un’affermazione apodittica e ingiustificata, dato che la stessa sentenza impugnata, come quella di primo grado, ha mostrato di dar credito alle dichiarazioni del ricorrente sulle circostanze dell’acquisto della carta Viacard e da queste ha dedotto l’esistenza del dolo eventuale. Perciò è solo sul solo dolo eventuale che può basarsi l’affermazione di responsabilità per la ricettazione ma sul punto la sentenza non è conforme ai principi affermati da queste Sezioni unite, perché si è limitata ad affermare «che quanto meno il dubbio circa la illecita provenienza della tessera» doveva essersi «affacciato alla mente del Nocera il quale senza procedere ad alcuna forma di benché minimo accertamento aveva ricevuto e varie volte utilizzato la carta in questione».
Come si è visto non basta un sospetto e non basta un semplice dubbio per integrare il dolo eventuale della ricettazione e di conseguenza si impone l’annullamento della sentenza impugnata, demandando al giudice di rinvio un nuovo giudizio sul punto relativo all’elemento psicologico, da compiere facendo applicazione dei principi sopra specificati.
L’altro delitto per il quale il ricorrente ha riportato condanna, quello previsto dagli artt. 81 c.p. e 12 d.l. n. 143 del 1991 invece è prescritto, perché in seguito all’applicazione delle attenuanti degli artt. 62, n. 4 e 6 e 62 bis c.p. risulta punito con una pena inferiore a cinque anni di reclusione e il termine di sette anni e sei mesi, determinato in base alle disposizioni previgenti degli artt. 157 e 160 c.p., e decorrente dall’8 luglio 2000 ormai è ampiamente decorso.
Poiché secondo una giurisprudenza di questa Corte, alla quale la sentenza impugnata ha fatto riferimento (per un caso analogo a quello in esame v. Sez. I, 8 marzo, 2006, n. 11937, Elies) e nei cui confronti il ricorrente non svolto critiche argomentate, l’utilizzazione indebita di una tessera Viacard integra il reato previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231) e non risultano elementi che possano giustificare un’assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, c.p.p., relativamente al reato del capo B) la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché lo stesso è estinto per prescrizione.
Il giudice di rinvio dovrà provvedere all’eventuale rideterminazione della pena e al regolamento delle spese tra le parti per questo giudizio.

Cass. S.U. 24 aprile 2014, Espenham

In ossequio al principio di colpevolezza la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente va individuata considerando e valorizzando la diversa natura dei rimproveri giuridici che fondano la attribuzione soggettiva del fatto di reato nelle due fattispecie.
Nella colpa si è in presenza del malgoverno di un rischio, della mancata adozione di cautele doverose idonee a evitare le conseguenze pregiudizievoli che caratterizzano l’illecito. Il rimprovero è di inadeguatezza rispetto al dovere precauzionale anche quando la condotta illecita sia connotata da irragionevolezza, spregiudicatezza, disinteresse o altro motivo censurabile.
In tale figura manca la direzione della volontà verso l’evento, anche quando è prevista la possibilità che esso si compia (“colpa cosciente”).
Per contro nel dolo si è in presenza di organizzazione della condotta che coinvolge, non solo sul piano rappresentativo, ma anche volitivo la verificazione del fatto di reato.
In particolare, nel “dolo eventuale”, che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione dell’evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l’agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell’evento e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi.
Occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta.
A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l’ iter e l’esito del processo decisionale.

