Scelte da Renato Bricchetti
1. Momento consumativo del furto in grande magazzino a sistema self-service
Cass. s.u. 17 luglio 2014, P.G. in proc. Prevete
La condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, non è qualificabile come furto consumato ma come furto tentato, anche allorquando l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata.
La condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, non è qualificabile come furto consumato ma come furto tentato, anche allorquando l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza deliberata l’11 febbraio 2013 e depositata il 25 febbraio 2013, il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, giudicando col rito abbreviato, instaurato in esito alla convalida dell’arresto e alla presentazione per il giudizio direttissimo, ha condannato, nel concorso della attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (reputata equivalente alla aggravante dell’uso della violenza sulle cose e alla recidiva), nonchè della diminuente del rito, alla pena della reclusione in tre mesi e della multa in cento Euro C.J. e P.G., dichiarati responsabili del furto tentato, commesso, in concorso tra loro, a danno del centro commerciale (OMISSIS), così riqualificata la originaria imputazione di furto consumato.
Il Tribunale ha accertato che i giudicabili, entrambi confessi, avevano prelevato dai banchi di esposizione del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti; avevano lacerato le confezioni, rimuovendo la “placchette antitaccheggio”; avevano occultato la refurtiva, celandola dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato); ed erano usciti dal centro commerciale.
All’esterno del fabbricato l’addetto alla sicurezza, F.M., il quale si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l’intervento della polizia giudiziaria che aveva tratto in arresto i due imputati.
2. Con riferimento a quanto serba rilievo nella sede del presente scrutinio di legittimità, sul punto della definizione giuridica del fatto, il Tribunale ha motivato che la concorsuale condotta delittuosa doveva essere derubricata nella ipotesi del tentativo, in quanto tutta la azione si era “svolta sotto gli occhi dell’addetto alla sicurezza il quale aveva monitorato ogni spostamento” dei due imputati e aveva deciso “di bloccarli alla rectius: dopo la barriera delle casse, anziché durante la sottrazione, per mere ragioni di opportunità”.
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte territoriale ha proposto ricorso immediato per cassazione … omissis
4. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 30 aprile 2014 l’ha rimesso alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 c.p.p..
La ordinanza ha rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, oggetto del ricorso, della qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all’atto del passaggio davanti al cassiere, quando tutta la azione delittuosa si è svolta sotto il controllo costante del personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la barriera delle casse.
4.1. Secondo un primo orientamento, invocato dal Procuratore generale ricorrente e che è stato, da ultimo ribadito con sentenza Sez. 5, n. 20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv. 256499, la condotta in parola integra gli estremi del delitto di furto consumato, nulla rilevando, al riguardo, “la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza” (così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin, Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650; Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010, Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto, Rv. 240493).
L’indirizzo in parola sostiene che il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera la cassa, senza mostrare (nè pagare) la refurtiva celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale, solo allora, “consegue istantaneamente il possesso illegittimo … indipendentemente dal monitoraggio svolto dal personale del supermercato”. Mentre, nulla rileva che fino a quell’istante il cliente, autorizzato ad apprendere dal banco di esposizione e a portare con sè la merce prelevata, “non la lasci in vista, avendola riposta nelle tasche dell’abito o in un qualsiasi contenitore”.
4.2. Secondo l’orientamento opposto, pur citato dal ricorrente, la concomitante “sorveglianza continua dell’azione criminosa” da parte del soggetto passivo o dei suoi dipendenti impedisce la consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella “sfera di vigilanza e di controllo diretto dell’offeso, il quale può in ogni momento interrompere” la condotta delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010, Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del 06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 4, n. 38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; Sez. 5, n. 7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D’Aniello, Rv. 249835; e, in tema di rapina impropria, Sez. 2, n. 8445 del 05/02/2013, Niang, n.m.).
4.3. In conclusione, sulla base del rilevato contrasto, la Sezione rimettente ha sottoposto la questione della consumazione del delitto di furto, in costanza del concomitante monitoraggio ad opera degli addetti alla sorveglianza, della condotta dell’agente, il quale, appresa la merce in esposizione, abbia superato la barriera della cassa, occultando quanto sottratto prima di essere bloccato dal personale di vigilanza.
5. Con decreto del 30 maggio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali e ne ha fissato la trattazione per la odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite, siccome formulata dalla Sezione rimettente, si sostanzia nel quesito seguente: “Se la condotta di sottrazione di merce all’interno di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato allorchè l’autore sia fermato dopo il superamento della barriera delle casse con la merce sottratta”.
omissis
3. Superata la questione preliminare in rito, lo scrutinio del quesito di diritto proposto involge, innanzi tutto, l’analisi dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (invocato dal ricorrente) nel senso della ritenuta consumazione del furto, nelle circostanze indicate, a dispetto della concomitante vigilanza del soggetto passivo del reato (o di suoi addetti) e dell’immediato recupero della refurtiva.
3.1. Oltre alle sentenze Rissotto, Piccolo, Nasi, Marin e Fornella, citate nella ordinanza di rimessione, la tesi della consumazione è stata affermata da pronunce della Cassazione sia risalenti nel tempo, che recentissime: tra le altre, Sez. 2, n. 938 del 24/05/1966, Delfino, Rv. 102532; Sez. 2, n. 2088 del 18/06/1973, dep. 1974, Mucci, Rv. 126456; Sez. 4, n. 7235 del 16/01/2004, Coniglio, Rv. 227347; Sez. 2, n. 48206 del 12/01/2011, Pezzuolo; Sez. 5, n. 25555 del 15/06/2012, Magliulo, n.m.; Sez. 5, n. 41327 del 10/07/2013, Caci, Rv. 257944; Sez. 5, n. 8395 del 2/10/2013, dep. 2014, La Cognata, n.m.; Sez. 5, n. 1701 del 23/10/2013, dep. 2014, Nichiforenco, Rv. 258671; Sez. 7, n. 6832 del 20/11/2013, dep. 2014, Pulsoni, n.m.; Sez. 5 n. 677 del 21/11/2013, dep. 2014, Flauto, n.m.; Sez. 4, n. 8079 del 12/12/2013, dep. 2014, Molinari, n.m.; Sez. 4, n. 7062 del 09/01/2014, Bergantino, Rv. 259263.
Nell’ambito di tale indirizzo talune pronunce hanno ravvisato la consumazione del furto ancor prima del superamento della barriera delle casse, allorchè l’agente, prelevata la mercè dal banco, “l’abbia nascosta sulla propria persona oppure in una borsa o, comunque, l’abbia occultata” (Sez. 2, Delfino, Rv. 102532, cit.), sulla base della considerazione che la condotta in parola “oltre alla amotio … determina l’impossessamento della res (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico gli elementi costitutivi del delitto di furto” (Sez. 5, Marin, Rv. 249842, cit.).
Altre sentenze hanno distinto: per un verso hanno ammesso la possibilità del tentativo (praticamente esclusa dalle decisioni testè citate in considerazione della immediatezza della consumazione), circoscrivendo la relativa ipotesi al caso dell’intervento della persona offesa o dei suoi incaricati, là dove costoro, avendo sorvegliato tutte le fasi della azione furtiva, la interrompano prima che l’agente abbia oltrepassato la barriera delle casse; per altro verso hanno ribadito che, in ogni caso, “il momento consumativo” del reato si realizza indefettibilmente quando il soggetto attivo sia passato davanti all’addetto alla cassa senza pagare, a prescindere dal concomitante monitoraggio della condotta delittuosa (Sez. 4, Coniglio, cit., richiamata, tra altre, da Sez. 4, Molinari, cit.).
3.2. La tesi della consumazione è, in generale, sostenuta dalla duplice affermazione: a) del perfezionamento della condotta tipizzata dello impossessamento della refurtiva, per effetto del prelievo della mercè, senza il successivo pagamento dovuto all’atto del passaggio davanti alla cassa; b) della irrilevanza della circostanza che “il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza” (così, da ultimo, Sez. 4, Bergantino, cit.).
La citata sentenza Sez. 5, n. 25555 del 2012, Magliulo, ha offerto un contributo di approfondimento, postulando essere condizione “necessaria e sufficiente perchè il … reato possa dirsi consumato che la persona offesa sia stata privata della detenzione e, per ciò, stesso sia stata posta nella condizione di doversi attivare, se vuole recuperala, nei confronti del soggetto che l’ha acquisita” e, in proposito, argomentando che l’agente, tosto che abbia “oltrepassato la barriera delle casse senza pagare la merce”, consegue “da quel momento la detenzione esclusiva e illecita” della refurtiva, “mentre, in precedenza, salvo il caso dell’occultamento, detta detenzione non poteva dirsi, nè esclusiva, nè illecita”.
La sentenza n. 8395 del 2013, La Cognata, cit., ha negato che il concomitante “controllo” dello sviluppo della azione delittuosa da parte del personale del personale di vigilanza impedisca la consumazione del furto, motivando: la circostanza è “del tutto estranea all’operato dell’agente”; la sorveglianza non ha impedito la violazione della norma; il recupero della refurtiva, in seguito all’eventuale intervento degli addetti alla sorveglianza, si colloca “nella fase post delictum”.
4. Anche il contrario orientamento trova ancoraggio (oltre che nelle più recenti sentenze Finizio, Lazaar, Bonora, D’Aniello e Niang, menzionate nella ordinanza di rimessione) in altre pronunce di legittimità, scandite nell’ampio arco temporale durante il quale si è protratto il contrasto di giurisprudenza: Sez. 5, n. 398 del 27/10/1992, dep. 1993, De Simone, Rv. 193177; Sez. 5, n. 11947 del 30 ottobre 1992, Di Chiara, Rv. 192608; Sez. 5, n. 837 del 03/11/1992, dep. 1993, Zizzo, Rv. 193486; Sez. 5, n. 3642 del 21 gennaio 1999, Imbrogno, Rv. 213315; nonchè (non massimate sul punto in esame) Sez. 4, n. 31461 del 03/07/2002, Carbone; Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano.
L’indirizzo si fonda sulla considerazione che la concomitante osservazione da parte della persona offesa, ovvero del dipendente personale di sorveglianza, dell’avviata azione delittuosa (al pari dei controlli strumentali mediante apparati elettronici di rilevazione automatica del movimento della merce, scilicet: sensori, placche antitaccheggio) e la correlata e immanente possibilità di intervento nella immediatezza, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del reato, per non essersi perfezionata la fattispecie tipizzata – dell’impossessamento, mediante sottrazione, della cosa altrui – in quanto l’agente non ha conseguito l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo, la cui “signoria sulla cosa” non è stata eliminata.
In proposito la sentenza n. 31461 del 2002, Carbone, cit., distingue, opportunamente, “l’intervento in re ipsa” a difesa della detenzione esercitato dalla persona offesa, dai dipendenti della stessa addetti alla vigilanza (o, quale atto dovuto, dalle forze dell’ordine) dall’intervento (meramente eventuale) dispiegato da un terzo estraneo (a tutela dell’altrui possesso); ed esclude che quest’ultimo tipo di intervento, connotato da accidentalità e “aleatorietà”, sia di ostacolo al riconoscimento della consumazione del reato, in quanto il recupero della refurtiva a opera del terzo estraneo presuppone la intervenuta perdita della signoria sulla cosa da parte del derubato.
Incisivamente la sentenza n. 8445 del 2013, Niang, cit., ha argomentato a sostegno dell’orientamento in esame che è da “ritenersi preferibile la tesi che tende a privilegiare un connotato di “effettività” che deve caratterizzare l’impossessamento quale momento consumativo del delitto di furto, rispetto al semplice momento sottrattivo, con la conseguenza che l’autonoma disponibilità del bene potrà dirsi realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto autonoma signoria che sul bene esercitava il detentore”.
5. Le Sezioni Unite ritengono di dover comporre il contrasto giurisprudenziale mediante la riaffermazione di tale secondo orientamento, nel senso della qualificazione giuridica della condotta in esame in termini di furto tentato.
La soluzione si colloca, peraltro, in linea di continuità col dictum della sentenza Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153.
Nel risolvere positivamente la questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria (anche) in difetto della materiale sottrazione del bene all’impossessamento del quale l’azione delittuosa era finalizzata, la citata sentenza ha argomentato, proprio con espresso riferimento al furto: “finchè la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore” e “questi è ancora in grado di recuperala” tanto fa “degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo”.
5.1. La quaestio iuris in esame involge il più ampio tema della definizione giuridica della azione di impossessamento della cosa altrui, tipizzata dalla norma incriminatrice.
5.2. L’art. 624, primo comma, cod. pen. contempla la condotta di chi “si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trame profitto per se o per altri”.
La formulazione normativa riecheggia e riproduce nel nucleo essenziale la previsione dell’art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889, salvo che per la significativa sostituzione dell’inciso modale del predicato verbale, contenuto nella previgente disposizione, che recitava “togliendola dal luogo in cui si trova”, avendo in tali termini il legislatore del 1989 recepito la teoria della amotio, eletta dalla dottrina dell’epoca per denotare l’impossessamento mediante, appunto, l’adozione del criterio c.d. spaziale.
La norma vigente ha espunto siffatto criterio introducendo quello personale o funzionale della sottrazione.
Sicché la descrizione della condotta delittuosa risulta scandita dal sintagma impossessamento-sottrazione.
5.3. L’analisi della dottrina in punto di definizione e di rapporto reciproco dei due segmenti della condotta delittuosa, sinergicamente configurati nel costrutto sintattico della norma incriminatrice, caratterizzato dalla adozione del verbo “sottrarre” nella subordinata, non ha, per vero, approdato a condivise conclusioni, ora accentuandosi la distinzione cronologica e logica dei momenti della sottrazione e dell’impossessamento, ora controvertendosi in ordine alla relativa sequenza, ora enfatizzando la pregnanza dell’uno piuttosto che dell’altro.
Nel caso in esame le difficoltà sono acuite da due ordini di fattori:
a) la sovrapposizione, rilevata in talune delle sentenze citate, dei piani affatto diversi della qualificazione della condotta e della prova del reato e, segnatamente, dell’elemento psicologico;
b) la relazione di tipo prenegoziale, presupposta dalla condotta delittuosa, che lega l’agente al soggetto passivo, offerente in vendita della mercè esposta, e che abilita il primo al prelievo dei beni dai banchi di esposizione.
In tale prospettiva la condotta dell’agente il quale oltrepassi la cassa, senza pagare la merce prelevata, rende difficilmente contestabile l’intento furtivo, ma lascia impregiudicata la questione se la circostanza comporti di per sè sola la consumazione del reato, quando l’azione delittuosa sia stata rilevata nel suo divenire dalla persona offesa, o dagli addetti alla vigilanza, i quali, nella immediatezza intervengano a difesa della proprietà della merce prelevata.
La nozione di impossessamento
5.4. Decisiva è, al riguardo, la premessa che in difetto del perfezionamento del possesso della refurtiva in capo all’agente è, comunque, certamente da escludere che il reato possa ritenersi consumato.
La considerazione assorbe la disamina del controverso rapporto tra la sottrazione e l’impossessamento.
Orbene, appare difficilmente confutabile – e il dato deve ritenersi acquisito per generale consenso e in carenza di veruna apprezzabile obiezione – che l’impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell’agente.
Sicché, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall’intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell’impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell’ambito del tentativo.
La conclusione riceve conforto dalla considerazione dell’oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività.
In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei “singoli tipi di reato” da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Affatto coerente risulta, pertanto, l’aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione (anche se istantanea) della “signoria che sul bene esercitava il detentore”, come esattamente individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo dell’azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di controllo dell’offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la qualificazione della condotta in termini di tentativo.
6. La conclusione raggiunta resiste alle obiezioni espresse nelle sentenze che si sono uniformate al contrario indirizzo.
6.1. Sono ricorrenti nelle pronunce in parola i riferimenti alla amotio della refurtiva da parte dell’agente.
La teoria della amotio, in linea generale, appare anacronistica in quanto non è confortata dall’addentellato normativo, in precedenza offerto dell’art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889.
Inoltre, con specifico riferimento al caso in esame, il criterio spaziale dello spostamento della cosa “dal luogo in cui si trova” non è certamente applicabile alla apprensione della merce dal banco di esposizione del negozio in quanto il sistema di vendita selfservice abilita l’avventore al prelievo.
6.2. L’argomento che la sorveglianza dell’offeso non ha impedito la violazione della norma penale non è nè concludente, nè oltretutto pertinente.
Ciò che è in discussione non è la sussistenza della attività delittuosa, bensì la relativa definizione giuridica.
6.3. Neppure appare calzante, per confutare la qualificazione della condotta de qua in termini di tentativo, la obiezione che la concomitante sorveglianza della persona offesa e la correlata possibilità di intervento immediato, a tutela della detenzione, costituiscano “circostanza del tutto estranea all’operato dell’agente”: per vero il delitto tentato si caratterizza per la mancata verificazione dell’evento dovuta a cause indipendenti dalla volontà dell’agente (Sez. U, n. 7523 del 21/05/1983, Andreis, Rv.
160247; Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153), ricorrendo altrimenti la ipotesi alternativa della desistenza prevista dall’art. 56 c.p., comma 3.
6.4. Gli ulteriori argomenti (non privi di suggestione) in ordine al rilievo della attivazione della persona offesa per il recupero della refurtiva e in ordine alla collocazione della relativa attività “nella fase post delictum” devono essere disattesi per la petizione di principio che sottendono: assumono a premessa la tesi da dimostrare della consumazione del furto colla intervenuta perdita del bene da parte del soggetto passivo; mentre si tratta della difesa della detenzione esercitata dall’offeso in continenti e resa possibile dalla perdurante presenza della res nella sfera di vigilanza e di controllo del detentore.
7. Le considerazioni che precedono consentono di formulare il seguente principio di diritto: “il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell’ordine presenti in loco,), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l’agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo”.
8. In conclusione, alla stregua del principio di diritto enunciato, il ricorso risulta infondato, sicchè esso deve essere rigettato.
2. Furto: circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento
Cass. S.U. 18 luglio 2013, Sciuscio
In tema di furto, l’occultamento della merce prelevata dallo scaffale di un supermercato all’interno di una borsa o sulla persona dell’agente non integra la circostanza aggravante dell’essersi avvalso di un mezzo fraudolento prevista dall’art. 625, comma primo, n. 2) c.p.
In tema di furto avvenuto in supermercato, il responsabile dell’esercizio commerciale nel quale é avvenuta la sottrazione che non ne sia anche rappresentante legale o non sia munito di formale investitura al riguardo può essere considerato persona offesa ai fini della legittimazione ad esercitare il diritto di querela.
RITENUTO IN FATTO
1. A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Sulmona ha affermato la responsabilità di S.M. in ordine al reato di furto aggravato di cui all’art. 624 c.p., e art. 625 c.p., comma 1, n. 2.
La sentenza è stata confermata dalla Corte di appello dell’Aquila.
Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l’imputata sottraeva dagli scaffali di un grande magazzino denominato Oviesse alcuni capi d’abbigliamento per bambini ed un top da donna privi di placche antitaccheggio, li occultava in una grande borsa che appariva piena, passava la cassa senza pagare, usciva dall’esercizio e veniva fermata dai Carabinieri cui era nota per precedenti, analoghi illeciti.
Nell’occultamento della merce è stata ravvisata l’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui al richiamato art. 625. Si è ritenuto che tale condotta, improntata ad astuzia e scaltrezza, abbia costituito un espediente utile per eludere i controlli visivi del personale e superare le casse senza essere fermata.
2. Ricorre per cassazione l’imputata deducendo tre motivi.
omissis
3.La Quarta sezione penale cui il ricorso è stato assegnato lo ha rimesso alle Sezioni Unite, avendo riscontato contrasti giurisprudenziali in ordine ai temi oggetto dei primi due motivi di ricorso.
Quanto all’aggravante, si premette che, per costante giurisprudenza di legittimità, l’espressione “mezzo fraudolento” fa riferimento ad ogni attività insidiosa, improntata ad astuzia o scaltrezza che soverchi o sorprenda la contraria volontà del detentore della cosa ed abbia la meglio rispetto alle cautele predisposte dal soggetto passivo a difesa del bene.
Si aggiunge che, valorizzando tale connotato della circostanza, un primo indirizzo giurisprudenziale ritiene che l’aggravante in questione debba necessariamente costituire un elemento in più rispetto all’attività materiale per operare la sottrazione e l’impossessamento. Ne discende che, nell’ambito considerato, afferente alla vendita con il sistema del cosiddetto self service, l’impossessamento della merce esposta nei banchi di vendita si realizza con il fatto stesso dell’occultamento. Tale nascondimento non costituisce un mezzo fraudolento, cioè un insidioso accorgimento, bensì il modo più semplice per la consumazione del reato. L’occultamento, insomma, rappresenta un momento necessario per la commissione dell’illecito e nulla aggiunge alla fattispecie di base: senza di esso la perpetrazione del furto sarebbe impossibile.
L’opposto orientamento giurisprudenziale, prosegue l’ordinanza di rimessione, ravvisa astuzia e scaltrezza nell’occultamento della merce esposta e ritiene, in conseguenza, che tale condotta integri l’aggravante. Si rammenta che tale orientamento è stato proposto anche in relazione al nascondimento della merce sulla persona, o in contenitori appositamente attrezzati.
4. La sezione rimettente scorge confligenti indirizzi della giurisprudenza pure in relazione all’individuazione dei soggetti legittimati a proporre la querela; questione la cui rilevanza è evidentemente connessa alla pregiudiziale risoluzione del dubbio sull’esistenza dell’aggravante e, conseguentemente, sulla procedibilità a querela.
L’ordinanza rammenta che, come dedotto dalla stessa ricorrente, la querela è stata proposta da persona che si è presentata come responsabile del supermercato; e pone in luce che, secondo un primo indirizzo interpretativo, la legittimazione spetta al direttore di un esercizio commerciale, nella veste di persona offesa: tale qualifica, infatti, va attribuita non solo al titolare di diritti reali, ma anche ai soggetti responsabili dei beni posti in vendita e della loro custodia.
Secondo altro indirizzo, invece, tale legittimazione del direttore dell’esercizio non sussiste, a meno che egli provi la qualità di legale rappresentante della società, con il potere di spenderne il nome sul piano processuale. La veste di direttore dell’esercizio non attribuisce automaticamente la qualifica di institore; ed il potere di proporre querela va conferito dallo statuto o da altro atto negoziale.
5. Il Primo Presidente, con decreto del 2 aprile 2013, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
la circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2
1. La prima questione problematica prospettata è “se, con riferimento al reato di furto, il mero occultamento all’interno di una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2”.
2. Al riguardo, nella variegata giurisprudenza di questa Corte, si scorgono differenti orientamenti.
2.1. Un primo indirizzo esclude l’esistenza dell’aggravante. In una recente sentenza (Sez. 6, n. 40283 del 27/09/2012, Diaji, Rv. 253776) relativa ad un caso in cui le scarpe sottratte erano state deposte nella borsa, si rimarca che la circostanza di cui si discute delinea un tratto specializzante della condotta rispetto all’ordinarietà. Il semplice occultamento della refurtiva rientra nelle modalità ordinarie del furto. Invece l’aggravante del mezzo fraudolento ricorre quando la condotta “presenti una significativa ed oggettiva maggior gravità dell’ipotesi ordinaria in ragione delle modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene sottratto”. Tale condotta deve consistere in una modalità peculiare, o nell’utilizzazione di un particolare strumento che consenta, oltre al mero occultamento, l’elusione del controllo sui beni esposti per la vendita. Ciò accade, ad esempio, quando il reo predisponga mezzi particolari per superare i normali controlli, come una borsa con doppio fondo, indumenti realizzati appositamente per agevolare l’occultamento della merce rubata, attrezzi per rimuovere o schermare le targhe antitaccheggio o per rendere comunque seriamente difficoltoso l’accertamento della sottrazione. Nello stesso senso, da ultimo, Sez. 4, n. 10134 del 19/01/2006, Baratto, Rv. 233716.