34. Il dolo. La definizione legislativa e le questioni generali.
La disamina deve partire dalla generale considerazione del dolo, che esprime la più intensa adesione interiore al fatto, costituisce la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza e rappresenta il criterio ordinario d’imputazione soggettiva. Esso è conoscenza e volontà in relazione agli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice, ovvero rappresentazione e volizione del fatto di reato.
La definizione che ne dà l’art. 43 cod. pen. vale se non altro a rimarcare l’immancabile coinvolgimento della sfera intellettiva e volitiva dell’uomo. Si tratta di significativa evocazione, che però non offre indicazioni univoche che valgano a definire i confini dell’imputazione soggettiva, nè aiuta a risolvere le questioni tradizionalmente controverse come quella in esame.
In dottrina è stata da più parti denunziata l’imprecisione e l’incompletezza della formula. Essa accentra la previsione e volizione sul solo evento, mentre i profili conoscitivi e volitivi del dolo coinvolgono senza dubbio tutti gli elementi del fatto storico congruenti con il modello di reato; ed accosta impropriamente i profili intellettivi e volitivi, quasi che essi debbano essere contemporaneamente presenti e cogliere tutti gli elementi del fatto, mentre la condivisa, largamente prevalente opinione ritiene che nei confronti di numerosi elementi del fatto stesso è sufficiente la sola rappresentazione.
Ma ciò che è stato maggiormente oggetto di critica è proprio la mancanza di una esplicita presa di posizione quanto alla configurabilità delle manifestazioni più sfumate del dolo che vengono solitamente comprese, appunto, nella nozione di dolo eventuale; ed all’individuazione di una traccia per segnare un confine rispetto alla contigua figura della colpa cosciente.
Per quanto attiene al dolo eventuale, sembra di poter evincere dai lavori preparatori che il codificatore si astenne deliberatamente dall’assolvere a tale arduo compito definitorio, rimettendolo all’elaborazione giurisprudenziale. Più in generale, per ciò che riguarda l’evocazione dei profili intellettivi e volitivi del dolo, è diffusa l’opinione che si sia trattato di una scelta di compromesso con la quale i compilatori tentarono di conciliare le due teorie che in quell’epoca si contendevano il campo e che, nella ricerca del nucleo essenziale del dolo attribuivano preminenza una alla volontà e l’altra alla rappresentazione.
Tali critiche, tuttavia, non colgono il punto centrale della presente disamina, quello afferente alla volontà ed ai suoi confini. Orbene, la lettura della formula legale non lascia dubbi sul fatto che si intese valorizzare e quasi enfatizzare la componente volitiva della figura. L’evento deve essere preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Non accadimento semplicemente desiderato, sperato, ma “conseguenza”, esito che dipende dal consapevole attivarsi od omettere.
La formula, letta alla luce di tale pregnante valorizzazione della volontà, illumina pure le situazioni nelle quali l’evento, senza essere intenzionalmente perseguito, venga posto in correlazione causale con la propria azione e, proprio per questa ragione, voluto come conseguenza nel momento stesso in cui l’agente decide di porla in essere, conscio del risultato che ne può derivare. In definitiva, il dettato normativo legittima la figura del dolo eventuale, consentendo di cogliere in essa un atteggiamento psichico assimilabile a quello propriamente volontaristico.
D’altra parte, dal riferimento all’intenzionalità si desume almeno che il dolo implica atteggiamenti interni, processi psicologi che, tuttavia, non possono essere meramente potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto, devono cioè essere reali. Si tratta di enunciazione tutt’altro che ovvia, che merita di essere subito evidenziata, giacchè è chiamata continuamente a confrontarsi, tanto nell’elaborazione dottrinale quanto nella pratica giurisprudenziale, con dati di segno contrario:
la tentazione di una eccessiva normativizzazione del dolo, di quello eventuale in particolare, il ricorso a schemi presuntivi che consentano di superare le difficoltà connesse alla dimostrazione di un dato così poco estrinseco come l’atteggiamento interiore. Al contempo, però, a tale enunciazione va aggiunta la considerazione realistica della necessità, insita nell’accertamento, di non proscrivere del tutto il riferimento a modelli generalizzanti dell’agire umano; la necessità, altresì, di adattare, in certo modo semplificandoli, discussi concetti tratti dalla psicologia o dal senso comune, così da renderne possibile l’applicazione nel contesto giudiziario.
E’ pure comunemente riconosciuta l’esigenza di uscire, per quanto possibile, da formule astratte per percorrere itinerari analitici e concreti. E’ stata colta un’esigenza di “scomposizione”, di analisi interna del dolo. Vi è un problema di struttura, che attiene appunto al suo contenuto, al reale significato dei connotati intellettivi e volitivi evocati dall’art. 43; un problema di oggetto che riguarda tutti gli elementi del fatto; ed un problema di accertamento che presenta particolare complessità, dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici. Tra tali aspetti del problema del dolo vi è una stretta connessione. Infatti, sovente è proprio dalle particolari caratteristiche dell’oggetto che sarà possibile rendersi conto della natura del processo psicologico che lo riflette: sarà insomma l’oggetto a definire in concreto i profili intellettivi e volitivi del dolo. Inoltre, va adeguatamente sottolineata la centralità del momento dell’accertamento, nel quale si condensano e si risolvono concretamente i delicati problemi applicativi che la speculazione dottrinaria inscrive, sovente, entro sofisticate cornici teoretiche.
Tale approccio analitico ed integrato deve essere perseguito, nella prospettiva di proscrivere elaborazioni concettuali che, anche se astrattamente impeccabili, si dimostrino insuscettibili di concreta verifica e quindi inutilizzabili; e di creare un terreno di convinta condivisione tra la dottrina e la prassi, nel segno della valorizzazione delle componenti soggettive dell’illecito e della rinunzia a soluzioni retoriche o presuntive che finiscono con lo svalutare le questioni attinenti alle componenti psicologiche del reato.
35. La struttura del dolo. Rappresentazione e volontà.
Il legislatore, come si è accennato da del dolo una nozione complessa nella quale si integrano profili intellettivi o rappresentativi e profili volitivi. Attorno a tali fattori, la volontà e la rappresentazione, si è dipanata una plurisecolare disputa dottrinale tra due scuole di pensiero che, pur nella varietà delle opinioni, tendono ad attribuire ruolo preminente all’una od all’altra delle componenti di tale forma d’imputazione soggettiva.
Sebbene in proposito si siano sviluppate dispute teoriche poco produttive, non può essere neppure trascurato che la vasta dottrina sul dolo presenta diverse inflessioni che oscillano, nelle situazioni problematiche e di confine, proprio per il maggiore o minore rilievo attribuito al profilo rappresentativo o volitivo del dolo. Si tratta di una situazione che si manifesta soprattutto nell’ambito della riflessione a proposito della definizione dei tratti distintivi del dolo eventuale, anche in relazione alla contigua categoria della colpa cosciente. In tale ambito, come meglio si vedrà in prosieguo, si perviene a risultati assai differenti a seconda che il profilo volitivo del dolo venga ricostruito secondo un modello di tipo normativo, astratto, fondato sull’atteggiamento interiore tipicamente connesso alla rappresentazione di un risultato; o che esso, invece, venga ricostruito considerando l’irripetibile atteggiamento psichico del caso concreto.
36. La teoria della rappresentazione.
Occorre brevemente rammentare che la teoria della rappresentazione muove da una premessa di natura psicologica: nel reato vi è sempre una condotta che coincide, nella forma positiva, col puro movimento corporeo e nella forma negativa con l’iniziale stato di quiete di quelle parti del corpo il cui movimento dipende dalla volontà del soggetto. La realizzazione dolosa di una condotta implica necessariamente una volizione nello stretto significato psicologico del termine. E’ indispensabile cioè un impulso cosciente del volere diretto a produrre il movimento o a conservare lo stato di inerzia.
Qui davvero, si ritiene, la nozione di volontà con cui lavora il giurista e quella propria dello psicologo coincidono perfettamente.
Infatti, solo in questo ambito si riscontra quella fusione tra mentale e fisico che rappresenta la caratteristica essenziale del processo volitivo. Accanto a tale profilo squisitamente volitivo ve ne è uno intellettivo che investe tutti gli altri elementi della fattispecie. Così, di realmente volontario non c’è in ogni caso che l’azione, mentre l’evento più che volontario dovrebbe dirsi intenzionale, a significare cioè che l’azione è stata posta in essere col proposito (diretto o eventuale) di produrre l’evento. Se è vero che ogni volizione cosciente presuppone uno scopo e che quindi un elemento di intenzionalità non manca mai nel reato doloso, non è meno vero, si afferma, che anche a prendere in esame la forma più intensa di dolo, quello cioè intenzionale, quando si scende ad analizzarne la sostanza si deve riconoscere che tutte le volte che ci chiediamo quali siano i nessi che intercorrono tra l’agente ed elementi distinti dall’azione od omissione, ci troviamo a constatare nient’altro che rappresentazione: dotata di speciale intensità e forza causale, ma pur sempre rappresentazione.
Tale dottrina prende le mosse dall’esigenza, avvertita da plurisecolare coscienza giuridica, che vuole ricondurre al dolo anche alcune situazioni in cui non vi è intenzionalità del risultato: è da considerare in dolo di omicidio chi, per lucrare un’assicurazione, ha incendiato la propria casa pur sapendo che nel rogo sarebbe perita una vecchia paralitica. La morte della donna non è un fine ultimo e neppure un mezzo necessario per perseguirlo, ma solo una conseguenza rappresentata come certamente connessa all’impiego di uno dei mezzi o al verificarsi del risultato finale. Essa, tuttavia, rischia di impoverire, svuotare il dolo; e mostra i maggiori aspetti problematici nelle situazioni in cui l’agente opera prevedendo come solo possibile il verificarsi dell’evento lesivo, giacchè implica il pericolo di eccessiva dilatazione del dolo eventuale fino a comprendervi casi che la coscienza giuridica e lo stesso diritto positivo collocano nella colpa con previsione.
37. La teoria della volizione.
La teoria della volontà configura una essenziale componente volitiva rispetto all’evento non solo quando esso è intenzionale, cioè direttamente preso di mira, ma anche quando l’agente lo prevede come conseguenza necessariamente connessa all’impiego di un mezzo o al verificarsi di un risultato finale; ed ancora in alcuni casi nei quali lo stesso evento è previsto come possibile conseguenza della propria condotta. Naturalmente, tale istanza si deve confrontare con la difficoltà di definire il criterio per differenziare, tra le tante conseguenze possibili, quelle che sono anche volute dal soggetto.
Il legislatore, pur con le incertezze prima indicate, ha superato nella formula normativa il rigido dualismo tra le due tradizionali teorie del dolo: ha dapprima evocato il concetto d’intenzione, a sottolineare che il diritto penale ricollega la sanzione ad un comportamento umano nella cui struttura rientra un effettivo atteggiamento di volontà; e, avvertita l’esigenza di una definizione più esauriente, ha introdotto la previsione e volizione dell’evento.
Ciò consente, come si è accennato, di scorgere nella formula una sobria, ma netta opzione per la teoria della volontà.
Nella dottrina italiana più recente è dato cogliere, nel complesso, una tendenziale opzione per le teorie che attribuiscono alla volontà un ruolo chiave nella struttura di tutte le forme di dolo.
Si è osservato che di recente si è assistito ad un ritrovato interesse per l’intenzionalità contro il cognitivismo rigidamente determinista, che si sostanzia in particolare nello sforzo di classificare i comportamenti in rapporto ai fini e alla loro rilevanza per il soggetto agente, nonchè nell’attenzione ai processi indispensabili per coordinare, attuare e guidare l’azione diretta al conseguimento di uno scopo. La rilevanza di tali studi nell’ambito penale consiste nell’avere restituito succo contenutistico e dignità scientifica allo stesso concetto di intenzione: un concetto sintetizzabile come orientamento dell’individuo ad un risultato nei termini non già di un puro desiderio, ma di un concreto attivarsi (o di un altrettanto finalizzato non attivarsi) per il conseguimento di uno scopo.
Si preferiscono ricostruzioni del dolo che fanno leva precipuamente sulla volontà come intesa dal senso comune: se è vero che sul piano analitico rappresentazione e volontà hanno punti di riferimento diversi, è altrettanto vero che la volontà criminosa finisce con l’investire l’intero fatto di reato colto nella sua unità di significato. In questo senso il diritto penale considera voluto non solo l’atto iniziale di premere il grilletto, ma anche lo sfociare di tale atto nell’evento letale. La volontà intesa in senso ampio investe l’azione come movimento corporeo e il fatto complessivo colto nella sua unità significativa; nell’ambito del fatto di reato concepito come entità unitaria la volontà, dunque, abbraccia anche tutti gli altri elementi del fatto diversi dalla condotta. In conseguenza, se manca la volontà di realizzare il fatto, non bastano a integrare il dolo desideri, speranze, proponimenti, tendenze, inclinazioni e simili. Proprio perchè il comportamento doloso orienta finalisticamente i fattori della realtà nella prospettiva del mezzo verso uno scopo, esso attrae nell’orbita della volontà l’intero processo che determina il risultato perseguito. Insomma, traspare nel dolo un atto di volizione quale scelta soggettivo- personale che mette in conto la lesione di beni.
38. Le categorie del dolo.
In relazione all’aspetto della volontà il dolo viene distinto in diverse categorie. Sebbene pure al riguardo vi siano varie opinioni e terminologie, è attualmente prevalente l’indirizzo che configura una tripartizione in dolo intenzionale, dolo diretto, dolo eventuale.
Esso si è ormai affermato anche nel lessico della giurisprudenza.
Pertanto, nel seguito, ci si atterrà a tale tripartizione. Per conferire completezza e coerenza all’analisi demandata a queste Sezioni unite è necessario tracciare, pur con la doverosa brevità, i tratti essenziali delle tre indicate figure del dolo.
39. Il dolo intenzionale.
Solitamente il dolo viene ritenuto intenzionale allorchè la rappresentazione del verificarsi del fatto di reato rientra nella serie di scopi in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta e l’agente persegue, appunto, intenzionalmente quale scopo finalistico della propria azione od omissione un risultato certo, probabile o solo possibile; quando cioè ha di mira proprio la realizzazione della condotta criminosa (reati di azione) ovvero la causazione dell’evento (reati di evento). Tale forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà che raggiunge l’intensità massima. L’intenzione è compatibile con la previsione dell’evento in termini non di certezza ma di possibilità.
Gli autori che caratterizzano la volontà come direzione verso uno scopo ritengono che la forma intenzionale deve essere ritenuta l’espressione tipica dell’elemento soggettivo doloso, mentre il dolo diretto e quello eventuale costituiscono un’estensione della disciplina dell’imputazione soggettiva.
40. Il dolo diretto.
Si ha dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l’evento tipico e tuttavia l’agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente. Esso si configura tutte le volte in cui l’agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà. Rientra in questa forma di dolo anche il caso in cui l’evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente o assai probabilmente connessa alla realizzazione volontaria del fatto principale. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione. In altri termini, il dolo diretto si configura quando l’agente ha compiuto volontariamente una certa azione, rappresentandosene con certezza o con alta probabilità lo sbocco in un fatto di reato, ma la rappresentazione non esercita efficacia determinante sulla volizione della condotta.
In breve, si è in presenza di un livello di probabilità del verificarsi dell’evento che tocca una soglia tanto elevata da implicare di regola, la certezza soggettiva che l’evento accadrà: di regola, perchè tale certezza deve sussistere effettivamente e va dunque accertata, con la conseguenza che la responsabilità per dolo non potrebbe essere sostenuta, in particolare, ove in chi agisce risultasse il convincimento del non realizzarsi dell’evento rilevante. Quando un evento viene previsto con certezza il dolo non può essere escluso in base a stati psichici consistenti in una presa di distanze interiore dall’evento stesso. Ma occorre distinguere: se un soggetto agisce con la certezza di realizzare il fatto tipico pur avversandolo tenacemente, in cuor suo sperando contro ogni speranza in un esito favorevole, non viene meno la rappresentazione dello scontato prodursi dell’evento. Se invece un individuo è convinto, anche nel modo più alogico e colpevole, magari per superstizione, di non cagionare l’evento certamente legato alla sua condotta, manca in realtà l’elemento rappresentativo ed il dolo dev’essere escluso.
Occorre aggiungere che una previsione realmente certa è ben difficilmente prospettabile e d’altra parte vi è necessità di non alterare il confine col dolo eventuale, sicchè deve venire in gioco un livello di previsione in termini di ben elevata probabilità e dunque tanto rilevante che sarebbe insensato far conto a qualsiasi fine sul non verificarsi dell’evento. Perciò alla cognizione certa deve equipararsi – perchè è in pratica impossibile ogni distinzione – la rappresentazione della realizzazione del fatto come altamente probabile.
Come si vede, nel dolo diretto assume rilievo eminente il profilo intellettivo: occorre che l’agente si sia concretamente rappresentato il risultato. Le opinioni, tuttavia, divergono circa la misura di probabilità occorrente per configurare tale livello d’imputazione.
Si va, nell’ambito delle elaborazioni teoriche, dalla certezza, alla probabilità prossima alla certezza, alla alta probabilità, alla probabilità.
Si tratta di un punto di grande rilievo che deve essere qui sottolineato: la distinzione tra dolo diretto e dolo eventuale viene connessa alla rappresentazione del livello di possibilità di verificazione del risultato. A seconda che la linea di confine sia posta attorno alla certezza o alla semplice probabilità l’area d’estensione del dolo diretto si amplia o si riduce, con una complementare riduzione o crescita del campo del dolo eventuale. La questione, come è agevole intendere, ha grandissima importanza pratica oltre che teorica e sarà ripresa più avanti. Qui preme di rimarcare in anticipo che la preservazione del confine tra dolo eventuale e dolo diretto impone di assegnare a tale ultima figura solo l’ambito segnato da eventi che hanno una ben levata probabilità di verificazione.
In ogni caso, come si è stato da più parti condivisibilmente considerato, il profilo rappresentativo di cui si parla non può essere confuso coi moti affettivi, con gli atteggiamenti emozionali.
La volontà dolosa non è esclusa dagli alibi morali che l’agente si sforzi di elaborare per alleggerire il peso della propria coscienza, nè si confonde con i suoi atteggiamenti affettivi: se l’evento è stato previsto come conseguenza certa o altamente probabile della condotta, il suo significato finalistico obiettivo corrisponde alla volontà del soggetto.
41. Il dolo eventuale e la colpa cosciente.
Il dolo eventuale designa l’area dell’imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l’evento non costituisce l’esito finalistico della condotta, nè è previsto come conseguenza certa o altamente probabile: l’agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante s’induce ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento abbia luogo. L’istituto “presenta nell’elaborazione teorica e nella prassi una grandissima varietà di posizioni: è il luogo problematico nel quale maggiormente si mostrano, prendono corpo concreto, confrontandosi con le esigenze applicative, le dispute teoriche tra rappresentazione e volontà nel dolo. Esso racchiude nella sua struttura definitoria il confine tra dolo e colpa e, ancor più, segna in molti casi il limite soggettivo dell’illecito penale.
Per completezza va chiarito che il dolo eventuale è compatibile con due figure in relazione alle quali si verifica talvolta qualche confusione: il dolo indeterminato ed il dolo alternativo. La prima fattispecie si configura quando il soggetto agisce volendo alternativamente o cumulativamente due o più risultati che non sono tra loro incompatibili, come quando si spara contro un gruppo di persone volendo cagionare indifferentemente la morte di una o più persone. Il dolo alternativo si caratterizza invece per il fatto che i diversi fatti previsti sono incompatibili fra loro, nel senso che la realizzazione dell’uno esclude la realizzazione dell’altro: si spara per ferire od uccidere indifferentemente. In ambedue le figure in questione il dolo potrà configurarsi come intenzionale, diretto o eventuale.
Le diverse prospettazioni elaborate per caratterizzare il dolo eventuale possono essere distinte essenzialmente per il maggiore o minore rilievo attribuito al momento della rappresentazione e per lo spazio lasciato alla concreta indagine sull’atteggiamento psichico dell’agente, sulla componente volitiva. Si tratta di sfumature interne al senso dei discorsi, che sovente vanno oltre le enunciazioni formali sull’adesione all’una od all’altra delle teorie.
42. Il dolo eventuale e la teoria della rappresentazione.
In un quadro così complesso e difficilmente definibile pare utile partire dalla sintetica esposizione della dottrina che nel dolo eventuale valorizza il ruolo della rappresentazione; anche perché essa si trova spesso riflessa nell’elaborazione giurisprudenziale.
Quando il risultato dannoso è previsto solo come probabile o possibile occorre, ai fini dell’imputazione dolosa, qualcosa di più della sua sola previsione, onde definire un criterio discretivo rispetto alla colpa cosciente contrassegnata, appunto, dalla previsione dell’evento. L’unico criterio disponibile per stabilire quale è stato l’atteggiamento del soggetto nei confronti dell’evento rappresentato è dato in tutto e per tutto dal comportamento tenuto.
Se una persona si determina ad una certa condotta, malgrado la previsione che essa possa sboccare in un fatto di reato, ciò significa che accetta il rischio implicito nel verificarsi dell’evento; qualora avesse voluto sottrarsi a tale rischio, qualorà non avesse acconsentito all’evento, evidentemente non avrebbe agito.
Lo stato di dubbio non esclude il dolo: finchè l’agente si rappresenta la possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto, il rimprovero che gli si muove non è di aver agito con leggerezza, bensì di essersi volontariamente determinato ad una condotta, nonostante la previsione di realizzare un illecito penale. Dunque in tali situazioni è presente un elemento di rappresentazione concreta.
Tale concreta previsione manca, invece, nella colpa cosciente. Nei classici casi del giocoliere che lancia i coltelli verso un’altra persona, o dell’automobilista che guida a velocità eccessiva in una strada affollata, vi è una previsione della possibilità di cagionare un evento dannoso accompagnata dalla convinzione che, fidando nell’abilità personale, tale pregiudizio non si verificherà. Tale convincimento nient’altro significa se non che l’agente ha escluso dalla propria coscienza la possibilità positiva che l’evento si verificasse; in altre parole che dallo stato di una previsione generica sulla idoneità di un comportamento quale egli tiene, a sfociare in astratto in un reato, è passato alla previsione concreta che, per particolari circostanze, ciò non avrà a verificarsi. La colpa cosciente si rivela caratterizzata dalla previsione negativa che un fatto di reato non si realizzerà e si distingue così dallo stato mentale di chi, rappresentatasi la possibilità di porre in essere una figura criminosa, non arrivi a superare questa posizione di dubbio. Dunque, in tale dottrina la colpa cosciente si caratterizza per una previsione astratta che si evolve nel superamento del dubbio e si risolve in una previsione negativa. Al contrario il dubbio, se non superato o rimosso, radica il dolo.
In breve, il limite dell’imputazione dolosa deve, nel dolo eventuale, ravvisarsi nell’accettazione del rischio: quando l’agente ha accettato la possibilità dell’evento, sia pure come risultato accessorio rispetto allo scopo della sua condotta, si può affermare che esso è voluto.
In tale scuola di pensiero la vera nozione unificante di tutte le specie di dolo è costituita dal momento rappresentativo: la rappresentazione dell’evento non solo come certo ma anche come probabile o possibile segna il passaggio dalla colpa cosciente al dolo eventuale, se il soggetto non abbia risolto in senso negativo il dubbio sulle conseguenze lesive possibili. E’ chiaro che in tale impostazione il dolo eventuale non costituisce una figura di margine, ma assurge ad ipotesi di base. Tale indirizzo dottrinale, come si è accennato, trova sovente applicazione anche in giurisprudenza.
43. Il dolo eventuale e la teoria della volizione.
Un opposto indirizzo della riflessione dottrinale, pure esso non di rado evocato dalla prassi, soprattutto quella più recente, va alla ricerca, come si è accennato, della dimensione volontaristica anche nel dolo eventuale. Di volontà in senso proprio può parlarsi solo con riferimento al dolo intenzionale. Nel dolo eventuale, in cui tale importante inflessione finalistica manca, occorre pur tuttavia andare alla ricerca di connotati della figura che la caratterizzino in guisa tale che un momento lato sensu volontaristico sia comunque presente.
E’ chiaro che in tale diversa prospettiva il dolo eventuale diviene figura peculiare, distinta e per nulla archetipica. Lo sforzo analitico nella direzione di fattori conoscitivi e volitivi peculiari caratterizza tale figura che, come è stato efficacemente sintetizzato, diviene una forma autonoma, un normotipo con una sua tipicità e colpevolezza distinte.
In parallelo con tale sforzo analitico si è sviluppata una nuova fenomenologia: il dolo eventuale ha investito non solo attività illecite, ma anche attività di base lecite, come la circolazione stradale, le relazioni sessuali, le attività imprenditoriali. Il presente giudizio è espressione, appunto, di tali nuovi, inusuali contesti, che mettono alla prova l’istituto. Tale nuova temperie giudiziaria ha fatto comparire nei processi nuove figure d’autore.
Soggetti mai visti prima sulla scena del crimine doloso, tradizionalmente popolato, come si esporrà più avanti, da persone che impugnano una pistola e sparano ad un avversario. La nuova situazione ha portato, beneficamente, ad approfondimenti sull’atteggiamento interiore, sui processi decisionali, sulle motivazioni, che hanno dato più affinato contenuto alla fattispecie, dando corpo al vitale momento della colpevolezza, al rimprovero doloso.
43.1. Le teorie volontaristiche muovono dalla critica alla dottrina che nel dolo eventuale valorizza il momento rappresentativo. Si considera che la “previsione negativa” circa la possibilità che l’evento si realizzi, che costituisce l’unico criterio idoneo a definire rigorosamente il meccanismo psicologico della colpa cosciente, rappresenta il punto debole della costruzione. Infatti il codice esige la previsione dell’evento e non la previsione negativa.
Il concetto di prova negativa è equivoco e sistematicamente inaccettabile. Sotto il profilo dell’oggetto, la previsione di un non evento finisce col postulare come oggetto del nesso psichico un requisito che non fa parte del fatto tipico: del fatto tipico fa parte l’evento, non la sua negazione.
Parimenti, altra dottrina osserva che la tesi secondo cui la colpa cosciente è caratterizzata dal superamento del dubbio rende inspiegabile l’aggravamento di pena previsto dall’art. 61 c.p., n. 3, e finisce, secondo la prassi corrente, con l’ascrivere al dolo eventuale un’area che andrebbe invece assegnata alla colpa cosciente.
Il tenore letterale della norma rivela l’impraticabilità, nell’ordinamento italiano, della teoria secondo la quale la colpa con previsione sarebbe caratterizzata dal superamento, dalla rimozione della rappresentazione della possibilità che l’evento si verifichi.
Si parla di un’azione compiuta nonostante la previsione dell’evento.
Ciò significa che detta previsione deve sussistere al momento della condotta, non deve essere stata sostituita da una non-previsione o contro-previsione, come quella implicita nella rimozione del dubbio.
L’avverbio “nonostante” sottolinea efficacemente il permanere di un fattore-ostacolo che dovrebbe frapporsi alla condotta. La nozione di colpa con previsione attualmente praticata appare, in conclusione, per molti versi, frutto di un’insufficiente attenzione al dato normativo. Ne discende che il puro stato di dubbio nel quale il soggetto si trovi va ascritto al campo della colpa, sia pure aggravata, non a quello del dolo. Il dubbio non esclude l’esistenza del dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo. Ogniqualvolta l’agente si decida ad agire senza aver raggiunto la sicurezza soggettiva che l’evento previsto non si verificherà non può mancare una qualche accettazione del rischio. Essa non può essere superata dal puro accantonamento del dubbio quale stratagemma cui l’agente può facilmente, consapevolmente ricorrere per vincere le remore ad agire.
A tale riguardo occorre accertare se la rimozione del dubbio rivesta un carattere di soggettiva serietà, in quanto l’agente sia pervenuto in buona fede al convincimento che l’evento non si sarebbe verificato. Nè sarebbe possibile sondare nell’inconscio alla ricerca delle radici dalle quali un determinato errore può derivare, giacchè la norma-comando non può che fare appello alla parte cosciente dell’animo umano. Infine non viene neppure ritenuto possibile attingere ad un particolare atteggiamento emotivo, uno stato emozionale che accompagnerebbe la decisione di agire nonostante la previsione dell’evento, giacchè il concetto di volizione di cui all’art. 43 cod. pen. non appare riconducibile a tale stregua.
In breve, l’automobilista che percorre ad alta velocità le vie del centro sa di rendere più probabile la lesione dell’altrui incolumità. Dunque, se non si vuole correre il rischio di un macroscopico aumento dei casi di responsabilità dolosa, occorre individuare il dolo eventuale, rispetto alla colpa cosciente, non solo con riguardo al profilo rappresentativo ma richiedendo la presenza di elementi psicologici ulteriori.
43.2. Tale diverso modo di approcciarsi al tema conduce a considerare che se la previsione è elemento anche della colpa cosciente, è sul piano della volizione che va ricercata la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. La colpevolezza per accettazione del rischio non consentito corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo, non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso. Accetta un rischio non consentito non solo chi incendia una casa prevedendo la possibilità della morte di una persona, ma anche chi spinge un’auto a velocità eccessiva in una strada affollata. L’argomentazione fondata sulla colpevolezza per accettazione del rischio non può spiegare, dunque, perchè mai, se l’evento si verifica, esso sia attribuito a titolo di dolo in un caso ed a titolo di colpa nell’altro: nel dolo eventuale vi deve essere quindi qualcosa in più dell’accettazione del rischio.
Si afferma così che dolo eventuale si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un’opzione, di una Deliberazione con la quale l’agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro.
Vi è la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse da soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il soddisfacimento di tale interesse e il sacrificio di un bene diverso. In sostanza l’agente compie anticipatamente un bilanciamento, una valutazione comparata degli interessi in gioco (suoi ed altrui) ed i piatti della bilancia risultano, a seguito di tale valutazione, a livelli diversi: ve n’è uno che sovrasta l’altro. Il risultato intenzionalmente perseguito trascina con sè l’evento collaterale, il quale viene dall’agente coscientemente collegato al conseguimento del fine. Non basta, quindi, la previsione del possibile verificarsi dell’evento; è necessario anche – e soprattutto – che l’evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato. Anche l’evento collaterale appare, in tal modo, all’agente “secondo l’intenzione”. Il dolo eventuale, dunque, in quanto espressione di una volontà pianificatrice, non risulta in opposizione con l’immagine del delitto doloso fornita dall’art. 43 cod. pen.. In sintesi si può dire che nel dolo eventuale, oltre all’accettazione del rischio o del pericolo vi è l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato. Vi è dunque nel dolo eventuale una componente lato sensu economica.
In dottrina si argomenta pure che nel dolo eventuale la volizione in senso proprio sicuramente non esiste. Posto che le conseguenze accessorie di un comportamento non possono dirsi intenzionali e non rientrano, quindi, nel concetto di volizione in senso naturalistico, l’unica strada percorribile è quella di assimilare alla volizione alcune situazioni reputate ad essa vicine con una scelta che è di tipo normativo, fondata su parametri rigorosi riferiti al modello dell’intenzionalità. Si tratta di individuare l’atteggiamento che, presente la consapevolezza di una possibile causazione dell’illecito, più si avvicini alla prospettiva della sua volizione. Tale elemento di assimilazione è costituito dalla possibilità di affermare che l’agente avrebbe agito anche nella certezza di produrre il risultato.
Tale impostazione presenta il vantaggio di creare un collegamento diretto, sia pure potenziale, rispetto all’evento; e quindi evita di dover scendere a considerare parametri interiori puramente emozionali che finiscono col collegare l’imputazione soggettiva all’atteggiamento più o meno ottimistico verso l’evento o impongono di prendere in considerazione la maggiore o minore sincerità verso se stessi. Essa potrebbe inoltre costituire un argine contro il pericolo di dilatazione del criterio d’imputazione dolosa.
In breve, va escluso che un’imputazione dolosa possa fondarsi su presupposti psicologici concernenti il fatto tipico e in particolare l’evento, i quali in realtà si riducano alla dimensione rappresentativa, con un’abrogazione surrettizia del riferimento cardine alla volontà. Senza riferimento al ruolo del volere, il dolo si trasforma in una categoria puramente normativa, il cui confine con la colpa viene a dipendere soltanto dalla discrezionalità tipica delle valutazioni normative. Assimilare normativamente situazioni del tutto differenti nella loro sostanzialità psicologica lascia ampi spazi di pura valutazione politico-criminale giudiziaria: si approda ad un concetto di dolo nella sostanza presunto, secondo parametri ampiamente affidati, circa la definizione dei loro contenuti, alla discrezionalità giudiziaria.
Tale prospettazione, che si ispira ad antica dottrina solitamente sintetizzata come prima formula di Frank, non è andata esente da critiche. E’ stato da più parti osservato che, radicando l’indagine sul dolo non in quello che nell’animo dell’agente si è effettivamente prodotto, ma in quello che avrebbe potuto prodursi, essa appare decisamente carente sul versante del nesso psicologico tra agente e fatto laddove un effettivo contenuto psicologico di tale segno non può far difetto nel dolo. La praticabilità di un giudizio ipotetico risulta poi difficile in tutte le situazioni in cui tra risultato intenzionalmente perseguito ed evento collaterale vi sia, nell’ottica dell’agente, una sostanziale equivalenza ed in cui, quindi, sovente lo stesso agente avrebbe avuto forti perplessità nel decidere. Si viene in sostanza a fondare la distinzione tra dolo e colpa essenzialmente solo in chiave ipotetica e sulla base di una valutazione della personalità del reo.
43.3. La breve ed incompleta rassegna che precede in ordine ai diversi tentativi di meglio definire il dolo eventuale lascia intravedere due orientamenti di fondo. Uno mostra attenzione per l’aspetto di scelta personale, il profilo intellettuale, razionale che sorregge la decisione per l’azione, da tenere distinto dagli aspetti per così dire emozionali dell’atteggiamento interiore. In tale ambito assume rilievo il livello di oggettiva probabilità dell’evento, sicchè l’accertamento del dolo, sotto tale aspetto, tende all’astrattezza, alla tipicità, alla normatività dell’atteggiamento dell’agente razionale. Vi domina il profilo rappresentativo del dolo. E’ la previsione del risultato possibile, accompagnata dalla scelta di agire ciò nonostante, che implica una scelta e quindi un atto di volontà che coinvolge l’evento. Si tratta di un punto di vista che si ispira anche alla realistica considerazione che i più intimi moti interni non possono essere investigati ed oggettivamente dimostrati con i metodi dell’indagine giudiziaria; e persegue quindi un obiettivo di semplificazione e standardizzazione della prova. Esso implica il grave rischio che il dolo, fondandosi interamente su analisi a sfondo probabilistico, perda gran parte del suo connotato di concreto atteggiamento interiore ed assuma un volto astratto, oggettivato, presuntivo, così vulnerando il principio di colpevolezza.
L’altro indirizzo, consapevole di tale rischio, tenta in vario modo d’introdurre un temperamento considerando anche il concreto atteggiamento soggettivo di fronte al verificarsi del risultato, cioè tentando di cogliere se vi fu realmente, nella contingente irripetibile particolarità del caso, quell’atteggiamento concreto di accettazione del risultato che contrassegna il dolo eventuale. Pure in tale approccio vi è un pericolo dal quale occorre guardarsi, già emerso dalla rassegna di dottrina che precede; quello, cioè, di far dipendere l’essere o non essere del reato dalla sfera emotiva dell’agente, dalla sua maggiore o minore sensibilità, dal livello del senso della realtà.
Sul piano applicativo tali indirizzi non conducono spesso a conseguenze realmente e radicalmente divergenti nella risoluzione dei casi. Residuano, tuttavia, innegabili spazi d’irrisolta incertezza.
Il più tipico, come sarà esposto nel prosieguo, rimane nei casi, sicuramente assai delicati, nei quali la previsione di un evento che ha una seria probabilità di verificazione si accompagna ad una verace e forte speranza che esso non si compia.
L’aspetto più discusso in materia riguarda l’ambito della formalizzazione concettuale della linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Si tratta, in sintesi, di ricercare ed enunciare nel dolo eventuale non l’atteggiamento emotivo ma l’aspetto di selezione razionale che, in maggiore o minore misura, sottende ciascuna scelta d’azione. Ma, particolarmente nell’ottica della giurisprudenza, occorre al contempo ricondurre tale valutazione ad un ambito di concretezza, che valorizzi il concreto momento dell’accertamento giudiziale e rifugga, per quanto possibile, da astratte generalizzazioni. Occorre apprestare, lo si vuole ulteriormente ribadire, uno strumentario concettuale chiaro e concretamente utilizzabile, utile alla sicura risoluzione di casi difficili o di nuova emersione connessi, come si è accennato, a contesti di base leciti.
Sin da ora, tuttavia, occorre prender nota che le tormentate specificità della figura, guardate nel loro articolato complesso, giustificano e rendono sostanzialmente da condividere le opinioni dottrinali che hanno messo in luce la diversità, la peculiarità dell’istituto; la problematicità dell’individuazione di un atteggiamento psichico equiparabile alla volontà; la difficoltà dell’accertamento a causa del suo carattere fortemente ipotetico.
Tutto ciò dovrebbe suggerire un uso particolarmente cauto di tale nozione, per il pericolo di trasformare in dolo una responsabilità sostanzialmente colposa.
44. La giurisprudenza sul dolo.
Anche in giurisprudenza il dolo intenzionale, viene caratterizzato dal suo connotato finalistico, che non è escluso dalla previsione dell’evento come meramente possibile, poichè l’incertezza sulla sua verificazione può derivare dal carattere indiretto dei mezzi usati, che non incide sull’intenzione effettivamente perseguita (ad es. Sez. 1, n. 2269 del 18/12/1991, Austria, RV 191119).
Quanto al dolo diretto ed alla sua distinzione rispetto a quello eventuale vi è copiosa giurisprudenza di legittimità, purtroppo focalizzata quasi esclusivamente sulle problematiche della volontà omicida e del suo accertamento. Il tema è analizzato in modo puntuale in una pronunzia delle Sezioni Unite che propone una completa messa a punto della definizione dell’area di confine tra le diverse forme di dolo. La sentenza parte dalla critica dell’orientamento giurisprudenziale che tende a ridurre il dolo diretto al solo dolo intenzionale, inteso come volontà specificamente mirata a realizzare l’evento tipico, in diretta attuazione del movente; e che al contempo estende eccessivamente la categoria del dolo eventuale, comprendendovi tutti gli atteggiamenti psichici caratterizzati dalla volontà dell’evento, certo o altamente probabile, ed escludendo la sola intenzione di perseguire l’evento.
Tale indirizzo – si osserva – tende ad utilizzare il dolo eventuale come scappatoia per evitare difficoltà nell’accertamento e nella motivazione della volontà omicida. L’osservazione della realtà psicologica sottesa all’amplissima casistica giurisprudenziale consente di individuare e classificare livelli crescenti di intensità della volontà dolosa. Il dolo eventuale è caratterizzato dalla consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonchè dall’accettazione volontaristica di tale rischio. Nel caso di accettazione del rischio dell’evento si richiede all’autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell’evento.
Quando, invece, l’evento è ritenuto dall’agente altamente probabile o certo l’autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l’evento stesso, cioè lo vuole e con un’intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale. In tale caso si ha dolo diretto. Se l’evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità e potrà distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale e un evento perseguito come scopo finale. Si tratta del dolo specifico. Nei casi ricorrenti di uso delle armi per sottrarsi alla reazione della vittima ovvero per sfuggire all’inseguimento della polizia, il tipo di arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la zona del corpo attinta, fanno ritenere certo o altamente probabile il verificarsi di eventi lesivi o mortali, accanto a quello primariamente perseguito dell’intimidazione del soggetto reagente ovvero accanto a quello di costringere l’inseguitore a fermarsi o a desistere. In tali casi, che maggiormente evidenziano l’esigenza repressiva, sarebbe ingenuo parlare di mera accettazione del rischio e di dolo eventuale, essendo evidenti gli estremi dell’accettazione di eventi certi o altamente probabili e quindi della volontà di essi, ovvero gli estremi della volontà, sia pure strumentalmente ad un fine ulteriore, di perseguire l’evento che connotano il dolo diretto in entrambi i casi (Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, Cassata, RV 195804).
Dunque, dalla pronunzia emergono alcune indicazioni di qualche interesse. In primo luogo, nel dolo eventuale occorre una situazione di probabilità dell’evento, che – tuttavia – deve essere riguardata sotto il profilo soggettivo, del modo cioè in cui il concreto agente ha ravvisato la possibilità di verificazione di un risultato della condotta. Oltre a tale probabilità per così dire soggettiva, occorre altresì un profilo deliberativo, costituito dalla “accettazione volontaristica del rischio”. Tale profilo volontaristico, tuttavia, riguarda non l’evento, ma il rischio dell’evento. Invece, nei casi in cui l’evento è certo o altamente probabile, sempre nella prospettiva soggettiva dell’agente, vi è l’accettazione dell’evento medesimo e quindi la sua volizione. Qui non occorre – secondo la Corte – andare alla ricerca dell’atto deliberativo nel quale si estrinseca la direzione della volontà. La presenza del profilo volitivo del dolo è implicata dalla stessa elevata probabilità, sia pure sogguardata nella prospettiva dell’agente. Infine, la volontà di cui si parla va accertata sulla base di indicatori obiettivi connessi precipuamente alle modalità del fatto.
Le indicate enunciazioni si rinvengono, sia pure con qualche lieve variante, in altre pronunzie delle Sezioni unite, tutte focalizzate sulla volontà omicida (Sez. U., n. 3428 del 06/12/1991, Casu, RV 189405; Sez. U., n. 3571 del 14/02/1996, Mele, RV 204167).
L’indirizzo in questione, che tende ad estendere l’area del dolo diretto legandola essenzialmente alla presenza di una rilevante, elevata probabilità di verificazione dell’evento, guardata dal punto di vista dell’agente, è presente in numerose altre pronunzie (tra le tante, Sez. 1, n. 3277 del 29/01/1996, Giannette, RV 204188; Sez. 1, n. 3337 del 03/07/ 1996, Garbin, RV 205534; Sez. 1, n. 10795 del 25/06/1999, Gusinu, RV 214112; Sez. 1, n. 1367 del 26/10/2006, Biscotti, RV 235789; Sez. 1, n. 12954 del 29/01/2008, Li, RV 240275).
Rispetto a tali orientamenti riferiti a contesti classici, appare di particolare interesse la pronunzia delle Sezioni Unite in tema di ricettazione (Sez. U., n. 12433 del 26/11/2009, Nocera, RV 246323).
La sentenza reca alcune notazioni e propone una soluzione che trovano la loro radice nelle peculiarità del reato cui si riferisce: quello di ricettazione in raffronto con la contigua fattispecie di incauto acquisto. In proposito si considera che il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa: la sua costruzione è rimessa all’interprete ed è ben possibile che per particolari reati assuma caratteristiche specifiche. Si è in effetti in un contesto inusuale nella giurisprudenza: non si tratta del classico reato di evento lesivo, ma di una fattispecie nella quale rileva anche il presupposto della condotta costituito dalla provenienza della cosa da delitto. La Corte chiarisce che la componente rappresentativa del dolo deve investire il fatto nel suo complesso, non solo l’evento ma tutti gli elementi della fattispecie. Inoltre, la peculiarità del contesto normativo, la necessità di una nitida linea di demarcazione tra le fattispecie induce a ritenere che il dolo eventuale richiede, nel reato di ricettazione, circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicchè un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto. Insomma perchè possa ravvisarsi il dolo eventuale non basta un semplice dubbio, ma si richiede una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire.
Perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo, rispetto alla ricettazione, è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.
La soluzione adottata evoca un antico suggerimento metodologico solitamente denominato come “prima formula di Frank”, cui si è già fatto cenno in precedenza. Il tema sarà ripreso anche più avanti.
Qui, indipendentemente dalle dispute sulla possibilità di applicazione estensiva della formula anche al di fuori della specifica incriminazione in esame, preme rimarcare che dalla pronunzia esce rafforzata la valorizzazione della componente psicologica, volitiva, del dolo eventuale: il tratto di scelta consapevole.
Occorre infine aggiungere che il dolo eventuale non è configurabile in tutte le fattispecie. La Corte suprema ha avuto occasione di escludere la compatibilità di tale figura con alcuni reati. Ad esempio, in tema di calunnia, ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico non assume alcun rilievo la forma del dolo eventuale, in quanto la formula normativa “taluno che egli sa innocente” risulta particolarmente pregnante e indicativa della consapevolezza certa dell’innocenza dell’incolpato (Sez. 6, n. 2750 del 16/12/2008, Aragona, RV 242424; Sez. 6, n. 16645 del 18/02/2009, Russo, RV
243517).
45. La giurisprudenza sul confine tra dolo eventuale e colpa cosciente.
A proposito del controverso confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, si rinvengono in giurisprudenza diverse sfumature che, in modo più o meno marcato, ripetono quelle presenti in dottrina. In alcune pronunzie la linea di demarcazione è individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente che, nel primo caso accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nel secondo, nonostante l’identità di prospettazione, respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l’azione, sicchè esso non è voluto e non è accettato per il caso che si verifichi. Comune è, pertanto, la previsione dell’evento diverso da quello voluto, mentre ciò che diverge è l’accettazione o l’esclusione del rischio relativo. Si tratta di atteggiamenti psicologici che vanno ricostruiti affidandosi agli elementi sintomatici evidenziati dal comportamento del soggetto (Sez. 4, n. 11024 del 10/10/1996, Boni, RV 207333). E’ in sostanza la consapevole accettazione di tale possibilità che trasferisce nella volontà ciò che era nella previsione (Sez. 1, 12/11/1987, Pelissero, RV 177455).
In altre pronunzie, invece, la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente è più orientata verso il profilo rappresentativo:
nel primo la verificazione dell’evento si presenta come una concreta possibilità e l’agente, attraverso la volizione dell’azione, ne accetta il rischio; mentre nell’altra la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’agente non viene concepita come concretamente realizzabile e pertanto non è in alcun modo voluta. Si tratta della trasposizione puntuale della dottrina che distingue tra la previsione astratta della colpa cosciente e la previsione concreta del dolo eventuale (Sez. 1, n. 2192 del 26/06/1987, Arnone, RV 177670; Sez. 1, n. 7382 del 03/06/1993, Piga, RV 195270; Sez. 1, n. 4583 del 24/02/1994, Giordano, RV 198272;
Sez. 1, n. 832 del 08/11/1995, Piccolo, RV 203484). Nella colpa cosciente compare, quindi, una controvolontà che invece non è presente nel dolo eventuale (Sez. 1, n. 13260 del 20/10/1986, Amante, RV 174405; Sez. 1, n. 8211 del 21/04/1987, De Figlio, RV 176382).
Il dolo eventuale si ha quando gli esiti previsti siano probabili e anche solo possibili se, malgrado ciò, perseverando nella sua azione, l’agente ne accetta il rischio, così dando un’adesione di volontà al loro verificarsi e pur se egli speri il contrario. Il limite del dolo eventuale è dato dalla certezza del non verificarsi degli eventi possibili rappresentati (Sez. 1, n. 5786 del 17/03/1980, Siniscalchi, RV 145219). In tale imputazione non vi è una finzione giuridica, bensì una realtà psicologica che assimila al dolo diretto l’atteggiamento di chi agisce accettando il rischio della verificazione dell’evento, così trasferendo nel raggio della volontà ciò che era solo nella previsione (Sez. 1, n. 9699 del 30/05/1980, Milan, RV 146043).
Incerta appare in giurisprudenza la possibile rilevanza dell’atteggiamento interiore a sfondo emotivo costituito dalla speranza, cui si è fatto ampio riferimento, come si è visto, nella pronunzia in esame. In qualche sentenza la si ammette: la rappresentazione delle conseguenze delle proprie azioni probabili o solo possibili in modo apprezzabile configurano il dolo eventuale, a meno che l’agente abbia agito nel ragionevole convincimento o almeno nella speranza di una sua mancata realizzazione (tra le tante, Sez. 1, n. 1264 del 24/05/1984, Albergo, RV 165106; Sez. 4, n. 27 del 08/01/1988, Margheri, RV 177326; Sez. 1, n. 4916 del 07/04/1989, Parrella, RV 180981).
In una pronunzia, tuttavia, si afferma che in presenza della concreta rappresentazione della probabilità di verificazione dell’evento, quando malgrado ciò si persevera nell’azione, accettandosene il rischio e dando così adesione di volontà al verificarsi dell’evento, il dolo eventuale non è escluso dalla speranza che il risultato non abbia luogo (Sez. 5, n. del 27/04/1984, Bottelli, RV 135360).
In altra giurisprudenza la speranza è stata ritenuta rilevante quando presenti il carattere della ragionevolezza. Si è infatti affermato che sussiste il dolo eventuale e non la colpa aggravata dalla previsione dell’evento se l’agente, pur non volendo l’evento, ne accetta il rischio di verificazione come risultato della sua condotta, anche a costo di determinarlo. La Corte ha precisato che l’agente risponde, invece, a titolo di colpa con previsione se, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi (Sez. 1, n. 4912 del 07/04/1989, Calò, RV 180978; Sez. 5, n. 13274 del 17/10/1986, Asquino, RV 174418; Sez. Fer., n. 40878 del 24/07/2008, Dell’Avvocato, RV 241984).
Occorre prendere atto che le formule giurisprudenziali di cui si è doverosamente dato conto risultano scarsamente significative nella loro astrattezza. Per comprendere realmente quale sia la configurazione giurisprudenziale del dolo eventuale è indispensabile riferirsi ai casi più problematici ed alle soluzioni concretamente adottate. Pertanto, nel prosieguo saranno esaminati alcuni casi difficili, che hanno dato luogo a risposte contrastate e dibattute, e che hanno messo alla prova le generiche enunciazioni di principio.
Tali soluzioni applicative saranno poi riconsiderate alla luce dei principi in tema di accertamento del dolo eventuale.
46. Il dolo eventuale e le attività lecite di base. La speranza tra dolo e colpa. Lo storico caso (omissis).
Come si è prima accennato, il conflitto tra rappresentazione dell’evento e verace, profonda speranza che esso non si verifichi costituisce uno degli aspetti più difficili nella ricerca del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Si tratta di una situazione che si riscontra speso nei casi di nuova emersione connessi, come si è ripetutamele accennato, a condotte che si collocano entro attività di base lecite.
La delicata problematica è esaminata in una storica pronunzia che presenta speciale interesse ai fini che qui interessano (Sez. 1, n. 667 del 13/12/1983, (OMISSIS), RV 162316). Il caso riguardava una piccola talassemica, bisognevole, per poter sopravvivere, di continue trasfusioni di sangue. I genitori diedero corso di buon grado alle pratiche emotrasfusionali sino a quando non aderirono alla fede religiosa dei testimoni di Geova che, come è noto, vieta tale terapia. In un primo momento le trasfusioni poterono proseguire regolarmente avendo il servizio sociale ospedaliero segnalato la situazione al Tribunale per i minorenni, che adottò provvedimenti per imporre la cura in forma coatta. Nel prosieguo, invece, si verificarono problemi dovuti anche ad una grave carenza delle strutture sanitarie che, dopo un iniziale attivismo, si disinteressarono del caso, nonostante il Tribunale dei minori avesse emesso un provvedimento per risolvere in maniera definitiva il problema concernente l’assistenza terapeutica della minore. In conseguenza, le trasfusioni furono fortemente rallentate e ciò comportò un degrado biologico degli organi vitali che divenne letale.
La Corte di legittimità non dubita che l’inerzia delle pubbliche strutture non vale ad esimere da responsabilità i genitori quali portatori di uno specifico obbligo giuridico di assistenza verso la prole, ma reputa che si imponesse la valutazione dell’incidenza dei provvedimenti autoritativi sull’elemento psicologico del reato, potendo essi determinare per così dire l’affidamento, la speranza che, per effetto di una volontà diversa dalla loro, potessero essere praticate le cure dovute, così evitando un loro attivo interessamento, ritenuto peccaminoso. Alla stregua di tali considerazioni la pronunzia della Corte di merito, che aveva ritenuto l’esistenza di dolo eventuale, è stata cassata con rinvio.
Come si vede, lo spazio così offerto alla disamina delle più profonde motivazioni dei genitori discende da una lettura del dolo eventuale in cui viene fortemente valorizzato il profilo volitivo.
47. Le relazioni sessuali ed il contagio del virus HIV.
Altro ambito che mostra problematiche applicazioni del dolo eventuale è quello del contagio di HIV. Il caso tipico è quello della persona che, consapevole di essere portatrice dell’affezione, intrattiene un rapporto sessuale non protetto a seguito del quale trasmette il virus al partner che non è stato informato dell’esistenza della patologia.
La ragione della emblematicità di casi del genere sta precipuamente nel fatto che il rapporto si colloca solitamente in una relazione personale affettiva; e che la possibilità di trasmissione del virus per effetto di un rapporto isolato è assai bassa. Tali situazioni possono indurre stati emotivi di fiducia, speranza, desiderio che il contagio non abbia luogo. Stati psichici siffatti, tuttavia, contrastano con l’oggettiva certezza che il rischio, drammatico, fatale, incombe. In casi del genere l’interrogativo riguarda la configurabilità del dolo eventuale o, invece, della colpa cosciente.
La risoluzione del dilemma sarà influenzata dalle specifiche contingenze che hanno qualificato i fatti; e, sul piano giuridico, dall’adesione all’una od all’altra delle configurazioni di tali tipi d’imputazione soggettiva. Infatti l’accoglimento di teoriche che valorizzano il profilo cognitivo, rappresentativo del dolo eventuale, implica che l’imputazione si configuri senza incertezze, giacchè – considerando le cose dal punto di vista puramente razionale – l’agente ha previsto senza dubbio la possibilità del contagio. La soluzione è invece meno scontata nel caso di adesione a configurazioni del dolo che ne valorizzano la considerazione del profilo volitivo e delle intenzioni, dei moti interni, reali.