In altra sentenza relativa ad un caso in cui la merce era stata occultata nella tasca del giaccone indossato, si è ribadito che l’aggravante riguarda condotte caratterizzate da straordinarietà, improntate a scaltrezza, astuzia ed idonee ad eludere le cautele adottate dal proprietario: un elemento in più rispetto all’attività necessaria per operare la sottrazione. Nel caso esaminato tale situazione non si verificava, posto che la sottrazione era stata realizzata con il mezzo più semplice (Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano, Rv. 234516).
In un caso in cui parte della merce prelevata dagli scaffali era stata nascosta in una borsa e non dichiarata alla cassa, si è esclusa l’aggravante posto che, se il cliente non nascondesse subito in qualche modo la merce sottratta, la consumazione stessa del furto sarebbe impossibile, poichè il personale sarebbe senz’altro in grado di accorgersi dell’asportazione: l’occultamento è il mezzo necessario e non può quindi rappresentare il quid pluris che concreta l’uso di mezzo fraudolento (Sez. 2, n. 291 del 08/03/1967, Castaidi, Rv. 105432).
In consonanza con tale indirizzo, in altre pronunzie si pone in luce la differenza tra il mero occultamento e l’adozione di più insidiose misure per soverchiare le difese apprestate dal possessore.
In un caso in cui le cose sottratte erano state nascoste in un’apposita panciera (Sez. 5, n. 11143 del 06/10/2005, Battisti, Rv. 233886), si è considerato che l’imputata non si era limitata ad impossessarsi della merce esposta, nascondendola e sottraendola al controllo degli addetti del supermercato, ma aveva operato con una maggiore astuzia, avvalendosi di tale apprestamento per superare gli accorgimenti approntati dal soggetto passivo a tutela delle proprie cose e, quindi, utilizzando un mezzo fraudolento.
L’uso di mezzo fraudolento è stato ravvisato anche nell’uso di pantaloni elasticizzati indossati sotto l’abito per favorire il nascondimento di quanto sottratto (Sez. 5, n. 15265 del 23/03/2005, Lamberti, Rv. 232142). Si è considerato che si è in presenza di accorgimento malizioso che, pur posto in essere dopo la sottrazione, in quanto finalizzato alla definitiva e piena disponibilità della cosa, configura l’aggravante quale espressione di maggiore criminosità desunta dalla dimostrata capacità di superare con la frode la custodia apprestata dall’avente diritto e tale, pertanto, da giustificare una più severa risposta sanzionatoria.
2.2. Altro contrapposto orientamento ravvisa l’aggravante in caso di occultamento di merce sulla persona (Sez. 5, n. 10997 del 13/12/2006, Rada, Rv. 236516); o sotto l’abbigliamento (Sez. 2, n. 1862 del 21/10/1983, Salines, Rv. 162897). Si argomenta che un comportamento siffatto è improntato ad astuzia e scaltrezza ed è diretto ad eludere e vanificare le cautele e gli ordinari accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa dei propri beni.
Anche l’occultamento sotto il cappotto di una giacca sottratta ha dato luogo alla configurazione della circostanza (Sez. 4, n. 13871 del 06/02/2009, Tundo, Rv. 243203). Secondo il giudice di merito, tale nascondimento di per sè, non configurava l’aggravante in questione, non trattandosi di attività idonea a sorprendere o soverchiare con insidia ed astuzia la contraria volontà del detentore La Corte di cassazione, invece, ha annullato con rinvio la pronunzia, affermando che l’aggravante è da ravvisare in ogni caso di comportamento con frode idoneo a superare la custodia apprestata dall’avente diritto sui suoi beni. In tale nozione rientra ogni operazione improntata ad astuzia o scaltrezza, diretta ad eludere le cautele ed a frustare gli accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa delle proprie cose, e cioè gli impedimenti che si frappongono tra l’agente e la cosa oggetto della sottrazione.
3. Le Sezioni unite ritengono che il primo indirizzo giurisprudenziale colga nel segno.
La questione prospettata pone un problema interpretativo che riguarda la determinazione dell’espressione “si vale di qualsiasi mezzo fraudolento” che compare nell’art. 625 c.p..
Il lessico della legislazione penale, per la sua spiccata vocazione generalizzante, mostra frequentemente l’uso di termini vaghi, elastici come “violenza”, “minaccia”, “osceno”, “onore”. Il loro significato deve essere definito, concretizzato dall’interprete al fine di conferire, per quanto possibile, reale valore alla legalità penale.
L’espressione di cui ci si occupa è per l’appunto vaga, ma nell’elaborazione giurisprudenziale di cui si è sopra dato sommariamente conto e negli studi dottrinali si rinvengono chiarificazioni sostanzialmente consonanti. Si parla di stratagemma diretto ad aggirare, annullare, gli ostacoli che si frappongono tra l’agente e la cosa; di operazione straordinaria, improntata ad astuzia e scaltrezza; di escogitazione che sorprenda o soverchi, con l’insidia, la contraria volontà del detentore, violando le difese apprestate dalla vittima; di insidia che eluda, sovrasti o elimini la normale vigilanza e custodia delle cose.
Tali definizioni spiegano bene la ratio della circostanza: le cose altrui vengono aggredite con misure di affinata efficacia che rendono più grave il fatto e mostrano altresì maggiore intensità del dolo, più intensa risoluzione criminosa e maggiore pericolosità sociale.
Si tratta di chiarificazioni che, se aiutano a cogliere il nucleo antigiuridico dell’aggravante, non risolvono i casi dubbi che si rinvengono solitamente nell’area grigia posta ai margini di quasi tutte le figure giuridiche.
L’inefficienza delle evocate definizioni nelle situazioni controverse, sfumate, che non mostrano macroscopicamente i tipici tratti di studiata, fraudolenta aggressività propri dell’aggravante, è testimoniata dal fatto che le medesime definizioni finiscono col dare copertura argomentativa a soluzioni antitetiche sul piano applicativo.
La ragione principale di tale insuccesso è costituita dal fatto che le chiose alla legge fanno uso di termini non meno vaghi di quelli utilizzati dal codice: sinonimi che risultano tautologici piuttosto che esplicativi.
L’analisi razionale della disposizione acquista qualche maggiore concretezza proprio attraverso il riferimento alle specifiche modalità dell’azione, alle tipologie dell’aggressione del bene.
Definita la fenomenologia, si tratta di comprendere se essa presenti intensità sufficiente a giustificarne la collocazione entro la fattispecie aggravante; se essa presenti il grado di disvalore che, nell’ottica della legge, giustifica la maggiore gravità del fatto e l’incremento della sanzione che ne deriva. Si tratta, in breve, di interpretare la disposizione aggravante al fine di definirne il contenuto offensivo tipico.
4. E’ dunque chiamato in causa, sia pure in peculiare guisa, il principio di offensività. Il tema ha straordinaria ampiezza e deve essere qui accennato solo per il decisivo rilievo che assume nell’interpretazione della fattispecie aggravata di cui ci si occupa.
La riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato l’esigenza che il fatto di reato esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come concreta offesa all’interesse delle vita tutelato dalla norma incriminatrice.
La tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell’art. 49 c.p., nel quale si è ritenuto di individuare un’ipotesi tipica di divergenza tra conformità allo schema descrittivo e realizzazione dell’offesa: un comportamento perfettamente corrispondente alla norma incriminatrice risulta per qualunque motivo posto in essere in circostanze tali da rendere impossibile la realizzazione dell’evento che costituisce il contenuto del reato. In breve il fatto, oltre a possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.
La portata di tale concezione realistica del reato, basata sull’idea di offensività in concreto, è stata persuasivamente ridimensionata sulla base della considerazione che se l’interesse tutelato deve essere dedotto dall’intera struttura della fattispecie, riesce difficile immaginare un fatto conforme ad essa e non lesivo, sicchè l’inoffensività di un singolo elemento è in realtà l’inoffensività di un requisito del tipo.
Il principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta espressione con la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme: l’art. 27, comma 3, (l’equilibrio tra le funzioni retribuiva e rieducativa della pena rappresenta una saldatura tra il momento garantista o liberale della retribuzione per il reato necessariamente lesivo e le aperture sociali e solidaristiche della rieducazione); l’art. 25, comma 2 (la locuzione “fatto”, che esclude la visione dell’illecito come mera disobbedienza); l’art. 27, comma primo (il divieto di strumentalizzazione dell’uomo a fini di politica criminale).
Nel segno dell’offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano concretamente offensivi di entità reali.
L’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi, offensivi in misura apprezzabile. Insomma, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifiche offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. E’ dunque sul piano ermeneutico che, come è stato suggestivamente considerato in dottrina, viene superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato dovranno essere ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicchè tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità.
5. Tale ordine concettuale ha altissime potenzialità, ancora non compiutamente espresse, nell’orientare l’interpretazione delle espressioni legali che individuano i tratti essenziali del reato; in modo che la severità della legge penale si limiti a mostrarsi, sensatamente ed equamente, solo di fronte a fatti gravidi di reale disvalore.
Si tratta di approccio che può essere trasposto, pur con ogni cautela e con le dovute precisazioni, anche nell’ambito degli elementi accidentali del reato costituiti dalle circostanze aggravanti. Attraverso esse il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che accrescono il disvalore della fattispecie e giustificano un trattamento sanzionatorio più severo. Le valutazioni che attengono a tali scelte normative sono le più disparate ed attengono solitamente alla gravità delle conseguenze del reato, alle peculiarità della condotta, alle connotazioni dell’atteggiamento interiore.
Tali elementi, dunque, pur non concorrendo all’individuazione dell’offesa tipica, rilevano ai fini della definizione del grado di disvalore del fatto. Pure per essi si pone, dunque, un problema interpretativo volto a cogliere nel lessico legale una portata che esprima fenomenologie significative, che giustifichino l’accresciuta severità sanzionatoria. Si tratta di assicurare che l’incremento di pena sia proporzionato al grado dell’offesa o, in una prospettiva più ampia conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle modalità dell’aggressione del bene protetto o all’intensità dell’atteggiamento interiore. Una lettura di tale genere dovrà considerare i tratti, le finalità dell’aggravante e la portata del relativo trattamento sanzionatorio.
Si tratta di considerazioni che si attagliano particolarmente alla fenomenologia di cui ci si occupa, giacchè l’aggravante afferisce alla condotta inerente al momento della sottrazione che, come si avrà modo di esporre più diffusamente nel prosieguo, costituisce il cuore della fattispecie e ne contrassegna significativamente il disvalore tipico.
6. Venendo alla specifica aggravante in esame, occorre brevemente rammentare che per tradizione risalente sino alla codificazione preunitaria il furto è stato disciplinato non con una accurata descrizione della fattispecie, bensì attraverso l’individuazione di numerose tipologie tipiche costituenti circostanze aggravanti. Uno stile esasperatamente casistico che si rinviene pure nel codice Zanardelli, ove compaiono ben venti categorie che racchiudono innumerevoli situazioni aggravanti, afferenti prevalentemente all’oggetto della sottrazione od alle modalità della condotta. Esse determinavano l’incremento della pena massima da tre a sei o ad otto anni a seconda che si fosse in presenza di una o più circostanze.
Il codice vigente ha sostanzialmente rispettato tale tecnica normativa. E’ stata proposta una definizione alquanto elaborata della fattispecie e sono state al contempo tratteggiate otto categorie aggravanti che riconducono a più affinata generalizzazione alcune delle situazioni previste dalla precedente legislazione. Tale generalizzazione ha condotto all’individuazione dell’aggravante della violenza o della frode.
Come è ben noto, tale modello casistico è accompagnato da uno speciale rigore sanzionatorio che a molti pare eccessivo, anche in considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato dalla Costituzione. Infatti, la pena massima ascende da tre a sei o a dieci anni a seconda che si sia in presenza di una o più aggravanti.
E d’altra parte, la varietà delle situazioni aggravanti rende difficile la perpetrazione del furto semplice.
Tradizionalmente il furto con frode, definito nei termini esplicativi di cui si è dato sopra conto, viene riferito a tipiche, ricorrenti situazioni come l’uso di chiavi false o grimaldelli, la scalata dell’edificio, l’uso di carte bancomat false e simili.
Meno classificabile e più raro l’uso di raggiri o artifizi volti ad ingannare la vittima in modo che sia favorita l’acquisizione della cosa.
Si richiede, in breve, una condotta caratterizzata da marcata, insidiosa efficienza offensiva, che sorprende la contraria volontà del detentore, vanifica le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa ed agevola la spoliazione della vittima.
Due gli elementi di valutazione che si traggono da tale analisi della fattispecie.
Da un lato l’istanza di speciale funzionalità aggressiva della condotta, attuata con artata predisposizione di mezzi o con ingannevole messa in scena.
Dall’altro, la speciale gravità delle conseguenze sanzionatorie che da tale predisposizione derivano.
Coniugando tali coordinate, ne discende pianamente che un’interpretazione dell’idea di frode, con riferimento alla fattispecie di furto, deve tendere ad individuarvi condotte che concretino l’aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale rigore sanzionatorio.
Tale interpretazione è ispirata al principio di offensività definito nei termini sopra esposti, afferente cioè non al nucleo offensivo del reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini della fattispecie aggravante. La condotta di spoliazione può rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della vittima. Allora, alla luce delle considerazioni generali qui prospettate, la frode si riferisce non a qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un’astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione.
Entro questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in tale genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che caratterizza l’aggravante.
Per contro, uno sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che connotano e delimitano la fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto possibile, l’argomentazione all’astrattezza.
E’ allora sufficiente richiamare i casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche antitaccheggio.
Coglie dunque nel segno l’evocata giurisprudenza quando individua nella condotta fraudolenta un tratto specializzante rispetto alle modalità ordinarie, costituito da significativamente maggiore gravità a causa delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene.
Non meno puntuale appare la sottolineatura della straordinarietà dell’azione, improntata a scaltrezza, astuzia.
Meno persuasivo appare il richiamo all’essenzialità dell’accorgimento ai fini della sottrazione. La considerazione, generalmente parlando, può avere qualche significato nell’ambito della peculiare fenomenologia di cui ci si occupa, nella quale emerge un tratto ineliminabile di affidamento al cliente, che limita l’efficienza delle difese, come testimoniato dalla grandissima rilevanza complessiva delle sottrazioni negli esercizi a self service.
Si vuoi dire che, essendo solitamente limitate le difese e forte l’affidamento, è difficile (sempre in linea generale) che la condotta furtiva abbisogni delle ingegnose predisposizioni che danno luogo alla condotta fraudolenta tipica dell’aggravante. Si tratta, tuttavia, di un rilievo di sfondo che non può obliterare la considerazione delle peculiarità di ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto. L’argomento, in ogni caso, risulterebbe erroneo e fuorviante ove venisse utilizzato in contesti caratterizzati da affinate difese antifurto che rendessero necessarie condotte di sottrazione violente o fraudolente. In tali casi l’essenzialità di tali condotte non farebbe certamente venire meno l’aggravante.
7. Da quanto esposto discende il seguente principio di diritto:
“L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinano accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene”.
Il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice del furto
8. Da quanto precede traspare con evidenza che il comportamento della S., consistito nel mero nascondimento della merce in una borsa, non concreta la frode tipica. L’aggravante deve essere quindi esclusa e la pronunzia va per tale parte annullata.
9. L’esclusione dell’aggravante rende attuale l’altra questione problematica rimessa a queste Sezioni unite. Il quesito è “se, con riferimento al reato di furto, abbia la veste di persona offesa – e sia conseguentemente legittimato a proporre la querela – il responsabile dell’esercizio commerciale nel quale è avvenuta la sottrazione che non abbia la qualità di legale rappresentante dell’ente proprietario o non sia munito di formale investitura al riguardo”.
9.1. Un primo indirizzo giurisprudenziale ritiene esplicitamente od implicitamente che persona offesa dal reato sia il proprietario o il titolare di altro diritto reale sul bene sottratto; e ne deduce che il direttore di un esercizio commerciale che non ne sia pure proprietario non è legittimato a proporre la querela. Tale figura non riveste neppure necessariamente la veste di institore, dovendosi verificare quali poteri l’imprenditore gli abbia attribuito (Sez. 4, n. 44842 del 27/10/2010, Febbi, Rv. 249068; Sez. 2, n. 37214 del 19/10/ 2006, Tinnirello, Rv. 235105; Sez. 4, n. 1537 del 15/02/ 2005, Gaffi, Rv. 231547).
Altra giurisprudenza, invece, ritiene la legittimazione in questione in capo all’institore, che conferisce il potere di compiere tutti gli atti inerenti all’esercizio dell’impresa (Sez. 2, n. 1206 del 09/12/2008, Gulino, Rv. 242714).
9.2. L’opposto orientamento della giurisprudenza assume, per contro, che il responsabile dell’esercizio commerciale è legittimato alla querela non in virtù di investitura formale o implicita da parte del proprietario, bensì nella veste di persona offesa (Sez. 6, n. 1037 del 15/06/2012, Vignoli, Rv. 253888; Sez. 4, n. 41592 del 16/11/2010, Cacciari, Rv. 249416 ; Sez. 4, n. 37932 del 08/09/2010, Klimczuck, Rv. 248451; Sez. 5, n. 34009 del 16/06/2010, Labardi, Rv. 248411; Sez. 5, n. 26220 del 18/03/2009, Kalandadze, Rv. 244090).
Tale impostazione è stata recentemente tematizzata in modo assai puntuale (Sez. 4, Cacciari, cit.). Si è considerato che l’incriminazione di furto tutela il possesso di cose mobili. Evocando risalente ma mai confutata giurisprudenza (Sez. 2, n. 181 del 08/02,1965, Mele, Rv. 99522), si è aggiunto che il possesso, peraltro, non va inteso nell’accezione civilistica, ma “in senso più ampio e comprensivo della detenzione a qualsiasi titolo, esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del possessore (in senso civilistico) e di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore”. Richiamando opinioni dottrinali, si è assunto che la norma protegge la detenzione delle cose come mera relazione di fatto, qualunque sia la sua origine. Tale relazione, non coincidente con i concetti civilistici di detenzione e di possesso, rileva anche se costituitasi senza titolo o in modo clandestino, con la conseguenza che pure il ladro potrebbe divenire soggetto passivo del reato. Se ne desume che il possessore nell’accezione penalistica è persona offesa e titolare del diritto di querela. Tale veste si configura in capo al responsabile di un esercizio commerciale, avendo costui dovere di custodia della merce. Per contro, conclude la pronunzia, la qualità di persona offesa difetta nel proprietario, che è non detentore danneggiato dal reato”.
In termini coincidenti si è da ultimo ribadito che il possesso tutelabile a garanzia degli interessi della collettività ha un’accezione più ampia di quella civilistica includendo non soltanto il possesso qualificato animo domini ma qualsiasi potere di fatto che venga esercitato in modo autonomo e indipendente dalla proprietà del bene. Tale potere si configura in capo al diretto dell’esercizio che è custode e possessore dei beni e della merce; ed il furto vulnera gli effetti del suo potere di vigilanza e di custodia (Sez. 6, Vignoli, cit.).
10. La soluzione interpretativa proposta da tale ultimo indirizzo è nel suo nucleo corretta.
Posto che la legittimazione alla proposizione della querela è dalla legge attribuita alla persona offesa, occorre individuare l’interesse protetto dalla norma incriminatrice ed il soggetto che ne è titolare.
Il tema agita ab immemorabile la dottrina e la giurisprudenza; e permangono incertezze e contrasti, gravidi di implicazioni applicative.
Nella fattispecie di furto si riscontra una situazione per certi versi paradossale. L’incriminazione affonda profondamente nei primordi del diritto punitivo e costituisce una costante degli ordinamenti giuridici. Il suo contenuto essenziale si propone con intuitiva evidenza, tanto che nel passato il codificatore si è astenuto da una definizione formale. Ciò nonostante risulta difficile definirne razionalmente i tratti e rimangono aperte questioni di non poco conto, che trovano il loro più cospicuo nucleo problematico proprio attorno al tema del bene giuridico, di cui occorre qui occuparsi.
Sebbene le incertezze siano molte, la lunga, tormentata riflessione giuridica ha indicato alcune direttrici consolidate. Ispirandosi ad esse è possibile tracciare brevemente il metodo dell’indagine.
L’intestazione del Titolo XIII, dedicato ai reati contro il patrimonio, costituisce solo una vaga etichetta di genere che non influenza la lettura delle diverse incriminazioni. L’individuazione del bene giuridico protetto da ciascuna fattispecie va compiuta cogliendone le peculiarità alla stregua del dettato normativo, ed assicurando al contempo la coerenza del sistema di protezione, nonchè una salda linea di confine tra i diversi illeciti che compongono la categoria dei reati contro il patrimonio. Si tratta di compiere un’indagine scevra da apriorismi ed attenta da un lato alla fenomenologia, agli interessi della vita che si trovano dietro le disposizioni; e dall’altro ai tratti significativi della concreta disciplina legale, tentando di evitare incoerenze sistematiche e di assicurare, soprattutto, la sensatezza delle soluzioni interpretative alla luce dei loro risultati applicativi.
Orbene, guardando al carattere costante, universale, remotissimo del reato di furto, traspare che l’incriminazione trova la sua più profonda giustificazione in una primordiale istanza di protezione della vitale relazione tra l’uomo ed i beni.
La spoliazione che caratterizza l’illecito mina alla radice tale relazione e minaccia al contempo le basi della pacifica, civile convivenza. E’ un atto antisociale che vulnera l’interesse pubblico alla difesa della relazione possessoria e giustifica la punizione.
Sebbene la figura giuridica assuma storicamente diverso peso a seconda delle differenti gerarchie di valori, tale nucleo costituisce una costante. Come è stato efficacemente affermato, il furto è innanzitutto sottrazione, una condotta che, tuttavia, incide su una sfera di interessi complessi, talvolta difficili da dipanare. Come pure è stato considerato, il furto è un fatto antisociale che si concreta nella sottrazione, ancor prima che nell’inflizione di un danno patrimoniale.
Tale essenziale aspetto aggressivo, di indubbia rilevanza pubblicistica, si trova ben espresso nella definizione legale che, come è stato da più parti convincentemente considerato, trova il suo cuore nella descrizione della condotta di sottrazione della cosa mobile altrui a chi la detiene. Diversi sono i tratti significativi del reato: la sottrazione, l’impossessamento, il fine di profitto, l’altruità della cosa, la detenzione da parte della vittima. Ma la spoliazione, sebbene non esprima il momento consumativo, che si compie con l’acquisizione di un autonomo possesso al di fuori della sfera di vigilanza della vittima, tratteggia il momento aggressivo, il culmine della trasgressione e del perturbamento socialmente e giuridicamente rilevante: esprime l’archetipo della condotta di fattispecie.
Tale constatazione orienta l’individuazione dell’interesse della vita oggetto di protezione e del soggetto che ne è riconosciuto titolare entro la trama della fattispecie. Il tema è fortemente legato all’individuazione della vittima dell’aggressione, che il legislatore denomina detentore. Esso si colloca nel più generale ambito che attiene al significato, in ambito penale, di termini civilistici. Al riguardo il lungo lavorio teorico ha prodotto risultati largamente condivisi che qui è sufficiente tratteggiare sinteticamente: nell’ambito dei reati contro il patrimonio le categorie civilistiche non possono essere pedissequamente riproposte. Il particolare, l’utilizzazione nel significato civilistico dei termini “detenzione” e “possesso” implicherebbe rilevanti vuoti di tutela e difficoltà nella definizione della linea di confine tra i diversi reati e particolarmente tra furto ed appropriazione indebita. Tali termini vanno dunque modellati sulle esigenze dogmatiche del diritto penale.