La materia ha formato oggetto di vasto dibattito dottrinale e si è ripetutamente proposta nella giurisprudenza italiana.
In un caso, assai emblematico, vi erano stati reiterati rapporti sessuali non protetti con il coniuge, che avevano determinato la trasmissione del virus ed un’evoluzione assai rapida della malattia a seguito delle continue cariche virali immesse nell’organismo del partner. A tali condotte attive si accompagnava una condotta omissiva contrassegnata dal tacere alla moglie qualunque informazione e dal trascurare la benchè minima forma d’intervento che avrebbe, quantomeno, allungato le aspettative di sopravvivenza della donna.
L’agente aveva piena consapevolezza della propria condizioni di soggetto sieropositivo e delle modalità di trasmissione del contagio.
Il Tribunale ha affermato la responsabilità per omicidio volontario a titolo di dolo eventuale. Tale valutazione non è stata però condivisa dalla Corte di appello che ha ritenuto configurabile la colpa cosciente. Si è ritenuto che assiomaticamente il primo giudice avesse ritenuto, in assenza di qualsiasi sostegno probatorio, che l’imputato ben conoscesse i rischi e le possibili conseguenze delle proprie scelte e che quindi fosse disponibile ad accettarne i rischi;
che la volontà dell’evento non può farsi derivare automaticamente dalla sua previsione; e che nel caso di specie la condotta non poteva essere ricondotta alla sfera della volontà in assenza di una adeguata consapevolezza culturale dei rischi. Secondo la Corte l’agente aveva maturato un atteggiamento di sottovalutazione e rimozione del pericolo, favorito dallo scarso livello culturale e dalla constatazione che il suo stato di salute non aveva subito modifiche peggiorative.
La Corte Suprema non ha rinvenuto vizi nella pronunzia d’appello (Sez. 1, n. 30425 del 14/06/2001, Lucini, RV 219952). Il giudice di legittimità ha affermato che, quale che sia la teoria accolta in tema di confine tra dolo e colpa, è sempre indispensabile un’indagine sull’effettiva volontà dell’agente e sul modo in cui questi si è rapportato all’evento: occorre che sia riscontrato un atteggiamento psicologico che riconduca in qualche modo l’evento nella sfera della volizione. Quando invece il soggetto, pur essendosi rappresentato l’evento come possibile, abbia agito nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che l’evento stesso non si sarebbe comunque verificato, esso non può essere attribuito alla sfera volitiva e si cade nel versante della colpa aggravata dalla previsione dell’evento. Nel caso di specie, secondo la Corte, non è censurabile la valutazione del giudice d’appello che ha escluso il dolo per effetto di un atteggiamento psicologico di rimozione e di allontanamento psicologico dell’eventualità del contagio. Tale valutazione è frutto di un’operazione d’introspezione in cui, scandagliando le dinamiche interne e considerando la modesta condizione culturale, si è addivenuti alla conclusione che l’agente si era convinto che alla moglie non sarebbe accaduto nulla di male.
Qui, come si vede, la speranza e la fiducia trovano base soprattutto in una inadeguata consapevolezza dei rischi, nello scarso livello culturale, nella pur fallace constatazione del proprio stato di persistente benessere. E non vi è dubbio che la Corte di legittimità fa propria la teoria volontaristica del dolo eventuale, condividendo la ponderazione del giudice di merito che era sceso a scandagliare e valutare le ragioni della speranza.
Il medesimo principio è stato riaffermato da questa Corte (Sez. 5, n. 44712 del 17/09/2008, Dall’Olio, RV 242610) in un caso dalla connotazione più definita, se non altro per la protrazione nel tempo degli atti sessuali. E’stata ritenuta immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità, a titolo di dolo, per il reato di lesioni personali gravissime, di una donna che, consapevole di essere affetta da sindrome di HIV, aveva ciò nonostante intrattenuto per lunghi anni rapporti sessuali con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo e così finendo per trasmettergli il virus. Si argomenta che la donna era pienamente consapevole. La conoscenza dello stato di sieropositività era dimostrato da vari documenti clinici e la consapevolezza della pericolosità del male era testimoniata dal fatto che essa si era sottoposta nel corso degli anni a controlli medici, nonchè dalla significativa circostanza che il marito era deceduto proprio per AIDS. Anche qui l’indagine scende nel profondo. L’argomento decisivo è che la donna aveva piena consapevolezza della drammaticità e concretezza del rischio, conclamata dalla morte del marito per la medesima causa.
Nello stesso senso si è espressa la Suprema Corte in altro caso simile (Sez. 5, n. 38388 del 16/04/2012, A.L.N., non massimata). La vicenda riguardava infatti un uomo che, avendo acquisito contezza della propria malattia solo dopo aver trasmesso il virus alla propria partner, si era adoperato affinchè essa non ne venisse a conoscenza, impedendole così di sottoporsi ai necessari esami e alle cure del caso, determinando l’aggravamento e l’irreversibilità del morbo. Si è ritenuta responsabilità dell’imputato a titolo di dolo eventuale per il reato di lesioni gravissime, valorizzando il ricorso a stratagemmi volti a tenere la vittima all’oscuro della propria sieropositività.
La Corte di cassazione ha ritenuto pure corretta la configurazione del dolo eventuale in un caso in cui un uomo, consapevole di essere affetto da tempo da HIV, aveva instaurato una relazione sessuale continuativa con una donna, alla quale non aveva riferito della sua patologia, senza curare alcuna precauzione. L’imputazione di dolo eventuale è stata basata sulla pluralità di rapporti sessuali completi intercorsi per circa due anni e dall’elevata viremia, come reso palese dal ricovero dell’uomo (Sez. 5, n. 8351 del 25/10/2012, dep. 2013, C, RV 255214).
48. La guida spericolata o in stato di ubriachezza tra dolo e colpa.
La più recente esperienza giudiziaria ha evidenziato il profilarsi di una nuova contingenza che mette in discussione l’incerto confine tra dolo e colpa: quella della guida spericolata o in stato di ubriachezza seguita dalla causazione di eventi letali. Sebbene si sia in presenza, normalmente, di tipica fattispecie colposa, caratterizzata dalla palese violazione di regole cautelari, in alcuni casi è accaduto che la guida fosse talmente lontana dallo standard dell’ordinaria prudenza da ipotizzare l’accettazione concreta dell’evento che caratterizza il dolo eventuale.
Di ciò la Corte di cassazione ha avuto occasione di occuparsi ripetutamente. In un caso si è considerato che i giudici del merito hanno dato contezza del percorso argomentativo seguito nel configurare una fattispecie colposa: la giovane età del conducente e la sua disponibilità di un veicolo di grossa cilindrata rendevano evidente il quadro di un soggetto spericolato ed eccitato, indotto ad una condotta di guida estremamente imprudente e negligente e intesa a dimostrare la propria sicurezza, la padronanza dell’auto e della strada. Si è considerato che, non essendo provata una volontà diversa, non è possibile ritenere che l’agente abbia voluto l’evento, altrimenti si finirebbe per sostenere l’esistenza di un dolo in re ipsa per il solo fatto della condotta rimproverabile, con conseguente inversione dell’onere della prova (Sez. 4, n. 13083 del 10/02/2009, Bodac, RV 242979).
Nei medesimi termini si è espressa altra pronunzia, in un caso in cui un soggetto, guidando ad alta velocità una moto di grossa cilindrata e ponendola in posizione di impennamento, invadeva l’opposta corsia, collidendo con un’altra moto che proveniva dall’opposta direzione. Si è evidenziato che, nonostante la condotta fosse indubbiamente sconsiderata ed imprudente, non ricorrevano tuttavia elementi tali da far ritenere che l’imputato avesse inteso scagliare la sua grossa moto contro qualcuno, accettando – sia pure in forma eventuale – l’incidente lesivo, che avrebbe potuto arrecare danno anche a se stesso (Sez. 4, n. 28231 del 09/07/2009, Montalbano, RV 28231).
Di particolare interesse è l’importante sentenza di legittimità (Sez. 4, n. 11222 del 24/03/2010, Lucidi, RV 249492) relativa ad un caso in cui l’imputato, benchè privato della patente di guida e alterato a seguito di una lite con la fidanzata, conduceva la sua auto ad alta velocità nel centro abitato di (OMISSIS) in una situazione di traffico intenso e attraversava un incrocio nonostante il semaforo rosso, così cagionando la morte di una coppia di motociclisti.
In primo grado l’imputato era stato condannato per omicidio con dolo eventuale. La sentenza di secondo grado, aveva ritenuto, di contro, che il fatto fosse sussumibile nella diversa ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento.
Tale impostazione è stata accolta dalla Suprema Corte che ha proposto recise enunciazioni di principio che devono essere qui brevemente esposte. La pronunzia mette in guardia circa il possibile equivoco che potrebbe annidarsi nella mera ed anodina evocazione del l’accettazione del rischio: l’accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l’evento non direttamente voluto.
Il dolo eventuale è pur sempre una forma di dolo e l’art. 43 cod. pen. richiede non soltanto la previsione, ma anche la volontà di cagionare l’evento, giacchè altrimenti si avrebbe la inaccettabile trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo, con la estrema ed improponibile conclusione che ogni qualvolta il conducente di un autoveicolo attraversi col rosso una intersezione regolata da segnalazione semaforica, o non si fermi ad un segnale di stop, in una zona trafficata, risponderebbe, solo per questo, degli eventi lesivi eventualmente cagionati sempre a titolo di dolo eventuale, in virtù della violazione della regola cautelare e della conseguente situazione di pericolo scientemente posta in essere. Si aggiunge che, perchè sussista il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accettare è proprio l’evento. E’ il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo. Occorre, quindi, accertare, per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, che l’agente abbia accettato come possibile la verificazione dell’evento, non soltanto che abbia accettato una situazione di pericolo genericamente sussistente.
Alla stregua di tali principi la pronunzia analizza il caso:
l’imputato, subito dopo l’urto entrava nel panico (“Oddio, li ho ammazzati”) e tale espressione, di rammaricata sorpresa, secondo la Corte, appare difficilmente conciliabile con una comprovata accettazione del rischio concreto di causazione dell’evento; in un contesto in cui, peraltro, dovrebbe ritenersi accettato anche il concomitante rischio di eventi lesivi a proprio danno. In ogni caso, nel dubbio sulla sussistenza di tale elemento psicologico (l’accertamento al riguardo, secondo la regola generale di valutazione della prova, deve sottrarsi ad ogni ragionevole dubbio) il giudice non può che condannare per il fatto colposo, non per quello doloso.
Ad analoghe conclusioni è giunta la Corte (Sez. 4, n. 39898 del 30/07/2012, Giacalone, RV 254673), nel caso di un automobilista, il quale, pur versando in condizione di astinenza da assunzione di stupefacenti, aveva causato la morte di quattro pedoni investendoli sul marciapiede, posto che l’agente, benchè conscio di poter causare incidenti in ragione del suo stato mentale, non si era rappresentato l’evento tipico effettivamente realizzato.
Il dolo è stato pure escluso in un caso simile (Sez. 1, n. 20465 del 13/05/2013, Mega, non massimata) in cui l’imputato dopo aver assunto hashish e una pastiglia di ansiolitico, si era messo alla guida di notte cagionando un incidente mortale. Il primo giudice aveva ravvisato il reato di omicidio colposo; la Corte d’appello invece quello di omicidio con dolo eventuale; la pronunzia è stata cassata dalla Suprema Corte. Si è considerato che la sentenza d’appello, nell’intento di dare una risposta giudiziaria ritenuta più adeguata a condotte del tipo di quella oggetto del processo, ha di fatto forzato il confine giuridico tradizionalmente tracciato tra dolo e colpa, tra volontà dell’evento (volontà dell’azione a costo di causare l’evento e quindi volontà – anche – del detto evento) e colpa cosciente (volontà dell’azione nella convinzione che l’evento – sia pur prevedibile – non si verificherà).
Certamente, si aggiunge, la condotta è altamente censurabile, ma non di meno è colposa e non dolosa, non potendosi affermare che l’agente – ove si fosse concretamente rappresentato l’investimento e la morte di un’altra persona (paradossalmente anche di sè stesso) – avrebbe deciso di mettersi alla guida anche a costo di ciò. In realtà allo stato della legislazione il reato è già previsto dall’art. 589 cod. pen., che, nel sanzionare l’omicidio colposo, prevede espressamente l’aggravante del fatto commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale (comma 2) e, nel perimetro della detta aggravante, quella ulteriore (comma 3, n. 2) che riguarda il soggetto che è sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. E il reato, così aggravato, non è di poco conto.
A conclusioni diverse, pur applicando i medesimi principi, in fase cautelare, è giunta, invece, altra pronunzia (Sez. 1, n. 23588 del 30/05/2012, Beti Ilir, non massimata). La vicenda riguardava sempre un gravissimo incidente stradale, nel quale il conducente di un SUV aveva percorso l’autostrada contromano per diversi chilometri e a fortissima velocità andando ad impattare frontalmente contro altro veicolo che procedeva nel giusto senso di marcia, ed aveva cagionato la morte di quattro persone. Anche in tal caso la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva ricostruito l’elemento psicologico sulla base di un rigoroso esame del fatto nelle sue concrete modalità esecutive, evidenziando che nel caso di specie non si rinveniva nel comportamento dell’imputato alcun elemento dal quale dedurre che, in qualche modo, egli contava di poter evitare l’evento, perchè ha invece continuato a marciare ad elevatissima velocità per circa dieci minuti senza porre in essere – e questo è il dato più significativo – alcuna manovra che, per quanto spericolata, possa far pensare alla sua intenzione di evitare l’urto con altri veicoli, contando sulla sua abilità.
Nella stessa direzione si colloca altra importante, recente pronunzia di legittimità (Sez. 1, n. 10411 del 01/02/2011, Igniatiuc, RV 258021) relativa ad un caso assai controverso. Il primo giudice ha ritenuto colpevole di omicidio volontario e lesioni volontarie l’imputato che, alla guida di un furgone rubato, per sottrarsi al controllo da parte della polizia che lo inseguiva, si dava alla fuga in pieno centro urbano ad una velocità pari a 100-110 chilometri all’ora oltrepassando, senza decelerare, una serie di semafori che segnavano luce rossa nella sua direzione di marcia. Giunto ad una velocità superiore ai centro chilometri ad un incrocio, lo attraversava senza rallentare, sebbene il semaforo segnasse rosso; ed urtava violentemente contro altra auto che in quel momento impegnava lo stesso incrocio cagionando gli eventi lesivi di cui si è detto.
Nel caso di specie, una pluralità di elementi (l’elevatissima velocità serbata dall’imputato; il numero degli incroci impegnati prima dell’impatto mortale, sebbene il semaforo segnasse la luce rossa; le caratteristiche del furgone, del peso accertato di due tonnellate; le particolari condizioni di luogo in cui era avvenuto il fatto; la situazione del traffico ancora intenso erano univocamente indicativi del fatto che l’agente si era rappresentato di poter cagionare con il suo comportamento un incidente anche con esiti mortali, ma aveva accettato il rischio della sua verificazione, pur di sottrarsi al controllo della Polizia.
La Corte di assise di appello non ha condiviso tale decisione: si assume che essa sembra far derivare dal grave grado di colpa insito nella condotta di guida dell’imputato la prova della previsione dell’evento.
Tale valutazione è stata censurata dalla Suprema Corte. Si è affermato che il criterio distintivo tra dolo eventuale e colpa cosciente deve essere ricercato sul piano della volizione. Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una Deliberazione con la quale si subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco – il suo e quelli altrui – e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale, che viene dall’agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è quindi sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato.
La delicata linea di confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente e l’esigenza di non svuotare di significato la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva, connessa alla specificità del caso concreto, impongono al giudice di attribuire rilievo centrale al momento dell’accertamento e di effettuare una penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva della probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica. La pronunzia scende a concretamente indicare gli elementi di giudizio da ponderare, ponendoli in correlazione logica fra loro: le modalità e la durata dell’inseguimento; il lasso di tempo intercorso tra l’inizio dello stesso e la sua trasformazione in mero controllo a distanza del furgone rubato; le complessive modalità della fuga e la sua protrazione pur dopo che la Polizia aveva adottato una differente tipologia di vigilanza; le caratteristiche tecniche del mezzo rubato in rapporto a quanto in esso contenuto; la conseguente energia cinetica in relazione alla velocità serbata; le caratteristiche degli incroci impegnati con luce semaforica rossa prima del raggiungimento di quello in cui si verificò l’urto; la conformazione dei luoghi; l’assenza di tracce di frenata o di elementi obiettivamente indicativi di tentativi di deviazione in rapporto al punto d’impatto; il comportamento serbato dall’imputato dopo la violenta collisione, consistito in un estremo tentativo di fuga.
L’impostazione delineata è stata poi confermata, successivamente al giudizio di rinvio, da questa Corte (Sez. 5, n. 42973 del 27/09/2012, Ignatiuc, RV 258022).
49. L’assenza di “movente”.
L’apparente assenza di una tangibile, plausibile motivazione determina una situazione tra le più intense e meno facilmente risolubili. Qui, infatti, si ha un’enorme difficoltà a capire il senso degli accadimenti; ad investigare la sfera interiore; a sceverare i tratti del dolo, anche quello più tenue ed eventuale.
Il tema del movente e la regola di giudizio da applicare nei casi dubbi si è drammaticamente posto in un noto caso giudiziario: una pistola viene manovrata alla finestra di un istituto universitario quando viene esploso un colpo che colpisce ed uccide una ragazza che passa in strada. La Corte d’assise, da atto che le ipotesi ricostruttive hanno sin dall’inizio ondeggiato tra dolo e colpa; tra accettazione del rischio, visto che l’arma era stata puntata ad altezza d’uomo, ed esplosione accidentale di un colpo. Essa perviene alla conclusione che i dubbi non sono stati sciolti. “Possibile che l’imputato abbia con coscienza e volontà, agendo con dolo, premuto il grilletto dell’arma per uccidere o accettando il rischio di uccidere alla presenza di numerosi testimoni? La risposta è negativa perchè le risultanze processuali non danno la prova dell’accordo scellerato tra lo sparatore … e gli altri presenti. Da tutti questi elementi considerati in sè e nella loro globalità, s’inferisce la possibilità che l’imputato non fosse consapevole di maneggiare un’arma carica … anzi sembra desumersi che maneggiò con imprudenza, negligenza, imperizia un’arma, ma senza sapere che era carica. Si potrebbe replicare che l’imputato …. ben era in grado di rendersi conto se l’arma era carica, nonchè di valutare il pericolo della pistola, regolandosi di conseguenza …. Ma in questo appunto risiede l’essenza dell’addebito colposo che si muove all’imputato. In definitiva, gli elementi a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi finiscono per equivalersi: in tal caso opera il canone della scelta più favorevole all’imputato. Per questo va affermata la responsabilità in ordine al reato di omicidio colposo ” (Ass. Roma, 13 settembre 1999, Scattone). Tale approccio è stato confermato dalle successive pronunzie. Il caso è colmo di insegnamenti:
l’ondeggiamento tra dolo e colpa; la necessità della lettura coordinata delle emergenze indiziarie di segno opposto; infine, l’attribuzione di peso preponderante all’assenza di una riconosciuta motivazione nel senso dell’offesa anche indirettamente volontaria; ed al principio di favore per l’imputato.
Tale situazione di assenza di motivazione congrua si è mostrato pure in altro discusso caso giudiziario. Un agente di polizia aveva sparato in direzione dell’auto in cui si trovavano alcuni giovani che avevano partecipato ad una rissa per ragioni sportive e che si stavano dando alla fuga; ed aveva colpito mortalmente uno dei fuggitivi. Il primo giudice ha individuato il movente dell’intervento di polizia nel proposito di fermare ed identificare i giovani in considerazione della loro condotta illecita; ed ha considerato “veramente arduo” ipotizzare che un tale risultato potesse essere perseguito con tale accanimento da mettere in conto anche l’evento letale. La morte si poneva come risultato incongruo rispetto alle finalità dell’intervento di polizia. Tale apprezzamento è stato successivamente ribaltato in appello. La Suprema Corte ha affermato che il movente è la causa psichica della condotta umana e lo stimolo che induce l’individuo ad agire e, perciò, è distinto dal dolo che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento. Le cause psichiche dell’agire umano, poi, non sono necessariamente razionali, ma al contrario sono aperte alle ispirazioni e impulsi più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell’animo umano.
Correttamente, dunque, la Corte territoriale aveva tenuto distinto, nel caso in esame, il movente con la sua apparente irrazionalità, attinente al foro interno dell’agente conoscibile solo nella misura in cui trovi riscontro in una rappresentazione esterna, dal dolo quale elemento psicologico del fatto reato storicamente accaduto e, perciò, fenomenicamente rilevabile, escludendo che dall’irrazionalità del primo potesse dedursi l’inesistenza del secondo e l’involontarietà della stessa condotta (Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012, Spaccarotella, RV 254143). Si è qui in presenza di una pronunzia, isolata, che svaluta l’analisi del tratto interno dell’agire umano e trae esclusivo elemento di giudizio da una asserita e non meglio chiarita rilevabilità “fenomenologica” del dolo.
50. Considerazioni conclusive su dolo eventuale e colpa cosciente.
La disamina di alcuni casi difficili affrontati da questa Corte rende chiaro, ben oltre qualsiasi disquisizione teoretica, che la giurisprudenza, quando il contesto è davvero controverso, predilige l’approccio volontaristico e si dedica con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta. Anche in forza di tale considerazione riassuntiva è ora possibile tentare di tirare le fila.
Un dato testuale desunto dall’art. 43 cod. pen. è sicuramente decisivo per discernere tra dolo e colpa: l’essere o non essere della volontà. Noi non sappiamo esattamente cosa sia la volontà: la psicologia e le neuroscienze hanno fino ad ora ha fornito informazioni e valutazioni incerte, discusse, allusive. Tuttavia, la comune esperienza interiore ci indica in modo sicuro che nella nostra vita quotidiana sviluppiamo continuamente processi decisionali, spesso essenziali per la soluzione di cruciali contingenze esistenziali: il pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in intenzione, volontà.
Sappiamo pure che tali processi hanno un andamento assai variabile: a volte brevi ed impulsivi; a volte lunghi, complessi, segnati dalla ponderazione di diversi elementi spesso di segno opposto, di informazioni di vario genere. Tale andamento culmina in un ineffabile momento decisorio in cui ci si determina ad agire o meno in vista di un determinato conseguimento. L’esperienza interiore ci insegna inoltre che i fattori di tale processo sono eterogenei, multiformi, alcuni maggiormente connotati in chiave emotiva, altri frutto di analisi razionale.
Tale andamento si conclama nel dolo intenzionale, diretto verso uno scopo. Qui solitamente la condotta mostra la volontà finalistica senza incertezze e nessuna speciale indagine è richiesta. Diversa la situazione nel dolo diretto: il momento cognitivo in ordine agli elementi di fattispecie ed alle conseguenze del proprio agire è talmente netto che dal solo fatto di tenere una certa condotta sulla base di alcune informazioni sullo sviluppo degli accadimenti si inferisce, normalmente, una determinazione nel senso dell’offesa del bene giuridico protetto. Come si vede, si è in presenza di una sfera dell’agire umano dominata dalla rappresentazione. Il dolo, id est la volontà, è documentato dalla conoscenza delle conseguenze, dalla rappresentazione appunto. Si delinea così una figura giuridica distinta dal punto di vista strutturale, cui correttamente dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto, con sforzo analitico, una identità propria.
Assai più complessa ed oscura è la contingenza che si designa come dolo eventuale, caratterizzata, come si è visto dall’accettazione delle possibili conseguenze collaterali, accessorie delle proprie condotte. Qui il momento rappresentativo riguarda un evento dal coefficiente probabilistico non tanto significativo da risolvere il dubbio sull’essere o meno dell’atteggiamento doloso.
Né vi sono segni tangibili, significativi, che consentano di inferire subitaneamente e chiaramente la direzione della volontà, l’andamento del processo decisionale, l’atteggiamento psichico rispetto all’evento illecito non direttamente voluto ma costituente conseguenza concretamente possibile della propria condotta. Tale evento collaterale non è propriamente oggetto di volizione. Il quadro è senza dubbio aperto all’incertezza e richiede di definire quale sia, in tali contingenze, l’atteggiamento psichico rispetto all’evento collaterale che possa essere considerato equivalente della volontà, ad essa assimilabile; in modo che, come è stato suggestivamente suggerito, si riveli una diversa declinaziorie del concetto di volontà entro un unitario nucleo di senso capace di conservare a ciascuna delle configurazioni del dolo un “analogo concetto di volontà”.
Il dolo eventuale deve dunque essere configurato in guisa tale che possa esser letto sensatamente e senza forzature come una forma di colpevolezza dolosa; in ossequio al fondante principio di legalità.
Senza dubbio l’istituto è fortemente modellato dalle esigenze del diritto ed è dunque più normativo di altri. Esso, come si è già accennato, costituisce una costante criminologica, corrisponde a storiche ed immutate istanze di punizione di comportamenti che, per l’adesione che comportano alla prospettiva della verificazione dell’evento, sono comunemente ritenuti riprovevoli e meritevoli di giuridica sanzione.
D’altra parte, come pure si e accennato, il dolo eventuale è nato per corrispondere ad esigenze analitiche, garantiste; per sottrarre la fenomenologia di cui ci si occupa all’oscuro maneggio di risalenti istituti dai contorni deliberatamente offuscati, indefiniti, funzionali ad una pronta e sommaria azione punitiva, come il dolus generalis ed il dolus indirectus. Tale sforzo analitico deve essere rammentato ed attualizzato. Diverse istanze pertinenti ai livelli più alti e fondanti della scienza penalistica impongono di prendere atto della necessità di tale pur incerta figura; ed al contempo di definirla, circoscriverla entro confini ristretti e chiari, in modo che sicura e prevedibile ne sia l’applicazione. Su ciò si tornerà.
Uno dei modi classici per segnare i tratti ed i confini del dolo eventuale è quello di confrontarlo con le figure ad esso più vicine: il dolo diretto e la colpa cosciente. La prima distinzione è teoricamente chiara; anche se, come si è visto non risulta unanimemente definito il livello di probabilità dell’evento dal quale si possa inferire immediatamente il dolo. Di ciò si è detto.
Qui occorre considerare che in ogni caso il coefficiente probabilistico assai spesso non è misurabile; o non è talmente elevato da potersene inferire in modo tranquillante il dolo. Perciò, quanto più ci si avventura in ambiti incerti, tanto più penetrante ha da essere la valutazione coordinata di tutte le contingenze del caso alla ricerca del tratto volontaristico che contrassegna la colpevolezza dolosa.
Ben più complessa è l’individuazione della linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. Anticipando le conclusioni, per conferire chiarezza al discorso occorre subito dire che, posto in tali termini, il problema potrebbe generare qualche fraintendimento.
L’idea di un tratto di confine potrebbe infatti indurre a pensare erroneamente che tra l’una e l’altra figura vi sia, in linea di principio, una sfumata continuità. In realtà non è proprio così.
Dolo e colpa sono forme di colpevolezza radicalmente diverse, per certi versi antitetiche. Alla luce di tale diversità va pure letta la distinzione di cui si discute. Si vuol dire che le due figure, il dolo eventuale e colpa cosciente, appartengono a due distinti universi e da tale radicale diversità delle categorie al cui interno si collocano traggono gli elementi che le caratterizzano e le distinguono. Tanto per chiarire subito ciò che si intende dire e sottrarre la disamina ai fumi dell’astrattezza: la struttura della previsione è diversa; diverso è l’evento; diverso è lo scenario dell’agire umano; diverso infine è l’animus. Su ciò si tornerà diffusamente più avanti.
Tali preliminari enunciazioni aiutano a spiegare le molteplici ragioni critiche che inficiano la pur accreditata ed autorevole dottrina, spesso recepita dalla giurisprudenza, che individua nella colpa cosciente una previsione seguita da una controprevisione, cioè da una previsione negativa circa la verificazione dell’evento; e nel dolo eventuale, per conseguenza, un dubbio irrisolto.
Di alcune diffuse e condivise ragioni si è già detto. E’ sufficiente rammentare che il Codice parla, a proposito della colpa cosciente, di reale previsione dell’evento e non fa per nulla cenno al processo di negazione dell’accadimento elaborato dall’indirizzo che si critica.
Inoltre, la teoria sottende una non realistica semplificazione ed idealizzazione della realtà: un agente che lucidamente analizza, discerne e si persuade nel senso della negazione dell’evento. Si tratta di una visione delle cose molto lontana dalla varietà delle contingenze che si verificano nella vita. Essa è certamente valida nel caso di scuola del lanciatore di coltelli, ma non nelle mille sfumate irripetibili contingenze del reale; tanto più nel mondo spesso buio, opaco, subliminale della colpa. Qui la sconsideratezza, la superficialità, l’irragionevolezza accreditano forme di previsione sommarie ed irrisolte, buone per la colpa ma non per il dolo.
Le cose non mutano guardandole nella prospettiva del dolo eventuale:
secondo la teoria in esame esso si configurerebbe tutte quante volte l’agente si determini in presenza di un dubbio irrisolto circa la verificazione dell’evento e quindi in presenza delle mera percezione di una situazione rischiosa. Una tale soluzione interpretativa svuota tale imputazione soggettiva di ogni reale contenuto volitivo che coinvolga la relazione tra condotta ed evento; la allontana in modo inaccettabile dalla categoria del dolo come atto di volontà; da luogo ad una sorta di presunzione. Certamente il dubbio accredita l’ipotesi di un agire che implichi una qualche adesione all’evento, ma si tratta appunto solo di un’ipotesi che deve confrontarsi con tutte le altre contingenze del caso concreto. Tale principio, del resto, è stato già espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U, Nocera) e da diverse pronunzie di legittimità. Si è affermato che il dubbio descrive una situazione irrisolta, di incertezza, che appare difficilmente compatibile con una presa di posizione volontaristica in favore dell’illecito, con una decisione per l’illecito; ma ove concretamente superato, avendo l’agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l’evento, volitivamente accettandolo quindi nella sua prospettata verificazione, lascia sussistere il dolo eventuale (Sez. 1, n. 30472 del 11/07/2011, Braidic, RV 251484; Sez. 4, n. 36399 del 05/09/ 2013, M., RV 256342).
Dunque, ciò che risulta dirimente è, infine, un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta. Il contrario avviso trascura, come è stato considerato dalla più attenta dottrina, che chi agisce dubitando a volte si determina in condizioni di irrazionalità motivazionale, oppure versa in uno stato di opacità che rapporta il rimprovero giuridico alla sfera della colpa.
In breve, la previsione dell’evento può essere ben diversa nel dolo eventuale e nella colpa cosciente; e ciò costituisce il riflesso della diversità di fondo tra colpevolezza dolosa e colpevolezza colposa. Nel dolo si è in presenza dell’agire umano ordinato, organizzato, finalistico. Un processo intellettuale che, lungamente elaborato o subitaneamente sviluppatosi e concluso, sfocia pur sempre in una consapevole decisione che determina la condotta antigiuridica.
Qui il rimprovero giuridico coglie la scelta d’azione, o d’omissione, che si dirige nel senso della offesa del bene giuridico protetto. Il dolo, come si è già accennato, esprime la più intensa adesione inferiore al fatto, costituisce la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza; la più diretta contrapposizione all’imperativo della legge. Tale atteggiamento di contrapposizione alla legge giustifica, conviene rammentarlo, un trattamento sanzionatorio ben più severo di quello riservato ai comportamenti meramente colposi.
Se così è, ne consegue che nel dolo non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice. In particolare, le istanze di garanzia in ordine al rimprovero caratteristico della colpevolezza dolosa richiedono che l’evento oggetto della rappresentazione appartenga al mondo del reale, costituisca una prospettiva sufficientemente concreta, sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità. Solo in riferimento ad un evento così definito e tratteggiato si può istituire la relazione di adesione interiore che consente di configurare l’imputazione soggettiva. In breve, l’evento deve essere descritto in modo caratterizzante e come tale deve essere oggetto, di chiara, lucida rappresentazione; quale presupposto cognitivo perchè possa, rispetto ad esso, configurarsi l’atteggiamento di scelta d’azione antigiuridica tipica di tale forma d’imputazione soggettiva.
La colpevolezza colposa è tutt’altra cosa. Tale figura, per vero, è entrata nel mondo governato dal principio di colpevolezza da un tempo relativamente breve, quale frutto di una complessa speculazione teoretica cui la Suprema Corte ha nel complesso prestato adesione (amplius p. 25). Essa rimane, però, figura accentuatamente normativa ed assai ben distinta, sotto ogni riguardo, rispetto al dolo. Ne è testimonianza lo storico fallimento dei tentativi di configurare un concetto unitario di colpevolezza su base psicologica: nella colpa tale base solitamente manca o è insignificante. La figura è opaca, umbratile, fatta più di pieni che di vuoti, caratterizzata immancabilmente, al fondo, da qualcosa che è mancato; bisognosa di eterointegrazione, generata da regole cautelari o da conoscenze scientifiche o tecniche.
E’ pur vero che il codificatore ha ritenuto di configurare nella colpa, accanto all’istanza di prevedibilità dell’evento, implicitamente postulata da tale istituto, anche la situazione di concreta previsione dell’esito antigiuridico che caratterizza la colpa cosciente. Orbene, come è stato del resto mostrato da acuta dottrina, è chiaro che si è in presenza di una situazione distinta e più grave rispetto a quella della colpa incosciente. Tuttavia è necessario che tale previsione sia letta traendo ispirazione dall’essenza della colpa, al cui interno deve restare saldamente insediata; per evitare confondimenti con i distinti e già indicati connotati della colpevolezza dolosa.
Occorre allora partire dalla già evocata connessione tra regola cautelare ed evento. L’evento, si è visto, deve costituire concretizzazione del rischio che la cautela era chiamata a governare.
Dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa. Nella colpa cosciente si verifica una situazione più definita: la verificazione dell’illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell’agente; e mostra per così dire in azione l’istanza cautelare. L’agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa; il nesso tra cautela ed evento. L’evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva. Di qui il più grave rimprovero nei confronti di chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio. In questa mancanza, in questa trascuratezza, è il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell’evento: si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall’agire doverosamente. Tale situazione è tutt’affatto diversa da quella prima delineata a proposito della puntuale conoscenza del fatto quale fondamento del rimprovero doloso, basato, lo si rammenta ancora, sulla positiva adesione all’evento collaterale che, ancor prima che accettato, è chiaramente rappresentato. D’altra parte tale connotazione della consapevolezza colposa allontana ulteriormente l’idea irrealistica costituita dal processo di previsione e controprevisione o previsione negativa. Non è per nulla escluso che tale situazione possa in qualche caso verificarsi, ma essa non è un tratto fondante, immancabile, della previsione dell’evento che caratterizza l’aggravante.
Tale differenza di contesto e di senso giustifica da un lato una diversa descrizione dell’evento (al tema si è fatto cenno sopra al p. 25) e dall’altro forme di consapevolezza della sfera fattuale diverse e più sfumate rispetto a quella propria dell’ambito doloso.
E’ sufficiente che l’evento esprima la concretizzazione del rischio cautelato dalla norma prevenzionistica. Rispetto a tale evento la rappresentazione, nella colpa, occorre ribadirlo, può ben essere vaga ed alquanto sfumata, pur preservando i tratti essenziali che connettono causalmente la violazione cautelare con l’evento medesimo.
Le più volte ripetute sottolineature delle differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente consentono di rimarcare ulteriormente la fallacia dell’opinione che identifica il dolo eventuale con l’accettazione del rischio. L’espressione è tra le più abusate, ambigue, non chiare, dell’armamentario concettuale e lessicale nella materia in esame. La si vede utilizzata in giurisprudenza in forma retorica quale espressione di maniera, per coprire le soluzioni più diverse. Essa, come si è visto, è alla base dell’argomentazione proposta dal Procuratore Generale.
Al riguardo è possibile porre alcune radicali enunciazioni critiche.
In primo luogo trovarsi in una situazione di rischio, avere consapevolezza di tale contingenza e pur tuttavia regolarsi in modo malaccorto, trascurato, irrazionale, senza cautelare il pericolo, è tipico della colpa che, come si è visto, è malgoverno di una situazione di rischio e perciò costituisce un distinto atteggiamento colpevole, rimproverabile. Inoltre, il Codice stabilisce nel dolo una essenziale relazione tra la volontà e la causazione dell’evento: qui è il nucleo sacramentale dell’istituto. Un atteggiamento interno in qualche guisa ad esso assimilabile va rinvenuto pure nel dolo eventuale. In tale figura, come si è accennato, non vi è finalismo, non vi è rappresentazione di un esito immancabile o altamente probabile, in breve, traspare poco della sfera interna, non vi è volontà in azione, esteriorizzata. Si tratta allora di andare alla ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana, in modo che possa essere sensatamente mosso il rimprovero doloso e la colpevolezza quindi si concretizzi. Tale essenziale atteggiamento difetta assolutamente nella mera accettazione del rischio, che trascura l’essenziale relazione tra condotta volontaria ed evento; e, come è stato osservato, finisce col trasformare gli illeciti di evento in reati di pericolo.
Risulta del tutto chiaro a questo punto che la dottrina e la giurisprudenza che valorizzano la rilevanza della volontà e della sua ricerca anche nell’ambito della figura di cui si discute colgono nel segno; e che il momento dell’accertamento, pur essendo analiticamente distinto dalla struttura e dall’oggetto della fattispecie, tende a compenetrarvisi e ad assumere un ruolo in concreto cruciale. Si vuol dire che tutto ciò che si è sin qui esposto risulterebbe una pura esercitazione verbale se non si riuscisse a dire chiaramente cosa esattamente sia l’evocato atteggiamento psichico e come esso possa essere accertato.
Muovendosi nella sfera interiore è chiaro che entra in campo il paradigma indiziario. In breve si cercano sulla scena i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della propria condotta. Sovviene a tale riguardo quanto sin qui esposto sui processi decisionali, nei quali agiscono diversi fattori emotivi e razionali. Si tratterà, nei limiti del possibile, di tentare di spiegare l’accaduto, di ricostruire l’iter decisionale, di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, insomma, perchè ci si è determinati in una direzione. Occorrerà comprendere se l’agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell’evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa.
Naturalmente, tale ordine di idee può essere espresso in molti, sfumati modi e le teorie volontaristiche di cui si è sopra dato conto, al fondo, non differiscono molto tra loro se guardate con l’occhio della giurisprudenza, attenta più alle questioni di fondo che alle pur sapienti ed accurate varianti stilistiche. Ciò che è di decisivo rilievo è che si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale; e, soprattutto, che esso sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi.
Non rilevano invece, in quanto tali, gli atteggiamenti della sfera emotiva, gli stati d’animo. L’ottimismo ed il pessimismo, la speranza, naturalmente, non hanno un ruolo significativo nell’indagine sull’atteggiamento interno in rapporto alla direzione della condotta verso l’offesa del bene giuridico. Risulta però spesso interessante comprendere le ragioni che hanno determinato la speranza o altro atteggiamento emotivo. E dunque non può neppure dirsi che la considerazione della sfera emotiva sia del tutto estranea al nostro tema. Di ciò ci si occuperà nel prosieguo.
Lo stesso stato di dubbio irrisolto, conviene ripeterlo, non risolve il problema del dolo eventuale: indica un indizio, ma è pur sempre necessario dimostrare che lo stato d’incertezza sia accompagnato dalla già evocata, positiva adesione all’evento; dalla scelta di agire a costo di ledere l’interesse protetto dalla legge.
Ciò che è di decisivo rilievo è che nella scelta d’azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire. In questo risiede propriamente la rimproverabilità, la colpevolezza dell’atteggiamento interno che si denomina dolo eventuale.
Il Collegio ha la consapevolezza che, sebbene nelle enunciazioni che precedono vi sia una presa di posizione ed una risposta di principio alle questioni sul tappeto, sovente le formule della teoria vengono distorte più o meno consapevolmente nella prassi: è il lato oscuro del diritto penale. Vi è quindi necessità di affrontare analiticamente il tema della prova del dolo eventuale, anche alla luce dei casi topici che, a tal fine, sono stati esposti in precedenza con qualche ricchezza di dettaglio.
51. Gli indizi o indicatori del dolo eventuale.
Come si è visto, dovendosi indagare la sfera interiore, l’indagine sul dolo eventuale si colloca sul piano indiziario. Va subito aggiunto, però, che tali indizi o indicatori non incarnano la colpevolezza, ma servono a ricostruire il processo decisionale ed i suoi motivi e particolarmente il suo culmine che, come si è visto, si realizza con l’adozione di una condotta che si basa sulla nitida, ponderata consapevolezza della concreta prospettiva dell’evento collaterale; e si traduce in adesione a tale eventualità, quale prezzo o contropartita accettabile in relazione alle finalità primarie. Gli indizi, insomma, sono al servizio del giudizio che si risolve nel peculiare rimprovero doloso di cui ci si occupa.
Per sottrarre l’argomentazione al rischio dell’astrattezza conviene analizzare alcuni indicatori, anche in rapporto alla loro utilizzazione in ambito giurisprudenziale.
51.1. La condotta che caratterizza l’illecito ha un determinante rilievo negli illeciti di sangue, che costituiscono il classico paradigma della fattispecie. Se ne è vista una rassegna giurisprudenziale: le caratteristiche dell’arma, la ripetizione dei colpi, le parti prese di mira e quelle colpite, sono importanti, nella prospettiva del dolo eventuale, quando non si è in presenza della elevata probabilità di verificazione dell’evento che contrassegna il dolo diretto. Ma si tratta della parte più nota e meno interessante del nostro tema.
51.2. Rileva pure, negli ambiti governati da discipline cautelari, la lontananza della condotta standard. Quanto più grave ed estrema è la colpa tanto più si apre la strada ad una cauta considerazione della prospettiva dolosa. Si tratta della situazione che caratterizza la più recente esperienza giuridica di cui si è dato sopra conto.
Emblematico il contesto della circolazione stradale. Qui è naturale pensare allo schema normativo della colpa cosciente; e questa è stata infine la soluzione accreditata dalla giurisprudenza della Suprema Corte. L’opposta soluzione nel senso del dolo eventuale ha preso corpo in alcuni casi davvero peculiari nei quali l’agente ha mostrato una determinazione estrema, la volontà di correre, per diverse ragioni, rischi altissimi senza porre in essere alcuna misura per tentare di governare tale eventualità; in breve ha realmente, tangibilmente accettato l’eventualità della verificazione dell’evento illecito.
51.3. La personalità, la storia e le precedenti esperienze talvolta indiziano la piena, vissuta consapevolezza delle conseguenze lesive che possono derivare dalla condotta; e la conseguente accettazione dell’evento. Nel caso della donna che aveva trasmesso il virus HIV al partner, vi era l’esperienza di un evento analogo che aveva colpito il precedente compagno, conducendolo alla morte. Il peso di una così drammatica circostanza è con tutta evidenza capace di orientare la lettura in chiave dolosa dei ripetuti, successivi contatti sessuali.
Ma l’esperienza può assumere significato in senso contrario. Il lanciatore di coltelli, forte della consumata abilità comprovata da mille prove, non mette in conto di colpire il bersaglio umano.
Parimenti il pilota d’auto temprato da molte gare affronta fiducioso rischi maggiori di un conducente ordinario: confida che l’abilità acquisita lo aiuterà in eventuali contingenze critiche.
La personalità, esaminata in concreto e senza categorizzazioni moralistiche, può mostrare le caratteristiche dell’agente, la sua cultura, l’intelligenza, la conoscenza del contesto nel quale sono maturati i fatti; e quindi l’acquisita consapevolezza degli esiti collaterali possibili. Insomma, essa ha un peso indiscutibile, soprattutto nell’ambito del profilo conoscitivo del dolo.
Nel caso, cui si è già fatto cenno, dell’uomo che trasmette alla moglie il virus HIV, il dolo è stato infine escluso facendo leva sul basso livello culturale e sull’incompleta comprensione delle drammatiche conseguenze delle sue azioni.
Parimenti la personalità immatura del giovane che furoreggia in moto è più verosimilmente compatibile con la colpa che col dolo eventuale.
51.4. La durata e la ripetizione della condotta. Un comportamento repentino, impulsivo, accredita l’ipotesi di un’insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite. In generale la bravata e l’atto compiuto d’impulso in uno stato emotivo alterato indiziano un atteggiamento di grave imprudenza piuttosto che la volontaria accettazione della possibilità che si verifichino eventi sinistri.
Per contro, una condotta lungamente protratta, studiata, ponderata, basata su una completa ed esatta conoscenza e comprensione dei fatti, apre realisticamente alla concreta ipotesi che vi sia stata previsione ed accettazione delle conseguenze lesive.
Sempre a proposito del contagio del virus HIV, la frequenza dei rapporti sessuali non solo incrementa le probabilità, ma mostra solitamente un atteggiamento risoluto, determinato. Lo si è visto nella giurisprudenza esaminata: nel caso di rapporti lungamente protratti con la partner tale significativo dato indiziario aveva inizialmente condotto all’affermazione di responsabilità per dolo eventuale. Tale dato, lungi dall’essere svalutato nel prosieguo del giudizio, è stato ritenuto sopravanzato da carenze culturali e da altre discusse contingenze cui si è qui sopra fatto cenno. Si tratta di uno dei casi più controversi dell’esperienza giuridica in materia.
51.5. La condotta successiva al fatto. La fattiva e spontanea opera soccorritrice può aver peso nell’accreditare un atteggiamento riconducibile alla colpa e non al dolo eventuale.
Per contro, l’estremo tentativo di fuga del ladro, pur dopo il disastroso urto mortale, mostra appieno la estrema determinazione del tentativo di sottrarsi a qualunque costo all’intervento di polizia; e dunque l’adesione alla drammatica prospettiva poi realizzatasi.
All’opposto, lo stupore del giovane che si avvede di aver investito i ciclomotoristi mostra in modo alquanto pregnante l’assenza di previsione ed accettazione di quell’esito estremo.
51.6. Il fine della condotta, la sua motivazione di fondo; e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del “prezzo” connesso all’evento non direttamente voluto rispetto al progetto d’azione. Il tema è cruciale, interessa direttamente il processo in esame e sarà ripreso più avanti.
51.7. La probabilità di verificazione dell’evento. Si è visto che la certezza o l’elevata probabilità dell’esito antigiuridico accreditano il dolo diretto. Ma, come si è già esposto, nei contesti della giurisprudenza il coefficiente probabilistico non è quasi mai misurabile. Si compiono valutazioni di massima. Allora, se è lecito riferirsi alla probabilità dell’evento come ad un indicatore significativo, un approccio sensato al problema induce senz’altro ad affermare che, quanto più ci si allontana dall’umana certezza sui sentieri incerti della probabilità, tanto più il giudice attento a cogliere le movenze dell’animo umano deve investigare profondamente lo scenario complessivo per scorgervi i segni di un atteggiamento riconducibile alla sfera del volere. Mai dimenticando che la probabilità non va considerata in astratto, ma sogguardata dal punto di vista dell’agente, della percezione che questi ne ha avuta.
51.8. Le conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento. Si tratta di un tema ricorrente nell’infortunistica stradale, che accredita fortemente l’ipotesi colposa. Tale indirizzo è stato ribaltato, come si è visto solo in situazioni estreme, in presenza di concrete emergenze che conducevano a ritenere che le motivazioni dell’elevata velocità e le peculiarità della condotta di guida implicavano l’accettazione dell’eventualità di subire conseguenze personali negative, dando così consistenza dolosa all’azione.
51.9. Il contesto lecito o illecito. Una situazione illecita di base indizia più gravemente il dolo, mentre un contesto lecito solitamente mostra un insieme di regole cautelari ed apre la plausibile prospettiva dell’errore commesso da un agente non disposto ad accettare fino in fondo conseguenze che lo collocano in uno stato di radicale antagonismo rispetto all’imperativo della legge, tipico del dolo. Naturalmente tale criterio, al pari del resto di tutti gli altri cui si è fatto riferimento, va utilizzato con cautela, ed in accordo con le altre emergenze del caso concreto. Qui si tratta, in particolare, di evitare che il giudizio sulla colpevolezza per il fatto concreto possa nascondere un giudizio sul tipo d’autore.
51.10. L’indagine indiziaria sul dolo eventuale va alla ricerca precipuamente dei tratti di scelta razionale che sottendono la condotta. Perciò, come si è ripetutamente enunciato, gli stati affettivi, emozionali, l’ottimismo, il pessimismo, sono in linea di principio assai poco influenti ed anzi, secondo molti, irrilevanti.
Se ne è discusso molto, come si è visto, anche in giurisprudenza, a proposito della speranza e del suo carattere ragionevole o irragionevole. Qui occorre intendersi. Senza dubbio l’ottimismo o il pessimismo, la rimozione, il chiudere gli occhi, gli stati affettivi in generale, non risolvono il problema del dolo eventuale. Non è tuttavia privo di interesse tentare di cogliere se e quale iter abbia condotto ad un atteggiamento fiducioso. Il caso (OMISSIS) è tipico. I genitori, oltre a non augurarsi per nulla la morte della figlia, avevano maturato la speranza che gli interventi autoritativi imponessero i trattamenti salvavita, evitando loro condotte ritenute peccaminose.
51.11. Il controfattuale alla stregua della prima formula di Frank. Resta da dire del più importante e discusso indicatore del dolo eventuale che si configura quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. Esso, come si è visto, è stato utilizzato dalle Sezioni Unite in tema di ricettazione ed è evocato in diverse pronunzie di legittimità.
Si è sopra esposto che l’autorevole dottrina che maggiormente ha rimarcato la necessità di cogliere il momento volitivo pure nel dolo eventuale ha ritenuto che tale strumento sia l’unico risolutivo.
L’enunciazione è per certi versi condivisibile, poichè tale giudizio controfattuale riconduce virtualmente l’atteggiamento dell’agente a quello proprio del dolo diretto e dunque riduce ma definisce nitidamente l’area occupata dalla figura soggettiva in esame. D’altra parte, alcune delle critiche mosse a tale approccio appaiono poco convincenti. In effetti si è in presenza di un giudizio ipotetico, ma ciò non è per nulla estraneo allo strumentario della scienza penalistica che, appunto, da valutazioni congetturali è pervasa. L’importante è che si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento illecito collaterale. Occorre però realisticamente prendere atto che tale situazione non sempre si verifica. In molte situazioni il dubbio rimane irrisolto. Vi sono casi in cui neppure l’interessato saprebbe rispondere ad una domanda del genere. Allora, guardando le cose con il consueto, sensato realismo della giurisprudenza, occorre ritenere che la formula in questione costituisca un indicatore importante ed anzi sostanzialmente risolutivo quando si abbia modo di esperire in modo affidabile e concludente il relativo controfattuale. L’accertamento del dolo eventuale, tuttavia, non può essere affidato solo a tale strumento euristico; ma deve avvalersi di tutti i possibili, alternativi strumenti d’indagine.
51.12. L’esposizione che precede indica solo alcuni degli indizi.
Il catalogo è aperto e ciascuna fattispecie concreta, analizzata profondamente, può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale. Va aggiunto che, come per tutte le valutazioni indiziarie, quanto più alta è la affidabilità, la coerenza e la consonanza dei segni tanto maggiore risulta la forza del finale giudizio. Anche qui l’indagine demandata al giudice richiede uno estremo, disinteressato sforzo di analisi e comprensione dei dettagli; un atteggiamento, cioè, immune dalla tentazione di farsi protagonista di scelte politico-criminali che non gli competono ed al contempo attivamente interessato alla comprensione dei fatti, anche quelli psichici, alieno dall’applicazione pigra di meccanismi presuntivi.
Non può certo nascondersi che un tale itinerario non è per nulla facile, non solo e non tanto per l’affinato talento critico che richiede, ma anche perchè spesso il materiale probatorio è povero, non consente quella completa lettura di scenario dalla quale soltanto può scaturire un persuasivo giudizio di colpevolezza per dolo eventuale. Tutto ciò deve indurre a speciale cautela. La figura di cui ci si occupa è peculiare, marginale, di difficile accertamento.
In conseguenza, in tutte le situazioni probatorie irrisolte alla stregua della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, occorre attenersi al principio di favore per l’imputato e rinunziare all’imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa, se prevista dalla legge.
Di certo, infine, il tema dell’accertamento del dolo eventuale mette in campo la figura del giudice. Questi potrà affrontare un’indagine tanto delicata e difficile come quella cui si è sin qui fatto cenno solo se abbia matura consapevolezza del proprio ruolo di professionista della decisione; e sia determinato a coltivare ed esercitare i talenti che tale ruolo richiedono: assiduo impegno a ricercare, con le parti, i fatti fin nei più minuti dettagli; e ad analizzarli, soprattutto, con un atteggiamento di disinteresse, cioè di purezza intellettuale che consenta di accogliere, accettare senza pregiudizi il senso delle cose; di rifuggire da interpretazioni precostituite, di maniera; di vagliare e ponderare tutte le acquisizioni con equanimità.
Uno sguardo alla giurisprudenza più recente, come si è accennato, consente di affermare che l’inflessione volontaristica del dolo eventuale è dominante nei casi più delicati; e che non manca, solitamente, una acuta attenzione a sceverare per quanto possibile gli atteggiamenti interni. Tale indirizzo deve essere valorizzato ed irrobustito; anche per contrastare ricorrenti tensioni verso forzature della realtà e del senso delle cose, per rendersi protagonisti di scelte criminologiche che trascendono la sfera giudiziaria. In ogni caso va ribadito, quale estrema garanzia del giudizio, che nei casi incerti il principio del favor rei dovrebbe sempre orientare a configurare la colpa cosciente, affinché non si disperda il tratto fondante del dolo, costituito dalla connessione tra l’atteggiamento interiore e l’evento.
SIAMO QUI

4. Colpa

Cass. IV 11 marzo 2010, P.G. in proc. Catalano

in sintesi
Nel caso di eventi o calamità naturali che si sviluppino progressivamente, il giudizio di prevedibilità dell’evento dannoso – necessario perché possa ritenersi integrato l’elemento soggettivo del reato sia nel caso di colpa generica che in quello di colpa specifica – va compiuto non solo tenendo conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi, ma valutando, anche sulla base di leggi scientifiche, la possibilità che questi eventi si presentino in futuro con dimensioni e caratteristiche più gravi o addirittura catastrofiche.
In mancanza di leggi scientifiche che consentano di conoscere preventivamente lo sviluppo di eventi naturali calamitosi, l’accertamento della prevedibilità dell’evento va compiuto in relazione alla verifica della concreta possibilità che un evento dannoso possa verificarsi e non secondo criteri di elevata credibilità razionale (che riguardano esclusivamente l’accertamento della causalità). Fattispecie in tema di responsabilità di un Sindaco per omicidio colposo plurimo, verificatosi a causa di un disastro naturale in zona qualificata dalla protezione civile ad “alto rischio” di frane e valanghe.

(omissis)

PARTE IV
L’elemento soggettivo del reato.

Sezione I
la violazione delle regole cautelari.

1. Premessa. Funzione delle regole cautelari.
La funzione delle regole cautelari è implicita nella stessa definizione. Si tratta di regole che hanno la funzione di evitare che, nell’esercizio di determinate attività che presentano margini di rischio, si producano effetti dannosi per le persone e per le cose.
Il presupposto perché si formi, nei modi che di seguito verranno indicati, una regola cautelare è dunque che sia astrattamente prevedibile che, dall’esercizio di una determinata attività umana, possa conseguire un effetto dannoso: per un’attività umana per la quale non sia prevedibile un effetto di questo genere (per es. la ricerca scientifica non di laboratorio) a nessuno verrà in mente di dettare regole cautelari per il suo svolgimento.
La prevedibilità delle conseguenze dannose è dunque il presupposto per la formazione della regola cautelare ma il suo contenuto è dettato in particolare da un altro principio, l’evitabilità del medesimo evento.
È inutile dettare regole cautelari se queste regole non sono idonee ad evitare gli effetti negativi dell’attività.
Qualora l’organizzazione sociale non intenda vietare lo svolgimento di un’attività utile alla collettività ma pericolosa (in questo caso la regola cautelare può essere costituita soltanto dall’obbligo dell’astensione) dovrà indirizzare la formazione della regola avendo di mira la necessità che la disciplina sia idonea ad evitare il verificarsi dell’evento.
Dunque la prevedibilità dell’evento dannoso rende necessaria la formazione della regola cautelare il cui contenuto è però dettato dalla sua idoneità a prevenire il suo verificarsi.
I criteri di formazione delle regole cautelari costituiscono una generalizzazione di quei criteri di prevedibilità ed evitabilità che sono rilevanti anche sotto il profilo soggettivo. La regola cautelare deve, necessariamente, avere carattere “modale”, deve cioè indicare con precisione le modalità e i mezzi ritenuti necessari ad evitare il verificarsi dell’evento (ovviamente la regola cautelare che impone l’astensione dall’attività pericolosa non ha carattere modale). Si è sottolineato in dottrina che, fermi restando i criteri di prevedibilità ed evitabilità, l’individuazione delle regole cautelari, dal punto di vista oggettivo, va fatta con riferimento alla “miglior scienza ed esperienza” come unico idoneo criterio: a individuare i comportamenti fonte di pericolo e le condotte idonee ad evitarle; a potenziare la funzione pedagogica delle regole cautelari; ad evitare di privilegiare i soggetti dotati di conoscenze superiori; a garantire maggiormente esigenze di tassatività; a ridurre il relativismo della condotta.
La violazione delle regole cautelari, che hanno sempre efficacia preventiva e natura strumentale – a differenza delle norme penali che hanno invece natura prescrittiva e funzione repressiva – non è esclusiva del reato colposo; il consenso sull’affermazione che, anche nei diritti dolosi, possa aversi violazione di regole cautelari (per es. nelle attività consentite solo in presenza di determinati presupposti; il medico che esegue un aborto clandestino è comunque tenuto a rispettare le regole dell’arte medica) è sostanzialmente unanime in dottrina.

2. Colpa generica e colpa specifica.
Le regole cautelari si distinguono principalmente per la loro fonte che può essere giuridica o sociale: la trasgressione delle regole della prima specie da origine alla colpa specifica che si realizza per la violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline, cioè per la violazione di norme generali e astratte (leggi e regolamenti) ovvero di disposizioni che non hanno queste caratteristiche di natura normativa (ordini e discipline) ma si fondano sul potere di un soggetto o di un organo, dotati di poteri di supremazia, di imporre regole per l’esercizio di determinate attività.
Se la fonte delle regole non osservate è di origine sociale si parla invece di colpa generica tradizionalmente configurabile nella negligenza (trascuratezza, mancanza di attenzione, disinteresse, mancata considerazione dei segnali di pericolo ecc); nell’imprudenza (avventatezza, scarsa ponderazione, sottovalutazione dei segnali dei pericolo ecc.) e nell’imperizia (l’aver agito senza la conoscenza o senza l’applicazione delle leges artis).
Non mancano però, in dottrina, gli inviti a non enfatizzare la distinzione tra le tre forme di colpa generica la cui funzione è solo quella di delimitare dall’esterno ciò che colpa non è.
È poi da ricordare che una regola specifica invalida (per es. l’incompetenza di chi l’ha emanata) non vale ad escludere la colpa quando la condotta sia comunque inosservante di una regola cautelare di natura generica.
In linea di massima, ma non è sempre così, le regole cautelari specifiche sono scritte a differenza di quelle generiche che sono il frutto di massime di esperienza non codificate; come è stato efficacemente affermato “le cautele di fonte sociale sono la cristallizzazione dell’esperienza collettiva in regole comportamentali”.
Il fondamento delle regole cautelari può essere di natura scientifica oppure soltanto riconducibile all’esperienza. È più frequente (ma non è sempre così) che quelle fondate su leggi scientifiche vengano normativizzate.
L’omogeneità tra le due forme di colpa è oggi generalmente riconosciuta ma non sempre la distinzione è chiara perché vi sono casi in cui la norma giuridica è generica e rimanda a regole sociali: l’esempio tipico è costituito dall’art. 140 C.d.S., comma 1 (che impone di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione).
Da ciò, come è stato affermato, “consegue che quanto più è indeterminata la regola, tanto più la colpa specifica scolora in quella generica.” In materia di sicurezza sul lavoro una norma di questo genere è l’art. 2087 cod. civ.
Di recente è stato sottolineata l’esistenza di un processo diretto alla creazione di regole cautelari specifiche che non discendono da una volontà normativa superiore ma “dall’attività regolativa privata” che può essere spontanea (per es. le linee guida nelle attività mediche) o obbligata (per es. la redazione del piano di sicurezza per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o l’adozione di modelli organizzativi e gestionali per l’esenzione dalla responsabilità dell’ente collettivo).
Questo processo è visto come realizzazione dell’esigenza di standardizzare il rischio nelle attività pericolose mediante la formulazione di programmi cautelari (cd. protocolli).

3. La natura normativa della colpa.
È noto che le più risalenti teorie fondavano la colpa su elementi psicologici (per es. la volontà negativa o incosciente) e a queste teorie si ispira anche il codice penale vigente dal momento che il titolo dell’art. 43 parla di “elemento psicologico del reato” anche se, per la colpa, la successiva definizione non tiene fede alla rubrica dando rilievo al solo fatto obiettivo della violazione della regola cautelare generica o specifica.
Oggi si è invece passati alla ormai pressoché generale accettazione della natura normativa della colpa nel senso che il fondamento della responsabilità a titolo di colpa è rinvenibile nella contrarietà della condotta a norme di comportamento di cui sono espressione le regole cautelari dirette a prevenire determinati eventi e nell’inosservanza del livello di diligenza oggettivamente dovuta ed esigibile.
Non deve più, dunque, farsi riferimento alla “rimproverabilità” della condotta perché fondata su una volontà inosservante o su una negligenza “inferiore” ma alla condotta obiettivamente tenuta in contrasto con regole che l’organizzazione sociale si è data – quando vengano svolte attività consentite che importino rischio di eventi dannosi – e senza che vengano in considerazione i processi psichici dell’agente (evidente è la differenza con il dolo che richiede invece proprio un’indagine sui processi psicologici, conoscitivi e volitivi, interiori).
Altrettanto superate sono le teorie che individuano il fondamento della colpa sulla mera inosservanza di un dovere di diligenza interiore, sulla mancanza di attenzione, sull’inerzia psichica, sul dovere di concentrazione: è stato infatti obiettato che, anche se attenta e concentrata, la condotta può risultare in concreto ugualmente scorretta e quindi colposa e, per converso, anche la condotta più disattenta può rivelarsi conforme alle regole di diligenza (con l’avvertenza che la diligenza di cui parliamo è quella interna, appunto di natura psicologica e non quella che si estrinseca nell’osservanza delle regole esterne di diligenza).
Si possono dunque condividere le conclusioni cui è pervenuta la dottrina moderna secondo cui la colpa, avendo un fondamento normativo e non psicologico, non esaurisce la sua collocazione teorica nell’ambito della colpevolezza ma attiene direttamente alla tipicità.
Sia che si tratti di colpa generica che di colpa specifica la responsabilità per colpa fa riferimento non ad un indefinito processo psicologico interiore ma ad un sistema normativo esterno, estraneo alla norma incriminatrice, i cui contorni peraltro (soprattutto nella colpa generica) non sono spesso esattamente definiti.

(omissis)

5. La motivazione della sentenza di appello sull’elemento soggettivo. La percezione della gravità dell’evento.
La visione riduttiva dell’ambito e dei limiti della posizione di garanzia del sindaco – ritenuta solo residuale – e l’esclusione di una situazione di urgenza che giustificava anche l’utilizzazione delle competenze asseritamente residuali ha ovviamente ristretto l’esame della Corte di merito sull’esistenza della violazione di regole cautelari da parte dell’imputato.
Ma anche nell’esame di questi aspetti la sentenza impugnata adotta criteri ermeneutici non condivisibili. In particolare laddove – esaminando le comunicazioni effettuate da BASILE alla prefettura prima dell’invio del fax delle ore 20,47 – la sentenza fa riferimento, per ritenere adempiuti gli obblighi di informazione, non a quanto il sindaco avrebbe dovuto conoscere ma a quanto conosceva. Significativi sono, nell’ottica indicata, alcuni passaggi della sentenza: “il Sindaco ha rappresentato fedelmente lo stato di cose constatato alle ore 17:30 in via Bracigliano, attenendosi, quindi, alla realtà dei fatti, quale da lui percepita”.
E più avanti: “la percezione del Basile è rimasta quella riferita al dott. Mattei fino alle 18:30-18,45, ossia fino al sopralluogo compiuto in viale Margherita e in via Milone in compagnia del Ten. Diodati; ed è mutata solo in quell’occasione, quando il Sindaco ebbe cognizione dell’esistenza di abitazioni invase o isolate dal fango, e prese conseguentemente coscienza dell’inidoneità dei mezzi a disposizione del Comune a fronteggiare il fenomeno”. I criteri adottati dalla Corte di merito (e dal giudice di primo grado) per accertare se la condotta dell’imputato si sia rifatto a corrette regola prevenzionali richiedono un accenno preliminare ai principi che regolano l’individuazione del modello di agente.

6. L’agente modello. In generale.
La motivazione riportata chiarisce che la sentenza impugnata fa riferimento ad una nozione di “agente modello” che non appare condivisibile.
Premesso che se la regola cautelare impone l’astensione dall’attività pericolosa non si pongono i problemi cui si farà cenno occorre domandarsi quale criterio è necessario adottare per valutare se l’agente, nel caso di colpa generica, si sia attenuto alle richieste regole di diligenza, prudenza e perizia o se, nel caso di colpa specifica, il livello di rispetto della regola cautelare normativamente prevista – soprattutto nei casi in cui esistano diversi livelli di osservanza della regola – si sia mantenuto nei limiti richiesti.
Questo problema in realtà riguarda – come si vedrà più avanti anche i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell’evento e anche quelli riguardanti l’evitabilità del medesimo;
nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza ecc. esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l’ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un’attività pericolosa) o dall’uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall’uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del cd. “agente modello” (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se pericolosa, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura “oggettiva” della colpa diversa dal concetto di misura “soggettiva” della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l’attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L’agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e “lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute … sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell’agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest’ultimo”.
Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d’avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto.
Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d’altro canto, non possono neppure essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l’esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.

6. L’agente modello nel caso in esame.
A questi criteri non si è attenuta la Corte di merito che non si è posta il problema dell’osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con l’osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie ma in relazione alla situazione concretamente percepita dal sindaco.
La tesi appare erronea perché agente modello è colui che adegua la propria condotta non a quanto di fatto percepisca ma a quanto avrebbe dovuto percepire utilizzando il grado di diligenza richiesto all’agente modello.
Il tema confina con quello della prevedibilità ma presenta aspetti peculiari che possono essere brevemente esaminati.
L’agente modello, nella situazione data, non deve limitarsi ad un esame degli elementi che appaiono certi alla sua percezione ma deve anche ipotizzare (ovviamente nei limiti della prevedibilità) l’esistenza di situazioni non direttamente e immediatamente percepibili ma la cui esistenza non possa essere esclusa nella situazione contingente con una condotta di previsione esigibile dall’agente modello.
Insomma il dato di riferimento dell’agente modello – al fine dell’adeguamento della sua condotta all’osservanza delle regole cautelari applicabili nella specie – non è il percepito ma il percepibile con l’osservanza del livello di diligenza richiesto per il medesimo agente.

Sezione II
la prevedibilità dell’evento.

(omissis)

2. La prevedibilità dell’evento. In generale.
La prevedibilità dell’evento riguarda l’elemento soggettivo del reato (la colpevolezza) e va accertata con criteri ex ante non potendo essere addebitato all’agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere.
In questa accezione la prevedibilità dell’evento è certamente riferibile all’elemento soggettivo, la colpa, perché attiene al processo cognitivo dell’agente (ma non nel senso meramente psicologico, come si è già precisato) che è tenuto a prendere preventivamente in considerazione le conseguenze della sua condotta.
Naturalmente, da questo angolo visuale, l’agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva – o era tenuto a conoscere – in base alla sua professione e alla sua condizione (eiusdem condicionis et professionis): l’agente modello di cui si è già parlato.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva.
Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall’agente, pur con l’adozione delle necessarie cautele, è evidente che il risultato non può essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza.
Perché l’agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare (non è cioè sufficiente il versari in re illicita) ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell’evento.
Se dunque quella conseguenza dell’azione non è stata prevista perché non era prevedibile non v’è responsabilità per colpa (non tenetur etiam pro casu).
Detto in parole povere: il “senno di poi” non può avere ingresso nella responsabilità penale.
Non bisogna però confondere il giudizio di prevedibilità con quello relativo alla scarsa probabilità che un evento si produca in conseguenza di un determinato fattore causale perché anche eventi rarissimi riconducibili a determinate condotte sono generalmente conosciuti o conoscibili o comunque conosciuti nella cerchia degli esperti e quindi prevedibili. Si pensi al contagio di Hiv – che si verifica in una percentuale minima di rapporti sessuali ma è ormai di comune conoscibilità – o alle reazioni allergiche alle sostanze utilizzate per l’anestesia: in questi e in casi consimili non può certo affermarsi l’imprevedibilità dell’evento malgrado le percentuali di eventi dannosi siano assai limitate.

3. Criteri per verificare l’esistenza della prevedibilità.
Ma qual’è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) sotto il profilo soggettivo?
È evidente che se si adottasse un criterio che fa riferimento all’agente concreto si ricadrebbe negli orientamenti che riferiscono la colpa all’elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità facendo riferimento al criterio, di cui abbiamo già parlato, del cd. “agente modello”, l’homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto avviene per l’individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari.
Essendo indiscusso che la valutazione relativa alla prevedibilità, sotto il profilo soggettivo, va fatta con criterio ex ante rimane però da decidere quale sia il momento cui occorre fare riferimento per poter pretendere che l’agente riconoscesse i rischi della sua attività e i potenziali sviluppi lesivi. Naturalmente non vanno presi in considerazione i successivi progressi della conoscenza mentre si deve tener conto di eventuali conoscenze superiori dell’agente.
V è anche un aspetto particolare sulla prevedibilità che riguarda la sicurezza sul lavoro: dopo il recepimento (a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626) della direttiva Ce 89/391, che impone all’imprenditore di effettuare una valutazione dei rischi – e quindi di prevederli – la colpa dell’imprenditore va ravvisata se un’adeguata valutazione dei rischi avrebbe rivelato la situazione di pericolo.
Questi principi, come si è già accennato, sono stati applicati anche alla protezione civile.
Con l’ingresso delle attività di previsione delle varie ipotesi di rischio nelle attività di protezione civile l’obbligo di prevedere i rischi è entrato a pieno titolo tra i compiti delle pubbliche amministrazioni alle quali sono attribuiti compiti in materia di protezione civile. Ne sono espressione i compiti di previsione attribuiti agli organi centrali della protezione civile previsti dalla L. n. 225 del 1992, artt. 4, 8 e 9 nonché, per quanto riguarda enti locali ed organi decentrati delle amministrazioni centrali, i compiti di previsione attribuiti alle regioni (art. 12, comma 2) e al prefetto (art. 14, comma 1).
Ai comuni questa attività di previsione verrà espressamente attribuita dalla legge dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, art. 108, lett. c), n. 1 ma già la direttiva Barberi aveva previsto, tra le attività preparatorie, compiti di previsione degli eventi disastrosi.
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell’obbligo di diligenza altrimenti astratto.
Si è detto che “basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell’obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza”.
Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l’agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso.
La dottrina è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all’agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.

4. L’evoluzione della giurisprudenza sul tema della prevedibilità.
La dottrina è da tempo pervenuta alle conclusioni indicate sul tema della prevedibilità mentre, in giurisprudenza, queste conclusioni sono di più recente acquisizione.
Un risalente orientamento, anche di legittimità, escludeva infatti che la prevedibilità costituisse elemento necessario per configurare la responsabilità per colpa e affermava che nella colpa (in particolare nella colpa specifica) la previsione dell’evento viene già compiuta con la formazione della regola cautelare per cui, nel concreto accertamento della colpa, il giudice deve soltanto accertare la violazione della regola cautelare e non anche la prevedibilità dell’evento (si vedano in questo senso le sentenze Cass., sez. IV, 15 ottobre 1997 n. 10333, Pretto, rv. 209067; 25 settembre 1990 n. 14434, Severino, rv. 185674; 1 dicembre 1989 n. 1501, Iannuzzi, rv. 183204; 20 gennaio 1986 n. 5288, Ghirardello, rv. 173057; 18 febbraio 1982 n. 5512, Manassero, rv. 154060).
In altre decisioni si precisava invece che il requisito della prevedibilità riguardava i casi di colpa generica ma non era richiesto per la colpa specifica (v. Cass., sez. IV, 27 febbraio 1987 n. 7130, Brizzi, rv. 176137; 16 ottobre 1984 n. 318, Serione, rv. 167350).
È evidente come questa giurisprudenza, più che errata, fosse elusiva del problema della prevedibilità. È infatti vero che quando viene dettata una regola cautelare si formalizza un giudizio di prevedibilità di un evento dannoso; ma il problema da risolvere è proprio quello di individuare se l’evento in concreto verificatosi fosse ricompreso tra quelli che, nella redazione della regola cautelare, si volevano evitare.
Non può quindi esservi dubbio che, anche per la colpa specifica, si pone il problema di verificare se l’evento verificatosi fosse prevedibile. E anche la giurisprudenza della Corte di cassazione si è adeguata a questi principi (Cons. Cass., sez. IV, 22 novembre 1996 n. 2147, Marconi, rv. 207573; 28 aprile 1994 n. 11007, Archilei, rv. 200387; 1 luglio 1992 n. 1345, Boano, rv. 193035. Nella giurisprudenza di merito v., tra le altre, Trib. Foggia 10 maggio 2000, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1592).
Va semmai verificato, anche alla luce di orientamento giurisprudenziale di legittimità (v. Cass., sez. IV, 20 aprile 2005 n. 11351, Stasi e Bucci, rv. 233656-8; 6 luglio 2007 n. 37606, Rinaldi, rv. 237050) se la norma cautelare violata abbia contenuto “rigido” o “elastico”, cioè se il comportamento richiesto sia dalla medesima delineato con assoluta precisione ovvero se abbisogni, per poter essere applicata, di un legame più o meno profondo con le circostanze del caso concreto.
Nel primo caso (norma “rigida”), secondo questo orientamento, il giudizio di prevedibilità ed evitabilità è già intrinseco nella norma e l’agente non ha altra alternativa che quella di adeguarvisi.