L’istanza di autonomia, unita all’indicata individuazione del nucleo aggressivo della fattispecie nella sottrazione al detentore, accredita il diffuso, condiviso indirizzo teorico che coglie l’interesse protetto in una qualificata relazione di fatto con il bene e, conseguentemente, designa come soggetto passivo del reato la persona che tale relazione intrattiene. La relazione di fatto tra l’uomo ed il bene è il valore che il reato aggredisce e la legge penale sanziona.
E’ conforto a tale opinamento l’insistenza, nei lavori preparatori, sullo scopo di protezione del possesso di fatto separato dalla proprietà, della detenzione come potere connotato dal minimo degli attributi del possesso; accompagnata dalla precisazione che non è escluso che il delitto possa consumarsi merce la sottrazione della cosa alla persona che giuridicamente possiede.
I tratti di tale essenziale detenzione qualificata, usualmente denominata “possesso penalistico”, devono essere meglio definiti.
Come si è accennato, la definizione civilistica di detenzione non trova spazio nell’ambito di cui ci si occupa: essa condurrebbe sul piano applicativo alla incongrua configurazione del reato di furto, e non di appropriazione indebita, in tutti i casi in cui il detentore nomine alieno (il locatario, il comodatario ecc.) apprenda il bene.
Tale soggetto, invece si può trovare già con la cosa in una relazione diretta, significativa, qualificata appunto, con la conseguenza, che nella sua azione non è possibile riconoscere il tratto tipico del furto, costituito appunto dalla sottrazione ad altri che intrattiene col bene una propria relazione fattuale. Tale relazione di detenzione qualificata, dunque è condizione negativa del furto. Essa, per contro, ben si addice alla figura dell’appropriazione indebita e ne costituisce condizione positiva. La stesso ordine di idee può essere espresso affermando che solo quando si concreta la descritta materiale azione di sottrazione al detentore qualificato si configura il reato di furto. Insomma, la nozione di detenzione qualificata è funzionale alla condotta di sottrazione, ne individua il bersaglio.
Quando ci si sofferma a cogliere il tratto essenziale della figura di cui ci si occupa (il possesso penalistico) vi si scorge una relazione di fatto autonoma, una signoria di fatto che consente di fruire e disporre della cosa in modo indipendente, al di fuori della sfera di vigilanza e controllo di una persona che abbia su di essa un potere giuridico maggiore. Tale autonomia può essere definita in termini negativi: non vi è signoria di fatto del dominus, nè altrui custodia o vigilanza. Entro tale ordine concettuale, conviene ripeterlo, si usano in una peculiare accezione penalistica i termini possesso e possessore.
Tale soluzione interpretativa, come si è accennato, consente di definire con sufficiente chiarezza la linea di confine tra furto ed appropriazione indebita. La detenzione qualificata non rende ipotizzabile la sottrazione da parte dello stesso detentore che, invece, ben può rendersi protagonista di atti di appropriazione indebita.
Il possesso penalistico di cui si parla non è necessariamente caratterizzato da immediatezza, a differenza di quello civilistico che, come è noto, può configurarsi anche per mezzo di altra persona. Esso, peraltro, non implica necessariamente una relazione fisica con il bene. E’ concepibile pure il possesso a distanza, quando vi sia possibilità di ripristinare ad libitum il contatto materiale; o anche solo virtuale, quando vi sia effettiva possibilità di signoreggiare la cosa. Per ripetere un antico ed efficace esempio, il possessore della valigia rimane tale anche se essa è nelle mani del portabagagli che è, invece, mero detentore.
L’indicata interpretazione della fattispecie attribuisce rilievo anche alla relazione possessoria non sorretta da base giuridica, clandestina o addirittura illecita, con la conseguenza che costituisce furto pure la sottrazione della refurtiva al ladro. Tale soluzione, come si è visto, è accreditata anche dalla giurisprudenza di questa Corte e trova tradizionale, razionale giustificazione nella considerazione che la spoliazione in danno del ladro, riguardata nell’ottica pubblicistica del diritto penale, non rende meno aggressiva e biasimevole la condotta e giustifica la reazione punitiva.
Per quel che qui maggiormente interessa, la qualificata relazione di fatto di cui si parla può assumere diverse sfumature, che comprendono senz’altro il potere di custodire, gestire, alienare il bene. Essa, dunque, si attaglia senz’altro alla figura del responsabile dell’esercizio commerciale che, conseguentemente, vede vulnerati i propri poteri sul bene; ed è perciò persona offesa, legittimata alla proposizione della querela.
11. Le conclusioni cui si è sin qui giunti non esauriscono in tema di cui ci si occupa. Occorre infatti chiedersi se l’indagine focalizzata sulla già descritta lesione della qualificata relazione di fatto tra la vittima e il bene esaurisca la disamina dei tratti tipici della fattispecie. La domanda non è puramente teorica: si tratta di comprendere se, oltre al detentore qualificato, altri soggetti possano veder lesi interessi istituzionalmente protetti dalla norma incriminatrice e siano quindi legittimati alla proposizione della querela.
A tale riguardo occorre rammentare che una scuola di pensiero opposta a quella sin qui prospettata coglie nel furto la lesione di situazioni giuridiche e non meramente fattuali, solitamente individuate nella proprietà e nei diritti reali e di obbligazione caratterizzati, rispetto al bene, dal potere di disporne, usarlo, goderlo. Tali diritti, si assume, costituiscono il vero, primario oggetto giuridico della fattispecie. Si argomenta che il furto aggredisce necessariamente i poteri fondamentali esercitabili sulla cosa e cioè la disponibilità ed il godimento.
Tale indirizzo coglie senza dubbio un non trascurabile lato della fattispecie e trova sostegno in diversi argomenti. Gli stessi codificatori, pur ponendo insistentemente l’accento sul furto come aggressione ad una relazione di fatto socialmente importante, non erano inconsapevoli dell’intreccio di situazioni che si possono riscontrare nella realtà. Si è perciò chiarito, come si è già accennato, che evocando il detentore si è inteso fare riferimento alla persona che abbia sulla cosa il minimo degli attributi del possesso e cioè il potere di fatto su di essa, e non si è escluso che il delitto possa consumarsi anche con la sottrazione al soggetto che possiede. Si è aggiunto che, ove la tutela giuridica è stabilita per i casi nei quali concorra un minimo di condizioni di fatto, deve ritenersi che la stessa sia estensibile a tutte le ipotesi nelle quali si verifichino condizioni che sono al di là di quel minimo.
E’ chiara, in tale approccio, la sottolineatura della istituzionale rilevanza di situazioni giuridiche, come il possesso in senso civilistico, che possono non implicare pure la ridetta relazione fattuale di detenzione qualificata. Tale rilevanza traspare maggiormente se si considera che situazioni giuridiche e situazioni fattuali possono essere separate, ripartite in varie guise, generando incertezze applicative ed al contempo teoriche difficoltà nella configurazione unitaria della fattispecie. Emerge, insomma, che al furto non è estraneo il tema della lesione di situazioni giuridiche oltre che meramente fattuali: esse assumono formale evidenza quando, nella fattispecie concreta, sono distinte dalle relazioni di mero fatto.
Tale ordine di idee trova conforto nella definizione legale, che fa leva sull’altruità del bene sottratto. Non è mancato chi ha attribuito a tale requisito di fattispecie un ruolo minore e quasi superfluo. Certamente l’evocazione dell’altruità del bene vale ad escludere la rilevanza penale della sottrazione della res propria.
Tale soluzione di un tema classicamente controverso trova peraltro conforto anche nell’art. 627 c.p. che punisce la sottrazione di cosa comune con una pena più lieve di quella prevista per il reato di furto di cui all’art. 624 c.p.; e sarebbe irrazionale punire con la più severa sanzione prevista da tale ultima fattispecie una condotta sicuramente meno grave, costituita dalla sottrazione compiuta da chi ha la piena proprietà della cosa.
Tuttavia ciò non basta. L’altruità, come è stato da più parti ritenuto, pone in luce un importante profilo di fattispecie costituito dall’aggressione alle situazioni giuridiche che sono alle spalle del potere concreto sulle cose, cioè delle relazioni fattuali cui si è sopra ripetutamente fatto cenno.
Tale linea interpretativa trova sostegno nelle situazioni nelle quali si mostrano, anche in modo conclamato, i tratti della fenomenologia di spoliazione che caratterizza la fattispecie; e tuttavia manca in capo ad alcuno la signoria di fatto sulla cosa. Si fa riferimento, ad esempio, allo sciacallaggio, alla sottrazione dei beni del defunto.
Qui, come è chiaro, manca in radice un soggetto che intrattenga con il bene la relazione di qualificata detenzione tipica del furto; e tuttavia il metro della sensatezza, alimentato dalla realistica considerazione del mondo della vita, induce a scorgere, ed anche in forma marcata, l’offensività tipica della fattispecie.
A tale riguardo è interessante osservare che il codice Zanardelli aveva disciplinato tale situazione affermando che “il delitto si commette anche sopra le cose di una eredità non ancora accettata” (art. 402). Orbene, comunque si voglia configurare la relazione tra l’erede ed il bene ereditario, si tratta certamente di relazione giuridica e per nulla necessariamente fattuale. D’altra parte, il silenzio del codice Rocco sul punto non è certo espressione di benevolenza nei confronti dello sciacallo, bensì del sicuro convincimento che la fattispecie protegga non solo relazioni fattuali ma anche relazioni giuridiche, postulate dal requisito di fattispecie costituito, appunto, dall’altruità della cosa.
Una situazione non molto dissimile si configura in casi come quello in esame. Si sono esposte le ragioni che consentono di attribuire al direttore dell’esercizio commerciale la veste di persona offesa, per via del pregiudizio socialmente protetto che questi subisce per effetto della sottrazione del bene che gli è affidato. Orbene, in tale situazione il proprietario è al contempo offeso nel proprio rilevante interesse giuridico inerente alla disposizione ed alla fruizione della cosa. Non sarebbe sensato pensare che tale situazione giuridica non sia oggetto di diretta, primaria protezione nell’ambito della fattispecie penale; che essa cioè non esprima la lesione del bene giuridico, oltre che un danno materiale. D’altra parte, comunque si vogliano vedere le cose, la situazione del proprietario (o, se si vuole, del possessore iure civili) non è riconducibile in alcuna guisa alla ridetta detenzione qualificata del direttore dell’esercizio.
Da quanto esposto si trae una conclusione univoca. La fattispecie protegge ad un tempo la detenzione qualificata, nonché la proprietà e le altre situazioni giuridiche cui si è già ripetutamente fatto cenno. Tale duplicità viene in evidenza, per quel che qui interessa, quando situazioni giuridiche soggettive e situazioni fattuali fanno capo a diverse persone. In tal caso, la lesione del bene giuridico è duplice: proprietario e possessore in senso penalistico sono persone offese e legittimate a proporre querela.
La distinzione in questione non è per nulla formale: come si è ripetutamente esposto, vi sono situazioni nelle quali gli interessi e le relazioni che si trovano nella multiforme fenomenologia sono scomposti e si configurano in capo a diversi soggetti. In conseguenza disconoscere la posizione di uno dei soggetti lesi, non riconoscergli la legittimazione a promuovere la protezione penale, risulterebbe riduttivo e privo di giustificazione razionale.
Anche dal punto di vista dogmatico non si scorgono ragioni che impediscano di delineare plurime lesioni del bene giuridico e diversi soggetti titolari dell’interesse protetto. E’ ben vero che nella configurazione qui prospettata nè la situazione giuridica nè quella fattuale concretano immancabilmente il bene giuridico protetto.
Tuttavia ciò che interessa è che ambedue rechino senza incertezze i segni dell’offesa tipica. Nulla, in sostanza, si oppone a considerare le dette situazioni come distinte configurazioni dell’unitario genus costituito dal bene giuridico di fattispecie.
12. Da quanto esposto si trae il seguente principio di diritto:
“Il bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo dalla proprietà e dai diritti reali e personali di godimento, ma anche dal possesso, inteso nella peculiare accezione propria della fattispecie, costituito da una detenzione qualificata, cioè da una autonoma relazione di fatto con la cosa, che implica il potere di utilizzarla, gestirla o disporne. Tale relazione di fatto con il bene non ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e si può configurare anche in assenza di un titolo giuridico, nonché quando si costituisce in modo clandestino o illecito. Ne discende che, in caso di furto di una cosa esistente in un esercizio commerciale, persona offesa legittimata alla proposizione della querela è anche il responsabile dell’esercizio stesso, quando abbia l’autonomo potere di custodire, gestire, alienare la merce”.
13. Alla luce di tale enunciazione è senz’altro rituale la querela proposta dalla responsabile del grande magazzino Oviesse, afferente alla sottrazione di merce esposta per la vendita. Il pertinente motivo di ricorso è dunque infondato e va rigettato.
omissis
3. Furto d’uso
C. Cost. 13 dicembre 1988, n. 1085
(omissis)
2.- L’ordinanza di rimessione non può essere condivisa nella parte in cui censura l’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, in mancanza d’effettiva restituzione della cosa sottratta, non è configurabile il tentativo di furto d’uso, ex artt. 56 e 626, primo comma, n. 1, c.p..
La stessa ordinanza é, invece, da condividere nella parte in cui ritiene costituzionalmente illegittima l’applicazione, all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, dell’art. 624 c.p.
A tale ipotesi va, invero, applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., che incrimina e disciplina il c.d. furto d’uso consumato.
Inquadramento sistematico della fattispecie di cui all’art. 626, primo comma. n. 1.
Alcune chiarificazioni di fondo vanno premesse ai fini dell’esatto inquadramento sistematico della fattispecie tipica di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., in relazione al tipo previsto nell’art. 624 c.p.
Il furto d’uso è alternativo al furto semplice ed è caratterizzato dalla presenza nel reo della specifica intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo
Vero è che l’“immediata restituzione” della cosa sottratta, dopo l’uso momentaneo della cosa stessa, rileva nella fattispecie di cd. furto d’uso, prima ancora che quale elemento obiettivo, quale momento del contenuto intenzionale del soggetto attivo del fatto, “accanto ed oltre” lo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta.
Ed è appunto l’intero contenuto volitivo del reo che, almeno inizialmente, nettamente distingue, nel sistema del vigente codice penale, l’ipotesi di cd. furto d’uso dal tipo di cui all’art. 624 c.p., che qui si denominerà, per esigenze di chiarezza espositiva, furto semplice, ordinario o comune.
Deve, preliminarmente, esser precisato che il furto d’uso non va configurato quale furto semplice (soltanto) ulteriormente caratterizzato ed attenuato dal momentaneo uso e dalla restituzione, immediatamente dopo l’uso, della cosa sottratta.
Quand’anche non s’accolga la peraltro convincente tesi, autorevolmente proposta, della sostanziale e strutturale autonomia, rispetto al furto comune, della fattispecie tipica di furto d’uso, certo é che, dall’interpretazione sistematica dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., s’evince che o già al momento della sottrazione della cosa mobile altrui esiste, nel reo, oltre allo scopo di far (soltanto) uso momentaneo della cosa che si sta sottraendo, anche l’intenzione di restituire la cosa stessa immediatamente dopo l’uso, ed in tal caso é applicabile (a parte, un attimo, i problemi relativi all’effettiva restituzione della cosa, dei quali ci si occuperà oltre) la disciplina prevista per il furto d’uso; oppure tale intenzione specificamente relativa alla restituzione della cosa (si ribadisce: già nel momento dell’impossessamento) non esiste, ed in questo secondo caso è applicabile la disciplina prevista per il furto comune.
E’, infatti, la presenza nel reo della specifica intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo (oltre, s’intende agli altri requisiti essenziali) che caratterizza, in relazione al furto comune, e sin dall’origine, il furto d’uso.
Quest’ultimo non nasce come furto semplice, solo successivamente “trasformato”, a seguito dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa sottratta, in furto d’uso, bensì, e sin dall’origine, si manifesta per il particolare, caratteristico contenuto intenzionale del reo, consistente nello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta ed insieme nell’intenzione di restituire quest’ultima immediatamente dopo l’uso.
Alla tesi secondo la quale, nello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta, sarebbe necessariamente implicita l’intenzione di restituire la medesima, é stato giustamente obiettato che non sempre (così, ad es., nell’ipotesi di esistenza, nel reo, di tale scopo e dell’intenzione di abbandonare, poi, la cosa) e necessariamente implicita, nello scopo dell’uso momentaneo, anche l’intenzione d’immediatamente restituire la cosa sottratta.
Sennonché, appunto l’esempio proposto (presenza nel reo, al momento della sottrazione, dello scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta ed insieme dell’intenzione d’abbandonare la cosa stessa dopo l’uso) rende evidente la volontà del soggetto attivo del fatto, fin dall’inizio, d’appropriarsi della cosa sottratta, ossia d’agire con animus domini.
Insomma: se al momento della sottrazione c’è, nel soggetto attivo, oltre allo scopo di far uso momentaneo della cosa sottratta, anche l’intenzione di restituire la cosa stessa immediatamente dopo l’uso, si realizza, almeno inizialmente (salve le successive vicende relative a mutamenti volitivi) l’ipotesi del furto d’uso; se, invece, l’intenzione, nel reo, d’immediata restituzione della cosa non c’è, si realizza, sempre ab initio, l’ipotesi del furto comune.
Il furto d’uso é alternativo al furto semplice: o si verifica, in concreto, almeno ab initio, un’ipotesi di furto d’uso (in presenza dell’intenzione di restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta) oppure, in alternativa, con l’ovvia conseguente esclusione di detta ipotesi, si attua (in mancanza di tale intenzione ed in presenza, s’intende, di tutti gli altri requisiti di cui agli artt. 624, 42 e segg. c.p.) un’ipotesi di furto semplice.
Ad avviso della Corte, è appunto dall’inserimento, nel sistema, della fattispecie di furto d’uso (che non esisteva nel codice penale Zanardelli) che risulta particolarmente caratterizzato anche il dolo specifico del furto semplice, se di dolo specifico si tratta: se l’intenzione d’immediatamente restituire dopo l’uso momentaneo la cosa sottratta caratterizza il furto d’uso, l’intenzione di non restituire la stessa cosa (anche dopo un eventuale uso momentaneo) ossia di spossessare definitivamente gli aventi diritto, caratterizza il furto ordinario.
Ma, anche quando, con una parte della giurisprudenza, queste, peraltro sicure, conclusioni, desunte dall’interpretazione sistematica degli artt. 624 e segg. c.p., non venissero condivise, non si potrebbe disconoscere, almeno in ordine al furto d’uso, la necessita dell’“ulteriore” positiva intenzione (al momento della sottrazione) d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
A conferma vale ricordare, in materia, i lavori preparatori; ed in particolare la Relazione ministeriale sui libri II e III del progetto (Lavori preparatori del codice penale, vol. V, parte II, n. 741) ove espressamente si legge: “… si risponderà di furto semplice… sia quando siasi sottratta la cosa allo scopo di usarla e poi di restituirla, ed in effetti non siasi restituita sia quando, pur di fronte ad una avverata restituzione, non sia provato che la sottrazione fu commessa con lo scopo di restituire. Potrà in quest’ultima ipotesi concedersi la diminuente di pena per la circostanza della restituzione del tolto”.
Non c’e dubbio, dunque, che la sottrazione e l’impossessamento, perché si abbia furto d’uso, devono avvenire con l’intenzione d’immediatamente restituire, subito dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
Da quanto osservato s’evince non soltanto che, prima ancora che sul piano obiettivo, la restituzione opera quale iniziale, “ulteriore” contenuto intenzionale caratterizzante il furto d’uso ma anche che soltanto un mutamento, intervenuto successivamente alla sottrazione, del predetto contenuto intenzionale può porre problemi relativi all’applicabilità della disciplina prevista per il furto ordinario; a meno che, come si preciserà in seguito, non s’intenda illegittimamente escludere dalla comprensione dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., l’ipotesi della mancata restituzione dovuta a caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta.
(omissis)
L’effettiva restituzione della cosa sottratta è necessaria per l’integrazione del furto d’uso ma non è l’evento del reato
4. – La restituzione assume un particolare rilievo, sul piano obiettivo, nella legislazione italiana: questa, infatti, a differenza di altre legislazioni, non soltanto prevede una fattispecie tipica generale (ossia applicabile alla sottrazione di qualunque genere di cose mobili) di furto d’uso ma richiede, per l’integrazione della medesima, l’effettiva restituzione della cosa sottratta.
Non interessano, in questo momento, le motivazioni delle scelte operate dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.: potrà anche esser stata la necessita d’individuare un elemento valido a provare, in maniera inconfutabile, l’iniziale intenzione, nel reo, di restituire la cosa sottratta (contro gli artifici difensivi in ordine alla prova di tale intenzione) ad indurre il legislatore a richiedere, per l’integrazione del furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta.
Certo è che, come risulta anche dal citato passo della Relazione ministeriale al vigente codice penale, si risponde di furto comune (e non di furto d’uso) anche quando, pur essendosi sottratta la cosa altrui con lo scopo di momentaneamente usarla e, subito dopo, di restituirla al legittimo detentore, la stessa cosa non sia stata (salvo quanto si osserverà di qui a poco) effettivamente restituita.
Difficile è l’inquadramento, nel sistema, del requisito obiettivo del quale si sta discutendo, e tenace é la tentazione, nella quale cade anche il giudice a quo, d’allargare, “in avanti”, il fatto di furto d’uso, ritenendolo perfezionato soltanto nel momento dell’avverata restituzione della cosa sottratta e, così, di ravvisare, nell’ipotesi di sottrazione ed uso momentaneo della cosa, con conseguenti atti diretti a restituirla interrotti in itinere, tentativo di furto d’uso e non furto d’uso consumato.
Sembra, infatti, a prima vista, agevole argomentare che, se la pena prevista per il furto d’uso scatta nel momento dell’avvenuta restituzione, questa ultima (rappresentando, peraltro, la realizzazione “finale” della volontà del reo) costituisce l’evento della fattispecie di furto d’uso e, pertanto, come nella specie all’esame del giudice a quo, gli atti idonei, realizzati dopo la sottrazione e l’uso momentaneo della cosa sottratta, diretti a restituire la medesima interrotti “in itinere” integrano tentativo di furto d’uso.
Sennonché, va intanto preliminarmente ribadito che, in caso di volontaria mancata restituzione della cosa sottratta, non può che esservi stato, nel soggetto attivo del fatto, un mutamento volitivo, se e vero che, nel momento della sottrazione, lo stesso soggetto ha nutrito l’intenzione di restituire la cosa e che solo successivamente, “mutando d’avviso”, ha deciso di spossessare definitivamente l’avente diritto.
Ma, quel che più conta, la restituzione non può costituire l’evento del delitto di furto d’uso, giacche essa, a differenza della sottrazione (ed eventualmente dell’uso momentaneo) non e “negativamente valutata” dal legislatore.
L’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. si dirige al privato, in questi termini: “Non impossessarti, sottraendola a chi la detiene, della cosa mobile altrui, neppure con lo scopo d’un uso momentaneo della cosa stessa; ove ti fossi impossessato della medesima con l’intenzione di restituirla e l’avessi momentaneamente usata, restituiscila immediatamente”.