5. Quale evento può essere ritenuto prevedibile?
Il problema di maggior complessità da risolvere è quello dell’individuazione dei criteri da utilizzare per verificare se un evento causalmente riconducibile alla violazione di una regola cautelare fosse prevedibile: in particolare se la prevedibilità debba riguardare lo specifico evento realizzatosi – ovvero una categoria di eventi riconducibili alla medesima causa – e quale grado di specificità sia richiesto nell’individuazione degli eventi.
La giurisprudenza di legittimità su questo punto è univoca; si è da tempo affermato (da Cass., sez. 4^, sentenza 6 dicembre 1990 n. 4793, Bonetti, rv. 191788-805 relativa al disastro di Stava) che “ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione.” Queste conclusioni sono state ribadite dalla successiva giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sez. 4^, 31 ottobre 1991 n. 5919, Rezza, rv. 191809; 30 marzo 2000 n. 5037, Camposano, rv. 219423-8).
L’approfondimento di questo importante aspetto attinente al tema della prevedibilità richiede però il preventivo esame di altri problemi, in parte coincì denti o sovrapponibili, la cui soluzione sarà utile per risolvere i problemi riguardanti la fondatezza o meno delle censure riguardanti l’elemento soggettivo contenute nei ricorsi.

6. Prevedibilità e leggi scientifiche.
Si è visto che, anche per la verifica dell’esistenza della prevedibilità dell’evento, occorre rifarsi al criterio dell’agente modello.
Agente modello che dovrà utilizzare (oltre alle regole d’esperienza convalidate dall’uso) le pertinenti leggi scientifiche utili a questo fine, ove esistano.
Ma ben diverso è il ruolo delle leggi scientifiche nell’accertamento della colpa e della causalità.
Per l’accertamento della colpa le leggi scientifiche devono essere utilizzate ai fini della prevedibilità di un evento con una valutazione ex ante che rende (o dovrebbe rendere) riconoscibile all’agente il pericolo del verificarsi di un evento dannoso con la conseguenza del sorgere dell’obbligo di astensione o di osservare determinate regole cautelari.
Per l’accertamento della causalità la legge scientifica potrà e dovrà invece essere utilizzata, anche con valutazione ex post (che potrà tener conto anche delle leggi scientifiche formulate dopo la verificazione dell’evento; ciò che è inammissibile ai fini della colpa) diretta a ricostruire l’evento già verificatosi e a confermare, o escludere, l’addebito oggettivo a carico dell’agente.
Si è detto che questa differenziazione tra le regole di accertamento della colpa e della causalità deriva dalla circostanza che la causalità è una legge descrittiva non deontica e quindi rileva come regola di giudizio non di condotta.
Ma mentre l’accertamento della causalità va compiuto in termini di “elevata credibilità razionale” – nel senso che l’ipotesi scientifica deve avere un elevato grado di conferma e le ipotesi alternative debbono essere ragionevolmente escluse (cfr. Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, rv. 222138-9) – nel giudizio predittivo ex ante, ai fini della colpa, la legge scientifica (così come le regole di esperienza) vale a rendere concreto il giudizio di prevedibilità che va ancorato non all’elevata credibilità razionale che l’evento, in presenza di una certa condotta, si verifichi ma alla possibilità (concreta e non ipotetica) che la condotta possa determinare l’evento.
Per esemplificare: se in sede scientifica si discute se un medicinale provochi gravi effetti secondari è in colpa il medico che lo prescriva, in mancanza di necessità, pur esistendo farmaci innocui con uguali effetti terapeutici se il raro evento secondario di cui si discuteva si verifichi in concreto.
Se in una fabbrica si accerta empiricamente che gli addetti ad un certo reparto vengono colpiti da una determinata patologia l’obbligo cautelare impone di adottare le cautele necessarie per evitare il ripetersi degli episodi anche prima che ne venga scientificamente accertata la causa.
Il giudizio sulla colpa non va quindi ancorato all’elevata credibilità razionale (in buona sostanza: ad un elevato grado di probabilità) che quell’evento si produca ma alla concreta possibilità che ciò avvenga.
In ogni caso l’efficacia delle leggi scientifiche – non diversamente da quelle fondate su regole d’esperienza – non sarà mai diretta e immediata ma dovrà essere filtrata attraverso la regola cautelare.
Come è stato affermato “il fine di tutela non può essere desunto direttamente dalle leggi scientifiche e di esperienza che pure convalidano l’efficacia preventiva della norma cautelare, dovendosi l’interprete attenere ai termini in cui esse vengono filtrate dalla fonte di produzione della regola. Diversamente opinando, infatti, si finirebbe per vanificare – anche per quanto riguarda gli effetti che ne discendono sul piano della tipicità penale – la specifica funzione delle regole cautelari giuridiche, che è quella di imporre una determinata cautela standardizzata, escludendo al contempo la possibilità di un diverso – e anche più efficace – trattamento del rischio”.
Naturalmente come è possibile accertare l’esistenza del rapporto di causalità anche in base a generalizzate regole di esperienza, e in mancanza di leggi scientifiche di conferma, a maggior ragione l’accertamento della prevedibilità dell’evento sotto il profilo soggettivo potrà prescindere dall’esistenza di leggi scientifiche.
Una diversa ricostruzione costituirebbe un’indebita trasposizione delle regole che governano l’accertamento della causalità al tema della colpevolezza.
In tema di causalità si tratta di addebitare oggettivamente un evento dannoso alla condotta dell’agente, di accertare quindi se il fatto è “suo” (per es. se quella morte è stata da lui provocata con la sua condotta inosservante); è ovvio che le regole processuali di un paese che si ispira ai principi della democrazia liberale debbano richiedere, sul piano probatorio, quell’elevato grado di probabilità – in cui si esprimono le regole dell’elevato grado di credibilità razionale e dell’oltre il ragionevole dubbio – che possa consentire di addebitare ad un soggetto un evento.
Ma le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno natura non di verifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo ma funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele anche se è dubbio che la mancata adozione provochi eventi dannosi.
La trasposizione e l’utilizzazione all’accertamento della colpa dei criteri utilizzati per l’accertamento della causalità comporterebbe, in tema di prevenzione di rischi ed in particolare di quelli alla salute, che sarebbe esigibile l’adozione delle regole cautelari (anche di quelle già previste dalla legge) solo dopo che fosse stato accertato, in termini di elevata credibilità razionale (secondo i criteri indicati nella già citata sentenza Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, in tema di causalità) che alla mancata adozione di regole di cautela consegua un determinato effetto dannoso.
Ma questa operazione ermeneutica avrebbe come ovvio risultato quello di porre nel nulla la natura preventiva delle regole cautelari dirette ad evitare il verificarsi di eventi dannosi anche se scientificamente non certi (purché non solo congetturali) ed anche se non preventivamente e specificamente individuati.
È dunque da ritenere obbligata la conclusione che (a differenza dell’addebito oggettivo per il quale, sotto il profilo della causalità, è necessario accertare che l’evento non si sarebbe verificato con elevato grado di credibilità razionale se fosse stata posta in essere la condotta richiesta) ben inferiore è la soglia che impone l’adozione della regola cautelare.
Come è stato affermato in dottrina “il principio di colpevolezza sembra rispettato nella misura in cui il soggetto, al momento della condotta, possa seriamente rappresentarsi la rischiosità del suo agire o del suo omettere rispetto a determinati eventi, corrispondenti a quelli poi verificatisi, anche laddove sulla pericolosità della condotta non vi sia, ex ante, pieno consenso della comunità scientifica”.
E il medesimo Autore sottolinea altresì l’importanza dei signa facti quanto alla necessità di adozione di determinate cautele facendo l’esempio dell’aumento delle dermatiti in lavoratori che maneggino determinate sostanze: aumento che genera anzitutto, prima che ne venga accertata scientificamente l’origine, l’obbligo di far utilizzare i guanti protettivi.
A non diverse conclusioni rispetto a quelle derivanti dall’esperienza empirica deve pervenirsi nei casi in cui ci si trovi in presenza dei primi approfondimenti scientifici o di studi epidemiologici ancora incompleti o di esperimenti condotti su animali.
A meno che i primi esiti siano idonei ad escludere l’ipotesi causale – o esistano ragioni plausibili per escludere l’applicabilità all’uomo dell’esperimento condotto su animali – sorge, o persiste, l’obbligo dell’adozione delle cautele necessarie per evitare il prodursi degli eventi dannosi che, di volta in volta, potranno individuarsi nell’adozione di più rigorose cautele (per es. la riduzione dei livelli di esposizione), nell’innovazione degli impianti concretamente ritenuta esigibile o, addirittura, nella sospensione dell’attività quando, per es., non sia individuabile una soglia di dannosità e il rischio sia troppo rilevante.
Né può affermarsi che questa costruzione finisca per confondere il tema della colpa con il principio di precauzione che si differenzia significativamente.
Il principio di precauzione è invocato correttamente nei casi (gli esempi sono noti: le onde elettromagnetiche, la telefonia cellulare, gli organismi geneticamente modificati) per i quali si è rimasti a livello del sospetto che, in presenza di certi presupposti, possano verificarsi effetti negativi in particolare sulla salute dell’uomo.
Ben diversi sono i casi di effetti nocivi provocati da sostanze per le quali sono già conosciuti effetti lesivi importanti o per i quali è stata verificata concretamente l’attitudine lesiva anche se non è stato ancora spiegato il meccanismo causale; casi nei quali non ha dunque senso invocare il principio di precauzione.

(omissis)

Sezione III
comportamento alternativo lecito ed evitabilità dell’evento.

1. Il comportamento alternativo lecito.
Si è già accennato come non sia sufficiente che l’agente abbia violato la regola cautelare, che questa violazione abbia cagionato l’evento e che quel tipo di eventi fosse ricompreso nella previsione della norma cautelare. È necessario che venga individuata anche la condotta (“comportamento alternativo lecito”; ma in dottrina vi è chi preferisce denominarlo “comportamento alternativo diligente”) che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento; l’evento dunque non solo deve essere prevedibile ma altresì evitabile o prevenibile.
È chiaro che il problema di individuare il comportamento alternativo lecito non si pone quando la regola cautelare imponga di astenersi da una determinata attività: in questo caso il comportamento alternativo lecito è costituito dalla mera omissione della condotta vietata.
Il comportamento alternativo lecito non costituisce una mera condotta osservante delle regole cautelari (contrapposta alla condotta inosservante delle medesime regole) ma una condotta che, se posta in essere, sarebbe stata idonea ad evitare l’evento: se l’automobilista percorre la sua corsia di marcia e si avvede che altro automobilista percorre in senso inverso la sua corsia non è sufficiente che adotti una condotta osservante – per es. fermarsi – ma è necessario che adotti quella che, in quella situazione, gli consente di evitare l’urto tra i due veicoli (per es. invadere l’altra corsia se libera).
Come si è già accennato è dunque l’evitabilità dell’evento, ancor più della sua prevedibilità (che ne costituisce il presupposto), che indirizza la formazione della regola cautelare secondo criteri sociali o giuridici; se esiste il pericolo o il rischio di un evento che può essere immaginato la regola cautelare sarà formulata in relazione a questo rischio ma la sua concreta definizione non potrà che avvenire in base alla concreta possibilità che questa regola, se osservata, sia idonea ad evitare l’evento.
Va segnalato che, secondo un’opinione dottrinale, la verifica se il rispetto della regola cautelare avrebbe di fatto impedito il verificarsi dell’evento “coincide totalmente, nell’ambito della responsabilità omissiva, con quella relativa al nesso causale tra omissione ed evento” mentre l’accertamento avrebbe una sua autonomia nel caso della causalità commissiva.
Ma questa tesi non sembra condivisibile.
Sotto il profilo causale il giudice deve accertare se quell’omissione ha avuto efficienza causale nel cagionare l’evento; se questo accertamento ha esito positivo (il medico non è intervenuto per suturare la ferita dell’infortunato) occorre poi verificare se l’agente poteva porre in essere la condotta salvifica.
Il primo aspetto riguarda la causalità; il secondo l’elemento soggettivo perché l’intervento omesso poteva non essere esigibile dal medico (per es. perché non disponeva dei mezzi necessari per l’intervento).

2. L’evitabilità dell’evento.
La evitabilità o prevenibilità dell’evento viene comunemente riferita all’elemento soggettivo del reato. Si dice: non può essere ritenuto in colpa chi abbia violato regole di cautela astrattamente idonee ad impedire il verificarsi di un evento se questo evento era comunque destinato a prodursi. Non è dunque sufficiente che l’evento sia stato cagionato da una condotta colposa ma è necessario accertare quale diversa condotta, rispettosa delle regole cautelari, sarebbe stata idonea ad impedire il verificarsi dell’evento. In realtà l’evitabilità riguarda sia l’elemento oggettivo del reato – l’evento appunto – sia l’aspetto soggettivo di esso.
Sotto il primo profilo (quello oggettivo) deve osservarsi che se, con valutazione ex post, si verifica che l’evento – anche per l’esistenza di caratteristiche del caso non conoscibili in precedenza – non era comunque evitabile, anche se fosse stata posta in essere una condotta esente da colpa, vuoi dire che la condotta colposa non ha avuto efficacia causale (nel senso che difetta la causalità della colpa) perché l’evento era oggettivamente inevitabile e quindi l’esonero da responsabilità si verifica indipendentemente dai processi conoscitivi e volitivi dell’agente e dal loro contenuto (è infatti irrilevante che l’agente conoscesse che l’evento era inevitabile) così come è privo di rilievo che l’inevitabilità dell’evento fosse conoscibile prima o dopo che si è verificato.
Trattasi dunque di prevedibilità in concreto.
L’addebito dell’evento sotto il profilo soggettivo va invece compiuto con criteri di accertamento dell’evitabilità ex ante.
La prevenibilità che riguarda l’elemento soggettivo è la prevenibilità in astratto: se si accerta, con valutazione ex ante, che il comportamento alternativo lecito richiesto all’agente modello non era astrattamente idoneo ad evitare il verificarsi dell’evento l’agente non è in colpa anche se poi, in concreto, si verifichi questa idoneità.
Queste diverse prospettive di valutazione della prevenibilità erano state già lucidamente individuate in dottrina con l’affermazione che la prevenibilità “serve ad individuare……quali sono i comportamenti che occorre omettere o tenere, perché idonei ad evitare un danno, non ad escludere la colpa ove si provi che un certo evento si sarebbe verificato anche se fossero state osservate le regole di diligenza, prudenza, ecc. L’indagine relativa all’evitabilità, in concreto, dell’evento, attiene all’accertamento del rapporto causale e precede, quindi, il momento soggettivo”.
La prevenibilità sotto il profilo soggettivo implica una valutazione che deve essere compiuta ex ante dall’agente che deve condurla secondo il criterio dell’agente modello al fine di avere contezza se la sua condotta sarà idonea ad evitare che l’evento si verifichi.
L’agente potrebbe infatti essere erroneamente convinto che il suo intervento sia inutile e in questo caso verserà in colpa se l’errore è colpevole.
Se invece questo convincimento si rivelasse incolpevole verrebbe meno l’obbligo di intervenire con il rispetto delle regole cautelari (per es. il medico del pronto soccorso viene erroneamente informato da altro medico che il paziente, contrariamente al vero, è deceduto e non interviene cagionando la morte effettiva del paziente: l’evento era evitabile ma non può essere soggettivamente a lui addebitato perché non gli è soggettivamente addebitabile l’evitabilità).
L’agente deve infatti prevedere le conseguenze della sua condotta inosservante ma se, incolpevolmente, non agisce perché ritiene che la sua condotta non avrebbe comunque evitato il verificarsi dell’evento la sua condotta inosservante non potrà essere sanzionata perché nel suo processo cognitivo la falsa rappresentazione sull’evitabilità non è a lui soggettivamente addebitabile.

3. Evento diverso, cagionato da diverso processo causale o realizzato in tempi diversi.
Non bisogna però confondere i casi nei quali l’osservanza della regola cautelare non sarebbe stata comunque idonea ad evitare il verificarsi di “quello” specifico evento (per es. il chirurgo esegue impropriamente un intervento chirurgico che comunque non avrebbe potuto salvare la vita del paziente) dai casi nei quali l’evento finale non era evitabile ma, in concreto, è stato cagionato da una diversa causa (nell’esempio del chirurgo si può fare l’ipotesi in cui l’agente tagli inavvertitamente un vaso provocando la morte del paziente che comunque non era evitabile per la gravità della malattia; si pensi ancora al caso della errata somministrazione di una medicina con esito mortale quando la morte comunque sarebbe conseguita alla somministrazione del farmaco prescritto per la incolpevolmente non conosciuta intolleranza del paziente).
In questo secondo caso – che riguarda l’evitabilità sotto il profilo della causalità – il problema presenta aspetti che devono essere valutati diversamente perché in realtà la morte del paziente è stata provocata in esito ad un processo causale diverso da quello che l’avrebbe comunque provocata (nei reati dolosi un caso equiparabile è quello di chi spara al condannato a morte nel momento in cui il boia sta operando per provocarne la morte).
Un conto è eseguire impropriamente un intervento chirurgico che non avrebbe comunque potuto avere esito favorevole (per es. il chirurgo non riesce ad arrestare un’emorragia conseguente all’intervento); un conto è provocare la morte per una diversa causa (per es. somministrando una dose eccessiva di anestetico).
Insomma anche chi è destinato a morire ha diritto alla tutela della sua vita; potrà andare esente da colpa chi non si attiva sufficientemente o adeguatamente nell’impossibile risultato di salvare la vita del paziente non chi gliela toglie in esito ad una condotta che pone in essere un processo causale diverso.
Naturalmente queste considerazioni non riguardano i casi in cui l’inosservanza delle regole cautelari ha provocato un evento diverso e più grave ovvero un anticipato (in misura non irrilevante) verificarsi dell’evento: in questo caso l’evento è diverso e la sua maggior gravità (o la sua anticipazione) realizza, se colpevole, gli elementi costitutivi del reato.
Questo tema riguarda la causalità ma, per la stretta attinenza al tema che stiamo trattando, deve comunque osservarsi che il rapporto causale, sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, va riferito non solo al verificarsi dell’evento prodottosi ma anche in relazione alla natura e ai tempi dell’offesa e dunque deve essere riconosciuto non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani.

4. Evitabilità e regole cautelari inidonee.
Tornando all’esame del problema dell’evitabilità sotto il profilo soggettivo va osservato che, nei casi nei quali si accerti che l’evento non era prevenibile anche se fossero state osservate le regole cautelari pertinenti, deve comunque procedersi all’accertamento se non esista una diversa regola cautelare la cui inosservanza abbia avuto efficienza causale sul verificarsi dell’evento (per es. nel caso di somministrazione del farmaco l’obbligo di utilizzare idonei metodi diagnostici per accertare preventivamente l’esistenza dell’intolleranza).
Va ancora rilevato che, sotto il profilo soggettivo, è da escludere la colpa se la condotta sicuramente causale sia stata osservante delle regole cautelari ritenute idonee (o addirittura normativamente prescritte) all’epoca della condotta medesima anche se, successivamente, sia stata accertata la loro inidoneità a meno che tale inidoneità non fosse conosciuta o conoscibile al momento della condotta.
Analogamente, quando l’agente abbia optato, in una situazione di emergenza, tra uno dei comportamenti alternativi consentiti – in una situazione nella quale non esistevano elementi conoscitivi per operare la scelta maggiormente idonea, tra le condotte ipotizzabili, ad evitare l’evento – andrà esente da colpa se, successivamente, l’alternativa prescelta si sia rivelata produttiva di danno.
Attiene alla causalità, e non alla colpa – e quindi è sufficiente un semplice accenno – il problema relativo al livello di conferma dell’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito quando la condotta sia stata sicuramente causale per il quale una corrente dottrinale afferma la sufficienza dell’aumento del rischio o quanto meno la correttezza di un accertamento meramente probabilistico.
(omissis)

Colpa medica

Cass. IV, 29 gennaio 2013 n. 16237

In tema di responsabilità medica, l’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189 esclude la rilevanza della colpa lieve a quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica.
(Nella specie, la S.C. ha osservato che la norma ha dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo ristretto l’area del penalmente rilevante individuata da questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due sottofattispecie, una che conserva natura penale e l’altra divenuta penalmente irrilevante).

Motivi della decisione

1. Il Tribunale di X ha affermato la responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di L.A.
La sentenza è stata riformata dalla Corte d’appello solo per ciò che attiene alla pena, essendosi sostituita la sanzione detentiva con quella pecuniaria.
L’imputazione attiene all’esecuzione, in una clinica privata, di intervento di ernia discale recidivante, nel corso del quale venivano lese la vena e l’arteria iliaca. L’imputato, esecutore dell’atto chirurgico, disponeva il ricovero presso nosocomio attrezzato per un urgente intervento vascolare riparatorio, ma senza esito giacché, nonostante la tempestiva operazione in laparotomia, la paziente veniva meno a seguito della grave emorragia.
Il Tribunale ha affermato la responsabilità in relazione alla condotta commissiva afferente all’erronea esecuzione dell’intervento di ernia discale. Si assume che sia stata violata la regola precauzionale, enunciata in letteratura, di non agire in profondità superiore a 3 centimetri; e di non procedere ad una pulizia radicale del disco erniario, per evitare la complicanza connessa alla lesione dei vasi che corrono nella zona dell’intervento.
È stata invece espressamente esclusa l’esistenza degli altri contestati o ipotizzati profili di colpa, afferenti alla mancata esecuzione di un intervento in laparotomia per suturare il vaso lesionato; ed alla mancata predisposizione di equipe chirurgica e di attrezzatura idonea, al fine di fronteggiare eventuali complicanze del genere di quella verificatasi.
Tale valutazione è stata condivisa dalla Corte d’appello per ciò che attiene al profilo di colpa commissiva. La stessa Corte ha peraltro ritenuto che il sanitario sia in colpa anche per non aver preventivato la complicanza e per non aver organizzato l’esecuzione dell’intervento in una clinica attrezzata per far fronte alla possibile lesione di vasi sanguigni.

2. Ricorre per cassazione l’imputato deducendo diversi motivi.
… omissis

2.6 Infine, con motivo nuovo si è esposto che, per effetto dell’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, è stata operata una parziale abolizione della fattispecie di omicidio colposo, essendo stata esclusa la rilevanza della colpa lieve nel caso in cui il sanitario si attenga alle linee guida ed alle buone pratiche terapeutiche. Il caso oggetto del processo, d’altra parte, riconduce alla nuova disciplina. Si tratta di stabilire se esista una buona pratica chirurgica che imponga di non introdurre l’ago a non più di 3 centimetri e se, con riguardo alle accreditate linee guida, vi sia colpa non lieve.

3. Il ricorso è fondato alla luce del motivo nuovo (p.2.6).
… omissis
4. Come si è accennato, correttamente il motivo nuovo chiama in causa l’innovazione introdotta con l’art. 3 della Legge 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189.
La nuova normativa prevede che l’esercente una professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
L’innovazione è pertinente al caso in esame poiché, come esposto nella sentenza impugnata, larga parte della discussione sulla colpa si è incentrata proprio sull’esistenza e sul contenuto di linee guida in ordine all’esecuzione dell’intervento in questione, nonché sulla loro osservanza da parte del C. .
La portata della riforma
Si tratta, allora, di comprendere quale sia la portata della riforma e quali ne siano gli effetti nel caso concreto.
Non può essere del tutto condiviso il pur argomentato punto di vista del Procuratore generale requirente, che ha rimarcato le imperfezioni, le incongruenze nonché l’apparente contraddittorietà della legge.
Si è considerato che non è facile comprendere come possa configurarsi colpa nel caso in cui vi sia stata l’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche terapeutiche; e se ne è desunto che si è in presenza di una novità di modesto rilievo.
Non vi è dubbio che l’intervento normativo, se sottoposto a critica serrata, mostrerebbe molti aspetti critici.
Si è in effetti in presenza, per quel che qui interessa, di una disciplina in più punti laconica, incompleta; che non corrisponde appieno alle istanze maturate nell’ambito del lungo dibattito dottrinale e della vivace, tormentata giurisprudenza in tema di responsabilità medica.
È mancata l’occasione per una disciplina compiuta della relazione terapeutica e delle sue patologie. Tuttavia, piuttosto che attardarsi nelle censure, conviene tentare, costruttivamente, di cogliere e valorizzare il senso delle innovazioni.

Le due novità
Orbene, già ad una prima lettura risulta chiaro che due sono i tratti di nuova emersione.
Da un lato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell’ambito della disciplina penale dell’imputazione soggettiva.
Dall’altro, la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico.
Si tratta di novità di non poco conto.
La colpa penale, sia pure in un contesto limitato, assume ora una duplice configurazione.
E d’altra parte viene abbozzato, in ambito applicativo, un indirizzo sia per il terapeuta che per il giudice, nel segno della documentata aderenza al più accreditato sapere scientifico e tecnologico.
Come si è accennato, tali nuovi tratti della disciplina legale non nascono dal nulla.
Al contrario, essi germinano sul terreno di controverse letture della colpa professionale, maturate sia in ambito teorico che giurisprudenziale.
Non meno importante, poi, è la temperie di politica del diritto che sta sullo sfondo: le istanze difensive della professione, le attese delle vittime, i problemi afferenti all’allocazione dei costi, il contemperamento tra esigenze terapeutiche e limitatezza dei bilanci pubblici.
Ne discende che, pur volendo porre le cose nel modo più semplice e breve, rifuggendo da inutili complicazioni, il senso della nuova disciplina sfuggirebbe se essa non fosse collocata in una prospettiva storica, particolarmente per ciò che attiene allo sviluppo della giurisprudenza in tema di colpa dell’esercente le professioni sanitarie.
Tale pur sommaria analisi è funzionale alla complessiva lettura del sistema, alla comprensione dell’esatta portata della riforma ed all’armonizzazione del nuovo con il preesistente.
5. La storia della responsabilità medica appare complessa, sfumata e ricca di insegnamenti.

La colpa grave
Essa costituisce, tra l’altro, il topos per lo studio della colpa grave ora normativamente introdotta nell’ordinamento penale.
La più antica giurisprudenza di legittimità in tema di colpa nell’esercizio della professione medica si caratterizza per la particolare larghezza: si afferma che la responsabilità penale può configurarsi solo nei casi di colpa grave e cioè di macroscopica violazione delle più elementari regole dell’arte.
Nelle pronunzie risalenti si legge che la malattia può manifestarsi talvolta in modo non chiaro, con sintomi equivoci che possono determinare un errore di apprezzamento, e che sovente non esistono criteri diagnostici e di cura sicuri.
La colpa grave rilevante nell’ambito della professione medica si riscontra nell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria.
Dovendo la colpa del medico essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione, sia perché la scienza medica non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, sia perché nell’arte medica l’errore di apprezzamento è sempre possibile, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista incompatibile col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica.
Insomma, in questa ormai remota giurisprudenza l’esclusione della colpa è la regola e l’imputazione colposa è l’eccezione che si configura solo nelle situazioni più plateali ed estreme.
L’art. 2236 c.c. in ambito penale
Il supporto normativo di tale orientamento è stato solitamente individuato nell’art. 2236 cod. civ., letto come strumento per limitare la responsabilità ai soli casi di errore macroscopico.
In dottrina il rilievo in ambito penale di tale norma è stato ricondotto ad un’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento giuridico, cioè alla necessità di evitare che comportamenti che non concretizzano neppure un illecito civile assumano rilevanza nel più rigoroso ambito penale.
Tale connessione tra le due normative, tuttavia, è stata sottoposta in ambito teorico ad importanti precisazioni, che la giurisprudenza ha spesso trascurato: le prestazioni richieste devono presentare speciali difficoltà tecniche, ed inoltre la limitazione dell’addebito ai soli casi di colpa grave riguarda l’ambito della perizia e non, invece, quelli della prudenza e della diligenza. In tale visione si ritiene che la valutazione della colpa medica debba essere compiuta con speciale cautela nei soli casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica.
La questione della compatibilità tra l’indirizzo “benevolo” della giurisprudenza ed il principio d’uguaglianza è stata posta, nell’anno 1973, all’attenzione della Corte costituzionale (sent. 28 novembre 1973, n. 166) che ha sostanzialmente recepito le linee dell’indicata dottrina, affermando che dagli artt. 589, 42 e 43 c.p. e dall’art. 2236 cod. civ. è ricavabile una particolare disciplina in tema di responsabilità degli esercenti professioni intellettuali, finalizzata a fronteggiare due opposte esigenze: non mortificare l’iniziativa del professionista col timore d’ingiuste rappresaglie in caso d’insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.
Tale particolare regime, che implica esenzione o limitazione di responsabilità, però, è stato ritenuto applicabile ai soli casi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e riguarda l’ambito della perizia e non quello della diligenza e della prudenza.
Considerato che la deroga alla disciplina generale della responsabilità per colpa ha un’adeguata ragion d’essere ed è contenuta entro il circoscritto tema della perizia, la Corte ha ritenuto che non vi sia lesione del principio d’eguaglianza.
L’orientamento indulgente della giurisprudenza ha finito col coprire anche casi di grave leggerezza ed ha determinato una situazione di privilegio per la categoria, che è parsa ad alcuni giuristi anche in contrasto col principio costituzionale d’uguaglianza.
Si è pure ritenuto che tanta comprensione verso comportamenti spesso gravemente censurabili fosse espressione della deteriore visone paternalistica della medicina.
Per effetto di tali critiche le cose sono ad un certo punto mutate.
Fattasi strada una visione relazionale del rapporto tra sanitario e paziente, a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo, si è affermata e consolidata una giurisprudenza radicalmente contrapposta, che esclude qualsiasi rilievo, nell’ambito penale, dell’art. 2236 del codice civile; ed impone di valutare la colpa professionale sempre e comunque sulla base delle regole generali in tema di colpa contenute nell’art. 43 cod. pen.
Si è considerato che la norma civile riguarda il risarcimento del danno, quando la prestazione professionale comporta la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, e non può essere applicata all’ambito penale né in via estensiva, data la completezza e l’omogeneità della disciplina penale della colpa, né in via analogica, vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai principi in materia.
La gravità della colpa potrà avere eventualmente rilievo solo ai fini della graduazione della pena.
Con tale approdo, occorre annotare, l’istanza di coerenza interna dell’intero ordinamento è stata sacrificata a quella di uniforme applicazione dell’imputazione colposa in ambito penale.
6. Tuttavia la questione della ponderazione in ordine alla gravità della colpa non si è esaurita.
Espunto l’art. 2236 dal novero delle norme applicabili nell’ordinamento penale, esso vi è rientrato per il criterio di razionalità del giudizio che esprime.
Questa Suprema Corte ha così affermato (Sez. IV, n. 39592 del 21 giugno 2007, Buggè, Rv. 237875) che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso specifico sottoposto al suo esame impone la soluzione di problemi di specifica difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
Questa rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo perché recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell’imputazione soggettiva, ma anche perché, in un breve passaggio, la sentenza pone in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall’altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata dall’impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili.
Quest’ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa.
Il principio enunciato da tale sentenza è stato recentemente ribadito e chiarito più volte.
In una pronunzia (Sez. IV, n. 16328 del 5 aprile 2011, Montalto, rv. 251941) si è posta in luce la connessione tra colpa grave ed urgenza terapeutica; e si è rimarcato che una attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi, sovente accresciuta dall’urgenza; e di distinguere tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in emergenza.
È stata quindi confermata la sentenza assolutoria di merito che aveva compiuto una ponderazione basata sull’ambiguità della sintomatologia e dell’esito degli esami ematochimici, nonché sulla necessità di avviare con prontezza il paziente alla struttura sanitaria che, nella situazione data, appariva ragionevolmente dotata delle competenze ed attrezzature più adeguate in relazione alla prospettata patologia neurologica.
In altra sentenza (Sez. IV, n. 4391/12 del 22 novembre 2011, Di Lella, rv. 251941) si è affermato che il rimprovero personale che fonda la colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente soggettivo, richiede di ponderare le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi; di considerare che le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o sotto una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate.
Da questo punto di vista, si è concluso, l’art. 2236 cod. civ. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose.
In breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto.
Il principio è stato enunciato in un caso in cui si discuteva della responsabilità dello psichiatra di una casa di cura in cui era da tempo ricoverato un degente affetto da una grave patologia psichiatrica e che era precipitato al suolo, perdendo la vita, a causa della sua condizione, verosimilmente per la realizzazione di proposito suicidiario.
Si è affermato che vi sono contesti, come quello psichiatrico, nei quali esiste una ineliminabile misura di rischio consentito; e che la linea di confine tra il lecito e l’illecito è spesso incerta, sicché la valutazione della colpa non può prescindere dalla considerazione di tale contingenza.
La psichiatria mostra patologie che non di rado sono difficilmente controllabili completamente.
Tale situazione è in gran parte connessa all’abbandono di deprecate pratiche di isolamento e segregazione. In breve, si cura e si protegge il paziente con terapie rispettose della sua dignità che, tuttavia, non possono eliminare del tutto il rischio di condotte inconsulte.
Il rischio è insuperabile ma è accettato dalla scienza medica e dalla società: esso è dunque “consentito”. Di tale situazione occorre consapevolmente prendere atto nel valutare la colpa: l’esistenza di una posizione di garanzia non basta di certo, da sola, a fondare l’imputazione, dovendosi esperire il giudizio di rimprovero personale che concretizza la colpevolezza, tenendo adeguatamente conto dei margini d’incertezza connessi all’individuazione dell’area di rischio socialmente accettato.

La valorizzazione delle linee guida e delle affidabili pratiche terapeutiche, quando esse siano confortate dal consenso della comunità scientifica
7. Gli spunti giurisprudenziali di cui si è dato conto si collocano prevalentemente sul versante soggettivo della colpa.
Si tenta di valorizzare, sul piano del rimprovero personale, le categorie di rischio e le contingenze che rendono ardua la perfetta osservanza delle leges artis.
La nuova legge non incide su tale approccio, che resta dunque parte dell’attuale ordinamento normativo della colpa penale e fornirà nel prosieguo dell’esposizione qualche ulteriore utile indicazione proprio attorno ai problemi connessi all’interpretazione della riforma.
La legge aggiunge a tale stato dell’arte qualcosa di nuovo.
Il primo dato importante è costituito dalla valorizzazione delle linee guida e delle affidabili pratiche terapeutiche, quando esse siano confortate dal consenso della comunità scientifica.
Come è noto, le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche.
Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta. I vantaggi di tale sistematizzata opera di orientamento sono tanto noti quanto evidenti.
Tali regole, come sarà meglio chiarito nel prosieguo, non danno luogo a norme propriamente cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di colpa specifica.
Esse, tuttavia hanno a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale.
Tale enunciazione, assai utile alla comprensione del sistema e delle implicazioni di fondo connesse alla riforma, ha bisogno di un breve chiarimento.
Occorre partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo.
La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica, contrariamente a quanto si potrebbe a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività.
La fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, è per la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia.
Questo stato delle cose traspare se guardiamo alla storia dell’istituto.
Con la rivoluzione francese si afferma la signoria della legge come antidoto contro i privilegi dell’antico regime; e nello stesso contesto storico, nel codice napoleonico, la colpa cessa di essere generica imprudenza e diventa anche violazione di leggi, regolamenti, ordini.
Questa stessa normativa noi ritroviamo nei codici preunitari, nel codice Zanardelli e, infine, nel codice Rocco: nulla è sostanzialmente mutato nelle moderne definizioni legali della colpa.
Come la signoria della legge era l’antidoto contro radicati privilegi, la specificazione della norma cautelare era ed è ancora l’antidoto più forte contro l’imponderabile soggettivismo del giudice ed è quindi garanzia di legalità, imparzialità, prevedibilità delle valutazioni giuridiche.
Naturalmente, la fiducia che noi possiamo avere nella colpa specifica non può essere illimitata.
Anche a questo proposito la storia è maestra.
Essa ci mostra che per tutto l’ottocento e fino alla metà dello scorso secolo, prima che alcuni giuristi svelassero le sottili connessioni che si nascondono dietro questa fattispecie un po’ oscura e misteriosa, la colpa specifica è stata intesa in guisa deteriore, essendo fondata sul disvalore d’azione, sulla violazione della regola cautelare.
L’evento è stato visto come condizione obiettiva di punibilità e questo ha messo in ombra i valori costituzionali ai quali noi ora ci ispiriamo.
La riflessione teorica ci ha spiegato che la colpa specifica non si radica nella sola violazione di una prescrizione ma implica anche la comprensione, con l’aiuto del sapere scientifico, dei molteplici intrecci causali che connettono la condotta all’evento.
Noi, ora, parliamo tranquillamente di nesso di prevenzione, di nesso di rischio, di evitabilità in concreto dell’evento, di causalità della colpa.
Queste sintetiche espressioni, con il loro carico di sofisticata teoria, valgono da sole a farci intendere quanto importante e sovente intricata sia la connessione tra l’evento illecito e la violazione della prescrizione cautelare: nell’evento, si afferma in breve ed efficacemente, si deve essere concretizzato il rischio che la cautela intendeva evitare.
Quest’ordine concettuale è penetrato nella giurisprudenza di legittimità e costituisce un’importante parte della teoria della colpa.
Sebbene la colpa specifica costituisca la forma più evoluta e determinata d’imputazione, della colpa generica, pur con il suo inevitabile carico di preoccupante vaghezza, non è proprio possibile fare a meno.
Essa è parte vitale ma per certi versi inquietante dell’illecito colposo.
Con la colpa generica dobbiamo in qualche modo fare i conti, perché è illusorio pensare che ogni contesto rischioso possa trovare il suo compiuto governo in regole precostituite e ben fondate, aggiornate, appaganti rispetto alle esigenze di tutela.
Qui si annida un grande pericolo: il giudice prima definisce le prescrizioni o l’area di rischio consentito e poi ne riscontra la possibile violazione, con una innaturale sovrapposizione di ruoli che non è sufficientemente controbilanciata dalla terzietà.
Di tale pericolo occorre avere consapevolezza.
Rispetto a tale quadro d’insieme l’ambito della responsabilità medica presenta alcune peculiarità interessanti.
Intanto, a parte la recente innovazione, si registra nel complesso un sostanziale vuoto normativo che enfatizza il ruolo della giurisprudenza.
Al contempo, si è in presenza di un’attività davvero difficile e rischiosa che merita una speciale considerazione.
Infine, l’attività medica non è di regola governata da prescrizioni aventi propriamente natura di regole cautelari, ma è fortemente orientata dal sapere scientifico e dalle consolidate strategie tecniche, che svolgono un importante ruolo nel conferire oggettività e determinatezza ai doveri del professionista e possono al contempo orientare le pur difficili valutazioni cui il giudice di merito è chiamato.
Per queste ragioni l’ambito del rischio terapeutico promette di far maturare la colpa sia sul versante della determinatezza che su quello del rimprovero soggettivo.
Se ci si chiede dove il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili.
Traspare, così, quale interessante rilievo abbiano le linee guida nel conferire determinatezza a fattispecie di colpa generica come quelle di cui ci si occupa.
L’indicazione è semplice, lineare, ma non altrettanto lo è l’itinerario per il conseguimento della scientificità del giudizio. Infatti, l’acquisizione al processo di informazioni scientifiche adeguatamente attendibili non è sempre agevole, tanto più quando si entra in ambiti complessi, controversi, caratterizzati da sapere in divenire.
Il tema deve essere qui brevemente accennato per il rilievo che la questione della qualità delle informazioni scientifiche ha nell’ambito dell’applicazione delle linee guida.
Questa Suprema Corte (Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini, Rv. 248943) ha già avuto modo di porre in luce i pericoli che incombono in questo campo: la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche.
Tale situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico.
Si è pure posto in luce che il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall’apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto.
Tuttavia, ciò può non bastare.
Infatti non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze accreditate.
Pertanto, per valutare l’attendibilità di una tesi occorre esaminare gli studi che la sorreggono; l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività delle ricerche; il grado di consenso che l’elaborazione teorica raccoglie nella comunità scientifica. Inoltre, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. Insomma, dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato.
Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti.
Costoro, come si è accennato, non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, vi sia conoscenza scientifica in grado di guidare affidabilmente l’indagine.
Di tale indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto.
Si tratta di indagine afferente alla sfera del fatto e dunque rimessa alla vantazione del giudice di merito; mentre il controllo di legittimità attiene solo alla razionalità ed alla rigorosità dell’apprezzamento compiuto.
Alla stregua di quanto precede risulta chiarito e nobilmente enfatizzato il ruolo di peritus peritorum tradizionalmente conferito al giudice.
Nessuna rivendicazione di potere e di supremazia. Piuttosto, l’indicazione di un metodo.
Il giudice, con l’aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato che può orientare la decisione e ne fa uso oculato, metabolizzando la complessità e pervenendo ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile: il più alto ed impegnativo compito conferitogli dalla professione di tecnico del giudizio.
Il perito non è più (non avrebbe mai dovuto esserlo!) l’arbitro che decide il processo, ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito cui il giudizio si interessa, spiegando quale sia lo stato del dibattito nel caso in cui vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati della scienza o della tecnologia.
Tutto ciò ha a che fare con i temi della legalità, della determinatezza e della colpevolezza.
Si vuol dire che l’ontologica “terzietà” del sapere scientifico accreditato è lo strumento a disposizione del giudice e della parti per conferire oggettività e concretezza al precetto ed al giudizio di rimprovero personale.
Tale ordine di idee trova puntuale applicazione nell’ambito di cui ci si occupa: il legislatore ha evidentemente colto l’importanza del sapere scientifico e tecnologico consolidatosi in forma agevolmente disponibile in ambito applicativo ed ha al contempo richiesto il sicuro, condiviso accreditamento delle direttive codificate.
Questo stato delle cose consente una provvisoria conclusione: il giudizio sull’imputazione soggettiva, nella responsabilità medica, non da corpo alla colpa specifica in senso proprio, ma le istanze di determinatezza cui si è fatto cenno sopra possono essere soddisfatte attraverso lo strumento diffuso del sapere scientifico, anche nelle sue forme codificate costituite, tra l’altro, dalle linee guida.
Il giudice, tuttavia, nei casi dubbi, dovrà prestare particolare attenzione all’accreditamento scientifico delle regole di comportamento che hanno guidato l’azione del terapeuta.

8. Diverse sono le ragioni per le quali le direttive di cui si discute non sono in grado di offrire standard legali precostituiti; non divengono, cioè, regole cautelari secondo il classico modello della colpa specifica: da un lato la varietà ed il diverso grado di qualificazione delle linee guida; dall’altro, soprattutto, la loro natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica.
Tali aspetti richiedono un chiarimento.
La generica definizione sopra proposta delle linee guida non rende conto del multiforme, eterogeneo universo che da corpo alla categoria: diverse fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico.
Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere.
La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l’impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti.
Tali diversità rendono subito chiaro che, come si è accennato, per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità.
Si ripresenta nell’ambito della scienza applicata lo stesso rilevante problema che attiene all’utilizzazione della conoscenza generalizzante di cui si è già fatto cenno a proposito del metodo dell’indagine scientifica nel processo penale.
Dunque, anche nell’ambito delle linee guida non è per nulla privo di interesse valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti.
Rilevano altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l’ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva. A tale riguardo è sufficiente rammentare sinteticamente che si è con ragione diffuso un orientamento che rapporta la qualità scientifica delle indagini e delle “istruzioni” che se ne traggono alle prove oggettive che le corroborano.
Il legislatore ha evidentemente inteso la delicatezza del problema e ne ha indicata la soluzione, rapportando le linee guida e le pratiche terapeutiene all’accreditamento presso la comunità scientifica. Il terapeuta, dunque, potrà invocare il nuovo, favorevole parametro di vantazione della sua condotta professionale solo se si sia attenuto a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute.
Si tratta di una prima, importante enunciazione normativa. La legge propone un modello di terapeuta attento al sapere scientifico, rispettoso delle direttive formatesi alla stregua di solide prove di affidabilità diagnostica e di efficacia terapeutica, immune da tentazioni personalistiche. Tale responsabile, qualificato approccio alla difficile professione giustifica, nella vantazione del legislatore, l’attribuzione di rilievo penale alle sole condotte connotate da colpa non lieve. Naturalmente, quelle stesse accreditate direttive costituiranno, al contempo, la guida per il giudizio sulla colpa. Si tratta di una conclusione che, come si vede, pone in sintonia il legislatore con i più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte in tema di prova scientifica.
9. Tale prima indagine sull’attendibilità delle linee guida non esaurisce l’itinerario che conduce all’individuazione dell’approccio terapeutico appropriato. Sono infatti in questione la natura, la struttura e lo scopo delle direttive. Si entra qui in un ambito che riguarda la conformazione delle linee guida e che tocca da vicino la comprensione del significato della novella di cui ci si occupa.
Una prima lettura della norma induce a cogliervi una contraddizione: un terapeuta che rispetta le linee guida e che è al contempo in colpa. La contraddizione è in realtà solo apparente. Per risolverla occorre considerare che, come si è sopra esposto, le linee guida, a differenza dei protocolli e delle cheek list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico. Potrà ben accadere, dunque, che il professionista debba modellare le direttive, adattandole alle contingenze che momento per momento gli si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e che, in alcuni casi, si trovi a dovervi addirittura derogare radicalmente. Il legislatore ha evidentemente tenuto conto di tale situazione, disciplinando l’evenienza di un terapeuta rispettoso delle “istruzioni per l’uso” e tuttavia in colpa.
10. Tale ricostruzione del ruolo non meccanicistico delle linee guida si rinviene nella giurisprudenza di questa Suprema Corte. Da essa, nel complesso, emerge che l’osservanza o l’inosservanza delle guida terapeutica indizia soltanto la presenza o l’assenza di colpa, ma non implica l’automatica esclusione o affermazione dell’imputazione soggettiva. Le linee guida, in effetti, sono utilizzate frequentemente, con esiti tuttavia variabili sulla sorte del processo.
Il tema è stato recentemente colto riassuntivamente (Cass. IV, 11 luglio 2012, n. 35922, Ingrassia), anche attraverso la lettura della giurisprudenza più recente. Si è considerato che le linee guida hanno un rilievo probatorio indubbio ma non esaustivo. Esse non possono fornire, infatti, indicazioni di valore assoluto: non si può pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che ritenga, attese le particolarità del caso clinico, di dover coltivare una soluzione atipica. D’altra parte, le raccomandazioni possono essere controverse oppure non più rispondenti ai progressi nelle more verificatisi nella cura della patologia. È evidente che i suggerimenti codificati contengono indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano ciascun concreto caso clinico. In ogni caso, i documenti devono essere in linea con il sapere scientifico accreditato e non possono essere improntati all’esclusivo soddisfacimento di esigenze di economia gestionale, trascurando le reali esigenze di cura.

11. La considerazione delle caratteristiche delle linee guida aiuta a comprendere la portata della nuova normativa ed risolverne l’apparente contraddittorietà.
Potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore sia non lieve.
Non solo. Potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determina strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche in tale ambito trova applicazione la nuova normativa.
Nella logica della novella il professionista che inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali con riguardo ad una patologia e che, tuttavia, non persegua correttamente l’adeguamento delle direttive allo specifico contesto, o non scorga la necessità di disattendere del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d’insieme, sarà censurabile, in ambito penale, solo quando l’acritica applicazione della strategia ordinaria riveli un errore non lieve. Evidentemente il legislatore ha divisato di avere speciale riguardo per la complessità e difficoltà dell’ars medica che, non di rado, si trova di fronte a casi peculiari e complessi nei quali interagiscono sottilmente e magari imponderabilmente diversi rischi o, comunque, specifiche rilevanti contingenze. In tali casi la valutazione ex ante della condotta terapeutica, tipica del giudizio sulla colpa, dovrà essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al professionista: il terapeuta complessivamente avveduto ed informato, attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l’errore sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole. In conclusione, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti. Tale disciplina, naturalmente, trova il suo terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia.

12. La protezione offerta non è però illimitata. Si vuoi dire che, alla stregua della logica della norma, la regola d’imputazione soggettiva della sola colpa non lieve non interviene in tutte le situazioni In cui, nel corso del trattamento, vi sia stata, in qualche frangente, l’attuazione di una direttiva corroborata. Al contrario, occorre individuare la causa dell’evento, il rischio che in esso si è concretizzato. Si richiede altresì di comprendere se la gestione di quello specifico rischio sia governata da linee guida qualificate, se il professionista si sia ad esse attenuto, se infine, nonostante tale complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia stato alcun errore e, nell’affermativa, se esso sia rimarchevole o meno. Naturalmente, si tratterà pure di valutare se una condotta terapeutica appropriata avrebbe avuto qualche qualificata probabilità di evitare l’evento, ma in ciò non vi è nulla di nuovo rispetto agli ordinari criteri di accertamento della colpa.
In conclusione, il paradigma di accertamento e valutazione della colpa che si è sinteticamente tratteggiato seguendo la ratio della riforma non è sempre pertinente: l’indagine sulla correttezza della condotta medica potrà esulare dall’ambito segnato da accreditate direttive scientifiche. Ciò potrà senz’altro accadere quando tali direttive manchino o quando la questione di cui si discute nel processo concerna comunque un aspetto del trattamento che esuli dal tema dell’aderenza alle ridette linee guida.
Il tema più nuovo ed oscuro introdotto dalla nuova disciplina, quello della distinzione tra colpa lieve e colpa grave
13. Resta, infine, da esaminare il tema più nuovo ed oscuro introdotto dalla nuova disciplina, quello della distinzione tra colpa lieve e colpa grave.
È intanto da escludere senz’altro che si sia configurata un’esimente. Infatti, non si è in presenza di una giustificazione che trovi la sua base in istanze germinate in altre parti dell’ordinamento giuridico. Né può pensarsi ad una scusante, cioè ad una causa di esclusione della colpevolezza.
Il legislatore ha evidentemente utilizzato lo strumento costituito dal modellamento della colpa che, come si è visto, si rinviene nella tradizione penalistica italiana proprio in tema di responsabilità medica; e che si riscontra pure in molti ordinamenti stranieri. Si è quindi scelto di distinguere colpa lieve e colpa grave.
La nuova normativa non ha definito le due figure, né ha tratteggiato la linea di confine tra esse; e d’altra parte non vi sono elementi per ritenere che si sia voluto far riferimento a categorie estranee alla tradizione penalistica nazionale, quale si esprime nella già evocata giurisprudenza.
L’assenza di una definizione legale complica senza dubbio le cose. L’esperienza giuridica insegna che, quando una categoria giuridica si scompone in distinte configurazioni, l’interprete si trova solitamente ad affrontare complesse questioni che riguardano il tratteggio dell’area di ciascuna figura e la collocazione nell’uno o nell’altro contenitore concettuale di comportamenti che si trovano in una sfumata zona grigia sita ai margini del metaforico segno di confine. Tale compito si annunzia particolarmente arduo in un ambito come quello di cui ora ci si occupa. Intanto, si è al cospetto del lato soggettivo del reato, quello che per sua natura maggiormente sfugge all’umana comprensione, che assai spesso non mostra clamorosi segni di sé e chiede al giudice l’immane compito di scorgere e ponderare segni, indizi impalpabili dai quali inferire l’atteggiamento interiore. La difficoltà diviene massima nell’ambito della colpa, figura soggettiva d’impronta marcatamente normativa, priva di contenuto psicologico: qui, in fin dei conti, tutto si risolve nella valutazione che il giudicante esprime. Dunque, il peso dell’apprezzamento tecnicamente “discrezionale” è massimo.
Naturalmente, il giudizio sulla gravità della colpa non è per nulla estraneo all’esperienza giuridica penalistica. Esso è imposto dall’art. 133 cod. pen. che prevede che la misura della pena debba essere commisurata anche al grado della colpa, ma non fornisce alcuna indicazione sui criteri che debbono presiedere a tale delicata valutazione. La graduabilità della colpa si desume altresì dagli art. 43 e 61 n. 3 cod. pen. che configurano la colpa cosciente come un grado particolare e non come una figura autonoma di colpa. La materia è scarsamente approfondita sia in dottrina che in giurisprudenza, soprattutto a causa dell’opinione diffusa che il giudizio sulla colpa e sulla graduazione della pena sfugga ad una analisi razionale fondata su basi logiche e sia alimentato prevalentemente da valutazoni su base intuitiva, che riguardano elementi emotivi, la personalità dell’agente e l’atteggiamento nei confronti degli interessi in gioco. Ciò nonostante nella riflessione dottrinale si rinvengono utili e sostanzialmente concordi indicazioni.
Si osserva che, poiché la colpa costituisce la violazione di un dovere obiettivo di diligenza, un primo parametro attinente al profilo oggettivo della diligenza riguarda la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere. Occorrerà cioè considerare di quanto ci si è discostati da tale regola. Così, ad esempio, occorrerà analizzare di quanto si è superato il limite di velocità consentito; o in che misura si è disattesa una regola generica di prudenza. Occorrerà altresì considerare quanto fosse prevedibile in concreto la realizzazione dell’evento, quanto fosse in concreto evitabile la sua realizzazione.
Vi è poi nel grado della colpa un profilo soggettivo che riguarda l’agente in concreto. Si tratta cioè di determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente. Quanto più adeguato il soggetto all’osservanza della regola e quanto maggiore e fondato l’affidamento dei terzi, tanto maggiore il grado della colpa. Il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari costituisce fattore importante per la graduazione della colpa. Ad esempio, per restare al nostro campo, l’inosservanza di un norma terapeutica ha un maggiore disvalore per un insigne specialista che per comune medico generico. Per contro il rimprovero sarà meno forte quando l’agente si sia trovato in una situazione di particolare difficoltà per ragioni quali, ad esempio, un leggero malessere, uno shock emotivo o un’improvvisa stanchezza.
Altro elemento di rilievo sul piano soggettivo è quello della motivazione della condotta. Come si è già accennato, un trattamento terapeutico sbrigativo e non appropriato è meno grave se compiuto per una ragione d’urgenza. Infine, un profilo soggettivo è costituito dalla consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, dalla previsione dell’evento. Si tratta della colpa cosciente, che rappresenta la forma più prossima al dolo. Peraltro, non sempre ed anzi di rado la valutazione della colpa è fondata su un unico indicatore. Ben spesso coesistono fattori differenti e di segno contrario. In tale caso si ritiene che il giudice debba procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze. L’analisi comparativa diviene ancora più complessa quando si presenti il concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima.
Nella giurisprudenza non si rinvengono indicazioni analitiche circa i fattori di graduazione della colpa, ma solo riferimenti impliciti o appena accennati alla distanza tra la condotta tenuta e quella pretesa, alla misura della prevedibilità dell’evento.
14. La valutazione di cui si parla, normalmente altamente “discrezionale”, assume ora, nell’ambito della responsabilità medica, un peso diverso, estremo. Essa segna l’essere o il non essere del reato. Dunque, non si tratta più di graduare, ma di tentare di definire con qualche precisione il cruciale confine che determina l’estensione dell’illecito. Si tratta di sfuggire, per quanto possibile, alla tentazione di ricorrere a sinonimi, ad artifici retorici, ad itinerari argomentativi circolari, tautologici; ed occorre provare ad aggiungere, per quanto possibile, qualcosa di definito, oggettivo e pertinente a ciò che l’idea di gravità del rimprovero intuitivamente implica.
Il panorama normativo non fornisce aiuto concreto. In diverse norme compare l’evocazione della colpa grave, senza che segua alcuna definizione che possa ritenersi anche solo limitatamente pertinente al contesto. Per contro, qualche indicazione può essere fornita propria dalla già evocata giurisprudenza di questa Corte suprema. Come si è visto, per un lungo periodo si è ritenuto che la responsabilità colposa del sanitario potesse configurarsi solo in caso di macroscopica violazione delle regole più elementari dell’ars medica: la plateale ignoranza o l’altrettanto estrema assenza di perizia nell’esecuzione dell’atto medico. Naturalmente, in casi di tale genere non vi può essere dubbio sulla gravità della colpa. Tuttavia tale definizione appare riduttiva. Essa si confronta con la marcata violazione delle regole basilari e traccia la figura di un terapeuta radicalmente inadeguato rispetto al suo ruolo. Tuttavia, occorre considerare che lo stato attuale della medicina appare assi più complesso e sofisticato: la valutazione sull’adeguatezza dell’approccio terapeutico non può essere realisticamente rapportata a poche, essenziali regole di base. Al contrario, si assiste al proliferare di complesse strategie diagnostiche e terapeutiche, governate da “istruzioni” articolate, spesso tipiche di ambiti specialistici o superspecialistici. In tali contesti sarebbe riduttivo discutere di gravità della colpa con riguardo alle sole regole basilari. Al contrario, l’entità della violazione delle prescrizioni va rapportata proprio agli standard di perizia richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, In mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione. Attraverso tale raffronto la ponderazione demandata al giudice acquisisce una misura di maggiore determinatezza o, forse, solo di minore vaghezza. Infatti non può essere taciuto che, per quanto ci si voglia sforzare di congegnare la valutazione rendendola parametrata a dati oggettivi, a regole definite, e quindi non solo intuitiva, resta comunque un ineliminabile spazio valutativo, discrezionale, col quale occorre fare i conti.
L’indicato criterio generale non appare incompatibile con la nuova normativa. La novella, infatti, come si è visto, si riferisce ad un terapeuta che si sia mantenuto entro l’area astrattamente, genericamente segnata dalle accreditate istruzioni scientifiche ed applicative e tuttavia, nel corso del trattamento, abbia in qualche guisa errato nell’adeguare le prescrizioni alle specificità del caso trattato. Qui, verosimilmente, per misurare il grado della colpa sarà scarsamente concludente il raffronto con le regole standardizzate, con le linee guida, che si assumono rispettate nella loro complessiva, generica configurazione. Si può ragionevolmente affermare che, in tale situazione, la colpa assumerà connotati di grave entità solo quando l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente.
Discorso non dissimile può esser fatto nel caso in cui il terapeuta si attenga allo standard generalmente appropriato per un’affezione, trascurando i concomitanti fattori di rischio o le contingenze che giustifichino la necessità di discostarsi radicalmente dalla routine. In tale situazione potrà parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente.
È chiaro che la ponderazione sulla gravità della colpa, nelle situazioni descritte sopra in coerenza con la conformazione della nuova disciplina legale, tende ad allontanarsi dal piano delle regole oggettive e standardizzate per concentrarsi su differenti criteri di valutazione. Si tratta di compiere un apprezzamento basato sulle conoscenze scientifiche ed al contempo marcatamente focalizzato sulle particolarità del caso concreto.
Gli strumenti concettuali per muoversi su tale terreno sono quelli della tradizione. Invero non si potrà mancare di individuare le caratteristiche dell’atto medico, la sua complessità; e di definire la figura di professionista, l’agente modello cioè, adeguatamente qualificato per gestire lo specifico rischio terapeutico; e di comprendere se l’agente concreto si sia altamente discostato dallo standard di qualità dell’agire terapeutico che il professionista archetipico esprime regolarmente. Si tratta del classico modello dell’homo eiusdem professionis et condicionis, di un professionista, cioè, che opera al livello di qualificazione dell’agente concreto e che esprime un modo di operare appropriato, tipico. In breve, ci si sposta sul terreno della colpa propriamente generica e si utilizza lo strumento di analisi dell’agente modello, accreditato sia in dottrina che nella prassi. A tale riguardo occorre chiarire che questa Corte suprema non ha alcuna ragione per prender parte alla disputa teorica tra quanti preferiscono accreditare un modello di valutazione della condotta basato sulle regole e procedure scientifiche qualificate, nel segno delle oggettività e della determinatezza e quanti, invece, preferiscono concepire un giudizio basato sul raffronto con la figura archetipica e quindi inteso a valorizzazione le componenti più soggettive della colpa. L’enorme compito che grava sul giudice lo induce senza riserve o incertezze ad un approccio eclettico: si usano gli strumenti di analisi appropriati alla concreta situazione probatoria del processo.
A tali generali indicazioni di metodo si devono aggiungere altre più specifiche e forse anche più decisive. Per articolare un giudizio sulla colpa ispirato al canone del rimprovero personale si dovrà porre speciale attenzione alle peculiarità del caso concreto; ci si dovrà dedicare a considerare i tratti della specifica vicenda, in linea con le istanze che si sono espresse nella recente giurisprudenza di legittimità e che sono state prima sintetizzate. Allora, non si potrà mancare di valutare la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data. Neppure si potrà trascurare la situazione nella quale il terapeuta si trovi ad operare: l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati, come si è esposto, rendono difficile anche ciò che astrattamente non è fuori dagli standard. E quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del terapeuta che, pur uniformandosi ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e determini la negativa evoluzione della patologia.

L’influenza della nuova normativa
15. Occorre infine chiarire quale influenza abbia la nuova normativa sul caso in esame. Si pone un problema di diritto intertemporale che trova piana regolamentazione alla luce della disciplina legale. Non pare dubbio, infatti, che la riforma abbia determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie ed, in particolare, per quel che qui interessa, di quella di cui all’art. 589 cod. pen..
Come si è visto, la restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi: l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Insomma, nell’indicata sfera fattuale, la regola d’imputazione soggettiva è ora quella della (sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante
Tale struttura della riforma da corpo ad un tipico caso di abolitio criminis parziale. Si è infatti in presenza di norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale e quella che, Invece, diviene penalmente irrilevante. Tale ultima sottofattispecie è propriamente oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per controprova, si guardano le cose sul piano dei valori: il legislatore ha ritenuto di non considerare soggettivamente rimproverabili e quindi penalmente rilevanti comportamenti che, per le ragioni ormai più volte ripetute, presentano tenue disvalore.
Il parziale effetto abrogativo, naturalmente, chiama in causa la disciplina dell’art. 2, comma 2, cod. pen. e quindi l’efficacia retroattiva dell’innovazione. Tale ordine di idee trova conforto nella giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte: si è infatti condivisibilmente affermato che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607).
Invero, quando ad una norma generale subentra una norma speciale “ci si trova in presenza di un’abolizione parziale, perché l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che, pur rientrando nella norma generale venuta meno, sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla regola del secondo comma dell’art. 2 c.p., anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità” (Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, cit.).
16. Ne discende che nel caso in esame la vicenda illecita dovrà essere nuovamente esaminata dalla Corte d’appello. Infatti, come emerge esplicitamente dalla sentenza impugnata, il giudizio in ordine alla colpa si è incentrato proprio sul tema delle linee guida e delle prassi terapeutiche, nonché sulla loro osservanza da parte del C. . Si è discusso se esistessero direttive scientificamente accreditate in materia, pertinenti alle modalità di esecuzione dell’intervento ed in particolare alla profondità dell’Inserimento dello strumento chirurgico. Si è pure dibattuto se le prescrizioni in questione fossero rigide ovvero elastiche, tanto che la questione ha formato oggetto di specifico motivo di ricorso, incentrato sui ritenuto travisamento delle indicazioni espresse al riguardo in un documento scientifico.
Ne consegue che il giudice di merito dovrà stabilire se il fatto si collochi nella sottofattispecie abrogata o in quella ancora vigente. L’indagine si muoverà con le cadenze imposte dalla riforma. Posto che l’innovazione esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da pratiche mediche scientificamente accreditate, il caso dovrà essere riesaminato per determinare se esistano direttive di tale genere afferenti all’esecuzione dell’atto chirurgico in questione. Nell’affermativa, si dovrà accertare se l’intervento eseguito si sia mosso entro i confini segnati da tali raccomandazioni. In tale eventualità dovrà essere pure chiarito se nell’esecuzione dell’atto chirurgico vi sia stata colpa lieve o grave. Ne discenderà l’esistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato alla stregua della normativa sopravvenuta.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di X.

5. Imputabilità

Cass. S.U. 25 gennaio 2005, Raso

in sintesi
Anche i “disturbi della personalità”, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.

Svolgimento del processo

1.0 Verso le ore 4 del 27 dicembre 2001 Giuseppe RASO, dinanzi alla porta della propria abitazione, sul pianerottolo condominiale, esplodeva due colpi di pistola all’indirizzo di Vittorio ALEMANNO, che attingevano la vittima all’altezza del collo e della testa, provocandone la morte.
Agenti della Polizia di Stato, prontamente intervenuti a seguito di segnalazioni, trovavano RASO ancora con la pistola in pugno, e questi esclamava al loro indirizzo: “Sono stato io, così ha finito di rompere”; alla intimazione di gettare l’arma ed alzare le mani, egli non ottemperava all’invito, continuando a brandire la pistola e rivolgendo minacce agli astanti, compresi alcuni condomini frattanto accorsi dopo gli spari, sicché gli operanti erano costretti ad intervenire con la forza, disarmandolo e immobilizzandolo.
Al rumore degli spari, si era destata anche Carla POCHETTINO, moglie di ALEMANNO, la quale, accortasi che il marito non si trovava a letto, s’era recata pur ella sul pianerottolo condominiale, al piano inferiore, ed ivi aveva notato il coniuge riverso per terra ed aveva cercato di soccorrerlo; RASO, puntatale contro la pistola, le aveva detto: “ora ammazzo pure te…” e, in un secondo momento, le aveva puntato l’arma contro la tempia.
Già dai primi atti di indagine, e dalla stessa confessione di RASO, si appurava che l’omicidio era maturato in un clima di ripetuti diverbi condominiali, originati da presunti rumori dell’autoclave provenienti dall’appartamento della vittima, posto al piano superiore rispetto a quello dell’omicida, che più volte avevano indotto RASO a disattivare, recandosi in cantina, l’impianto della energia elettrica: tanto era avvenuto anche quella mattina e, risalendo l’omicida al quinto piano, ove era ubicata la sua abitazione, aveva incontrato ALEMANNO: ne era scaturita l’ennesima lite, che si era conclusa in quella maniera tragica.