Nel furto d’uso, la restituzione non soltanto non viola alcun divieto normativo ma realizza una condotta positivamente valutata dal legislatore.
La restituzione non può, dunque, costituire evento del delitto di furto d’uso: è, invece, la mancata restituzione, negativamente valutata dal legislatore, a far divenire applicabili le più gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Tale mancata restituzione, esaminata, come si osserverà fra poco, alla stregua dei principi generali, costituisce un dato esclusivamente obiettivo, che necessita, secondo la vigente Costituzione, d’essere integrata dai correlativi requisiti subiettivi: in carenza di questi ultimi, la mancata restituzione della cosa non può esser addebitata al soggetto agente.
La distinzione tra fatto e fattispecie vale ad inquadrare il tema: il fatto di furto d’uso comprende tutti gli estremi che integrano l’oggetto del divieto normativo e s’estende fino al momento della restituzione, compreso, pertanto, anche il divieto d’uso momentaneo (ed inclusi anche gli estremi subiettivi).
Poiché non può denominarsi dolo l’intenzione di realizzare una condotta positivamente valutata dal legislatore (la restituzione della cosa sottratta) non può includersi nel dolo specifico anche l’intenzione di tale restituzione: la stessa intenzione – si ripete – deve, peraltro, esistere (ed esser rigorosamente provata) insieme al dolo generico ed allo scopo d’uso momentaneo della cosa perché siano, in concreto, integrati, nel momento dell’impossessamento, tutti gli estremi subiettivi del furto d’uso.
La restituzione della cosa sottratta costituisce, dunque, condotta susseguente, che fa parte della fattispecie di furto d’uso in senso ampio, fattispecie che include il fatto (integrato, come si e detto, da tutti gli estremi violativi del divieto normativo) e la predetta condotta susseguente.
Caratteristica peculiare della fattispecie di furto d’uso é che, mentre solitamente la condotta susseguente costituisce realizzazione d’un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto ed ha come effetto, di regola, l’estinzione del reato, la restituzione della cosa sottratta realizza, invece, l’iniziale intenzione del reo ed ha, insieme agli altri elementi del furto d’uso, l’effetto d’attenuare la pena e di condizionare la perseguibilità (a querela) del reato.
L’impossessamento della cosa è l’evento consumativo del furto d’uso
Da ciò discende che, pur essendo configurabile il tentativo di furto d’uso, la sottrazione e l’impossessamento segnano il momento oltre il quale tale tentativo non può più esser integrato.
E’ l’impossessamento della cosa l’evento consumativo del furto d’uso.
Anche l’uso momentaneo (che si potrebbe inquadrare, quale condotta di mantenimento, in un sia pur breve stato di perdurante consumazione, inclusa, sempre, tale condotta, in quanto normativamente vietata, nel fatto di furto d’uso) perde i caratteri dell’essenzialità: ove il reo, impossessatosi della cosa altrui con lo scopo d’usarla momentaneamente, rinunciasse ad usarla e, subito dopo la sottrazione, la restituisse all’avente diritto, ugualmente si configurerebbe un’ipotesi di furto d’uso consumato: in tal caso lo stato di “perdurante” consumazione si ridurrebbe a brevissimo tempo.
Le precedenti considerazioni conducono a non condividere l’ordinanza di rimessione, nella parte in cui ritiene che, nell’ipotesi all’esame del giudice a quo, sia ravvisabile un tentativo di furto d’uso: poiché gli imputati s’erano già impossessati del veicolo, e l’avevano anche momentaneamente usato, non é costituzionalmente illegittimo escludere, nella stessa ipotesi, il tentativo di furto d’uso e ravvisare, invece, il furto d’uso consumato.
La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune
5. – La norma di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. viola, invece, l’art. 27, primo comma, Cost., in quanto esclude che, nella specie all’esame del giudice a quo, sia applicabile la disciplina dettata per il furto d’uso.
La mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta non può esser legittimamente addebitata al soggetto attivo del fatto, con la conseguente sottoposizione dello stesso soggetto alle più gravi sanzioni del furto comune.
Non dovrebbe residuare dubbio alcuno, dopo quanto é stato osservato, sul rilievo per il quale la restituzione della cosa sottratta costituisce elemento essenziale e particolarmente significativo della fattispecie di furto d’uso.
Ma, altrettanto essenziale e significativa é la mancata restituzione della cosa sottratta, tenuto conto dell’eventuale esclusione dell’applicabilità delle ridotte sanzioni previste per il furto d’uso e della conseguente applicazione delle più gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
II comando legislativo, diretto al soggetto attivo del reato, si configura in questi termini: “se hai sottratto la cosa mobile altrui allo scopo di momentaneamente usarla, restituiscila immediatamente”.
In altre parole: “opera, attivati a restituirla (nel qual caso otterrai una notevole riduzione di pena ed il delitto sarà perseguito soltanto a querela di parte); se, invece, non la restituirai, immediatamente dopo l’uso, si applicheranno le gravi sanzioni determinate dalla legge per il furto ordinario e non saranno invocabili restrizioni alla perseguibilità del delitto”.
Nella sistematica dei rapporti tra furto comune e furto d’uso, allo stesso modo per il quale l’effettiva restituzione della cosa sottratta (in quanto realizzazione dell’iniziale intenzione del reo) esclude l’ipotesi, e le ridotte sanzioni, del furto comune, la (volontaria) mancata restituzione della predetta cosa – salvo quanto si preciserà fra poco – esclude il disposto relativo al furto d’uso e, conseguentemente, rende applicabili le gravi sanzioni previste per il furto comune.
Non resta che stabilire i criteri in base ai quali valutare, nel furto d’uso, la mancata restituzione della cosa sottratta.
Poiché tale mancata restituzione, nel furto d’uso, risulta essere positivamente valutata dal legislatore, essa va trattata in maniera analoga alle omissioni: la mancata restituzione va considerata, come per l’omissione, soltanto estremo oggettivo.
L’analisi deve, pertanto, incentrarsi sull’esistenza del correlativo elemento subiettivo: l’elemento oggettivo della condotta negativa, per esser imputato, va integrato dai corrispondenti requisiti subiettivi e cioè dalla volontà di non restituire la cosa sottratta.
Or nella specie all’esame del giudice a quo non soltanto non é stata dimostrata, nel soggetto attivo del fatto, la volontà di “non restituire” ma risulta provata, secondo l’assunto dello stesso giudice, l’esistenza nel reo, già al momento della sottrazione e dell’impossessamento della cosa, della contraria volontà, mai mutata, d’immediatamente restituire, dopo l’uso momentaneo, la cosa sottratta.
La giurisprudenza e la dottrina che sono dell’avviso che sia applicabile la normativa del furto comune anche all’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta interpretano l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. alla luce del sistema del vigente codice penale, nel quale non soltanto é prevista la responsabilità oggettiva ma vige il principio: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu”.
Ed infatti, la dottrina esplicitamente afferma che, in caso di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, risponde di furto comune anche chi ha sottratto la cosa allo scopo di farne uso momentaneo e con l’intenzione d’immediatamente restituirla, a cagione della vigenza, nel codice penale del 1930, del principio ora ricordato.
Sennonché, tale principio contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.
La sentenza di questa Corte n. 364 del 1988, nell’interpretare, alla luce dell’intero sistema costituzionale, il parametro ora richiamato, ha sancito che dal medesimo risulta richiesto, quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato.
Ed innanzi si è sottolineato che, se l’intenzione di restituire la cosa e l’effettiva sua restituzione sono altamente significativi e caratterizzanti la fattispecie tipica di furto d’uso, anche la mancata restituzione della cosa sottratta non può che essere particolarmente significativa ai fini d’escludere l’applicabilità delle ridotte sanzioni di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. e di rendere conseguentemente applicabili le gravi sanzioni previste per il furto ordinario.
Non può tacersi che ben a ragione, quasi unanimemente, dottrina e giurisprudenza concludono nel senso che, per l’applicazione del disposto relativo al furto d’uso, l’effettiva restituzione della cosa sottratta deve, in concreto, costituire realizzazione della particolare intenzione di restituire, già presente al momento dell’impossessamento, nell’autore del reato e non “oggettivo” evento dovuto al caso: or non si comprende perché mai la restituzione della cosa sottratta non operata, direttamente od indirettamente, dallo stesso reo non si ritiene integrare l’estremo dell’effettiva restituzione richiesto dall’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. ed invece la mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore, del tutto estranea alla volontà del reo, debba aver rilevanza, ai fini dell’esclusione dell’applicabilità delle disposizioni relative al furto d’uso; con l’assurda conseguenza che il soggetto agente, che fortunatamente fosse riuscito a restituire la cosa sottratta, verrebbe perseguito soltanto a querela di parte e sanzionato con le pene ridotte di cui all’art. 626, primo comma, n. 1, c.p. mentre altro soggetto, con la stessa intenzione del primo in ordine alla restituzione della cosa, sol perché impedito sfortunatamente a riconsegnare la cosa sottratta, dovrebbe essere più gravemente punito per furto ordinario.
E’ ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita”: così, nella specie all’esame del giudice “a quo”, il dolo della sottrazione e dell’impossessamento della cosa mobile altrui.
Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (nella specie, mancata restituzione della cosa per caso fortuito o forza maggiore) nella produzione dei quali la volontà del reo e rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo.
Dal primo comma dell’art . 27 Cost., come é stato chiarito nella citata sentenza n. 364 del 1988, non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o, nella specie, tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento.
E’ ben vero che la fattispecie di furto d’uso è unitaria ed unitariamente valutata dal legislatore: in essa, oltre all’effettiva restituzione della cosa sottratta, il dolo dell’impossessamento per lo scopo di momentaneamente usare della cosa altrui e l’intenzione di restituirla immediatamente dopo l’uso sono elementi costitutivi della tipica, attenuata illiceità del furto d’uso, prima ancora di divenire, in sede di colpevolezza, elementi indispensabili per il rimprovero da muovere all’autore del delitto.
L’unitarietà e la valutazione unitaria, in sede d’illiceità, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie tipica di furto d’uso, non esclude, tuttavia, che, in sede di colpevolezza, si analizzino i diversi dati, i singoli elementi che contribuiscono a contrassegnare il disvalore oggettivo del tipo: ed è in relazione a ciascuno di tali elementi che va ravvisata la rimproverabilità dell’autore del fatto per che possa concludersi per la sua personale responsabilità penale.
Soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27, primo comma, Cost.
Si è già notato che le due condotte della fattispecie tipica di furto d’uso (sottrarre e restituire) sono diversamente (l’una negativamente e l’altra positivamente) valutate dal legislatore.
L’ipotesi della sottrazione e della mancata restituzione della cosa sottratta prospetta, pertanto, due condotte, entrambe negativamente valutate e fra loro strutturalmente distinte.
Poiché entrambe contribuiscono ad integrare quella illiceità che, nel l’escludere il furto d’uso, riconduce la medesima a quella del furto comune, per determinare se questo ultimo effetto debba prodursi e indispensabile ravvisare, in relazione a ciascuna delle due condotte (sottrazione e mancata restituzione) gli elementi subiettivi idonei a generare il rimprovero di cui all’art. 27, primo comma, Cost.
L’elemento subiettivo attinente alla sottrazione od all’impossessamento della cosa altrui, ed il conseguente rimprovero relativo ai medesimi, non può estendersi alla condotta di mancata restituzione della cosa: il dolo della sottrazione e dell’impossessamento non e estensibile alla mancata restituzione, così come il rimprovero, la disapprovazione etico- sociale attinente alla sottrazione ed all’impossessamento non può esser arbitrariamente esteso alla mancata restituzione della cosa sottratta.
Detta mancata restituzione, se dovuta a caso fortuito o forza maggiore, non è addebitabile al soggetto agente: il caso fortuito e la forza maggiore – non consentendo il rimprovero di colpevolezza, attinente all’oggettiva mancata restituzione della cosa sottratta, non consentendo, cioè, l’addebitabilità d’uno degli elementi che contribuiscono ad integrare la singolare illiceità (che caratterizza l’ipotesi in esame)-impediscono, di conseguenza, il rimprovero, a titolo di furto comune, dell’unitaria predetta ipotesi.
Rimanendo, peraltro, dolosi e addebitabili gli altri elementi della fattispecie concreta, va applicato l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p.
Perché l’art. 27, primo comma, Cost, sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, é indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed e altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.
6.- Dalla illegittimità costituzionale dell’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., consegue che soltanto un mutamento di volontà del soggetto attivo del fatto in ordine alla restituzione della cosa sottratta può rendere applicabile la disciplina del furto ordinario.
Se il reo, sottratta la cosa con lo scopo di momentaneo uso e con l’intenzione, dopo l’uso, d’immediatamente restituirla, successivamente decidesse di non restituirla, all’iniziale contenuto volitivo caratterizzatore del furto d’uso si sostituirebbe altra intenzione, almeno parzialmente contrastante con la prima. Solo in tal caso, tenuto conto della progressione criminosa (da una fattispecie meno grave, peraltro ancora non compiutamente attuata, si passerebbe, in un unico contesto d’azione, alla realizzazione d’una fattispecie più grave) determinata dal mutamento dell’iniziale intenzione del reo, risulterebbero applicabili le sanzioni previste per il furto ordinario.
Valutando, da un diverso punto di vista, unitariamente, dato l’unico contesto d’azione, l’ipotesi della mancata restituzione della cosa sottratta dovuta al mutamento dell’iniziale intenzione del soggetto attivo del fatto, dovrebbe osservarsi che -avendo il reo, successivamente al realizzato impossessamento della cosa mobile altrui con il dolo generico del furto ordinario (che coincide con il dolo generico del furto d’uso) integrato il dolo specifico (se di dolo specifico si tratta) del furto ordinario – sarebbe stata completata la realizzazione di quest’ultimo e che, pertanto, l’iniziale intenzione del furto d’uso (scopo di momentaneo uso della cosa sottratta ed intenzione di restituire la medesima immediatamente dopo l’uso) verrebbe assorbito dalla contraria intenzione, successivamente insorta, di non restituire la cosa.
E’, invece, di certo costituzionalmente illegittimo, nell’ipotesi di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta, chiamare a rispondere di furto ordinario il reo del quale é rimasto intatto il dolo, generico e specifico, del furto d’uso, senza che si siano aggiunti diversi, rilevanti contenuti intenzionali.
Una volta verificato che l’art. 626, primo comma, n. 1, c.p., nel sistema delle leggi ordinarie e nel diritto vivente, contrasta con il primo comma dell’art. 27 Cost., si rende superflua l’indagine sull’eventuale contrasto della norma impugnata con gli altri parametri indicati nell’ordinanza di rimessione; tanto più che, come si e avuto modo di rilevare, la violazione dell’art. 27, primo comma, Cost. già di per se comporta disparità di trattamento di soggetti in identica posizione.
4. Rapina “impropria” : demarcazione consumazione-tentativo
Cass. S.U. 19.4.2012, Reina
È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
…
3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 25 gennaio 2012, depositata il successivo 9 febbraio, ha rilevato l’esistenza di due distinti orientamenti sulla questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in cui la condotta di sottrazione della cosa non venga completata.
L’ordinanza mette a confronto le argomentazioni che sostengono i due indirizzi.
In particolare, l’indirizzo maggioritario “presta scarsa attenzione al tenore letterale della disposizione ed individua la medesima ratio, sul piano delle valutazioni politico-criminali delle fattispecie: nel delitto di rapina il legislatore, in ragione del nesso teleologico che unisce le due offese – alla libertà morale e fisica, da un lato, al patrimonio dall’altro, – ha attribuito maggior gravità al furto proprio perché per commetterlo si aggredisce un interesse ben più rilevante afferente alla persona. La stessa ratio presiederebbe la disciplina del tentativo di rapina impropria nel caso che il nesso teleologico ed il rapporto di immediatezza si configuri tra la violenza e la ricerca della impunità perché maggior gravità deve ricollegarsi alla condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene integrità fisica o morale alla persona rispetto alle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici, non collegate, le lesioni, nemmeno da un nesso di immediatezza e di strumentalità”.
Quanto all’indirizzo minoritario, secondo l’ordinanza, esso “richiamandosi al principio di stretta legalità e di tassatività della norma penale, valorizza il dato letterale che pone la sottrazione quale prius ontologico della condotta tipica della rapina impropria e configura il delitto quale fattispecie a tempo circoscritto ovvero vincolato: la sottrazione non costituirebbe una parte della condotta tipica della rapina impropria, ma solo un presupposto fattuale che deve sussistere nella sua compiutezza tanto nella consumazione quanto nel tentativo. Se così non si ragionasse, si dovrebbe configurare la sottrazione quale inizio della esecuzione della fattispecie, con risultati ingiusti e paradossali perché in violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali e del favor rei. Si aggiunge, peraltro, che, in difetto di una sottrazione completamente attuata, la violenza o la minaccia non potrebbero essere considerati diretti e in modo inequivoco a commettere una rapina impropria. Ed, ancora, che il dolo volto solo alla sottrazione non potrebbe, in corso di opera, in seguito ad una condotta volta a garantirsi l’impunità, convertirsi nel dolo di rapina, anche impropria, che presupporrebbe una volontà rappresentativa fin dall’inizio di usare comunque violenza e minaccia anche dopo solo una sottrazione tentata. Ed infine, quanto alla ratio ed alle ragioni di politica criminale, si sottolinea il minor disvalore giuridico – sociale della condotta di chi usi minaccia e violenza per garantirsi solo l’impunità, senza aver sottratto nulla, dalla condotta di chi agisce con l’intento di sottrarre ad altri ed impossessarsi così della cosa altrui e di conseguenza, in aggiunta, di garantirsi l’impunità”.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2012, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
… omissis
Considerato in diritto
1. Il motivo di ricorso pone la seguente questione di diritto, in relazione alla quale il ricorso stesso è stato rimesso a queste Sezioni Unite: “Se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità”.
2. Come già rilevato dall’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario della Cassazione ed anzi consolidato fino al 1999, è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Per tale soluzione, volendo limitare la citazione alle pronunce massimate degli ultimi anni, si esprimono Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011, Lanza, Rv. 249390; Sez. 2, n. 44365 del 26/11/2010, Panebianco, Rv. 249185,; Sez. 2, n. 42961 del 18/11/2010, CI., Rv. 249123; Sez. 2, n. 36723 del 23/09/2010, Solovchuk Rv. 248616; Sez. 2, n. 22661 del 19/05/2010, Tushe, Rv. 247431; Sez. 2, n. 23610 del 12/03/2010, Russomanno, Rv. 247292; Sez. 6, n. 25100 del 29/04/2009, Rosseghini, Rv. 244366; Sez. 2, n. 3769 del 16/12/2008, dep. 2009, Solimeo, Rv. 242558; Sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, Bastea, Rv. 241666; Sez. 2, n. 19645 del 08/04/2008, Petocchi, Rv. 240408; Sez. 2, n. 20258 del 26/03/2008, Boudegzdame, Rv. 240104; Sez. 2, n. 29477 del 29/02/2008, Chirullo, Rv. 240640; Sez. 2, n. 38586 del 25/09/2007, Mancuso, Rv. 238017; Sez. 2, n. 40156 del 10/11/2006, Taroni, Rv. 235448.
Tale orientamento si basa su una serie di argomentazioni.
La prima è espressa da una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma secondo, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare quella che configura la forma tentata del reato in questione ogni qual volta l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi, fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi.
Pertanto allorché un tentativo di furto sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria (Sez. 2, n. 42961 del 2010 cit. e Sez. 2, n. 7264 del 2004 cit.).
Altra argomentazione fa riferimento al concetto di fattispecie criminosa complessa, alla quale deve ricondursi anche la rapina impropria, ed afferma che le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, sicché l’unitarietà della rapina resta tale anche quando dette condotte si arrestino ad ipotesi tentate. Non sarebbe, in altri termini, consentito procedere, proprio per l’unità della figura delittuosa, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfocia in violenza o minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due tronconi, l’uno configurante un delitto consumato contro la persona (lesioni, minaccia o altro) e l’altro un delitto tentato contro il patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti ad un reato complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione organica, la quale non può non portare a concludere che è stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria, anche se non si era conseguita la sottrazione del bene altrui (Sez. 2, n. 19645 del 2008 cit. e altre). Su tali basi si precisa che la violenza successiva alla sottrazione non sta a rappresentare, in questa prospettiva, un concetto di esaurimento “consumativo” del primo momento in cui si articola la condotta criminosa, ma intende normativamente sottolineare esclusivamente il profilo cronologico e funzionale che colloca quella condotta come un prius rispetto all’altra, lasciando inalterata l’applicabilità, a quella stessa condotta, degli ordinari principi in tema di tentativo (Sez. 2, n 19645 del 2008, cit.).
Sotto il profilo della ratio legis, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che pur sempre usando violenza o minaccia attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
3. L’orientamento minoritario prende le mosse da Sez. 5, n. 3796 del 12/07/1999, Jovanovic, Rv. 215102, che, per la prima volta, contrasta la consolidata giurisprudenza, aprendosi piuttosto alle argomentazioni della dottrina maggioritaria, seguendola nell’opposta direzione della non ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in mancanza del presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare, nel caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Rimasta inizialmente del tutto isolata, detta tesi è stata, successivamente, seguita anche da Sez. 5, n. 16952 del 14/12/2009, dep. 2010, Mezzasalma, Rv. 246860; Sez. 6, n. 4264 del 10/12/2008, dep. 2009, Coteanu, Rv. 243057; Sez. 6, n. 10984 del 27/11/2008, dep. 2009, Strzezek, Rv. 243683; Sez. 6, n. 43773 del 30/10/2008, Muco, Rv. 241919; Sez. 5, n. 32551 del 13/04/2007, Mekhatria, Rv. 236969.
Tale orientamento si basa in primo luogo e principalmente sull’elemento letterale, affermando che “il capoverso dell’art. 628 c.p. impone claris verbis che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di violenza o minaccia (..adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione..) sicché l’agente, qualora – sorpreso prima di aver compiuto la sottrazione – usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata rapina ma di tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia […] Nella formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile nesso temporale tra sottrazione e violenza/minaccia finalizzata rappresenta l’essenza caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il secondo comportamento, qualora rimanga avulso dal primo (venuto a mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato di lesioni e/o minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti all’impossessamento (che non raggiungano, tuttavia, la soglia della sottrazione) consente ancora la configurabilità del tentativo di furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina impropria. In definitiva, la mancanza di sottrazione della cosa impedisce che la violenza successiva possa assurgere anche solo al rango di atto idoneo diretto in modo non equivoco alla commissione di una rapina impropria” (Sez. 5, n. 3796 del 1999).
4. Ad avviso delle Sezioni Unite non si ravvisano argomentazioni idonee a superare il risalente e più volte ribadito, anche in tempi recenti, orientamento maggioritario.
5. Occorre, in primo luogo, sgombrare il campo dalla suggestiva argomentazione, sostenuta dal ricorrente sulla scia della prevalente dottrina, secondo la quale il tenore letterale del capoverso dell’art. 628 c.p. sarebbe tale che la tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il principio di legalità e con il divieto di analogia.
Queste Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano) che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vivente” quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta interpretazione (Corte EDU, 02/11/2006, Milazzo e. Italia; Grande Camera, 17/02/2004, Maestri e. Italia; 17/02/2005, K.A. e A.D. c. Belgio; 21/01/2003, Veeber c. Estonia; 08/07/1999, Baskaya e Okcuoglu c. Turchia; 15/11/1996, Cantoni c. Francia; 22/09/1994, Hentrich c. Francia; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; 08/07/1986, Lithgow e altri c. Regno Unito).