1.1 Giuseppe RASO veniva tratto al giudizio del G.I.P. del Tribunale di Roma per rispondere dei reati di cui agli articoli 61, nn. 1, 4 e 5, 575, 577, n. 3; 337; 61, n. 2, 81, 612, 2° c., c.p..
Procedutosi con rito abbreviato, condizionato ad un poi espletato accertamento peritale sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato e sulla sua pericolosità, quel giudice, con sentenza del 4 marzo 2003, dichiarava l’imputato medesimo colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione, riconosciutagli la diminuente del vizio parziale di mente prevalente sulla contestata aggravante, esclusa la premeditazione e le aggravanti di cui all’art. 61, nn. 1 e 4, c.p., e lo condannava alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione ed alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici; disponeva la misura di sicurezza della assegnazione ad una casa di cura e di custodia per la durata minima di tre anni, e la confisca dell’arma e delle munizioni in sequestro; lo condannava, infine, al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, cui assegnava delle provvisionali.

1.2 Nel pervenire alla resa statuizione quanto al ritenuto vizio parziale di mente, il giudice del merito rilevava che nel corso del procedimento erano stati eseguiti più accertamenti tecnici al riguardo.
Una prima consulenza psichiatrica disposta dal P.M. aveva individuato a carico dell’imputato “un disturbo della personalità di tipo paranoideo in un soggetto portatore di una patologia di tipo organico, consistente un una malformazione artero-venosa cerebrale”, ed aveva concluso ritenendo “nel soggetto la piena capacità di intendere ed escludendo invece nel medesimo la capacità di volere ritenuta ‘grandemente scemata’”.
Una seconda consulenza tecnica disposta dal P.M. in una prima stesura “individuava nell’imputato la totale incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto ‘affetto da crisi psicotica paranoidea’”.
In una seconda stesura del relativo elaborato tecnico, lo stesso consulente rivedeva parzialmente le sue precedenti affermazioni, concludendo per “la sussistenza nel periziato di una parziale capacità complessiva, scaturente da una piena capacità di intendere e da una incapacità di volere limitatamente al momento della commissione del fatto, trattandosi di un soggetto non psicotico, bensì con personalità borderline di tipo paranoideo”.
Il perito nominato dal giudice “concludeva nel senso di una parziale capacità di intendere e di volere del detenuto e di una sua attuale pericolosità sociale”.
In particolare, egli escludeva “un disturbo borderline, individuando invece… un disturbo paranoideo… frammisto ad elementi appartenenti al disturbo narcisistico di personalità”; ricostruiva “il percorso psicopatologico della personalità del soggetto individuato in un ‘nucleo depressivo profondo, legato ad avvenimenti personali ed in grado di determinare radicati sentimenti di inabilità, insufficienza, inadeguatezza’…”, che avrebbero “portato il RASO per anni ad alimentare ‘vissuti fortemente persecutori e tematiche di natura aggressiva, come risposta alla incapacità di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti esistenziali’, fino a polarizzare la propria esistenza intorno a ‘contenuti ideici che non possono essere definiti deliranti, ma che possono essere compresi attraverso la definizione psichiatrica di ‘idee dominanti’…”, ritenendo, quindi, sotto il profilo della capacità di volere e di autodeterminazione, “che il RASO ‘abbia sperimentato, mediante la totale invasività del pensiero persecutorio con le caratteristiche delle idee dominanti, uno scardinamento delle proprie labili capacità di controllo delle scariche impulsive e della propria aggressività…, si tratta di un passaggio all’atto in cui il libero dispiegarsi dei meccanismi della volontà viene impedito dal massiccio vissuto persecutorio’…”; e che “l’imputato abbia posseduto nelle fasi immediatamente prima del delitto, come attualmente, ‘una compromissione della capacità di intendere, che, se non giunge alla grave destrutturazione tipica delle autentiche esperienze psicotiche, si caratterizza per una profonda anomalia del pensiero’…”.: tale ausiliario del giudice concludeva, quindi, per la sussistenza di “una condizione psicopatologica in cui entrambe le capacità di intendere e di volere erano significativamente danneggiate, ma senza giungere al loro totale azzeramento”, ulteriormente chiarendo che, “quanto alla patologia organica accusata dall’imputato e consistente in una malformazione artero-venosa cerebrale”, era da escludere “che essa abbia avuto un ruolo esclusivo nell’infermità psichiatrica anche se certamente contribuisce a determinare la particolare condizione del predetto, incidendo negativamente sulle sue capacità di volizione”: “in sostanza – annota la sentenza di prime cure – “il perito esclude un disturbo psicotico delirante”, e ritiene che “il periziato soffre di un disturbo paranoideo per effetto del quale la capacità di intendere e di volere è compromessa, ma non del tutto esclusa”.
Il giudice riteneva del tutto condivisibili tali conclusioni peritali, cui erano pervenuti, in sostanza, “pur attraverso percorsi diversi”, “tutti i consulenti tecnici, compresi quelli della parte civile”, che avevano affermato, in una loro prodotta relazione, che “ci sembra corretto ritenere che il soggetto possa al massimo essere ritenuto seminfermo di mente”.

1.3 Sui gravami dell’imputato, del Procuratore Generale della Repubblica e delle parti civili, la Corte di Assise di Appello di Roma, con sentenza del 3 febbraio 2004, escludeva la diminuente di cui all’art. 89 c.p., riconosceva all’imputato le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p., rideterminava la pena, fissandola in anni sedici e medi otto di reclusione, e revocava la misura di sicurezza dell’affidamento a casa di cura e custodia.
Quanto al punto concernente il vizio parziale di mente, rilevavano i giudici del gravame che “né il perito nominato dal giudice, né i c.t. del P.M. hanno… riscontrato nell’imputato, in sostanza, altro che disturbi della personalità, sulla cui esatta definizione non si sono neppure trovati concordi”, giungendo, comunque, alla comune conclusione che “le anomalie comportamentali dell’imputato non hanno causa in una ‘alterazione patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico di una determinata malattia’… né in una ‘infermità o malattia mentale o … alterazione anatomico-funzionale della sfera psichica’…, bensì in anomalie del carattere, in una personalità psicopatica o psicotica, in disturbi della personalità che non integrano quella infermità di mente presa in considerazione dall’art. 89 del c.p.”.

(omissis)

2.1 Il ricorso veniva assegnato alla I Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 13 ottobre 2004, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p..
Si rilevava, difatti, che nella giurisprudenza di questa Suprema Corte era da tempo insorto un contrasto, in ordine alla questione concernente il concetto di “infermità”, ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p..
Un “più risalente e consistente indirizzo” ha ritenuto che, “in tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità…”.
Altro “indirizzo minoritario” ha, invece, ritenuto che “il concetto di infermità mentale recepito dal nostro codice penale è più ampio rispetto a quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi…”.

2.2 Il Primo Presidente ha fissato l’odierna udienza per la trattazione del ricorso davanti a queste Sezioni Unite.

(omissis)

Motivi della decisione

3.0 Il primo motivo di ricorso – che nella prospettazione gravatoria assume propedeutico rilievo anche in riferimento agli altri profili di doglianza esplicitati – propone la questione che può così sintetizzarsi: se, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrino nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”.

3.1 Al riguardo, e sui temi di fondo che afferiscono a tale questione, si registra da tempo un contrasto giurisprudenziale nelle decisioni di questa Suprema Corte.
Le oscillazioni interpretative sono state essenzialmente determinate dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto dal momento in cui quest’ultima ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza condivisi, ponendo in crisi tradizionali elaborazioni metodologiche e, nel contempo, legittimando una sempre più accentuata tendenza verso il pluralismo interpretativo; sicché – come meglio più oltre si vedrà – accanto ad un indirizzo “medico” (all’interno del quale si sono distinti un orientamento “organicista” ed uno “nosografico”), si è proposto quello “giuridico” (volta a volta accompagnato, o temperato, dal criterio della patologicità, da quello della intensità, da quello eziologico), che ha, in sostanza, sviluppato una nozione più ampia di infermità rispetto a quello di malattia psichiatrica

4.0 La questione proposta involge delicati profili, oltre che sul piano della teoria generale del reato, su quello del rapporto e dell’appagante contemperamento delle due, spesso contrapposte, esigenze, della prevenzione, generale o speciale, e del garantismo, che – per mutuare l’espressione di autorevole dottrina – costituisce oggetto di una delle “sfide del diritto penale moderno o postmoderno”.
In tale contesto già circa un venticinquennio fa la stessa dottrina, particolarmente attenta a tale tema, parlava di “crisi del concetto di imputabilità”; e non sono mancate anche prese di posizioni proponenti la abolizione, tout court, della categoria dell’imputabilità dal sistema penale, concretizzatesi anche in proposte di legge, quella n. 177 del 1983, quella n. 151 del 1996.
La questione si pone su un piano che parte dal riconoscimento alla imputabilità di un ruolo sempre più centrale e fondamentale, secondo la triplice prospettiva “di principio costituzionale, di categoria dommatica del reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale”.

L’imputabilità
4.1 L’art. 85.2 c.p definisce (secondo una proposizione generale, priva di ulteriori specifici contenuti) la imputabilità come la condizione di chi “ha la capacità di intendere e di volere” e, come appare anche dalla sua collocazione sistematica, all’inizio del titolo IV, dedicato al reo, determina una qualifica, o status, dell’autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena (art. 85.1 c.p.).
Tuttavia – sostanzialmente concorde la dottrina – nonostante tale collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una “mera capacità di pena” o un “semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale”, ma il suo “ruolo autentico” deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che, “se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l’imputabilità è ben di più che non una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la condizione dell’autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto”; essa, dunque, non è “mera capacità di pena”, ma “capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza”, quindi, nella sua “propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza”, non essendovi colpevolezza senza imputabilità.

4.2 Si è ulteriormente specificato che i confini di rilevanza ed applicabilità dell’istituto della imputabilità dipendono, in effetti, anche in qualche misura dal concetto di pena che si intenda privilegiare: nell’ottica retributiva di questa, se la pena deve servire a compensare la colpa per il male commesso, non può non rilevarsi che essa si giustifica solo nei confronti di soggetti che hanno scelto di delinquere in piena libertà; sotto il profilo di un’ottica preventiva, ponendosi in dubbio il rapporto tra libertà del volere e funzione preventiva (in cui ”il principio della libertà del volere non è più funzionale alla fondazione e giustificazione della pena”), tale funzione preventiva potrà rivolgersi solo a soggetti che siano effettivamente in grado di cogliere l’appello contenuto nella norma, e fra questi non sembra che possano annoverarsi anche i soggetti non imputabili, in quanto tali ritenuti non suscettibili di motivazione mediante minacce sanzionatorie.
E, sotto il profilo della risocializzazione (che partecipa alla funzione di prevenzione speciale), giustamente si è rilevato che “il collegamento psichico fra fatto e autore, comunque necessario per dar senso alla risocializzazione, ancora una volta non può che essere visto nella possibilità che il soggetto aveva di agire altrimenti al momento del fatto commesso”, in mancanza di tanto non avendo senso chiedersi se il soggetto abbia bisogno di essere rieducato, dovendosi piuttosto ritenere che egli non sia neppure in grado di cogliere il significato della pena e, conseguentemente, di modificare i propri comportamenti.
Non sono queste la sede e l’occasione per ulteriormente approfondire, rivisitare e delibare l’articolato e fecondo dibattito dottrinario al riguardo svoltosi – dopo l’entrata in vigore della Carta Costituzionale e, segnatamente, del suo art. 27 – e per molti versi tuttora attuale.
Gioverà nondimeno, ai fini che qui pure interessano, rilevare che la preminente dottrina è orientata per una teoria “pluridimensionale” o “plurifunzionale” della pena, sia pure con impostazioni differenziate; e che la Corte Costituzionale, pur richiamando la concezione, precedentemente affermata, c.d. “polifunzionale”, della pena, ha evidenziato il profilo centrale della stessa, quello rieducativo, rilevando che, “per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena…; è per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena” (Corte Cost., sent. n. 313/1990), ivi ricordando la stessa Corte che ciò aveva già portato “a valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di reato (sentenza n. 364 del 1988)”.

4.3 E proprio sul versante del contenuto e della rilevanza del concetto di colpevolezza, mette conto di rilevare che in tale ultima decisione (resa in riferimento alla ritenuta parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p.), il Giudice delle leggi aveva richiamato come la puntualizzazione di quel concetto non potesse essere disgiunta da un giudizio di rimproverabilità del fatto; aveva ricordato, tra l’altro, l’approdo sistematico della “necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell’agente, dell’antigiuridicità del fatto”; aveva sottolineato che “la colpevolezza costituzionalmente richiesta… non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato”, e che ciò era testimoniato dalla “funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza”, inalterati rimanendo, quale che ne sia il fondamento considerato, “il valore della colpevolezza, la sua insostituibilità”, la sua “indispensabilità… quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale… Il principio di colpevolezza…, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto”, in un sistema, come il nostro, che “pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata)…”, e “ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su ‘congrui’ elementi subiettivi”.

4.4 Può, dunque, ritenersi consolidato e definitivo approdo ermeneutico-costituzionale e sistematico che “la configurazione personalistica della responsabilità – come ancora si esprime autorevole dottrina – esige che essa si radichi nella commissione materiale del fatto e nella concreta rimproverabilità dello stesso.
Il che è quanto dire che deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all’ambito della facoltà di controllo e di scelta del soggetto, al di fuori delle quali può prendere corpo unicamente un’ascrizione meccanicistica, oggettiva dell’evento storicamente determinatosi”: e di tale approdo è necessario, ove occorra, tenere ineludibile conto nella interpretazione della norma, essendo canone interpretativo pacifico che, ove siano possibili più interpretazioni della stessa, deve prevalere ed essere privilegiata quella costituzionalmente orientata e non confliggente con i principi consacrati nella Carta fondamentale.

5.0 Quanto al disposto dell’art. 85 c.p, si è pure pertinentemente già rilevato che la formula normativa ha espunto ogni riferimento alla “libertà” e alla “coscienza”, e, per altro verso, “ha ‘ridotto’ la categoria naturalistica all’ambito esclusivamente psicologico, privilegiando i due momenti intellettivo e volitivo in senso stretto”; conseguentemente, la dottrina ha disatteso il collegamento tra “capacità di intendere e di volere” e “coscienza e volontà” dell’azione o omissione, ponendo in evidenza la reciproca autonomia ed indipendenza di tali categorie concettuali, e la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte tanto ritenuto ed affermato (Cass., Sez VI, n. 4165/1991; id., Sez. III, n. 1574/1986; id., Sez. I, n. 10440/1984; id., Sez. I, n. 3502/1979; id., Sez. I, n. 711/1970; id., Sez. I, n. 385/1969).

La capacità di intendere e di volere
5.1 Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall’art. 85 del codice sostanziale, la capacità di intendere pacificamente si riconosce nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad “orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà”, e quindi nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi “una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); mentre la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto medesimo “ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l’azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore”, “nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore”, nella attitudine a gestire “una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la dottrina; la quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali, in verità, “una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste”, dovendo piuttosto la volontà umana definirsi libera, “in una accezione meno pretenziosa e più realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici”.

5.2 Il riferimento della norma ad entrambi i suindicati concetti, la capacità di intendere e quella di volere, rende poi evidente come, de iure condito, la imputabilità debba essere congiuntamente riferita ad entrambe tali attitudini, difettando essa in mancanza anche di una sola delle stesse.
E’ prospettiva, semmai, solo de iure condendo quella proposta da una parte della dottrina psichiatrica forense, di eliminare dal testo dell’art. 85 c.p. il riferimento alla capacità di volere, restringendolo al solo profilo della capacità di intendere (anche sulla scorta di quanto avvenuto in altre legislazioni, in particolare quella federale statunitense del 12 ottobre 1984, che ha accolto il solo concetto di capacità di intendere in tema di mental illness e insanity defense), sul presupposto che l’altra, in sostanza, si sottrae a qualsiasi riscontro empirico-scientifico e viene affermata, volta a volta, o in virtù di una ”finzione necessaria per la sopravvivenza del diritto penale”, o come un “presupposto indimostrabile e in quanto tale da accogliere a priori”, o come “un principio normativo accolto dal diritto positivo e perciò imprescindibile dal punto di vista formale per legittimare la distinzione fondamentale tra soggetti imputabili-responsabili e soggetti non imputabili-irresponsabili”.

L’infermità mentale secondo la scienza psichiatrica
6.0 Gli articoli 88 e 89 c.p., per quanto nella specie interessa, costituiscono specificazioni e puntualizzazioni di quel generale principio, ponendo parametri normativamente predeterminati per la disciplina dell’istituto, unitamente ad altri (art. 95, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; art. 96, sordomutismo; articoli 97, 98, l’età del soggetto, pur avvertendosi che le cause codificate di esclusione della imputabilità non possono considerarsi tassative).
Se deve convenirsi che, quanto al rapporto tra gli articoli 85 e 88-89 c.p., la imputabilità è normalmente considerata presente quando l’autore abbia raggiunto la maturità fisio-psichica normativamente indicata (tenuto conto, per l’infradiciottenne, del disposto dell’art. 98 c.p.) salvo che versi in una situazione di infermità (Cass., Sez. I, n. 13202/1990), tanto costituendo (ancora per autorevole voce della dottrina) “il compromesso, o il punto d’incontro, tra le esigenze proprie del principio di colpevolezza e quello della prevenzione generale”, rimane che, in effetti, il concetto di imputabilità è, al tempo stesso, empirico e normativo (che “normativamente si manifesta nella costruzione a due piani”), nel senso, che è dato innanzitutto alle scienze di individuare il compendio dei requisiti bio-psicologici che facciano ritenere che il soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla previsione della sanzione punitiva, ed è mancipio del legislatore, poi, “la fissazione delle condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalle scienze empirico-sociali”, tale opzione legislativa implicando “valutazioni che trascendono gli aspetti strettamente scientifici del problema dell’imputabilità e che attengono più direttamente agli obiettivi di tutela perseguiti dal sistema penale”.

7.0 Ora, è proprio sul versante dei sicuri ancoraggi scientifici che la proposta questione presenta i più rilevanti aspetti di problematicità, in un contesto in cui la dottrina parla, pressoché unanimemente, di “crisi della psichiatrica”, di “una crisi di identità…. da alcuni anni attraversata” dalla scienza psichiatrica, risultando “la classificazione dei disturbi psichici quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura psichiatrica”; il che ha anche fatto dire ad altra autorevole dottrina che, in effetti, “non può propriamente parlarsi di crisi dell’imputabilità. In (relativa) crisi è infatti semmai… il concetto di malattia mentale”.
E’ ben vero, difatti, che la difficoltà di individuare tali sicuri ancoraggi scientifici comporta ineludibili ricadute sul versante della necessaria cooperazione tra il sapere scientifico da un verso ed il giudice, d’altro verso, che di quel sapere deve essere fruitore.

7.1 La scienza psichiatrica propone, difatti, come è noto, paradigmi e modelli scientifici diversi e tra loro conflittuali.
Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico.
Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil KRAEPELIN sul finire dell’ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l’infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità “certa e documentabile”, escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che in tanto un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato.
Se ne è, quindi, inferito, tra l’altro, che l’accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborate dalla scienza psichiatrica, nel “quadro-tipo di una determinata malattia” (per cui “quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro-tipo di una data malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente”: così, ad esempio, Cass., Sez. I, n. 930/1979).
Pur nell’ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di mente è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, “se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica clinicamente accertabile…”: così Cass., Sez. I, n. 9739/1997).

7.2 Agli albori del ‘900, sotto l’influenza dell’opera freudiana (e con la scoperta dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, “privo di confini fisiologicamente individuabili”, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità: l’Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la “coscienza sociale” e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico.
I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna” e, “quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale”.
Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche.

7.3 Intorno agli anni ’70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come “malattia sociale”.
Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l’esistenza della malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. “antipsichiatria”, o “psichiatria alternativa”).

7.4 Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione “multifattoriale integrata”.
In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico-strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico.
Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione” . In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD-10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici.
E’ stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l’altro, un approccio il più possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchi e rigidi schemi nosografici.

7.5 In tale panorama di orientamenti della scienza psichiatrica moderna, spesso contraddittori – che ha fatto anche dire a taluno che definire cosa sia oggi l’infermità di cui agli articoli 88 e 89 c.p. è un problema praticamente insolvibile e affatto fittizio – si rivendica all’area giuridico-penale la determinazione del contenuto e della funzione del concetto di imputabilità e del vizio di mente, esso – “implicando una presa di posizione su ciò che l’ordinamento poteva pretendere da lui nella situazione data” – rimanendo una “questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia”. Questa impostazione, consentendo la utilizzazione di “un modello funzional-garantistico di giudizio sulla imputabilità, …valorizza la persona come soggetto dotato di libertà decisionale e di dignità, risultando in grado di garantire il rispetto del principio di colpevolezza e nello stesso tempo delle esigenze preventive”.
E si soggiunge che, risolvendosi – come s’è detto – il concetto di imputabilità sul duplice piano empirico e normativo, la sua ridefinizione deve avvenire attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche, nonostante la pluralità dei paradigmi interpretativi riscontrabile all’interno della scienza psichiatrica, riconoscendosi così il primato dell’identità normativa, ma non prescindendosi dal necessario apporto dell’identità empirica ed in tal guisa confermandosi la necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza; e proprio per assicurare di fatto una tale piena collaborazione, autorevole dottrina, attenta ai temi della infermità di mente, è favorevole all’ampliamento delle cause di esclusione dell’imputabilità, ricomprendendovi anche le nevrosi, le psicopatia e, in genere, i c.d. disturbi della personalità.

Orientamenti giurisprudenziali sul rilievo dei disturbi della personalità sul piano della imputabilità
8.0 La giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla questione relativa al rilievo dei disturbi della personalità sul piano della imputabilità è, volta a volta, contrassegnata dalla adesione ad uno od altro dei paradigmi suindicati, con conseguenti oscillazioni interpretative.
Si è, quindi, affermato che “le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità”, sicché “esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli articoli 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali” (Cass., Sez. VI, n. 26614/2003); le manifestazioni di tipo nevrotico, depressive, i disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza mentale “non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale…” (Cass., Sez. I, n. 7523/1991); solo “l’infermità mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l’imputabilità, mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubitabilmente incidono sul comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la capacità di rappresentazione o di autodeterminazione” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); l’eventuale difetto di capacità intellettiva determinata da semplici alterazioni caratteriali e disturbi della personalità resta priva di rilevanza giuridica (Cass., Sez. V, n. 1078/1997); le semplici anomalie del carattere o i disturbi della personalità non influiscono sulla capacità di intendere e di volere, “in quanto la malattia di mente rilevante per l’esclusione o per la riduzione dell’imputabilità è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera intellettiva e volitiva dell’agente” (Cass., Sez. I, n. 10422/1997).
In particolare, dovendosi distinguere tra psicosi e psicopatia, si rileva che solo la prima è da annoverare nell’ambito delle malattie mentali, mentre la seconda va considerata una mera “caratteropatia”, ovvero una anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva e, quindi, inidonea ad annullare o fare grandemente scemare la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I, n. 299/1991).
E per tali ragioni, non vengono ricomprese tra le cause di diminuzione od eliminazione della imputabilità le c.d. “reazioni a corto circuito”, in quanto collegate a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica, ma emotiva o passionale (Cass., Sez. I, n. 9701/1992).
Numerose sono le sentenze che possono iscriversi, con puntualizzazioni varie, in tale indirizzo interpretativo: tra le altre, Cass., Sez. I, n. 16940/2004; id., Sez. III, n. 22834/2003; id., Sez. I., n. 10386/1986; id., Sez. I, n. 13202/1990; id., Sez. I, n. 7315/1995; id., Sez. V, n. 1078/1997; id., Sez. I, n. 4238/1986; id., Sez. II, n. 3307/1984.

8.1 Altra volta si è rilevato che gli stati emotivi e passionali possono incidere, in modo più o meno incisivo, sulla lucidità mentale del soggetto agente, ma tanto non comporta, per espressa previsione normativa, la diminuzione della imputabilità; perché tali stati assumano rilievo, al riguardo, è necessario un quid pluris, che, associato ad essi, si sostanzi in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa classificazione nosografica: e l’esistenza o meno di tale fattore “va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell’attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale rilevante, ai sensi degli articoli 88 e 89 c.p.), ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui sia riconosciuta l’esistenza” (Cass., Sez. I, n. 967/1997).
Il riconoscimento che anche le deviazioni del carattere possono elevarsi a causa incidente sulla imputabilità, a condizione che su di esse si innesti, o sovrapponga, uno stato patologico che alteri la capacità di intendere e di volere, ha indotto una parte della giurisprudenza a ritenere, per un verso, che le anomalie del carattere e le c.d. personalità psicopatiche determinino una infermità di mente solo nel caso in cui, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale; per altro verso, che la personalità borderline non rilevi ai fini della imputabilità, pur includendo la scienza psichiatrica tale disturbo tra le infermità (Cass., Sez. VI, n. 7845/1997). Escludendosi tesi aprioristiche, si riconosce, in alcune decisioni, che anche le c.d. “reazioni a corto circuito” – normalmente ascritte al novero degli stati emotivi e passionali -, in determinate situazioni, possano costituire manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, “incidendo soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni” (Cass., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I, n. 3170/1994; id., Sez. I, n, 12429/1994; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 14122/1986); si esclude rilievo a tali “reazioni a corto circuito” quando esse si colleghino a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, richiedendosi, perché rilievo possano assumere, che esse si inquadrino “in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale” (Cass., Sez. VI, n. 23737/2004; id., Sez. I, n. 11373/1995; id., Sez. I, n. 7315/1995; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 9801/1992; id., Sez. I, n. 4268/1982); il criterio della patologicità esclude tutti quei disturbi che trovino origine in situazioni di disagio socio-ambientale e familiare (Cass., Sez. VI, n. 31753/2003).

8.2 Altro criterio, quello della intensità del disturbo psichico, ha portato a ritenere che, anche a fronte di anomalie psichiche non classificabili secondo rigidi e precisi schemi nosografici e, quindi, sprovviste di sicura (accertata) base organica, debba considerarsi, ai fini della esclusione o della diminuzione dell’imputabilità, la intensità dell’anomalia medesima, accertandosi se essa sia in grado di escludere totalmente o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. VI, n. 22765/2003).
In tale contesto, un orientamento giurisprudenziale esplicitamente muove dalla (altre volte implicitamente ritenuta) distinzione tra i concetti di infermità e di malattia mentale in senso strettamente clinico-psichiatrico, riconoscendo che alla base del primo vi è quello di stato patologico, ma che questo può caratterizzare non solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, bensì anche le anomalie psichiche non rinvenienti da sicura base organica, purché si manifestino con un grado di intensità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, che richiama la distinzione tra “malattia in senso clinico-psichiatrico e malattia in senso psichiatrico-forense”, e “uno stato patologico che, seppure non comprensivo delle sole malattie fisiche e mentali nosograficamente classificate, sia comunque riconducibile ad una ‘infermità’, ancorché non classificabile o non insediata stabilmente nel soggetto…”; id., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n.13029/1989; id., Sez. I, n. 14122/1986; id., Sez. I, n. 2641/1986; cfr. anche Cass., Sez. V, n. 1536/1998, che richiama, disgiuntivamente, “una infermità o malattia mentale o comunque una alterazione anatomico-funzionale”).
Altre decisioni fanno riferimento al valore di malattia, secondo uno dei criteri elaborati dalla psichiatria forense, che così individua quelle situazioni che, indipendentemente dalla qualificazione clinica, assumono significato di infermità e sono idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere; si ricomprendono, così, nella categoria dei malati di mente anche soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, quando tali disturbi si manifestino con elevato grado di intensità e forme più complesse, tanto da integrare le connotazioni di una vera e propria psicosi (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 2641/1986); ed in tale contesto interpretativo si è dato rilievo ad alcune situazioni classificabili borderline (Cass., Sez. I, n. 15419/2002; id., Sez. I, n. 6062/2000).

8.3 In molte decisioni – secondo un indirizzo che, risalente, è riscontrabile anche in pronunce recenti – le quali volta a volta si rifanno ai criteri del substrato patologico, del valore di malattia, della intensità del disturbo, si individua un ulteriore requisito nella necessità della sussistenza di una correlazione diretta tra il disturbo psichico e l’azione delittuosa posta in essere dal soggetto agente, e quindi tra abnormità psichica effettivamente riscontrata e determinismo dell’azione delittuosa (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; Cass., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n, 14122/1986). Si sono posti in rilievo – anche in dottrina – l’importanza e la centralità di tale passaggio interpretativo, che giunge ad attribuire “rilevanza alle caratteristiche cliniche del soggetto psicopatico che determinano disarmonie nella personalità e sono capaci di alterare il meccanismo delle spinte e delle controspinte all’azione”: il nesso di interdipendenza fra reato e disturbo mentale consente di “ricercare nella vicenda storica quali spinte interne abbiano condotto alla realizzazione del delitto e portato il giudice ad indagare in concreto l’intensità della pressione esercitata dalla situazione di stimolo”.

9.0 All’epoca in cui venne emanato l’attuale codice penale era ancora imperante il paradigma medico-organicistico, ancorché già messo in crisi, quanto meno in termini di certezza, dalle altre proposte del modello psicologico, poi successivamente diffusosi.
Ed il legislatore dell’epoca, mosso da un “intento generalpreventivo, mirante a bloccare alla radice dispute avanzate su basi malsicure e pretestuose” (come si rileva in dottrina), quindi, poteva fare affidamento su concetti ai quali si riconosceva una corrispondente base empirica: quello di infermità mentale identificava la malattia mentale in senso medico-nosografico.
Più in generale, è appena il caso di ricordare che quel testo normativo veniva emanato sotto l’egida condizionante della ideologia dell’epoca che, nel contesto del sistema del c.d. doppio binario (la pena tradizionale, inflitta su presupposto della colpevolezza dell’imputato, e le misure di sicurezza, fondate sulla pericolosità sociale del reo ed indirizzate alla sua risocializzazione), risentiva del preminente intento generalpreventivo (nella Relazione ministeriale al codice si affermava che “delle varie funzioni, che la pena adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale… e la funzione c.d. satisfattoria…”, quest’ultima con un ruolo, quindi, “non autonomo, ma strumentale rispetto all’obiettivo della prevenzione generale…”, come si annota in dottrina), rifiutava il principio di presunzione di innocenza dell’imputato (ritenuto il portato “delle dottrine demo-liberali, per cui l’individuo è posto contro lo Stato, l’autorità è considerata come insidiosa e sopraffattrice del singolo”) e faceva dire ad altre autorevoli espressioni della dottrina dell’epoca che “lo Stato fascista, a differenza dello Stato democratico liberale, non considera la libertà individuale come un diritto preminente, bensì come una concessione dello Stato accordata nell’interesse della collettività”, riaffermandosi “l’interesse repressivo” come suo “elemento specifico”, e giungendosi, come ricorda autorevole dottrina, alla richiesta estrema di sostituire la regola in dubio pro reo con quella in dubio pro republica .
Ma i tempi sono cambiati.
La Costituzione, l’affermarsi di un’ermeneutica giuridico-penale orientata ai suoi principi informatori ed il proporsi di paradagmi alternativi a quello medico hanno comportato un adeguamento delle soluzioni, sul tema della imputabilità, alle nuove prospettive ed esigenze del diritto penale moderno.
Ed è, ovviamente, con tale nuova maturata ermeneutica giuridico-penale e con tali nuove esigenze del diritto penale che il giurista deve ora fare i conti, sul versante di un approdo interpretativo che – come sopra si diceva – sia rispettoso del dettato della Legge fondamentale, o altrimenti ricognitivo della impossibilità della riconduzione della norma a tali canoni di adesione e correttezza costituzionale.
Il criterio nosografico non è stato recepito nel nostro ordinamento
9.1 Il legislatore del 1930 legiferò, dunque, tenendo presente quel modello proposto dalla scienza medica, allora imperante, o comunque prevalente, e nei lavori preparatori del codice si fece, coerentemente, riferimento al vizio di mente “come conseguenza d’infermità fisica o psichica clinicamente accertata”, ad una “forma patologicamente e clinicamente accertabile di infermità”.
Da tanto, una voce autorevole della dottrina ha ritenuto che “il criterio nosografico sia stato implicitamente recepito nel nostro ordinamento”, così rispondendo al quesito che, “se si dovesse riconoscere nella ‘infermità mentale’ una categoria chiusa, l’argomento storico andrebbe – ovviamente – ritenuto conclusivo per l’individuazione del modello di infermità penalmente rilevante”; difatti, “se il ‘contenuto’ della categoria ‘infermità di mente’ penalmente rilevante era naturalmente offerto, al momento della redazione codicistica, dalle sole patologie allora note alla scienza psichiatrica, non v’è dubbio… che il corrispondente ‘concetto’, normativamente recepito, consistesse in quello di ‘lesione cerebrale a carattere organico’”.
Tale assunto (che sembra, per vero, isolato nel panorama dottrinario) non può condividersi.
Come, difatti, è stato già rilevato da altra autorevole dottrina, la formulazione della norma è, in effetti, avvenuta con tecnica di “normazione sintetica”, adottando, cioè, “una qualificazione di sintesi mediante l’impiego di elementi normativi…, rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice”.
In sostanza, “così operando, il legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)”.
Se così è, non può, dunque, dirsi che “il criterio nosografico sia stato implicitamente e definitivamente recepito nel nostro ordinamento”, dovendosi invece ritenere che la disposizione normativa si limitava a fare riferimento alla norma extragiuridica, nel suo essere e nel suo divenire, e che la individuazione di questa, nella sua realtà non solo attuale, ma anche successivamente specificabile in itinere, spetta pur sempre oggi all’interprete, che deve individuarla alla stregua delle attuali acquisizioni medico-scientifiche al riguardo, non potendo, quindi, ritenersi cristallizzato, come definitivamente acquisito dal nostro ordinamento, un precedente parametro extragiuridico di riferimento, ove lo stesso sia superato ed affrancato, nella sua inattualità ed obsolescenza, da altri (e veritieri) termini di riferimento, e dovendosi invece, perciò, in proposito procedere in costante aderenza della norma alla evoluzione scientifica, cui in sostanza quella ab imis rimandava. Rimane, nondimeno, la problematicità del rinvio, giacché la individuazione del parametro normativo extragiuridicio, già di per sé incerto, può evidenziare connotati di indeterminatezza nella misura in cui non trovi riscontri univoci nel contesto di riferimento, debordando verso approdi di indeterminatezza contrastanti con il principio di tassatività.