Non vi è dubbio che nel caso in esame la prevedibilità del risultato interpretativo con riferimento al “diritto vivente” è piuttosto rappresentata da una giurisprudenza, non proprio maggioritaria, ma addirittura granitica, per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi. Si discute, pertanto, della modifica di un risultato interpretativo “normalmente” prevedibile, in quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, e ciò può avvenire solo nel caso in cui tale risultato contrasti, in modo chiaro ed evidente, con i principi di precisione e di stretta interpretazione. In verità, si tratta di una questione sulla quale si è manifestata in modo evidente la differenza tra gli orientamenti assunti dalla quasi totalità della giurisprudenza di legittimità e gli approdi ermeneutici cui è pervenuta la maggior parte della dottrina. Gli argomenti a favore della tesi giurisprudenziale minoritaria si traggono, quindi, soprattutto dalla dottrina, alla quale si richiama il ricorrente, e con tali argomenti occorre confrontarsi.
6. Su alcune considerazioni di base può ritenersi che vi sia sufficiente concordia di opinioni.
Nelle diverse fattispecie descritte nell’art. 628 c.p. si manifesta chiaramente la scelta normativa di tutelare i beni giuridici patrimonio e persona, o, per meglio dire, i beni della inviolabilità del possesso e contestualmente della sicurezza e libertà della persona.
Vi è ampio consenso nel riconoscere il carattere plurioffensivo del reato di rapina e la sua caratteristica di reato complesso: la condotta disegnata nell’art. 628 c.p., infatti, è costituita dalla stessa azione di sottrazione-impossessamento tipica del furto, cui si aggiunge l’elemento della violenza alla persona o della minaccia. Da qui la natura complessa del reato, risultante dalla commistione del reato di furto con il corrispondente reato relativo al tipo di violenza di volta in volta esercitata (percosse, minacce).
Sotto la comune denominazione di rapina il codice colloca, però, due ipotesi distinte dalla diversa successione delle condotte che compongono il delitto di rapina e da una differente direzione finalistica del comportamento violento o minaccioso. Nel caso in cui la violenza o la minaccia esercitate rappresentino il mezzo, precedente o concomitante rispetto all’impossessamento, usato per perseguire l’offesa al patrimonio, si realizza l’ipotesi della rapina c.d. propria.
Quando invece la violenza o la minaccia servono come mezzo per assicurare il possesso della cosa sottratta o, in alternativa, per procurare a sé o ad altri l’impunità, si avrà la diversa fattispecie definita rapina impropria.
Nelle due figure certamente il ruolo centrale è assunto dalla violenza o dalla minaccia, che nella rapina propria precedono lo spossessamento e sono funzionali ad esso, mentre nella rapina impropria seguono al medesimo, ma entrambe le figure presuppongono che l’agente non abbia il possesso della cosa che vuole sottrarre.
Entrambe le fattispecie legali sono considerate dal legislatore equivalenti sotto il profilo sanzionatorio.
7. Alla tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria anche nel caso in cui non venga portata a compimento la sottrazione della cosa mobile altrui si muove, principalmente, la critica di trascurare il dato testuale del capoverso dell’art. 628 c.p., che sarebbe esplicito nel richiedere che violenza e minaccia siano utilizzate “dopo la sottrazione”.
Tale critica appare infondata.
Deve osservarsi che la formulazione della norma in esame ha una spiegazione logica ben precisa: il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” intendeva stabilire il nesso temporale che deve intercorrere tra i segmenti dell’azione criminosa complessa, ma non anche definire le caratteristiche, consumate o tentate, di tali segmenti. In altri termini, nella formulazione della norma svolge un ruolo centrale la necessità di un collegamento logico-temporale tra le condotte di aggressione al patrimonio e di aggressione alla persona, attraverso una successione di immediatezza. È necessario e sufficiente che tra le due diverse attività concernenti il patrimonio e la persona intercorra un arco temporale tale da non Interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere. Questo è il punto centrale e il solo indefettibile della norma incriminatrice del comma secondo dell’art. 628 c.p. che giustifica l’equiparazione del trattamento sanzionatorio tra la rapina propria e quella impropria, indipendentemente dall’essere quelle stesse condotte consumate o solo tentate.
Del resto, lo stesso dato testuale suggerisce, ponendo in alternativa la finalità di assicurarsi il possesso e quella di procurarsi l’impunità, che quest’ultima finalità può sussistere anche senza previa sottrazione. In altri termini, la norma in esame punisce la violenza o la minaccia anche se queste vengano poste in essere per assicurarsi l’impunità, cioè esse non vengono considerate per sé sole o in un contesto distinto e separato e, pertanto, il legislatore ha voluto che fossero punite non come tali, cioè come entità giuridiche a sé stanti, ma con riferimento all’attività criminosa per la quale il reo intendeva assicurarsi l’impunità, attività la quale, pur se sintetizzata nel termine “sottrazione”, non può non comprendere tutte le fasi in cui essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del tentativo di impossessamento a quello finale dell’impossessamento della cosa che ne è oggetto.
8. La tesi propugnata dal ricorrente richiama quella dottrina che configura la sottrazione come un mero presupposto del reato di rapina impropria e non come parte della condotta di tale reato. Ma proprio tale ricostruzione teorica della fattispecie dimostra che il semplice dato testuale non è così chiaro e univoco come si afferma, se per interpretarlo è necessario fare ricorso a categorie dogmatiche quanto meno di dubbia applicabilità nel caso di specie.
Secondo tale tesi, la sottrazione del bene è presupposto di fatto e non condotta tipica del reato, con la conseguenza che, se l’art. 56 c.p. consente di equiparare sul piano della tipicità la condotta compiuta e gli atti idonei diretti in modo non equivoco al suo compimento, la clausola di apertura del tentativo può riguardare solo la condotta tipica del reato e non i presupposti di fatto della condotta. In questa costruzione teorica, inoltre, non ha senso porsi il problema di una causazione volontaria del presupposto, essendo invece determinante ai fini del dolo che il soggetto se ne rappresenti l’esistenza.
Di contro deve osservarsi che è ben difficile attribuire natura di mero presupposto alla sottrazione, trattandosi pur sempre di una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo di un elemento naturale o giuridico anteriore all’azione delittuosa ed indipendente da essa. L’unico presupposto della rapina, nelle sue varie forme, è la mancanza di possesso della cosa oggetto dell’azione.
Non si comprende, poi, perché nella struttura della rapina propria, in cui la violenza o la minaccia precedono e sono funzionali all’impossessamento, si possano ravvisare due condotte tipiche, entrambe suscettibili di estensione con il meccanismo del tentativo, mentre nel caso della rapina impropria la sola condotta tipica sarebbe quella della violenza o minaccia e la sottrazione si configurerebbe come mero presupposto. Il delitto di rapina ha, nelle sue due configurazioni, natura unitaria, quale reato plurioffensivo, in cui, con l’azione violenta e la sottrazione del bene, si aggrediscono contemporaneamente due beni giuridici, il patrimonio e la persona. Del resto, è opinione ampiamente condivisa quella della natura unitaria del reato complesso; pertanto, se la rapina costituisce un reato composto risultante dalla fusione di due reati, non se ne può scindere l’unità valutando separatamente i componenti costitutivi delle figure criminose originarie; e se l’art. 628 c.p., opera un’unificazione tra fattispecie consumate, la stessa unificazione dovrebbe continuare a valere, salvo il diverso titolo di responsabilità, quando una di esse si presentasse nello stadio del tentativo.
D’altro canto, non condivisibile appare la lettura dell’elemento della sottrazione come presupposto di fatto che non deve necessariamente essere oggetto di dolo, purché l’agente se ne rappresenti l’esistenza, poiché ciò equivarrebbe a dire che l’elemento soggettivo di un delitto contro il patrimonio mediante violenza alle persone non dovrebbe necessariamente cadere sulla condotta di aggressione al patrimonio, limitandosi ad investire la condotta di violenza o minaccia, con la conseguenza paradossale che si potrebbe rispondere di rapina impropria per una sottrazione non voluta. In realtà, il dolo richiesto dalla fattispecie è stato definito doppiamente specifico, in quanto integrato dal dolo del furto, implicitamente richiamato, e dall’ulteriore scienza e volontà di usare la violenza o minaccia al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o di procurare a sé o ad altri l’impunità.
9. La tesi che sta a fondamento del ricorso, sempre per giustificare l’affermazione di indefettibilità del dato, che si pretende testuale, della sottrazione compiutamente realizzata, fa ricorso alla impostazione teorica secondo cui lo schema del delitto tentato può ritenersi riferibile al reato complesso globalmente considerato anche allorquando un troncone della condotta sia giunto a perfezione e l’altro sia rimasto allo stadio del tentativo penalmente significativo, ma soltanto se la porzione della condotta compiutamente realizzata è quella che la norma richiede sia realizzata per prima, oppure allorquando l’ordine cronologico di realizzazione appaia indifferente, condizione quest’ultima che non si realizzerebbe nella fattispecie di rapina impropria, nella quale l’ordine dei fatti è sovvertito rispetto alla sequenza tipica.
In verità, è opinione largamente diffusa, e certamente preferibile, che si ha tentativo di delitto complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell’una né dell’altra componente, sia quando sia stata raggiunta la consumazione dell’una e non quella dell’altra.
Ciò, come si è detto, può ritenersi pacifico con riferimento al delitto di rapina propria, né diversamente può opinarsi con riguardo al delitto di rapina impropria, trattandosi di affermazione indimostrata che l’ordine dei fatti di cui alla rapina propria debba considerarsi ^tipica”; anzi, è lo stesso legislatore che, equiparando le due fattispecie del primo e del secondo comma dell’art. 628 c.p., mostra di considerare indifferente la sequenza, ferma rimanendo la tipologia delle singole componenti del reato complesso.
Del resto, anche i sostenitori dell’interpretazione qui disattesa riconoscono che sia configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato un’azione violenta o anche minacciosa nei confronti della vittima del reato o di terzi per assicurarsi il possesso del bene. Non si vede, pertanto, la ragione di negare la configurabilità del tentativo nel caso in cui rimanga incompiuta l’azione di sottrazione della cosa altrui.
Si afferma anche che una violenza tentata che non segua ad una sottrazione completamente realizzata non potrebbe dirsi diretta in modo non equivoco alla realizzazione della rapina impropria. Ma tale affermazione si scontra già con il dato concreto della realtà criminale, quale è ben evidenziata proprio nel caso di cui al presente processo, nel quale gli autori del reato si erano introdotti nell’abitazione della vittima e la avevano “messa a soqquadro” senza nulla sottrarre a causa dell’intervento della vittima medesima: è di tutta evidenza il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa mobile altrui.
Piuttosto deve osservarsi che il comma secondo dell’art. 628 c.p. fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, ciò che conduce a ritenere che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma dello stesso.
Il requisito della violenza o minaccia che caratterizza il delitto di rapina, certamente può comportare una differenziazione in ordine al momento consumativo rispetto al furto. Mentre, infatti, con riferimento al furto, finché la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore questi è ancora in grado di recuperarla, così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo, al contrario, nella rapina, la modalità violenta o minacciosa dell’azione non lascia alla vittima alcuna possibilità di esercitare la sorveglianza sulla res. Per la consumazione del delitto di rapina è quindi sufficiente che la cosa sia passata sotto l’esclusivo potere dell’agente, essendone stata la vittima spossessata materialmente, così perdendo di fatto i relativi poteri di custodia e di disposizione fisica. In considerazione della successione “invertita” delle due condotte di aggressione al patrimonio e alla persona che caratterizza la rapina impropria, il legislatore, al fine di mantenere equiparate le due fattispecie criminose del primo e del secondo comma dell’art. 628 c.p., non richiede il vero e proprio impossessamento della cosa da parte dell’agente, ritenendo sufficiente per la consumazione la sola sottrazione, così lasciando spazio per il tentativo ai soli atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa altrui, atti che sono di tutta evidenza sussistenti nel caso di cui al presente procedimento.
Ne consegue la fondatezza della tesi della maggioritaria giurisprudenza, secondo la quale, combinando la norma incriminatrice dell’art. 628, comma secondo, c.p. con l’art. 56 c.p., se ne trae che se si tenta un furto senza realizzare la sottrazione della cosa e si commette immediatamente dopo un’azione violenta contro una persona, che ha per fine di assicurare l’impunità per il tentativo di furto, l’azione violenta resta strumentale a quella già realizzata e, pertanto, assorbita.
Ammessa, dunque, concettualmente la ipotizzabilità del tentativo con riferimento alla fase della sottrazione, ne deriva che la successiva violenza esercitata per procurarsi l’impunità, non resta avulsa dal modello legale prefigurato nell’art. 628 comma secondo, c.p., ma ad esso si coniuga a perfezione, dando così vita alla figura tentata di rapina impropria, senza alcuna illogica scansione del reato complesso in autonome figure di tentato furto e violenza o minaccia.
10. Altro argomento a favore della non ipotizzabilità del tentativo di rapina impropria fa leva su ragioni di politica criminale: si è sostenuto che una volta venuto meno il rapporto tra l’offesa alla persona e quella al patrimonio, ossia il legame di consequenzialità che unisce le due offese, non avrebbe senso applicare il regime sanzionatorio della rapina, giustificato proprio in ragione del nesso teleologico tra l’aggressione ai due beni. In altri termini, l’allargamento delle maglie della fattispecie di rapina impropria nel senso indicato dalla prevalente giurisprudenza comporterebbe l’applicazione di una sanzione particolarmente grave anche per un fatto che non si ritiene dotato di significativo disvalore.
Anche tale argomentazione non può essere condivisa, poiché la mancata consumazione della condotta di aggressione al patrimonio o della condotta di aggressione alla persona non fanno venir meno il legame tra le due forme di aggressione, come struttura portante del reato complesso di rapina, che persiste nelle due forme propria e impropria e che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave.
È ben vero che nella rapina impropria non sussiste il nesso funzionale e strumentale che in quella propria unisce l’aggressione alla persona all’aggressione al patrimonio, ma un volta che il legislatore ha stabilito che la mancanza di tale specifico nesso non esclude l’equiparabilità ai fini sanzionatori della rapina impropria, deve ritenersi che la congiunta e contestuale aggressione ai due beni giuridici attribuisce di per sé maggiore gravità alle condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene sicurezza e libertà della persona e perciò è previsto che sia punita più severamente delle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici.
Se il legislatore ha ritenuto con il delitto di rapina di sanzionare in maniera ben più severa le condotte di per sé autonomamente punibili della violenza o minaccia e del furto, in ragione del nesso di contestualità che unisce le due offese, attribuendo così maggiore gravità anche al furto, appare ragionevole ritenere che tale ratio sussista anche nel caso in cui il soggetto agente tenta di sottrarre il bene altrui ed è poi disposto per assicurarsi l’impunità ad usare violenza o minaccia. Non vale l’obiezione che l’equiparazione del trattamento sanzionatorio può essere fondata su una connessione “analoga”, quale sarebbe quella che lega l’offesa al patrimonio già realizzata e l’offesa alla persona commessa per assicurarsi il possesso della cosa sottratta o per conseguire l’impunità; poiché il rapporto di “analogia” rispetto al trattamento sanzionatorio deve essere tra termini corrispondenti e, quindi, tra tentativo di rapina impropria e tentativo di rapina propria e quest’ultimo, come dimostrano i molteplici casi giurisprudenziali (ad es. Sez. 2, n. 18747 del 20/03/2007, Di Simone, Rv. 236401; Sez. 2, n. 21955 del 10/02/2005, Granillo, Rv. 231966; Sez. 2, n. 3596 del 01/02/1994, Evinni, Rv. 197753), è configurabile anche nelle ipotesi in cui non siano perfezionate né l’offesa al patrimonio né quella alla persona, quando Ja condotta dell’agente sia potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia, e la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso.
Pertanto, il legame posto dal legislatore tra la condotta di aggressione al patrimonio e la condotta di violenza al fine di guadagnare l’impunità per il delitto precedentemente commesso è frutto della valutazione del maggior disvalore sociale che caratterizza l’azione violenta o minacciosa comunque connessa ad un aggressione al patrimonio, a prescindere che l’intento si sia realizzato o meno.
11. Sulla base delle esposte argomentazioni deve essere formulato il seguente principio di diritto: “È configurabile il tentativo di rapina impropria nei caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alfa sottrazione della cosa altrui, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità”.
12. In applicazione del suddetto principio il ricorso deve essere rigettato con la conseguenza della condanna del ricorrente al pagamento della spese processuali.
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5. Estorsione: momento consumativo
Cass. S.U. 14 dicembre 1999, Campanella
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Con sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila del 30 ottobre 1998 in parziale riforma di decisione del Tribunale di Teramo del 26 giugno 1995, A. è stato condannato alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione e lire un milione di multa per il delitto di estorsione tentata in danno di <B >.
Il fatto era avvenuto in CASTELLALTO il 14 novembre 1994 allorché <A> è stato arrestato, a seguito di intervento dei Carabinieri predisposto su richiesta del <B>, subito dopo aver ricevuto da questi una busta contenente cinquecentomila lire, pretese per proteggerlo da aggressioni che avrebbe altrimenti subito da concorrente in affari.
Il Tribunale, a causa del predisposto intervento dell’Arma, aveva ritenuto la figura del tentativo in luogo dell’estorsione consumata contestata (con la continuazione e la recidiva) e, a seguito dell’impugnazione del Procuratore della Repubblica, che aveva chiesto che fosse riconosciuta la sussistenza del reato consumato, e dell’imputato, che aveva affermato che il reato non sussisteva perché la somma gli era stato offerta del <B> per appianare divergenze con un concorrente in affari senza che fosse intervenuta violenza alcuna, e comunque la riduzione della pena, la Corte dell’Aquila aveva diminuito la pena nella misura già indicata (esclusa la continuazione e la recidiva ritenuta equivalente all’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. concessa) mantenendo però la qualificazione del fatto come estorsione tentata.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione sia l’imputato sia il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello dell’Aquila.
Per il primo la decisione deve essere annullata perché il fatto non costituisce reato in quanto il fatto stesso, come apprezzato dalla Corte, non è inquadrabile in alcuna fattispecie di reato.
Il Procuratore Generale invece chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per erronea applicazione della legge penale sul momento consumativo del delitto di estorsione. Invero, sostiene il ricorrente i fatti estranei al rapporto estorsore – estorto non influiscono sugli elementi costitutivi del reato, sicché il conseguimento dèll’ingiusto profitto con altrui danno sono dati oggettivi che si realizzano con il semplice passaggio del denaro dalle mani della vittima a quelle dell’estorsore, anche se ciò avviene alla occulta presenza delle forze dell’ordine, e nessuna rilevanza può accordarsi alla durata della detenzione, che può essere anche di estrema brevità.
La Seconda Sezione della Corte, rilevando che sul punto vi è contrasto nelle decisioni della Corte stessa, ha rimesso il ricorso a queste Sezioni Unite per la sua soluzione.
Diritto
La questione controversa nelle decisioni delle Sezioni Semplici della Corte, e rimessa alle Sezioni Unite per la sua risoluzione, concerne il momento consumativo del delitto di estorsione, se cioè tale delitto debba ritenersi consumato o solo tentato allorché la cosa estorta, e nel caso una somma di denaro, venga consegnata dalla vittima all’estorsore previa predisposizione di intervento della polizia che provveda immediatamente all’arresto del reo e alla restituzione della cosa estorta alla vittima.
Il contrasto sorge sulla determinazione del momento in cui l’estorsore consegue il profitto con danno della vittima perché il delitto di cui all’art. 629 c.p., che è un reato di evento, richiede, per la sua consumazione, che l’autore, del fatto, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
Ed è proprio sulla nozione del conseguito profitto con altrui danno, esaltata nelle particolari ipotesi di immediato intervento predisposto dalla polizia, che si incentra il contrasto.
Infatti, la giurisprudenza meno recente aveva costantemente ritenuto necessario, ai fini della consumazione del delitto di estorsione, la sussistenza di un “effettivo danno” per la vittima e di un “effettivo arricchimento” per il reo, nel senso che, nel caso di predisposto intervento della polizia, si verifica sempre l’ipotesi tentata, salvo che il reo nonostante ciò sia riuscito a dileguarsi, perché l’ingiusto profitto si consegue quando la cosa sia entrata effettivamente nel patrimonio dell’agente in modo che questi possa liberamente disporne (Cass. Sez. II, 8 novembre l966, n. 15l4, <B.>, 103996; Sez. I, 28 gennaio 1966, n. 112, <P.>, 100765; Sez. I 29 gennaio 1973, n. 188, <N.>, 124227).
Successivamente – pur in presenza di alcune decisioni intermedie che avevano ritenuto il tentativo, oltre che nel caso in cui il servizio di polizia fosse riuscito ad impedire la consegna, anche “in estrema ipotesi” quando, pur avvenuta la consegna, il possesso della cosa si fosse limitato a brevi istanti (Sez. I, 10 dicembre 1971, n. 4004, <T.>, 121244) o, in peculiari fattispecie, avevano ritenuto il reato consumato con la mera disponibilità della cosa per un breve periodo di tempo, non essendo necessario che il profitto siasi materialmente realizzato (Sez. I, 29 aprile 1977, n.10637, <T.>, 136687), peraltro ricordando che il tentativo era configurabile soltanto se il servizio di polizia avesse impedito la consegna (Sez. I, 7 dicembre 1978, n. 1589, <F.>, 141140) – la giurisprudenza della Corte si è attestata nel ritenere che, nella fattispecie qui in considerazione, il profitto si consegua non appena l’estorsore ha ricevuto la somma o il bene estorto, indipendentemente dalla durata dell’impossessamento, che è svincolato da criteri spazio temporali e che può essere anche momentaneo, sicché l’evento si realizza e la fattispecie è integrata con il profitto così conseguito, non essendo richiesta né l’autonoma disponibilità del bene, né il perdurare o il protrarsi del profitto e del danno patrimoniale (tra le tante: Sez. II, 23 maggio 1972, Monne, 122623; Sez. I, 12 marzo 1982, <T.>, 153396; Sez. II, 16 febbraio 1987, n. 9454, <B.>, 176613; sez. VI, 2 maggio 1987,n. 10877, <C.>, 176854; Sez. II, 25 maggio 1990, n. 3772, <B.>, 186776; Sez. II, 17 novembre 1992,n. 47, <B.>, 193156; Sez. II, 18 febbraio 1997, n. 640, <C.>).
Invece, secondo l’orientamento minoritario e non recente (Sez. II, 28 ottobre 1988, n. 17410, <F.>, 182843; Sez. I, 17 marzo 1982, n. 7836, <F.> 154993; sez. II, 19 aprile 1983, <G.>, n. 8572, 160748; Sez. II, 12 dicembre 1984,n. 2929, <B.>, 168541), che la Seconda Sezione di questa Corte che ha rilevato il contrasto condivide, il profitto si realizza quando vi sia l’impossessamento del bene estorto e cioè la cosa sia uscita dalla sfera giuridico – patrimoniale del soggetto passivo e, correlativamente, sia entrata in quella del soggetto attivo, con la conseguenza che quel fugace contatto con il bene determinato dall’immediato intervento della forza pubblica fa sì che il possesso sia meramente apparente e fittizio; il possesso del bene deve avere quindi una durata apprezzabile, e ciò anche in relazione al servizio di polizia: se questo non è stato efficiente il reato è consumato ancorché il colpevole sia stato arrestato poche ore dopo il fatto (sent. <F.>), mentre se è stato efficiente il delitto rimane allo stadio di tentativo perché l’agente, malgrado la momentanea detenzione, non ha tratto alcuna utilità dal bene e, d’altro canto, nessun danno ha patito il soggetto passivo per la momentanea perdita del bene stesso (sent. <F.>).
Per quanto concerne infine le posizioni della dottrina conviene segnalare che quella meno recente è per la ravvisabilità del reato consumato perché non bisogna confondere il profitto con l’uso che il colpevole intendeva fare, ad esempio con l’atto o con la somma, fatti questi che sono oltre la perfezione e la consumazione del delitto; e del resto il ricupero immediatamente fatto non è che la prova che il danno già sussisteva, ‘mentre il ricupero non ha funzione diversa da quella del risarcimento e della restituzione.
L’orientamento dottrinario più recente è invece concorde nel ritenere – e l’indirizzo minoritario della giurisprudenza riflette tale posizione – che nell’ipotesi prefigurata sussiste solo il tentativo perché il conseguimento del profitto richiede l’acquisizione di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori del controllo dell’offeso o di terzi, mentre la semplice apprensione momentanea del bene non costituisce impossessamento; si precisa peraltro che, potendo essere il profitto anche non patrimoniale, integra il reato consumato l’uso momentaneo della cosa che dia piacere o godimento ancorché la cosa sia restituita subito dopo l’uso, e cosi anche la distruzione della cosa nel momento della sua apprensione.
L’estensione della nozione di conseguito profitto (evento del reato di estorsione)
Qui giunti si deve constatare come la controversia si incentri, sia varie sfumature, sulla nozione di conseguito profitto, o meglio sulla sua estensione, senza peraltro inquadrarlo nella struttura della fattispecie considerata nella sua modalità lesiva, per trarne conseguenze coerenti, non influenzate dalla ipotesi del predisposto intervento della polizia, alla cui casistica peraltro si possono trarre solo incerti parametri di riscontro.
Il rilevare che nell’estorsione il conseguito ingiusto profitto (con altrui danno) è l’evento del reato, mentre nel furto o nella rapina il profitto è riguardato solo sotto il profilo soggettivo del dolo specifico, non fornisce il limite di tale profitto, dal momento che è pacifico che esso non possa essere confuso con l’utilizzazione del bene estorto mentre si discute solo se debba consistere in un impossessamento inteso come disponibilità autonoma.
Del resto il profitto è evento del reato non solo nella estorsione ma anche nella truffa ed è comunemente ammesso che perché in questo delitto sussista il profitto non è necessario che l’agente consegua il vantaggio o la locupletazione sperati.
È altresì noto che quando il legislatore usa termini pregnanti di significati, questi non possono essere delineati se non vengono considerati nello stampo della singola fattispecie che li connota secondo il suo specifico modello lesivo. Per un esempio di questo tipo si pensi al concetto non unitario di “abuso”, di poteri o di altre situazioni, che può indicare sia l’esercizio di un potere inesistente (art. 498 c.p.), sia l’approfittarsi di una data situazione (artt. 643, 661 c.p.), sia l’esercizio di potere in modo difforme da quello in cui doveva effettuarsi (art. 486,487 c.p.), sia un cattivo uso del potere (artt. 61 n. 9, 326 c.p.), sia un uso della qualità o del potere a fini coattivi (art. 317 c. p.)
La nozione di profitto del delitto di estorsione, quindi, si può definire solo se inserita nella struttura della fattispecie di estorsione, della quale è l’evento.
La modalità lesiva di tale fattispecie, che la tipicizza rispetto ad altre, anche di confine, è infatti costituita da una condotta coattiva dell’agente che priva della libertà di autodeterminarsi nelle disposizioni patrimoniali il soggetto passivo, che così è costretto a fare o ad omettere qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto od omesso, da cui consegue il profitto per l’agente o per altri, con altrui danno patrimoniale.
Pertanto, il nucleo lesivo dell’estorsione è costituito dal comportamento coatto della vittima e il profitto, collegato al comportamento coatto, al facere o al pati, di tale comportamento segna l’esito, l’evento, appunto.
E, quindi, come per la sussistenza del profitto non si richiede l’utilizzazione del bene estorto secondo gli intendimenti del colpevole così non si può esigere che il profitto sia mediato dall’impossessamento inteso come disponibilità autonoma, estremo questo che non solo non è contemplato dalla legge, ma la cui introduzione viola la tassatività della fattispecie perché, determina restrizioni di operatività non desumibili dalla sua struttura e che, quindi, ne possono renderne arbitraria la applicazione: si pensi al caso di arresto del colpevole nella quasi flagranza perché inseguito dalla polizia e in cui può sorgere questione sulla conseguita disponibilità autonoma della cosa in base a dati spazio – temporali a dir poco irrilevanti.
Peraltro, non a caso, nell’ipotesi delittuosa di confine, la rapina propria, compare l’impossessamento: in. questa, non nell’estorsione, la violenza alla persona media il diretto impossessamento della cosa mobile altrui, laddove nella estorsione è la volontà che, piegata, media il profitto, che non può essere esteso all’impossessamento senza acquisire singolarmente note che sono proprie della rapina, per ridurre così la distinzione tra questi due delitti al tipo di coazione, se relativa vi è estorsione, se assoluta rapina.
E ciò sembra irragionevole, se non altro perché, di fronte ad un eguale risultato, l’impossessamento, il trattamento punitivo più severo verrebbe riservato al delitto ‘in cui la forma di coazione è meno grave, l’estorsione appunto.
Pertanto, confermando l’indirizzo interpretativo prevalente, deve ritenersi sussistente il delitto di estorsione consumato, e non solo tentato, allorché la cosa estorta venga consegnata dalla vittima all’estorsore anche se sia predisposto l’intervento della polizia, che provveda immediatamente all’arresto del reo e alla restituzione della cosa estorta alla vittima.
Infatti, in tale figura delittuosa la modalità di lesione si incentra sulla coazione esercitata dall’agente sulla vittima perché tenga una condotta positiva o negativa in ambito patrimoniale, il cui esito è il profitto che il reo intende procurarsi, che non può essere integrato da altre note, quali la disponibilità autonoma della cosa, senza violare la tassatività della fattispecie.
(omissis)
6. Estorsione (e rapina): circostanza aggravante delle più persone riunite
Cass. S.U. 29 marzo 2012, Alberti
In sintesi
Per integrare l’aggravante speciale delle “più persone riunite” nel delitto di estorsione è necessaria la contemporanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia, poiché a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, e quella logico-sistematica.
Il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perché la fattispecie circostanziale contiene l’elemento specializzante della “riunione” riferito alla sola fase della esecuzione del reato e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece, il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva.
Ulteriore conseguenza della soluzione prospettata é che quando i concorrenti nel reato siano più di cinque è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 112, n. 1, cod. pen. e che tale aggravante è compatibile con quella delle più persone riunite, essendo sufficiente ad integrare tale aggravante anche la contemporanea presenza nella fase esecutiva del reato di sole due persone
Ritenuto in fatto
omissis
3. L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza in data 8 novembre 2011 la Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, rilevato che in ordine alla questione delle condizioni necessarie per la configurabilità della circostanza aggravante delle più persone riunite sussisteva contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente richiama, in primo luogo, l’orientamento – che ritiene più convincente perché maggiormente aderente al dettato normativo – secondo cui la circostanza aggravante in questione non può identificarsi con una generica ipotesi di concorso nel reato, ma richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e nel momento di realizzazione della violenza o minaccia, solo in tal modo realizzandosi gli effetti fisici e psichici di maggiore pressione sulla vittima, tali da ridurre significativamente la forza di reazione (Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, Cuccaro, Rv. 248733; Sez. 2, n. 24367 dell’11/06/2010, Scysci, Rv. 247865; Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149).
Tale orientamento appare, però, contrastato da altro indirizzo, secondo cui, ai fini dell’aggravante, è sufficiente che il soggetto passivo percepisca la minaccia come proveniente da più persone, avendo tale fatto, per se stesso, maggiore effetto intimidatorio (Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio, Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi, Rv. 245146; Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, Di Bella, Rv. 239779; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv. 238485).
Il Primo Presidente, con decreto in data 13 dicembre 2011, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e fissava per la discussione l’odierna udienza pubblica.
Considerato in diritto
1. La questione controversa.
1.1. Le Sezioni Unite sono chiamate a stabilire “se per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, sia necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e ai momento in cui si realizzano la violenza o la minaccia, oppure sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepisca che la violenza o la minaccia provengano da più persone”.
1.2. L’art. 629 cod. pen., così come modificato prima dall’art. 4 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 e poi dall’art. 8 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172, dopo avere descritto nel primo comma la fattispecie astratta del delitto di estorsione (“Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da Euro 516 a Euro 2.065”), ha stabilito, nel secondo comma, quale risulta dall’ultima modifica apportata con l’art. 8 del citato d.l. n. 419 del 1991, convertito dalla legge n. 172 del 1992, che “La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 3.098, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”. Questo rinvio è da intendere fatto al comma terzo dell’art. 628, dato che con la successiva legge 15 luglio 2009, n. 94, all’articolo in questione è stato aggiunto un nuovo ultimo comma.
L’art. 628 cod. pen., dopo avere descritto nei primi due commi le fattispecie della rapina propria ed impropria, prevede al terzo comma, al quale rinvia, come si è detto, il secondo comma del l’art. 629 cod. pen., numerose circostanze aggravanti, e tra esse, per quel che qui interessa, quella, considerata nell’ambito del n. 1), della violenza o minaccia “commessa […] da più persone riunite”.
1.3. In ordine alla interpretazione della espressione “più persone riunite” si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità assai risalente, che sembrava sostanzialmente superato e che, invece, si è di recente riproposto.
Secondo un primo indirizzo, la circostanza aggravante delle “più persone riunite” richiede necessariamente che almeno due persone siano simultaneamente presenti nel luogo e nel momento in cui si realizza l’azione di violenza o minaccia (ex multis, iniziando dalle più risalenti, Sez. 2, n. 1121 del 24/06/1966, Di Grazia, Rv. 103546; Sez. 1, n. 1128 del 19/10/1966, Marcadini, Rv. 103186; Sez. 6, n. 299 del 14/02/1967, Pastorino, Rv. 104354; Sez. 1, n. 2964 del 01/12/1981, Samà, Rv. 152840; Sez. 6, n. 1041 del 15/04/1983, Piastroni, Rv. 159341; Sez. 2, n. 12958 del 26/03/1987, Reali, Rv. 177288; Sez. 2, n. 41578 del 22/11/2006, Massimi, Rv. 235386; Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, Crotti, Rv. 240011; Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, Cuccaro, Rv. 248733; vedi anche Sez. 5, n. 13566 del 09/03/2011, Fulle, Rv. 250169, che ha precisato che la circostanza aggravante del reato di furto di cui all’art. 625, n. 5, cod. pen., consistente nel fatto “commesso da tre o più persone”, non postula affatto, a differenza di quanto previsto dall’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., la simultanea presenza dei correi sul luogo del fatto).
Tale interpretazione sembra fondarsi sulla esigenza di differenziare il concetto di “persone riunite” da quello del concorso di più persone nel reato e sulla considerazione che la maggiore intimidazione e la minore possibilità di difesa derivanti dalla riunione di più persone, che costituirebbero la ratio del previsto inasprimento di pena, sarebbero effettivamente sussistenti quando la “riunione” sia nota alla vittima e sussista al momento in cui si esplica la violenza o la minaccia (vedi Sez. 6, n. 26093 del 06/05/2004, Tomasoni, Rv, 229745 e Sez. 2, n. 28378 del 14/05/2004, Orsini, Rv. 229593).
Quindi, secondo tale impostazione, l’aggravante non sarebbe ravvisabile allorquando il reato sia commesso mediante minacce formulate da singole persone in momenti successivi (Sez. 2, n. 6662 del 19/02/1981, Latella, Rv. 149657), ovvero nel caso di interventi successivi di ciascuno dei correi (Sez. 2, n. 8514 dell’11/02/1983, Stefanelli, Rv. 160741), ovvero in caso di minaccia esercitata per mezzo di uno scritto o per telefono.
La diversa opzione interpretativa, che ritiene sufficiente la mera percezione da parte della vittima di una minaccia proveniente da più persone finirebbe, inoltre, per fare inammissibilmente coincidere l’aggravante in discussione con il concorso di persone nel reato (così Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149 e Sez. 2, n. 24367 del’11/06/2010, Scisci, Rv. 247865; nonché Sez. 2, n. 36474 del 22/09/2011, Tei, Rv. 251163, che ha sottolineato, con riferimento, però, al delitto di rapina, che il quid pluris richiesto dall’aggravante rispetto al semplice concorso consisterebbe nella simultanea presenza di una pluralità di persone nel luogo e nel momento di consumazione del delitto).
Non sarebbe, peraltro, necessario che la violenza e la minaccia siano materialmente commesse da tutti i compartecipi presenti, dal momento che la sola presenza renderebbe maggiore l’effetto intimidatorio e renderebbe legittimo l’aggravamento di pena (Sez. 2, n. 14458 del 10/07/1986, Axo, Rv. 174709).
1.4. Secondo altro indirizzo, certamente oggi maggioritario, l’aggravante in discussione sarebbe ravvisabile quando il soggetto passivo abbia avuto la “sensazione” o la “percezione” o la “conoscenza” che l’azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la simultanea presenza delle stesse.
Siffatto indirizzo si è inizialmente formato per la fattispecie di estorsione cd. “a distanza”, ovvero con minacce commesse a mezzo lettera o telefonata (ex multis Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, Di Bella, Rv. 239779; Sez. 2, n. 40208 del 22/11/2006, Bevilacqua, Rv. 235591; Sez. 2, n. 2539 del 22/12/1987, La Spada, Rv. 177691; Sez. 2, n. 10082 dei 26/01/1987, Franciosa, Rv. 176729, che ha equiparato il mezzo della lettera o del telefono al nuncius) e successivamente è stato riferito anche ad ipotesi di estorsione “diretta” (ex multis Sez. 6, n. 197 del 15/12/2011, dep. 2012, Cava, Rv. 251491; Sez. 6, n. 32412 del 16/07/2010, Longo, Rv. 248286; Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio, Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi, Rv. 245146; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv. 238485).
Cosicché l’aggravante sarebbe ravvisabile anche quando le minacce siano espresse non contestualmente, ma in tempi e luoghi diversi, da più persone, ovvero da una sola persona anche per conto di altra o di altre, perché la maggiore intensità della intimidazione si riscontrerebbe anche quando i compartecipi non agiscano simultaneamente, ma separatamente e in tempi diversi in esecuzione del programma criminoso deliberato.
Insomma l’espressione “più persone riunite” postulerebbe la partecipazione all’azione criminosa di una pluralità di soggetti associati, ma non anche la compresenza fisica dei correi e del destinatario della violenza o della minaccia; in caso contrario si circoscriverebbe in modo rilevante l’ambito di applicazione dell’aggravante senza che nessun elemento letterale e sistematico possa giustificarlo (vedi Sez. 1, n. 1840 del 07/08/1984, Guzzi, Rv. 165530; Sez. 3, n. 9824 del 12/08/1987, Gaglioli, Rv. 176656).
1.5. Anche la Dottrina appare divisa tra chi, con impostazione più rigorosa, ritiene di circoscrivere l’aggravante ai soli casi di simultanea e contestuale presenza dei correi sul luogo del delitto ovvero sul luogo ove si eserciti la violenza o la minaccia e chi. Invece, propugna una impostazione che allarga il campo di applicazione della aggravante in discussione anche ai casi di compartecipazione dei correi non contestuale sul luogo di esecuzione del delitto purché conosciuta o percepita dalla parte offesa.
I fautori del primo indirizzo – necessità della contestuale presenza di più persone – individua la ratio dell’aggravante delle “più persone riunite” nel maggiore effetto intimidatorio, con correlativa minore possibilità di difesa della vittima, prodotto dalla simultanea presenza di più malviventi, risultando maggiore l’incidenza della violenza o minaccia esercitata contemporaneamente da più persone sulla libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
L’indirizzo contrario, che in verità sembra essenzialmente riferito alla ipotesi di estorsione cd. “mediata” o “indiretta”, ha in proposito sottolineato che l’effetto intimidatorio è maggiore anche quando, pur non essendovi contemporanea presenza, la vittima “percepisca” che la violenza o la minaccia siano esercitate da più persone.
2. La soluzione del contrasto.
2.1. Il contrasto giurisprudenziale segnalato deve essere risolto nel senso che per integrare l’aggravante speciale delle “più persone riunite” nel delitto di estorsione è necessaria la contemporanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia, poiché a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, e quella logico-sistematica.
Come si è già osservato, il secondo comma dell’art. 629 cod. pen. stabilisce che la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 3.098 “se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso [attuale terzo comma] dell’articolo precedente”.
L’art. 628 cod. pen., che disciplina il delitto di rapina, al terzo comma, tra le tante aggravanti indicate, prevede un aumento di pena se la violenza o minaccia è “commessa […] da più persone riunite”.
Orbene, secondo una corretta interpretazione letterale, imposta dall’art. 12 delle preleggi, in base alla quale è necessario in primo luogo tenere conto nella interpretazione delle norme del significato lessicale delle parole utilizzate dal legislatore, il verbo “riunire”, nella sua comune accezione, significa “unire, radunare più cose o persone nello stesso luogo”, ed il sostantivo “riunione” indica “il riunirsi di più persone nello stesso luogo allo scopo di..”; il dato semantico, quindi, non appare di dubbia interpretazione, volendosi con il termine “riunite” indicare la compresenza in un luogo determinato di più persone, ovvero di almeno due persone.
Se si esamina poi la struttura delle due norme in discussione -articoli 628 e 629 cod. pen,- si può notare come il legislatore abbia voluto precisare che ricorre l’aggravante “se la violenza o minaccia è commessa […] da più persone riunite”; sicché il termine “riunione” risulta direttamente collegato alla modalità commissiva della condotta violenta o minacciosa, che è connotata da una evidente maggiore gravità quando venga esercitata simultaneamente da più persone; si vuoi dire cioè che, come è stato osservato da una parte della dottrina, il legislatore ha conferito alla compresenza dei concorrenti nel locus commissi delicti un maggior disvalore penale in virtù dell’apporto causale fornito nella esecuzione del reato e della rafforzata vis compulsiva esercitata sulla vittima.
In tal modo il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perché la fattispecie circostanziale contiene l’elemento specializzante della “riunione” riferito alla sola fase della esecuzione del reato e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece, il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva.
Resta così delineata la differenza tra la ipotesi di concorso di più persone nel delitto di estorsione e quella aggravata delle “più persone riunite” nel luogo e nel momento ove venga esercitata la violenza o la minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non potendosi la circostanza aggravante identificare con una generica ipotesi di concorso di persone nel reato (Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limitalola, Rv. 244149), confusione talvolta operata, come si è già rilevato, dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità.
Ulteriore conseguenza della soluzione prospettata é che quando i concorrenti nel reato siano più di cinque è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 112, n. 1, cod. pen. e che tale aggravante è compatibile con quella delle più persone riunite, essendo sufficiente ad integrare tale aggravante anche la contemporanea presenza nella fase esecutiva del reato di sole due persone (vedi Sez. U, n. 20 del 07/07/1984, Dantini, Rv. 165423, che a proposito del delitto di banda armata, ha ritenuto applicabile l’aggravante di cui all’art. 112, n. 1, cod. pen., essendo sufficiente a realizzare la suddetta figura criminosa l’apporto di due soli soggetti).
2.2. La soluzione proposta è confortata anche dalla interpretazione logico-sistematica della norma e, quindi, dalla ratio della stessa.
I fautori di entrambe le tesi rinvengono la ratio del notevole inasprimento delle pene previste per la fattispecie del reato-base del delitto di estorsione nel maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla partecipazione al delitto di più persone e nella minorata possibilità di difesa della vittima, violentata o minacciata da più persone.
Si deve condividere siffatta impostazione perché se si esaminano anche le altre ipotesi di aggravamento previste dal comma terzo dell’art. 628 cod. pen. – violenza o minaccia commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite; posta in essere da persone che fanno parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen.; violenza che consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere ed agire – si comprende come tutte siano riconducibili ad una identica logica, avendo voluto il legislatore sanzionare più gravemente le condotte che creino maggiore intimidazione e riducano le possibilità di difesa della vittima.
Se è vero che la ratio dell’aggravamento di pena consiste nel maggiore effetto intimidatorio e nella minorata difesa della vittima, è pure vero, però, che essa è ravvisabile soltanto, quanto alla aggravante delle più persone riunite, nella compresenza nel luogo e nel momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia di più soggetti agenti; soltanto in tal caso. Infatti, la vittima, trovandosi di fronte non ad un singolo, ma ad un gruppo, sarà più intimidita ed incapace di reagire efficacemente.
Si è obiettato (vedi Sez. 2, n. 13779 del 30/07/1978, Olivieri, Rv. 140372), che la ragione dell’aggravamento di pena andrebbe ravvisata nella maggiore pericolosità intrinseca del fatto commesso da più persone; ma l’obiezione non è fondata perché quella indicata – la maggiore oggettiva pericolosità dell’azione criminosa posta in essere da più persone – è esattamente la ratio dell’aggravamento di pena previsto dall’art. 112, n. 1, cod. pen., norma che prevede un inasprimento delle pene quando i concorrenti nel reato siano cinque o più persone; sicché con tale impostazione si ritornerebbe a sovrapporre il concorso di persone nel reato alla aggravante delle “più persone riunite”, dimenticando l’elemento specializzante della “riunione” e tradendo il tenore letterale della norma e la volontà del legislatore.
Si è rilevato, però, che pur riconoscendo che la ratio della disposizione debba essere rinvenuta nei maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla partecipazione di più persone, si dovrebbe riconoscere che un tale effetto può verificarsi anche nei casi di compartecipazione non contestuale purché conosciuta o percepita dalla persona offesa.
Si tratta dell’indirizzo fino ad oggi maggioritario in giurisprudenza che sostiene la configurabilità dell’aggravante anche nel caso in cui il soggetto passivo abbia avuto la “sensazione” o la “percezione” o la “conoscenza” che l’azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la simultanea presenza delle stesse.
Un tale indirizzo, che, come si è già messo in evidenza, aveva avuto origine per affrontare i casi di cd. estorsione mediata o indiretta, non può essere seguito, non solo perché confligge con il tenore letterale della norma, come si è già detto, ma anche perché I concetti di “sensazione” e “percezione” sono opinabili, del tutto evanescenti e privi di qualsiasi oggettività, mentre per la “conoscenza” non si comprende quale possa essere il livello di essa necessario per integrare l’aggravante in discussione.
La giurisprudenza ha tentato di precisare siffatti concetti sostenendo, ad esempio, che la “sensazione” deve essere “netta e sicura” (vedi Sez. 2, n. 10082 del 26/01/1987, Franciosa, Rv 176729), ma la genericità di tali precisazioni toglie qualsiasi oggettività ai presupposti dell’indirizzo tuttora maggioritario.
In definitiva, quindi, la ratio del sensibile aggravamento di pena previsto dall’art. 629, comma secondo, cod. pen., rispetto alla fattispecie del reato-base, nel caso di condotta estorsiva realizzata da più persone, risiede, come è stato autorevolmente osservato, nel dato oggettivo del contributo causale, determinato dal maggiore effetto intimidatorio della violenza o minaccia posta in essere, fornito alla realizzazione del delitto dalla simultanea presenza nel luogo e nel momento della esecuzione della violenza e minaccia dei concorrenti e non quello soggettivo della mera percezione della provenienza della condotta da parte di più persone.