Differenza tra malattia ed infermità
10.0 In prima approssimazione, deve innanzitutto osservarsi che, in effetti – come pure non si è mancato di evidenziare in dottrina – gli articoli 88 e 89 c.p. fanno riferimento non già ad una “infermità mentale”, ma ad una “infermità” che induca il soggetto “in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” o da farla “scemare grandemente” (gli articoli 218 e 222 c.p., in tema di presupposti per l’applicabilità della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia, parlano invece espressamente di “infermità psichica”): se ne è giustamente inferito che “non è l’infermità in se stessa (neppure, a rigore, la più grave) a rilevare, bensì un ‘tale stato di mente’, da essa determinato, ‘da escludere la capacità di intendere o di volere’”, o da farla ritenere “grandemente scemata”; ulteriore corollario di tale rilievo è l’annotazione che tali norme non circoscrivono il rilievo alle sole infermità psichiche, ma estendono la loro previsione anche alle infermità fisiche, che a quello stato di mente possano indurre.

10.1 Sempre per quanto concerne il dato testuale di tali norme, deve, poi, convenirsi con quanto rilevato in dottrina ed in più decisioni di questa Suprema Corte (per tutte, esaustivamente, Cass., Sez. I, n. 4103/1986), ed evidenziato nell’odierna udienza anche dal P.G. requirente, che, cioè, il concetto di “infermità” non è del tutto sovrapponibile a quello di “malattia”, risultando, rispetto a questo, più ampio.
Deve, invero, innanzitutto rilevarsi la circostanza – evidenziata anche dalla difesa del ricorrente nell’odierna discussione orale – che, a fronte di tale specifica indicazione di “infermità”, il legislatore usi altrove espressamente il diverso termine di “malattia nel corpo o nella mente” (articoli 582, 583 c.p.).
Ma, in ogni caso, brevemente approfondendo il tema, mette conto di rilevare che in alcune delle più autorevoli versioni dizionaristiche della lingua italiana, la malattia è definita come “lo stato di sofferenza dell’organismo in toto o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano”, ed “elemento essenziale del concetto di malattia è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può essere, a seconda dei casi, la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di vita….”, avvertendosi anche che “dal concetto di malattia sono esclusi i cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie condizioni di anormalità morfologica, o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui non vi sono tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono compatibili con uno stato generale di buona salute: anomalie e deformità varie, postumi di malattie (come cicatrici e anchilosi), daltonismo, balbuzie, ecc..”; e solo figurativamente il termine sta anche ad indicare “eccitazione, esaltazione, esasperazione di un sentimento o di una passione; stato di forte tensione o turbamento emotivo; situazione di squilibrio determinato da una fantasia troppo accesa o anche da leggerezza, da stoltezza; attaccamento morboso; idea fissa, mania; tormento, angoscia, sofferenza interiore…”
La giurisprudenza di legittimità formatasi in riferimento all’art. 582 c.p. ha ritenuto che “il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte” (Cass., Sez. V, n. 714/1999; id., Sez. IV. n. 10643/1996); che esso comporti “alterazioni organiche o funzionali sia pure di modesta entità (Cass., Sez. I, n. 7388/1985), “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata” (Cass., Sez. V, n. 5258/1984), ed in tale concetto è stata inclusa anche la “alterazione psicopatica” che sia in rapporto diretto di causalità con la condotta dell’agente (Cass., Sez. V, n. 5087/1987). E questa Suprema Corte, affrontando il tema del significato del termine “dal punto di vista etimologico” in specifico riferimento alla tematica che occupa, ha rilevato che quello di “malattia” “indica un concetto dinamico, un modo di essere che in un certo momento ha avuto inizio” (Cass., Sez. I, n. 4103/1986, cit.).
Il termine “infermità”, invece, dal latino infirmitas, a sua volta derivato da infirmus (in privativo e firmus, fermo, saldo, forte), è dai dizionari della lingua italiana assunto come “termine generico per indicare qualsiasi malattia che colpisca l’organismo (o, più precisamente, lo stato, la condizione di chi ne è affetto), soprattutto se permanente o di lunga durata e tale da immobilizzare l’individuo, o da renderlo totalmente o parzialmente inabile alle sue normali attività….”; esso indica la “condizione di chi è ammalato, invalido. In particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che colpisce una persona, o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte….. Difetto fisico, menomazione… Insufficienza, deficienza; inadeguatezza…”.
E la predetta sentenza di questa Suprema Corte ulteriormente rileva che tale termine “esprime un concetto statico, un modo di essere senza alcun riferimento al tempo di durata…”; sicché, in sostanza, “la nozione medico-legale di ‘malattia di mente’ viene identificata nell’ambito della più vasta categoria delle ‘infermità’…”, riconoscendosi “un valore generico al termine ‘infermità’ e un valore specifico al termine ‘malattia’…”.
Anche a voler seguire l’opinione di una autorevole voce della dottrina, secondo cui quella della differenza tra malattia ed infermità, nel contesto della tematica che qui rileva, sarebbe, oggi, “una questione meramente nominale, questione solo di parole, dietro cui non esiste più alcun concetto”, rimane, nondimeno, che nella prospettazione codicistica, il termine di infermità deve ritenersi, in effetti, assunto secondo una accezione più ampia di quello di malattia, e già tanto appare mettere in crisi, contrastandolo funditus, il criterio della totale sovrapponibilità dei due termini e con esso, fra l’altro ed innanzi tutto, quello della esclusiva riconducibilità della “infermità” alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico, o, come altra volta è stato più restrittivamente detto, come “malattia fisica del sistema nervoso centrale”.

I disturbi della personalità possono essere causa idonea ad escludere o grandemente scemare (in presenza di determinate condizioni), in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto
10.2 Vero è, d’altra parte, che gli articoli 88 e 89 non possono non esser letti che in stretto rapporto, sistematico e derivativo, con il generale disposto dell’art. 85 c.p., sicché, anche in riferimento alle rigide classificazioni nosografiche della psichiatrica ottocentesca di stampo organicistico-positivistico, pertinente è il rilievo di autorevole dottrina, secondo cui, proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di “infermità” rispetto a quello di “malattia”, “non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo”, che lasci integra o meno la capacità di “poter agire altrimenti”, posto che – come di sopra si è già accennato – solo nei confronti di soggetti dotati di tali capacità può concretamente parlarsi di colpevolezza.
E si è da altra autorevole voce della dottrina anche osservato che “certo, una formulazione normativa che, seppure a livello esemplificativo, intervenga a sottolineare più incisivamente il potenziale rilievo di disturbi psichici che, anche al di fuori di malattie psichiatriche…, valgano egualmente ad indiziare l’inimputabilità…, è in sede di riforma auspicabile.
Essa non è però essenziale, poiché anche l’attuale art. 88, interpretato nel sistema delineato dall’art. 85 (soprattutto) e dalle altre disposizioni in tema di capacità di intendere e di volere, consente di pervenire alle medesime conclusioni”.
Tanto comporta anche la irrimediabile crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche.
D’altronde, a tale sostanzialistica esigenza mostrano, talora implicitamente, di fare riferimento tutte quelle decisioni di questa Suprema Corte, le quali hanno ritenuto che sia essenziale non tanto la rigida classificabilità del disturbo psichico in una specifica categoria nosografica, quanto, invece, la sua attitudine ad incidere, effettivamente e nel caso concreto, nella misura e nei termini voluti dalla norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente (Cass., Sez. I, n. 33230/2004; id., Sez. I, n. 24255/2004; id., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 558/1992; id., Sez. I, n. 858/2001; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., S ez. I, n. 4861/1988; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 7327/1982).
Ed avverte al riguardo autorevole dottrina che, in prospettiva riformistica, oggi “del tutto risibile sarebbe una scelta del legislatore a favore del metodo nosografico di stampo tradizionale, in particolare di tipo rigido”, giacché la nuova maturata realtà psichiatrico-forense “mostra quello che appare l’irreversibile superamento di una possibile soluzione normativa in tal senso della questione imputabilità. Scelte di tal genere porterebbero allo scollamento fra il dato empirico e quello legislativo e a una eccessiva rigidità della disciplina normativa in punto di imputabilità, a scapito delle istanze garantistiche dettate dal principio di colpevolezza e da quello di risocializzazione”, e dovendo, semmai, il legislatore orientarsi “a livello normativo a soluzioni tipiche del programma c.d. di scopo”, occorrendo al riguardo “potenziare quello che si è definito il terzo piano del giudizio di imputabilità, cioè quello sanzionatorio, relativo all’opportunità di punire e alla scelta del tipo di sanzione in ragione della sensibilità che il singolo agente manifesta nei confronti della stessa”.

11.0 Il più moderno e diffuso Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-IV, messo a punto dall’American Psychiatric Association nel 1994 – in gran parte sovrapponibile all’altra classificazione dettata dall’ICD-10, adottata nel 1992 da gran parte degli Stati membri della Organizzazione Mondiale della Sanità -, utilizzato da quasi tutti gli esperti psichiatri, enuclea – con una nomenclatura nosografica che richiama sindromi e non malattie – i principali disturbi mentali in diciassette classi diagnostiche, e tra queste include l’autonoma categoria nosografica dei disturbi della personalità, che comprende, suddivisi in tre gruppi, il disturbo paranoide di personalità, quello schizoide, quello schizotipico, quello antisociale, quello borderline, quello istrionico, quello narcisistico, quello evitante, quello dipendente, quello ossessivo-compulsivo, e rimanda anche ad una categoria residua, quella del “disturbo di personalità non altrimenti specificato”, nella quale andrebbero ricondotte “le alterazioni di funzionamento della personalità che non soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo della Personalità”.
Tali disturbi della personalità rientrano nella più ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, com’è noto, da quella delle psicosi, queste ultime considerate, anche dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. VI, n. 24614/2003; id., Sez. I, n. 659/1997), vere e proprie malattie mentali, comportanti una perdita dei confini dell’Io; il disturbo della personalità, invece, si caratterizza come “modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative di cultura dell’individuo”, e “i tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili, non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva”.
D’altronde, pure si annota in dottrina che nel 1997, nel nostro Paese, i disturbi della personalità hanno inciso notevolmente sul numero delle ammissioni ai servizi psichiatrici degli istituti di cura: su un totale di 52.443 ammissioni per “neurosi e turbe psichiche non psicotiche”, ben 10.862 sono stati per disturbi della personalità; ed anche tali dati empirici, pure indicativi di un generalizzato apprezzamento medico-diagnostico di siffatte patologie, non possono non assumere notevole rilievo al riguardo.
In dottrina sono state espresse riserve su tale catalogazione, rilevandosi il suo “eccessivo nominalismo” e come essa consegua alla premessa che “non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i precisi confini del concetto di disturbo mentale”, e ponendosi “l’altra difficoltà, di ordine semantico, relativa all’uso di questa o quella terminologia per definire la stessa sindrome che spesso appare trattata ’come se’ fosse entità clinica a sé stante…”.
Si è anche rilevato che – come già anticipato – nel DSM “il ‘concetto di ‘disturbo’ si colloca al di fuori di una ottica eziopatogenetica”, cioè “non si parte dall’idea che a ogni disturbo corrisponde una entità fondata su una specifica eziopatologia”, ma “si parla di disturbo solo in senso sindromico”.
Ora, queste ed altre osservazioni critiche meritano indubbia attenzione, sia per la soggettiva autorevolezza della fonte che le esprime, sia per la oggettiva loro rilevanza.
E però, anche la dottrina psichiatrico-forense appare concordare, ormai, sulla circostanza che, essendo questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso occorra fare riferimento per la riconducibilità classificatoria del disturbo; e, per altro verso, nessun dubbio – come pure si riconosce in dottrina – dovrebbe oggi permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa essere riconosciuta la natura di “infermità”, e quindi una loro potenziale attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del sapere psichiatrico, anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si fonda su basi sindromiche e non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente orientata la attuale scienza psichiatrica), per un verso (come ancora si annota in dottrina), è presente nella psichiatria forense “un consenso quasi unanime circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia mentale”; e, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, come si è visto, l’affermazione che rilevino al riguardo anche “disturbi clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso significativamente sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto”. La non definibilità clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non accertabilità eziologia dello stesso, in un campo poi, quello della mente umana, ancora avvolto da cospicue connotazioni di “dubbio e mistero”, e da incoglibile esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di “malattie funzionali: termine usato per indicare le malattie in cui non vi sono segni dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le prestazioni di essi siano ridotte”.
E quanto all’”eccessivo nominalismo” ed ai limiti “di ordine semantico” della espressione, deve ritenersi che (non solo de iure condito, ma, verosimilmente, anche de iure condendo, in riferimento a progetti di riforma di cui più oltre si dirà) il problema non sembra essere quello del riferimento meramente nominalistico ad una formula piuttosto che ad un’altra, che, da sole, difficilmente possono avere assoluta ed oggettiva capacità descrittiva e chiarificatrice, definitivamente risolutoria; qualificata dottrina medico-legale pure afferma, al riguardo, che “appare un semplice esercizio dialettico disquisire su infermità ed anomalia e sulle etichette diagnostico-nosografiche perché al legislatore ed al giudice non interessa quello che c’è a monte ma se la capacità di intendere o di volere era (o non era) annullata o grandemente scemata al momento del fatto” (può osservarsi che, in verità, al giudice deve interessare anche “quello che c’è a monte”, esso costituendo snodo rilevante per la espressione ed il controllo del giudizio sulle capacità intellettive e cognitive dell’agente; ma, indubitabilmente, ciò che definitivamente rileva è solo l’accertamento di queste ultime, ai fini dell’imputabilità).
Si tratta, invece, di stabilire in concreto, e non in astratto, la rilevanza di alcune tipologie di disturbi mentali, sicché, quanto a quella del “disturbo di personalità” che qui interessa, si tratta di accertare e stabilire come esso si manifesti in concreto, nel soggetto, nel caso singolo: ed ove l’accertamento svolto sia indicativo di una situazione di infermità mentale che escluda la rimproverabilità della condotta al soggetto agente, cioè la sua colpevolezza – secondo quanto si è sopra detto -, non può non trovare applicazione il disposto della norma in questione, in riferimento al generale principio indicato dall’art. 85 c.p..
E per il resto, quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico, dovendosi anche ritenere superato l’orientamento inteso a sostenere la “estrema normativizzazione del giudizio sulla imputabilità”, che sostanzialmente finisce col negare la base empirica del giudizio medesimo, pervenendo “alla creazione di un concetto artificiale”; sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare – pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio – e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d’altra parte e più in generale, ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene assegnato, anche dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta considerate assolutamente “esatte”, del tutto pacifiche e condivise (nel tramonto “dell’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione”, come è stato autorevolmente scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo del sapere medico.
Non sembra, difatti, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e pur nella varietà dei paradigmi al riguardo proposti e della relativa indotta problematica difficoltà, che possa pervenirsi ad un conclusivo giudizio di rinvio a fatti “non razionalmente accertabili”, a fattispecie non “corrispondenti a realtà”, “da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice”, situazione che, ove sussistente, sarebbe senz’altro indiziata di evidente contrasto col principio di tassatività (Corte Cost., n. 96/1981; id,. n. 114/1998), per altro verso inducente ad un conseguente giudizio di impossibilità oggi, e verosimilmente domani, di dare attuazione al disposto dell’art. 85 c.p. e, prima ancora, di mantenere tale norma, laddove, per vero – come è detto nella relazione della Commissione al Progetto c.d. Grosso del 2000 -, “il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantistico”, e la dottrina rimarca che “il concetto di imputabilità… è del tutto fondamentale e del resto ben saldo nella cultura, nella costruzione e negli sviluppi del diritto penale moderno”.

11.1 Deve, dunque, ritenersi che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare (in presenza di determinate condizioni, di cui più oltre si dirà), in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente.
D’altra parte, anche quell’indirizzo che fa leva sul “valore di malattia” appare evocare un concetto psicopatologico forense, idoneo ad individuare situazioni che, indipendentemente dalla loro qualifica clinica, “assumono significato di malattia”, meglio “significato di infermità”, per quanto si è sopra chiarito, e quindi idonee ad incidere sulla predetta capacità di intendere e di volere: e pure si avverte che, in ogni caso, “se un tempo si affermava che non tutte le malattie in senso clinico avessero ‘valore di malattia’ in senso forense, oggi si pone soprattutto l’accento sul fatto che, viceversa, vi possono essere situazioni clinicamente non rilevanti o classificate che in ambito forense assumono ‘valore di malattia’ in quanto possono inquinare le facoltà cognitive e di scelta”.

12.0 Del resto, anche le più recenti legislazioni di altri Paesi (l’art. 122.1 del codice penale francese, modificato nel 1993; l’art. 20 del codice penale tedesco, modificato nel 1975; l’art. 37 del codice penale olandese; l’art. 20 del codice penale spagnolo, modificato nel 1995; l’art. 104 del codice penale portoghese, modificato nel 1995; l’art. 16 del codice penale sloveno del 1995; una nuova legge in materia psichiatrica introdotta in Svezia nel 1992) appaiono discostarsi da un rigido modello definitorio, in favore di clausole “aperte” che, in uno con i criteri normativi, psicologici e biologici, siano idonee alla espressione di un giudizio sulla capacità di intendere e di volere, rispettoso delle esigenze garantistiche e preventive indotte dal caso concreto.
Tali formule “aperte” (“disturbo psichico o neuro psichico”, “turbe mentali patologiche, per un profondo disturbo della coscienza, per deficienza mentale od altra grave anomalia mentale”, “condizioni psicopatologiche di carenza dello sviluppo o disturbo morboso delle capacità mentali”, “qualsiasi anomalia o alterazione psichica”, “anomalia psichica”, “infermità mentale permanente o temporanea, disturbi psichici temporanei, sviluppo psichico imperfetto o altra anomalia psichica permanente e grave”, “ “disturbo psichico”) appaiono idonee ad attribuire rilevanza anche ai disturbi della personalità, ai fini della imputabilità del soggetto agente.
E ciò che accomuna queste disposizioni normative appare essere non solo l’adozione di formule “aperte”, elastiche, ma anche l’aver ancorato la valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di valutazione del fatto di reato e quindi della capacità di comportarsi secondo tale valutazione, con la prospettazione, quindi, di un nesso eziologico fra infermità e reato, assunto a requisito della non imputabilità.
Può soggiungersi che nelle conclusioni del VII Colloquio Criminologico del Consiglio d’Europa (Strasburgo, 25-27 novembre 1985), si osservava, tra l’altro, che “le legislazioni penali esistenti negli Stati membri del Consiglio d’Europa presentano una notevole varietà circa le terminologie ed i concetti fondamentali concernenti la nozione di responsabilità dell’autore di un reato e dei fattori che possono escludere o attenuare la stessa”, e che “la tendenza prevalente è di porre agli esperti un quesito che comprenda, nello stesso tempo, l’aspetto psicopatologico (malattia mentale) e l’aspetto giuridico-normativo (responsabilità o concetti similari)…”.

13.0 Le incertezze interpretative e conseguentemente applicative collegate alla esatta individuazione del concetto di malattia mentale, o di infermità mentale, sia sul versante psichiatrico che su quello giuridico, sono state da tempo oggetto di riflessioni e di proposte nell’ambito di progetti di riforma del codice penale.
Così, nello schema di disegno di legge-delega del 1992 (c.d. Progetto Pagliaro), era prevista (art. 34) la esclusione della imputabilità per il soggetto che, al momento della condotta, “era, per infermità di mente o per altra anomalia…, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere… Nei casi suddetti, se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, diminuire la pena”.
Nello schema del disegno di legge n. 2038/S del 1995 (c.d. Progetto Ritz) si prevedeva (art. 83) che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”; e sugli stessi presupposti era disciplinato il vizio parziale di mente (art. 84).
Nel progetto preliminare di riforma del codice penale (c. d. Progetto Grosso), nel testo del 12 settembre 2000, si prevedeva (art. 96) che “non è imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia…., nel momento in cui ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione”.
Nel testo del 26 maggio 2001, più esplicitamente per il tema che qui interessa, si prevedeva (art. 94) che “non è imputabile chi, per infermità o altro grave disturbo della personalità…, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione”. E nel disciplinare la “finalità del trattamento e diminuzione di pena” (art. 100), si richiamava ancora la “infermità o altro grave disturbo della personalità”.
Quanto al primo di tali testi del c.d. Progetto Grosso, si legge nella relativa Relazione che “potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo”; ma che, nondimeno, si ritiene “preferibile un chiarimento legislativo, mediante l’introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica”, che “renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione dell’imputabilità, di situazioni problematiche, come le nevrosi e le psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza”. Ed alle obiezioni circa il rischio di un possibile indebolimento della tenuta generalpreventiva del sistema penale, si rispondeva rilevando che “nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell’imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi”.
L’espressione “grave anomalia” è stata, poi, sostituita con quella “altro grave disturbo della personalità” anche a seguito dello scetticismo mostrato dalla scienza psichiatrica, che ha rivendicato la utilizzazione della più scientifica definizione del termine “disturbo mentale”, e delle riserve avanzata dalla dottrina penalistica, che ha rilevato come il generico contenuto del termine “anomalia” (che “ripropone l’inesistente parametro della normalità”) si affianchi a quello altrettanto generico di “infermità”, con il rischio di aprire varchi eccessivi a disturbi minori, senza che il richiamo alla “gravità” possa fungere da serio elemento frenante. Ed ha rilevato la Commissione che “la scelta legislativa più ragionevole” è da individuare in quella di “assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atte a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui dal dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza”.
Pur evidenziandosi in dottrina una certa ambiguità anche di tale formula sostitutiva, rimane che anche i progetti di riforma del codice sostanziale, sul punto, appaiono improntati ad un orientamento “aperto” nella individuazione della malattia (rectius: infermità) penalmente rilevante e sembrano orientare verso tendenze sostanzialmente conformi a quelle codificate in altri Paesi, abbandonando definitivamente – anche per espresso dictum lessicale – un rigido modello definitorio ed optando per la utilizzazione di formule “elastiche”.
V’è da aggiungere che nel Progetto del codice penale del 2004 (cd. Progetto Nordio), che allo stato è possibile conoscere solo nel suo testo provvisorio e non ufficiale, si prevede (art. 48) che “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se nel momento della condotta costitutiva non aveva, per infermità, la capacità di intendere e di volere, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla incapacità. Agli effetti della legge penale la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione”.
Sembra, quindi, che rimanga sostanzialmente immutato l’attuale riferimento lessicale al termine “infermità”; e si legge nel commento di accompagnamento che “si ritiene irrinunciabile il riferimento all’infermità, pur tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi – con apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale – quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive del tipo disturbo psichico, disturbo della personalità, psicopatia (fenomeni, secondo prassi censurabili, valutati anche da non specialisti psichiatrici o medico-legali sulla base di parametri socio-culturali, tipo l’abusata figura del soggetto c.d. border line”).

14.0 Anche per tali vie (gli esempi provenienti dalle legislazioni straniere, indicativi di un modello “aperto” di disciplina normativa, e, quanto meno, la gran parte dei progetti riformatori) appare confermarsi l’orientamento del riconoscimento di possibile rilevanza penale ai disturbi della personalità; ed in tal senso appaiono orientati, ancorché con grande cautela, anche cospicua parte della dottrina, della scienza psichiatrica che dà maggiore valore ai contenuti psicologici della infermità mentale, quel filone della giurisprudenza di legittimità del quale si è sopra già detto.
Tale conclusivo divisamento, del resto, si appalesa, al postutto, pienamente in consonanza col disposto dell’art. 85 c.p. – di cui, anzi, si pone come ineludibile germinazione – e, più in generale ed ancor prima, con la impostazione sistematica dell’istituto, secondo il suo orientamento costituzionale cui sopra si è accennato: ai fini di tale codificato generale principio, difatti, non può non rilevare una situazione psichica che, inserita nel novero delle “infermità”, determini, ai fini della imputabilità, una incolpevole non riconducibilità di determinate condotte al soggetto agente, quale persona dotata “di intelletto e volontà”, libera di agire e di volere, cognita del valore della propria azione, che ne consenta la sua soggettiva ascrizione, senza che su tale sostanziale condizione possa fare aggio la mancanza (o la difficoltà) della sua riconducibilità ad un preciso, rigido e predeterminato, inquadramento clinico, una volta che rimanga accertata la effettiva compromissione della capacità di intendere e di volere.

La necessità dell’accertamento in concreto della gravità del disturbo e della sua incidenza effettiva sulla capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o grandemente scemandola.
15.0 Lo stesso letterale disposto degli articoli 88 e 89 c.p. indica che non è sufficiente, ai fini della imputabilità, l’accertamento della infermità (per quanto grave essa possa essere, nel suo inquadramento nosografico), ma, nel contesto di un indirizzo “biopsicologico” che si ritiene accolto dal legislatore, è necessario accertare, in concreto, se ed in quale misura essa abbia inciso, effettivamente, sulla capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o grandemente scemandola.
Per quanto riguarda, quindi, per quel che più specificamente qui interessa, i disturbi della personalità, essi – che innanzitutto si caratterizzano, secondo il predetto manuale diagnostico, per essere “inflessibili e maladattativi” – possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della personalità, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand’anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle “malattie” mentali, possono costituire anch’esse “infermità”, anche transeunte, rilevante ai fini degli articoli 88 e 89 c. p., ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive. Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi: ed a tale accertamento il giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, l’indispensabile apporto e contributo tecnico, ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali.
Tali requisiti ha più volte evocato la giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha esaminato la incidenza, in subiecta materia, per lo più delle psicopatie, nel cui novero sono ascrivibili, come s’é detto, i disturbi della personalità.
Si è, così, fatto riferimento, nei diversi e variegati contesti motivazionali apprezzati, ai casi in cui “… “le c.d. personalità psicopatiche…, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di volere” (Cass., Sez. I, n. 33130/2004 , in una fattispecie in cui è stata esclusa la rilevanza di un disturbo della personalità di tipo bordeline, “analiticamente e puntualmente motivato”; id., Sez. VI, n. 7845/1997, ancora in tema di un disturbo della personalità bordeline); al “carattere di cogente imperatività” (Cass., Sez. I, n. 27708/2004, in riferimento a “disturbo delirante cronico”); alla infermità “che incida in modo rilevante sui processi intellettivi e volitivi”, rendendo il soggetto incapace “di rendersi conto del valore delle proprie azioni e di determinarsi in modo coerente con le rappresentazioni apprese” (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, a proposito di “particolari tratti della personalità” e di un prospettato, ma escluso, “disturbo bordeline di personalità”); alla manifestazione del disturbo “con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi” (Cass., Sez. I, n. 19532/2003, a proposito di “nevrosi e psicopatie”; id. Sez. I, n. 3536/1997, ancora a proposito di “nevrosi e psicopatie” e sussistenza o meno di una “degenerazione della sfera intellettiva e cognitiva dell’agente”); alla sussistenza di “una persistente coscienza ed organizzazione del pensiero”, o di “un’avvenuta rottura del rapporto con la realtà” (Cass., Sez. I, n. 15419/2002, a proposito di “disturbi della personalità di tipo bordeline” con “componenti narcisistiche”, ritenute, nella specie, non “sufficienti a configurare una situazione di impossibilità di scegliere”); ad “uno squilibrio mentale a causa della intensità delle deviazioni caratteriali” (Cass., Sez. I, n. 13029/1989, indotto da “una gravità della psicopatia tale da determinare un vero e proprio stato patologico”); ad una “rivoluzione psicologica interna per cui l’individuo è diventato estraneo a se stesso”, ad “una effettiva compromissione della coscienza, attestata da uno stato confusionale acuto” (Cass., Sez. I, n. 4492/1987). Anche l’indirizzo giurisprudenziale che, più specificamente ed esplicitamente, fa riferimento al “valore malattia” appare prospettare non già una sovrapposizione nosografica dei due termini (“malattia” ed “infermità”), ma piuttosto una coincidenza di risultati valutativi quanto ai finali esiti della sussistenza o meno di una compromissione della capacità intellettiva e volitiva: il tema risulta in particolare più diffusamente affrontato nella citata sentenza n. 4103/1986, della I sezione penale, la quale – puntualizzata la differenza tra “malattia” ed “infermità” – rileva che con tale ultimo concetto “si intende esprimere il ‘grado di diversità’ fra le direttive abituali di una personalità ed i modi di reazione suoi propri, da un lato, ed il suo comportamento abnorme dall’altro, in modo da poter chiarire come, partendo dall’essere ‘infermo’ dell’individuo, siano state in concreto limitate o addirittura annullate le possibilità di un minimo adattamento individuale alla convivenza sociale”.

15.1 Ne consegue, per converso, che non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere e del sentimento”, quelle legate “alla indole” del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto. (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. III, n. 22834/2003; id., Sez. VI, n. 7845/1997).
Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all’art. 90 c.p. (sul quale, peraltro, pure si appuntano critiche dottrinarie, ritenendosi, fra l’altro, tale disposizione “priva di una fondata base empirica e motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale e per questo in contrasto con il principio di colpevolezza”), salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di “infermità”, avente le connotazioni sopra indicate (Cass., Sez. I, n. 967/1998; id., Sez. I, n. 3170/1995; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 1347/1991; id., Sez. V, n. 8660/1990; id., Sez. I, n. 9084/1987; id., Sez. VI, n. 2285/1985); concordi su tanto anche autorevoli voci della dottrina, che fanno riferimento a “casi di estrema compromissione dell’Io”.

Il necessario nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il fatto di reato
16.0 E’, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo.
Invero, la dottrina ha da tempo posto in rilievo come le più recenti acquisizioni della psichiatria riconoscano spazi sempre più ampi di responsabilità al malato mentale, riconoscendosi che, pur a fronte di patologie psichiche, egli conservi, in alcuni casi, una “quota di responsabilità”, ed a tali acquisizioni appare ispirarsi anche la L. n. 180/1978, nel far proprio quell’orientamento psichiatrico secondo cui la risocializzazione dell’infermo mentale possa avvalersi anche della sua responsabilizzazione in tal senso.
L’esame e l’accertamento di tale nesso eziologico si appalesa, poi, necessario al fine di delibare non solo la sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico-soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al giudice – cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo – di compiutamente accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo “settoriale”), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un’ottica, concreta e personalizzata, di rispetto della esigenza generalpreventiva, da un lato, di quella individualgarantista, dall’altro.
Né può ritenersi che a tanto osti il dettato della norma: facendo essa riferimento solo “al momento in cui lo ha commesso”, si intende, con ciò, postulare la necessaria attualità della capacità di intendere e di volere a quel momento, ma non si esclude affatto che quella capacità debba essere, appunto a quel momento, valutata, nella sua incidenza psico-soggettiva in riferimento al fatto medesimo, in relazione alle connotazioni motivanti ed eziologiche dello stesso.
Ed a tali principi si sono spesso richiamate, già da tempo, molte sentenze di questa Suprema Corte (Cass., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 4122/1986; id., Sez. I, n. 14122/1986; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 19532/2003).

17.0 Possono a tal punto raccogliersi le fila del discorso giustificativo sin qui svolto e trarsi la conclusione che deve essere affermato il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 173.3 disp. att. c.p.p.: ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa.

18.0 Alla stregua di tanto, sussistente si appalesa l’error iudicis nel quale è incorsa la sentenza impugnata; la quale è erroneamente pervenuta alla esclusione del vizio parziale di mente evocando il criterio della “alterazione patologica clinicamente accertabile” e della “alterazione anatomico-funzionale della sfera psichica”, ritenendo che in ogni caso i “disturbi della personalità… non integrano quella infermità di mente presa in considerazione dall’art. 89 c.p.”.
Gli ulteriori profili di doglianza, come già anticipato, sono stati prospettati dal ricorrente – la cui difesa tanto ha espressamente ribadito anche nell’odierna udienza – come intimamente, e propedeuticamente, connessi al primo motivo di censura; sicché essi ne rimangono, allo stato, assorbiti.
(omissis)