Da quanto detto discende che nel caso di cd. estorsione mediata, ovvero delle minacce fatte a mezzo lettera o telefono, l’aggravante delle più persone riunite sarà ravvisabile nel caso in cui la lettera sia firmata da due o più persone o se alla telefonata minatoria partecipino più persone, ma non anche nel caso in cui la parte offesa abbia la sensazione che colui che abbia spedito la lettera minatoria o abbia fatto la telefonata minacciosa sia in collegamento con altre persone.
Per le stesse ragioni non sarà ravvisabile l’aggravante in discussione quando le minacce o le violenze nei confronti della parte offesa siano poste in essere da diversi coimputati non contestualmente, ma da soli in momenti successivi.
In tale situazione, infatti, sarà ravvisabile un concorso di persone nel reato, ed, eventualmente, l’aggravante di cui all’art. 112, n. 1, cod. pen. nel caso i concorrenti siano cinque o più, ma non l’aggravante delle più persone riunite che, come si è detto, ha una ratio del tutto diversa.
2.3. Le conclusioni raggiunte sono confortate anche dalla elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi nella interpretazione della identica espressione “più persone riunite” utilizzata dal legislatore in altre norme penali.
È del tutto evidente, infatti, che, per ovvie ragioni di ragionevolezza ed uguaglianza, oltre che di certezza del diritto, appare opportuno che per espressioni identiche vi siano tendenzialmente analoghe interpretazioni; in ogni caso è, comunque, necessario tenere nella debita considerazione il significato attribuito alla espressione “più persone riunite” in altre fattispecie incriminatici che ad essa fanno ricorso come elemento costitutivo di autonome figure criminose ovvero come elemento circostanziale speciale.
Tali considerazioni sono ancora più vere con riferimento all’art. 628 cod. pen. perché, come si è già detto, l’art. 629, comma secondo, cod. pen. si limita a disporre, con mero rinvio, l’aggravamento della pena se concorre taluna delle circostanze di cui all’articolo precedente.
Ebbene in tema di rapina la giurisprudenza e la dottrina hanno concordemente e costantemente ritenuto che l’aggravante delle più persone riunite rileva per la simultanea presenza di una pluralità di soggetti – non meno di due persone – nel luogo e nel momento in cui la violenza e la minaccia si realizzano (tra le tante Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, Rv. 240011; Sez. U, n. 3394 del 23/03/1992, Ferletti).
È certo vero che tra le due fattispecie – rapina ed estorsione – vi sono non irrilevanti differenze, come la giurisprudenza e la dottrina non hanno mancato di porre in evidenza, dal momento che nella rapina la volontà del soggetto passivo resta sostanzialmente soppressa, mentre nella estorsione, pure in condizioni di libertà gravemente menomata, il soggetto passivo ha la possibilità di scegliere tra il danno minacciato e la richiesta degli aggressori, ma è pure vero che proprio perché entrambe le fattispecie sono poste a tutela dello stesso bene giuridico e sono caratterizzate dalla medesima modalità realizzativa – violenza o minaccia -nella prassi giudiziaria non sempre risulta agevole individuare una netta linea di demarcazione tra le due ipotesi di reato.
In ogni caso le pur esistenti differenze tra i due reati non legittimano una interpretazione differente della stessa espressione, dal momento che l’unico argomento, del tutto opinabile e, quindi, per nulla decisivo, che legittimerebbe la differente interpretazione della locuzione “più persone riunite”, consisterebbe nella maggiore efficacia della coazione nella rapina e nel maggiore distacco temporale tra violenza e minaccia e conseguimento del profitto nella estorsione; la pratica giudiziaria contempla, infatti, in tema di estorsione numerosi casi di foltissima coazione psicologica e di immediato adeguarsi del soggetto passivo alle richieste dell’estorsore.
2.4. Con l’art. 9 legge 15 febbraio 1996, n. 66, è stato introdotto nel codice penale l’art. 609-octtes che punisce la violenza sessuale di gruppo ed al primo comma ne fornisce una definizione specificando che “La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis”.
Orbene la interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che è stata fornita della espressione “più persone riunite” contenuta in tale norma conforta le conclusioni alle quali si è pervenuti nell’esaminare la questione controversa.
Infatti si è affermato che, pur non essendo richiesto che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, è sufficiente e necessario che essi siano presenti sul luogo ove la vittima è trattenuta ed al momento in cui gli atti di violenza sessuale sono compiuti da uno di loro, perché costui trae forza dalla presenza del gruppo (tra le tante, Sez. 3, n. 6464 del 05/04/2000, Giannuzzi, Rv. 216978; e la necessità della simultanea effettiva presenza delle più persone nel luogo e nel momento di consumazione dell’illecito è stata ribadita anche da Sez. 3, n. 15089 dell’11/03/2010, Rossi, Rv. 246614).
Si è, quindi, ritenuto che la espressione “più persone riunite” definisce una situazione differente dal mero concorso eventuale e individua un reato necessariamente plurisoggettlvo il cui quid pluris rispetto al concorso ex art. 110 cod. pen. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della commissione della violenza i partecipanti siano presenti.
2.5. Nello stesso senso è stata interpretata la locuzione “più persone riunite” utilizzata dal legislatore in altre fattispecie circostanziali; si intende fare riferimento agli artt. 339 e 385 cod. pen., che prevedono alcune circostanze aggravanti speciali per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia commessi con violenza o minaccia da più persone riunite.
In entrambe tali ipotesi, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è richiesta per la configurazione delle rispettive aggravanti la simultanea presenza sul luogo del reato di due o più persone.
2.6. In conclusione anche le interpretazioni della locuzione in discussione utilizzata in altre fattispecie conferma la ragionevolezza dell’indirizzo interpretativo proposto e delle conclusioni raggiunte.
omissis
5. Conclusioni.
5.1. In conclusione, sulla questione oggetto del contrasto di giurisprudenza deve essere enunciato il seguente principio di diritto: “per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia”.
5.2. L’affermazione di tale principio comporta che nel caso di specie debba essere esclusa la circostanza aggravante delle più persone riunite perché, come si è posto in evidenza, le violenze e le minacce in danno della parte lesa B. non furono poste in essere dai ricorrenti C. ed A. contemporaneamente presenti in un unico contesto.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata sul punto.
…omissis
7. Sequestro di persona a scopo di estorsione: condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa a titolo di esecuzione d’un precedente rapporto illecito
Cass. S.U. 17 dicembre 2003, Huang
omissis
(…) Come si è chiarito nella parte espositiva, la ricostruzione dei fatti è certa e non è oggetto di contestazione: un’organizzazione criminale, anche mediante la cooperazione di organizzazioni locali, si occupa di far entrare clandestinamente in Italia soggetti extracomunitari, prelevandoli dal luogo di origine e portandoli a destinazione in stato di cattività; li trattiene, in genere con modalità violente, e li libera soltanto quando ottiene il pagamento del prezzo del viaggio, di elevato tenore, in precedenza concordato.
Rispetto all’ipotesi tipica del sequestro di persona a scopo di estorsione, la fattispecie in esame presenta la caratteristica di sottendere un previo patto, di natura illecita, tra i membri del sodalizio criminoso e le vittime.
Situazioni simili non hanno ricevuto qualificazioni giuridiche univoche né dai giudici di merito, né in sede di legittimità.
La giurisprudenza di questa Corte, in particolare, presenta due correnti interpretative.
Il primo orientamento prende le mosse da una sentenza della Sezione II (n. 9189 del 1° luglio – 7 ottobre 1993, Versaci ed altri, RV 195539) e ritiene che il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) sussista soltanto se l’autore del sequestro abbia agito – in assenza di una causa preesistente – al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione; che non sia configurabile, invece, mancando tale specifico fine, quando il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente collegabili ad una precedente causa, ancorché illecita (nello stesso senso, Cass., sez. VI, c.c. 20 gennaio 2000, p.m. in proc. Ekwelum; Cass., sez. V, u.p. 22 giugno 2000, Zheng Xiaodong; Cass., sez. II, u.p. 10 agosto 2000, Lu Hai).
Si tratta dell’orientamento prevalente, espresso, per altro, in relazione a vicende analoghe a quella che ha dato origine al presente processo, oppure in relazione a casi di sequestro di persona di trafficanti di droga che si erano rifiutati di corrispondere ai correi l’importo pattuito per una partita di stupefacenti, o di rivelare il luogo in cui il quantitativo di droga era custodito.
Il secondo filone interpretativo, opposto al precedente, fa capo ad una decisione della Sezione VI (sent. 7 gennaio – 9 maggio 1997, n. 4265, Jovanovich Branco, citata talvolta come “Branco”), secondo cui il carattere giusto o ingiusto del profitto va apprezzato non in base alla personale valutazione dell’autore del fatto, ma con riferimento a canoni obbiettivi, che sono quelli legali, a seconda che la legge riconosca o meno protezione alle posizioni giuridiche soggettive; con la conseguenza che sussistono gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando l’agente persegua un profitto che derivi da un pregresso rapporto illecito (quale, nella fattispecie allora all’esame della Corte, quello relativo ad un rapporto di dare-avere in relazione ad una cessione di sostanza stupefacente).
La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è dunque, essenzialmente, quella della qualificabilità come sequestro di persona a scopo di estorsione – anziché come sequestro di persona semplice accompagnato da estorsione (consumata o tentata) – della condotta consistente nel privare taluno della libertà personale al fine di ottenere, come prezzo della liberazione, l’adempimento di una precedente obbligazione, che tragga origine da un rapporto illecito.
In altre parole, per dirimere il contrasto di giurisprudenza occorre rispondere al seguente quesito: “se la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all’art. 630 c.p., ovvero il concorso del delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) e del delitto di estorsione, consumata o tentata (artt. 629, 56 c.p.)”.
Appare necessario procedere ad una disamina approfondita della struttura dei reati in questione, sottolineando che gli episodi attribuiti agli odierni imputati delimitano il thema decidendum alle fattispecie connotate da due dati di fatto: il contenuto strettamente patrimoniale della prestazione concordata; l’illiceità dell’accordo precedente. Esulano, quindi, dal campo d’indagine altre tematiche, quali la nozione di profitto in generale e l’estensione del concetto di patrimonialità, o la figura delittuosa delineabile in caso di liceità del rapporto preesistente.
Va subito segnalato che a sostegno dell’orientamento prevalente si portano argomenti dettati piuttosto che da un approccio sistematico, da esigenze di ordine equitativo, che dichiaratamente risentono dei condizionamenti provenienti dal singolo caso concreto.
Nel passaggio motivazionale centrale della sentenza capofila si ammette che “l’apparente significato letterale delle espressioni usate”, nella formulazione dell’art. 630 c.p., avrebbe potuto anche giustificare una conclusione diversa da quella raggiunta; nel contempo si fa chiaramente intendere che alla scelta operata non è stata estranea anche la considerazione della “eccezionale asprezza” della pena prevista per la più grave delle ipotesi di reato in ballottaggio.
Si osserva, invero, che il modello cui si è ispirato il legislatore con le disposizioni dell’art. 630 c.p. e con le modifiche apportate in un momento storico caratterizzato dal gravissimo fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, nonché il ponderosissimo trattamento sanzionatorio, postulano, per la definizione della fattispecie, un’interpretazione restrittiva della norma, dovendosi ad essa attribuire un contenuto meno ampio di quello desumibile dall’apparente significato letterale delle espressioni usate; di talché si pone l’accento sul fatto che la vittima viene sequestrata per esigere una preesistente pretesa (illecita) e non già per chiedere un prezzo per la sua liberazione, venendo così a mancare uno degli elementi indefettibili della norma incriminatrice.
La giurisprudenza opposta mette in rilievo, per contro, che è la natura stessa del pregresso rapporto a qualificare il profitto come giusto, o ingiusto; con la conseguenza che, una volta ravvisato il carattere ingiusto del profitto perseguito, non può procedersi ad ulteriori distinzioni e si deve riconoscere la sussistenza del delitto previsto dall’art. 630 c.p. tutte le volte che un soggetto viene sequestrato e viene chiesto un prezzo per la sua liberazione, di modo che è facilmente rilevabile lo stretto collegamento tra la condotta sequestratrice, il fine di lucro e la richiesta di pagamento del prezzo.
Questo Collegio ritiene che meriti di essere seguita la scelta ermeneutica del secondo orientamento, anche se minoritario; ne vanno dunque approfondite le premesse concettuali e logico-giuridiche.
Il sequestro di persona a scopo di estorsione è tradizionalmente concepito quale reato complesso; è stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità una figura autonoma di reato, qualificabile, appunto, come reato complesso, poiché confluiscono in esso, in guisa di elementi costitutivi, fatti che costituirebbero per sé stessi reato, ai sensi dell’art. 84 c.p.; si è escluso, inoltre, specificamente che esso possa considerarsi “ipotesi delittuosa aggravata del sequestro di persona, dal quale si differenzia per il dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per sé o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione” (così, in particolare, sez. V, 20 nov. 1991 – 16 marzo 1992 n. 2837, PG in proc. ROMANO ed altro, RV 189487; nello stesso senso: sez. II, 15 marzo – 3 luglio 1990 n. 9552, Cipullo, RV 184781; sez. I, 21 marzo – 15 maggio 1980 n. 6183, Altieri, RV 145315).
È noto che per configurare un reato complesso è necessario che una norma di legge operi la fusione in un’unica ipotesi criminosa dei fatti costituenti reati autonomi.
In realtà, a ben vedere, la figura di reato delineata dall’art. 630, comma 1, c.p. si compone di una parte oggettiva-comportamentale (il sequestro di persona: “Chiunque sequestra una persona”) e di una parte soggettiva-teleologica (“allo scopo di conseguire … un ingiusto profitto come prezzo della liberazione”): la componente materiale coincide anche nominalmente con il reato previsto dall’art. 605 c.p., del quale riproduce la rubrica; la componente subbiettiva è strutturata da una forma di dolo attinente al delitto di estorsione (art. 629 c.p.).
Si può dire che il legislatore ha connotato di dolo specifico una forma peculiare di violenza, delimitando l’area della violenza generica atta a configurare (in alternativa alla minaccia) l’estorsione, con quella forma particolare di violenza che è il sequestro di persona, cioè la privazione della libertà personale di un soggetto.
Di modo che la figura delineata dall’art. 630, comma 1°, c.p., piuttosto che essere l’unione di due modelli criminosi “semplici”, il sequestro di persona e l’estorsione, risulta composta dall’elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con elementi propri dell’estorsione.
Rispetto all’estorsione, invero, il verificarsi del “danno” ed il conseguimento del “profitto ingiusto” non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identificarsi nella lesione arrecata dalla condotta all’interesse protetto, il profitto ingiusto è solo oggetto del dolo specifico e rimane privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato.
In questo senso si può parlare più propriamente – come evidenzia la dottrina – di fattispecie “a doppia specialità” o a “specialità reciproca”.
In particolare, il legislatore ha ritenuto di dare funzione qualificante e specializzante del reato proprio all’elemento soggettivo: non può non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto in esame dal dolo specifico.
È stato notato che la condotta della privazione della libertà si presta facilmente ad essere funzionale a scopi ulteriori; sì che anche sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore ha delineato più fattispecie di sequestro qualificato di persona e ne ha affidato il tratto differenziale al dolo specifico, che ne ha condizionato anche la collocazione in titoli diversi del codice penale (v. la figura in esame e quella parallela di cui all’art. 289-bis c.p., il reato previsto dall’art. 3 della legge n. 718/1985, ovvero i ratti descritti dagli ora abrogati artt. 522 e segg. c.p.).
Sotto questo aspetto può ritenersi ancora in certo qual modo giustificata la collocazione della fattispecie criminosa in esame nell’ambito della categoria dei delitti contro il patrimonio, tendendo a rimarcare la specifica intenzionalità dell’agente come condizione costitutiva del modello legale. Se, invero, tale reato ha natura plurioffensiva, poiché l’oggetto della tutela penale si identifica sia nella libertà personale, sia nell’inviolabilità nel patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento fondante è la “mercificazione della persona umana”: la persona è strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell’agente; è, in altre parole, resa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè, appunto, il prezzo della liberazione (v. Cass. Sez. III, 24 giugno 1997, n. 8048, ric. PM in proc. Breshani ed altri, RV 209224).
A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto sequestro – inteso essenzialmente come privazione della libertà di movimento nello spazio secondo l’autonoma scelta di ciascuno – e per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l’azione tipica delineata dall’art. 630 c.p. risulta pienamente configurata, con la sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale profitto è ingiusto il reato si perfeziona.
L’organizzazione criminale che pattuisce un compenso per effettuare un’immigrazione clandestina ha come movente interno l’accordo con la vittima, ma si prefigge lo scopo di lucrare un profitto illecito (quindi ingiusto) quale prezzo della liberazione della vittima stessa tenuta come vero e proprio ostaggio; la scomposizione di un fatto unitario, come tale previsto dall’art. 630 c.p., nei due reati semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra di confondere il movente retrostante col dolo specifico, fin dall’inizio ben delineato.
Come ha correttamente rilevato l’ordinanza di rimessione, invero, l’opposta soluzione è basata su di una lettura della norma che sovrappone due elementi, i quali nella norma sono distinti: l’ingiusto profitto ed il prezzo. Il prezzo è la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico sinallagma.
La ricerca di questo corrispettivo può però essere volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso.
Se la pretesa dell’agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente causa illecita, il profitto perseguito è ingiusto; e non si vede perché se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti-reato – sequestro di persona ed estorsione – il secondo dei quali presuppone comunque l’ingiustizia del profitto.
Il binomio normativo “ingiusto profitto come prezzo della liberazione” non esclude che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l’azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato.
L’agente infatti non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicché in realtà l’utilità non dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null’altro che il corrispettivo della liberazione dell’ostaggio.
In definitiva può affermarsi che il delitto previsto dall’art. 630 c.p. è un reato plurioffensivo, nel quale l’elemento obbiettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto come prezzo della liberazione, si verifica quella forma particolare di delitto che è prevista dall’art. 630 c.p; ogni scissione del fatto unitario è priva di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima.
La menzione specifica del “prezzo della liberazione” ha la funzione di sottrarre all’area di applicabilità dell’art. 630 c.p. fatti di sequestro di persona in cui l’ingiusta utilità perseguita non si pone come corrispettivo per la liberazione dell’ostaggio, ma ad altro titolo, come ad esempio quando l’agente pretenda un compenso per rendere meno gravosa la condizione del sequestrato.
Pertanto alla domanda se la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, anche se pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all’art. 630 c.p., occorre dare risposta affermativa.
Questo inquadramento sistematico fornisce un chiaro criterio ermeneutico del tutto aderente al testo ed alla ratio della norma, rendendo non necessaria la ricostruzione dell’evoluzione storica della fattispecie criminosa in esame, che sarebbe utile, al più, ad illustrare l’occasio legis. Al riguardo si può solo accennare, del tutto sinteticamente, che il sequestro estorsivo è un delitto dalle origine antiche (il ricatto), il quale si è andato di volta in volta adeguando ai tempi ed alle diverse forme di sfruttamento economico della persona “prigioniera”, modernizzandosi e rinnovando i suoi profili socio-economici e criminologici: sì che volerne limitare la lettura alla mera matrice storica appare operazione impropriamente limitativa.
Il detto inquadramento torna, per altro, di stretta attualità ed è perfettamente riferibile al caso in esame, il cui disvalore sociale consiste proprio nella stretta correlazione tra la “persona oggetto” e la sua utilizzazione a fini di spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali, con conseguente potenziamento delle stesse e crescente pericolo per la collettività.
La conclusione delle argomentazioni fin qui svolte comporta che i fatti ritenuti dalla sentenza impugnata come integranti le autonome ipotesi di sequestro di persona e di estorsione (in un caso di tentata estorsione) devono essere, invece, qualificati come sequestro di persona a scopo di estorsione, in accoglimento del ricorso del P.G. territoriale.
È appena il caso di rilevare che nella specie si tratta di reati consumati, atteso che, come in precedenza rilevato, l’art. 630 c.p. non richiede per la consumazione del reato come elemento necessario il fatto che l’agente abbia effettivamente conseguito l’ingiusto profitto avuto di mira (negli episodi contestati agli imputati, per altro, il prezzo è stato sempre riscosso, tranne che in un caso) (…).
8. Sequestro di persona a scopo di estorsione: lieve entità del fatto
Corte cost. 23.3.2012, n. 68
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità
Considerato in diritto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, una circostanza attenuante speciale per i fatti di «lieve entità», analoga a quella applicabile, in forza dell’art. 311 c.p., al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289-bis del medesimo codice.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe i principi di ragionevolezza, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione), prevedendo, per il sequestro a scopo estorsivo, una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza e tutta compressa «verso l’alto» – la reclusione da venticinque a trenta anni – non ragionevolmente proporzionata all’intera gamma dei fatti riconducibili al modello legale.
Censurabile, per questo verso, sarebbe segnatamente la mancata previsione di una circostanza attenuante che consenta al giudice di mitigare la risposta punitiva, in presenza di elementi oggettivi rivelatori di una limitata gravità del fatto, sulla falsariga di quanto è consentito dall’art. 311 c.p. in rapporto al sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo. Al riguardo, emergerebbe, in effetti, una irrazionale disparità di trattamento di situazioni omologhe, per la piena assimilabilità della figura criminosa ora indicata al sequestro estorsivo, quanto a struttura, requisiti di fattispecie, risposta sanzionatoria e rango degli interessi tutelati.
2.– La questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
3.– L’attuale assetto sanzionatorio del sequestro di persona a scopo di estorsione, delineato dall’art. 630 c.p., è l’epilogo di una serie di interventi normativi, ormai alquanto risalenti nel tempo e con i tratti tipici della legislazione “emergenziale” (artt. 5 e 6 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, recante «Nuove norme contro la criminalità»; art. 2 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, recante «Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati», convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191; art. 1 della legge 30 dicembre 1980, n. 894, recante «Modifiche all’articolo 630 del codice penale»). Furono interventi sollecitati dallo straordinario, inquietante incremento, in quel periodo, dei sequestri di persona a scopo estorsivo, operati da pericolose organizzazioni criminali, con efferate modalità esecutive (privazione pressoché totale della libertà di movimento della vittima, sequestri protratti per lunghissimi tempi, invio di parti anatomiche del sequestrato ai familiari come mezzo di pressione) e richieste di riscatti elevatissimi, al cui pagamento spesso non seguiva la liberazione del sequestrato, che trovava invece la morte in conseguenza del fatto.
All’acuto allarme sociale generato da tali episodi il legislatore intese dare risposta tramite una “strategia differenziata”. Da un lato, si procedette a un progressivo, cospicuo innalzamento della misura della pena edittale comminata dalla norma censurata: pena che, originariamente stabilita nella reclusione da otto a quindici anni (oltre la multa), venne fissata, da ultimo – quanto all’ipotesi semplice del reato – nella reclusione da venticinque a trenta anni. Si tratta di una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza, ove riguardata in una cornice di sistema: basti considerare che il minimo edittale è superiore sia al massimo della pena comminata per l’omicidio volontario (art. 575 c.p.), sia al limite massimo di durata della reclusione stabilito in via generale dall’art. 23, primo comma, c.p. (ventiquattro anni). Dall’altro lato, e parallelamente, furono introdotte circostanze attenuanti volte a stimolare forme di ravvedimento dell’agente – qualificate in termini di «dissociazione» – in funzione della liberazione del sequestrato, dell’impedimento delle conseguenze ulteriori del reato o della collaborazione del reo con la giustizia.
Come attesta l’esperienza giudiziaria, la descrizione del fatto incriminato dall’art. 630 c.p. – rimasta invariata rispetto alle origini («chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione») – si presta, peraltro, a qualificare penalmente anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza. Si tratta di fattispecie che – a fronte della marcata flessione dei sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati “professionalmente” dalla criminalità organizzata, registratasi a partire dalla seconda metà degli anni ’80 dello scorso secolo – hanno finito, di fatto, per assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella più recente casistica dei sequestri estorsivi.
Rientrano in tale ambito, tra le altre, le fattispecie del genere che viene in discussione nel giudizio a quo: ossia i sequestri di persona attuati al fine di ottenere una prestazione patrimoniale, pretesa sulla base di un pregresso rapporto di natura illecita con la vittima.
Come ricorda il giudice rimettente, la giurisprudenza di legittimità appare ormai unanime, dopo un intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962), nel ritenere che simili fattispecie integrino il delitto in questione, ricorrendo il requisito dell’«ingiustizia» del profitto perseguito all’agente, dato che la pretesa che egli mira a soddisfare è sfornita di tutela legale, in quanto avente titolo in un negozio con causa illecita.
In queste e consimili evenienze, il fatto criminoso può assumere, tuttavia – e non di rado assume – connotati ben diversi da quelli delle manifestazioni criminose che il legislatore degli anni dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: ciò, sia per la più o meno marcata “occasionalità” dell’iniziativa delittuosa (la quale spesso prescinde da una significativa organizzazione di uomini e di mezzi); sia per l’entità dell’offesa recata alla vittima, quanto a tempi, luoghi e modalità della privazione della libertà personale; sia, infine, per l’ammontare delle somme pretese quale prezzo della liberazione.
4.– Ciò premesso, questa Corte deve ribadire la propria costante giurisprudenza in ordine al sindacato di legittimità costituzionale sulla misura delle pene.
Al pari della configurazione delle fattispecie astratte di reato, anche la commisurazione delle sanzioni per ciascuna di esse è materia affidata alla discrezionalità del legislatore, in quanto involge apprezzamenti tipicamente politici.
Le scelte legislative sono, pertanto, sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis, sentenze n. 161 del 2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).
In questa prospettiva, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata una precedente questione di legittimità costituzionale, intesa del pari ad estendere al sequestro a scopo estorsivo una attenuante speciale per i fatti di «lieve entità» (ordinanza n. 240 del 2011).
Nell’occasione, si discuteva, peraltro, dell’attenuante delineata dall’art. 3, terzo comma, della legge 26 novembre 1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979), in rapporto al delitto – previsto dal medesimo art. 3 – di cosiddetto sequestro di ostaggi: attenuante in forza della quale «se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’articolo 605 del codice penale aumentate dalla metà a due terzi».
Al riguardo, questa Corte ha rilevato come la figura del sequestro di ostaggi risultasse inidonea a fungere da tertium comparationis ai fini considerati. Al di là di talune affinità strutturali, detta ipotesi criminosa è, infatti, più ampia e generica del sequestro estorsivo in relazione all’obiettivo della condotta, normativamente identificato nel fine di costringere un terzo a compiere o ad omettere un qualsiasi atto: circostanza dimostrata anche dall’espressa clausola di salvezza delle ipotesi previste dall’art. 630 c.p. (oltre che dall’art. 289-bis c.p.), con cui il citato art. 3 della legge n. 718 del 1985 esordisce e che imprime al delitto in parola un carattere “residuale”.
Il reato previsto dalla legge speciale si presta, pertanto, a ricomprendere anche fatti assai meno negativamente connotati di quelli sorretti da una finalità estorsiva. Il che può spiegare la previsione di una attenuante a effetto speciale, grazie alla cui applicazione la pena minima per il delitto in questione – parificata, quanto all’ipotesi semplice, a quella del sequestro estorsivo – può scendere a soli nove mesi di reclusione (ordinanza n. 240 del 2011).
A tale ultimo proposito, la Corte ha anche rilevato come l’accoglimento del petitum allora formulato dal giudice rimettente avrebbe provocato una sperequazione di segno contrario a quella denunciata. Ove la questione fosse stata accolta, infatti, la pena minima applicabile per il sequestro di persona a scopo di estorsione sarebbe risultata sensibilmente inferiore a quella irrogabile, ai sensi degli artt. 56, terzo comma, e 629 c.p., per l’estorsione, anche solo tentata, attuata con modalità diverse e meno espressive di disvalore rispetto alla privazione dell’altrui libertà personale.
5.– È di tutta evidenza, peraltro, come le considerazioni ora ricordate non valgano in rapporto alla questione oggi in esame, concernente l’attenuante ad effetto comune applicabile, in virtù dell’art. 311 c.p., al delitto di sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo: questione che la citata ordinanza n. 240 del 2011 ha, del resto, precisato essere rimasta impregiudicata (nell’occasione, essa era stata prospettata dalla sola parte privata costituita, risultando perciò non scrutinabile).
L’art. 311 c.p. stabilisce, in specie, che le pene comminate per i delitti previsti dal Titolo I del Libro II – vale a dire, i delitti contro la personalità dello Stato, tra i quali rientra il sequestro terroristico o eversivo – «sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».
Diversamente dal sequestro di ostaggi, il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione si rivela, in effetti, pienamente idoneo a fungere da tertium comparationis, ai fini che qui interessano.
Si tratta, infatti, di una figura non già “residuale”, ma strettamente affine e sostanzialmente omogenea rispetto a quella del sequestro estorsivo, sotto tutta una serie di profili.
Sequestro terroristico o eversivo e sequestro estorsivo (nella sua attuale configurazione) hanno, anzitutto, una comune matrice storica. La figura delittuosa del sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo è stata, infatti, introdotta nell’ordinamento – in risposta all’allarmante ingravescenza del fenomeno dei sequestri con finalità politiche, registratasi in quel torno d’anni e sfociata in tragici episodi – dal decreto-legge n. 59 del 1978, accorpandola originariamente al sequestro estorsivo all’interno dello stesso art. 630 c.p.
Fu la legge di conversione del decreto (legge n. 191 del 1978) a scindere le due figure, estrapolando il sequestro terroristico o eversivo dall’ambito dei delitti contro il patrimonio (Titolo XIII del Libro II) – collocazione palesemente incongrua sul piano sistematico – per trasferirlo nel nuovo art. 289-bis c.p., nella più corretta sede dei delitti contro la personalità interna dello Stato. Anche dopo tale separazione, peraltro, l’opzione iniziale ha avuto comunque un peso determinante nella riformulazione della figura del sequestro estorsivo, che è rimasta condizionata dall’intento di mantenere il parallelismo di disciplina con il sequestro terroristico o eversivo, secondo i ricordati canoni della “strategia differenziata” (al riguardo, sentenza n. 143 del 1984).
Sul piano, poi, della struttura della fattispecie, la condotta integrativa dei due delitti è identica, consistendo nel privare taluno della libertà personale.
Le figure criminose si distinguono solo in rapporto alla finalità che sorregge la condotta (dolo specifico): di estorsione, in un caso, di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, nell’altro.
Con riguardo al trattamento sanzionatorio, identica è anche la pena prevista per la fattispecie-base: la reclusione da venticinque a trenta anni.
Le due norme incriminatrici stabiliscono, poi, identici aggravamenti di pena collegati alla morte del sequestrato, di intensità crescente a seconda che si tratti di conseguenza non voluta dal reo (reclusione per anni trenta) o di evento volontariamente causato (ergastolo: artt. 289-bis, secondo e terzo comma, e 630, secondo e terzo comma, c.p.).
In rapporto ad entrambe le fattispecie sono previste, inoltre, analoghe circostanze attenuanti correlate alla «dissociazione» dell’agente dagli altri concorrenti nel reato, funzionali a favorire il recupero della libertà personale da parte del sequestrato (artt. 289-bis, quarto comma, e 630, quarto comma, c.p.); a evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, o a stimolare il reo a prestare aiuto alla giustizia nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti (art. 630, quinto comma, c.p., che trova riscontro, quanto al sequestro terroristico o eversivo, nell’art. 4, primo comma, del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15). Ancora: una ulteriore diminuzione di pena – per entrambi i delitti – è prevista a favore del «dissociato» che fornisca un contributo di eccezionale rilevanza, «anche con riguardo alla durata del sequestro e alla incolumità della persona sequestrata» (art. 6 del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, recante «Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82). Riguardo a tale insieme di attenuanti si registrano soltanto delle marginali differenze nelle diminuzioni di pena, peraltro tutte a sfavore del sequestro terroristico o eversivo.
Identica è pure la speciale disciplina del concorso eterogeneo di circostanze, dettata dall’art. 289-bis, quinto comma, c.p. e dall’art. 630, sesto comma, c.p. in rapporto alle fattispecie aggravate dalla morte del sequestrato.
A ulteriore dimostrazione del parallelismo, il legislatore ha, infine, introdotto due clausole generali di equiparazione, stabilendo che le norme del codice penale che richiamano l’art. 630 e tutte le norme processuali valevoli in rapporto al sequestro estorsivo si applichino anche al sequestro terroristico o eversivo (artt. 9-ter e 10 del decreto-legge n. 59 del 1978).
A fronte di quanto precede, il fondamentale elemento di differenziazione tra le due figure criminose – vale a dire la diversità del bene giuridico protetto, riflessa nei contenuti del dolo specifico – non solo non impedisce la comparazione, ma rafforza, anzi, il giudizio di violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
A fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende, infatti, secondo una corrente lettura, l’ordine costituzionale (usualmente identificato nell’insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato); il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio.
Anche a voler considerare le proiezioni sovraindividuali che, secondo un diffuso indirizzo interpretativo, detta offesa patrimoniale presenterebbe, sul piano dello spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali e del loro conseguente potenziamento (proiezioni, peraltro, non indefettibili, quante volte il sequestro estorsivo risulti concretamente avulso da un contesto di criminalità organizzata), non può esservi comunque alcun dubbio in ordine alla preminenza del primo dei beni sopra indicati rispetto al secondo, nella gerarchia costituzionale dei valori.
Tale rilievo, se giustifica la sottoposizione del sequestro terroristico o eversivo a uno “statuto” in generale più severo di quello proprio del sequestro estorsivo, quale quello delineato dalle restanti disposizioni comuni ai delitti contro la personalità dello Stato, di cui agli artt. 301 e seguenti del codice penale (punibilità dell’istigazione non accolta, del semplice accordo per commettere il reato, della formazione di bande armate per realizzarlo eccetera), rende, di contro, manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità, analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella” che, coeteris paribus, aggredisce l’interesse di rango più elevato.
Ciò, tanto più ove si consideri la particolare funzione assolta da detta attenuante, rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di «lievità» del fatto): funzione che consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale.
Di qui anche una concorrente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa (sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993).
Al riguardo, non giova obiettare – come fa l’Avvocatura dello Stato – che la pena del sequestro estorsivo potrebbe essere comunque mitigata tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti comuni e, in particolare, di quelle previste dagli artt. 62, numeri 4, 5 e 6, e 114, primo comma, c.p. Ai fini del rispetto del principio di eguaglianza, il rilievo è inconferente, giacché la disciplina generale relativa alle attenuanti comuni si applica anche al sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione: con la conseguenza che la censurata disparità di trattamento, connessa all’inapplicabilità al sequestro estorsivo dell’attenuante speciale, resta inalterata. Per altro verso, poi, l’attenuante del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 311 c.p., non “assorbe”, in linea di principio, le attenuanti comuni evocate dalla difesa dello Stato, che hanno propri e distinti presupposti di applicabilità. Considerazioni, queste, estensibili, mutatis mutandis, anche alle attenuanti speciali connesse alla dissociazione, applicabili a entrambe le figure criminose, e alle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.).
6.– Al tempo stesso, l’accoglimento dell’odierno petitum non determina le incongruenze di segno opposto, evidenziate da questa Corte con riguardo alla questione concernente l’attenuante speciale per i fatti di lieve entità prevista in rapporto al sequestro di ostaggi (ordinanza n. 240 del 2011).
Discutendosi di una attenuante ad effetto comune – che determina, cioè, una riduzione della pena edittale nella misura ordinaria stabilita dall’art. 65, numero 3, c.p. (non eccedente un terzo) – la pena minima irrogabile per il sequestro di persona a scopo di estorsione, anche nel caso di riconoscimento dell’attenuante in questione, resta comunque largamente superiore a quella della tentata estorsione.
7.– Va dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
Le censure formulate dal rimettente in relazione al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) restano assorbite.
9. Truffa: uso indebito di carta di credito
Cass. S.U. 7 giugno 2001, Tiezzi
in sintesi
Il reato di truffa non concorre, ma ne è invece assorbito, con il reato di indebito utilizzo di una carta di credito o di pagamento o di qualsiasi altro documento similare, di cui all’art. 12 del decreto legge 3 maggio 1991 n. 143 convertito dalla legge 5 luglio 1991 n. 197 (1).
È configurabile il reato di ricettazione, e non quello di cui all’art. 12 del decreto legge 3 maggio 1991 n. 143, convertito dalla legge 5 luglio 1991 n. 197 (1), nella condotta di chi abbia acquisito una carta di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento similare di provenienza delittuosa; il reato di cui all’art. 12 citato, invece, si applica per sanzionare la stessa condotta quando abbia a oggetto uno dei suddetti documenti proveniente da illecito civile (contrattuale o extracontrattuale) o amministrativo o anche penale, quando si tratti di reato contravvenzionale.
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(1) Ora art. 55, comma 9, del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231.
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Con sentenza 25 novembre 1999 il Tribunale di Forlì applicava a TIEZZI Pietro la pena di mesi sei di reclusione e £ 600.000 di multa per i reati di cui:
a) agli artt. 81 cpv. c.p., 12 D.L. n. 143/91, per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, utilizzato indebitamente, non essendone titolare, una tessera di credito carburanti, mediante la quale si faceva consegnare in più riprese 1.845 litri di gasolio;
b) all’art. 648 c.p. per aver ricevuto detta tessera di credito al fine di trarne profitto;
c) agli artt. 81 cpv. e 640 c.p. in danno del titolare del distributore di carburanti dal quale otteneva il suddetto quantitativo di gasolio mediante la menzionata carta di credito; in BERTINORO fino al 3 novembre 1993.
Proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato
(omissis)
La quinta sezione, cui il ricorso era stato assegnato, all’udienza dell’8 gennaio u.s. rimetteva il ricorso a queste Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte di cassazione sia in ordine al rapporto tra il reato di ricettazione e quello della seconda parte dell’art. 12 (possesso, acquisizione o cessione delle carte di credito o equivalenti), di totale autonomia ovvero di specialità con prevalenza ora dell’uno ora dell’altro, sia in ordine al rapporto tra il delitto di truffa e quello previsto dalla prima parte dell’art. 12 (indebita utilizzazione).
Il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone la trattazione all’udienza in camera di consiglio del 28 marzo 2001.
Motivi della decisione
(omissis)
2. Due sono le problematiche da risolvere per la decisione del presente ricorso e per le quali, in presenza di contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, vi è stata rimessione a queste sezioni unite:
1) se l’ipotesi criminosa di cui all’art. 12 del d.l. 3/5/1991, n. 143, convertito con la legge 5/7/1991, n. 197, che prevede e punisce l’acquisizione di carte di credito, di pagamento o di altro documento analogo di provenienza illecita, sia speciale o meno rispetto al delitto di ricettazione;
2) se la condotta di indebito utilizzo dei documenti predetti, contemplata dalla medesima norma, assorba il reato di truffa.
In ordine alla prima questione, ad un orientamento che nega la sussistenza di ogni rapporto di specialità tra le due norme sul presupposto della piena autonomia delle ipotesi criminose poiché l’art. 12 coprirebbe spazi vuoti non coperti dall’art. 648 (Sez. II, 1/7/1994, P.M. c/Marrero Mieres; sez. II, 19/9/1997, Paissan; sez. II, 3/5/1999, P.G. c/Leone), fa riscontro altro indirizzo che ravvisò un rapporto di specialità tra le due norme, ritenendo speciale quella dell’art. 12 per l’elemento specializzante del particolare oggetto materiale (tra le altre Sez. II, 9/1/1998, P.G. c/Scandinaro; sez. II, 9/4/1999, Ramon; sez. V, 10/6/1998; P.M. c/Vallorani; sez. V, 21/11/2000, Amoroso).
Sul tema del concorso tra l’art. 12 prima parte e l’art. 640 c.p. alcune pronunce hanno sostenuto il concorso di reati sulla base della diversa obiettività giuridica e della presenza nella truffa di elementi quali il danno e il profitto, estranei all’altra figura criminosa (Sez. V. 28/2/95, Barelli; sez. V, 5/5/1995, Lazzaro; sez. V, 9/4/1999, P.G. c/Sorgente), altre hanno ritenuto che la nuova fattispecie, più grave, assorba la truffa (Sez. V, 1/10/1999, Melluccio).
Nell’ipotesi di possesso e successiva utilizzazione di carte di credito di provenienza illecita, si ha concorso di reati e non concorso apparente di norme incriminatrici
3. Appare anzitutto opportuno richiamare il dettato dell’art. 12, che così recita: «chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire seicentomila a lire un milione. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di danaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiedi, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.».
Va ricordato che l’intero secondo periodo, disciplinante la diversa condotta di possesso, cessione o acquisizione, è stata introdotta dal legislatore in sede di conversione del decreto legge n. 143, presentato dal governo dopo l’intervenuta decadenza di due precedenti identici.
Dall’esame della norma citata emerge la necessità di stabilire preliminarmente se essa prevede in ciascuna delle due parti – per il caso di indebita utilizzazione di carte di credito o equivalenti di provenienza illecita – più ipotesi di reato (disposizione c.d. cumulativa) ovvero una sola fattispecie criminosa realizzabile con diverse condotte a carattere alternativo.
Il problema, peraltro pur sollevato nel ricorso, non consente una soluzione univoca, com’è dimostrato dalla diversità dei criteri di volta in volta suggeriti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e va quindi impostato essenzialmente alla stregua di una corretta interpretazione letterale e logica della norma a più fattispecie della cui applicazione si tratta.
In linea di massima si può ritenere valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale, ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte anche in relazione alle offese arrecate.
L’analisi letterale della norma in esame evidenzia la previsione di due condotte che sotto l’aspetto fenomenico presentano caratteri ben diversi, anzi del tutto eterogenei: la prima consiste nella indebita utilizzazione, cioè nel concreto uso illegittimo del documento in questione – lecita o illecita che sia la sua provenienza – da parte del non titolare al fine di realizzare un profitto per sé o per altri, la seconda si concreta nel possesso (inteso come detenzione materiale), nella cessione o nell’acquisizione di tali documenti di provenienza illecita, cioè in una azione che sotto il profilo logico e temporale è distinta dalla prima perché la precede e ne costituisce il presupposto fattuale.
Non v’è chi non veda, quindi, come due condotte non possano essere considerate equivalenti e in rapporto di alternatività formale.
Il che trova conforto nell’introduzione, in sede di conversione, della seconda di esse, che, se si accogliesse la tesi qui respinta, sarebbe del tutto pleonastica quanto alle ipotesi di possesso e acquisizione, che sono presupposto dell’utilizzazione.
Né può considerarsi fondata l’opinione di chi in dottrina ritiene che con tale modifica aggiuntiva il legislatore abbia inteso anticipare per le carte di credito o similari di provenienza illecita la soglia di punibilità al solo possesso o ricezione, così considerando un post factum non punibile la successiva utilizzazione.
Invero una tale tesi presuppone che a seguito dell’introduzione della nuova fattispecie criminosa quella di cui alla prima parte dell’art. 12 (…) risulti modificata in senso restrittivo con l’esclusione dell’ipotesi in cui l’uso abbia ad oggetto carte di credito di provenienza illecita, il che appare del tutto arbitrario quanto meno in relazione ad una esigenza di più penetrante repressione di un fatto certamente di più rilevante disvalore sociale.
Del resto situazioni del tutto analoghe – quale ad esempio quella della ricettazione di titoli di credito poi utilizzati per commettere falsi e/o truffe – non hanno mai dato luogo a dubbi sulla concorrenza di tali reati.
Stabilito quindi che nell’ipotesi, come quella che ne occupa, di possesso e successiva utilizzazione di carte di credito di provenienza illecita, si ha concorso di reati e non concorso apparente di norme incriminatrici, resta da affrontare la questione di cui si è detto all’inizio.
Ricettazione: rapporti con il delitto di acquisizione di carte di credito, di pagamento o di altro documento analogo di provenienza illecita
4. Quanto al primo, concernente il rapporto tra il reato di cui alla seconda parte dell’art. 12 e quello previsto dall’art. 648 c.p., va rilevato che la questione non si pone in termini di concorso formale di reati o, in alternativa, di concorso apparente di norme, istituti che presuppongono l’identità del fatto disciplinato da due norme incriminatrici, cioè che un fatto possa rientrare nella previsione di due norme incriminatrici, una sola delle quali o entrambe debbano trovare applicazione.
È tale presupposto che manca nella fattispecie che ne occupa.
L’area delle condotte contemplate dall’art. 12 seconda parte riguarda da un lato i fatti di falsificazione (rectius: contraffazione) o alterazione delle carte di credito o equivalenti, dall’altro i fatti di ricezione (oltre che di cessione) di tali documenti contraffatti o alterati o di provenienza illecita.
Per i primi si tratta all’evidenza di una disciplina sostitutiva di quella di cui all’art. 485 c.p., di questa più rigorosa sia strutturalmente, in quanto non richiede per la punibilità l’uso del documento e per la procedibilità la querela sia sotto il profilo sanzionatorio, prevedendo una pena detentiva notevolmente superiore nel minimo e nel massimo e congiunta a quella pecuniaria.
Non è poi da escludere che si tratti invece di una disciplina innovativa quanto alle carte magnetiche (bancomat ecc.), per le quali da parte della dottrina sono state espresse perplessità in ordine alla natura documentale e all’inserimento nella categoria delle scritture private.
Per i fatti di possesso, ricezione o cessione, invece, l’art. 12 seconda parte assume certamente un carattere innovativo poiché criminalizza condotte che in precedenza erano penalmente indifferenti, quali da un lato il possesso, la ricezione o la cessione di carte di credito o similari provenienti da illecito civile (contrattuale o extracontrattuale) o amministrativo, o anche penale se provento o profitto di reato contravvenzionale, dall’altro di quelle contraffatte o alterate, queste ultime non potendo rientrare nella fattispecie criminosa di cui all’art. 648 c.p., non configurandosi il delitto presupposto di falso in scrittura privata per mancanza del requisito dell’uso.
Per altro verso non vi è dubbio che anteriormente all’introduzione nell’ordinamento delle nuove figure criminose di cui si discute, la ricezione, l’acquisto o l’occultamento (condotte tutte presupponenti il possesso in senso penalistico) dei documenti in esame provenienti da delitto costituiva pur sempre ricettazione, trattandosi comunque di cose mobili.
Come si è accennato, se si ritenesse che le condotte di possesso e acquisizione, previste dall’art. 648 c.p. e dall’art. 12, fossero identiche, si porrebbe un problema di concorso formale o di concorso apparente di norme e, nel caso di questa seconda opzione, di operatività dell’una o dell’altra norma incriminatrice a seconda del criterio da applicare per la scelta da compiere, della specialità prevalente nel caso, come quello che ne occupa, di specialità bilaterale (ciascuna delle norme essendo qualificata da un elemento speciale, il particolare oggetto materiale rispetto a quello generico ed onnicomprensivo l’art. 12, la provenienza da delitto rispetto alla generica provenienza illecita), della sussidiarietà o della consunzione.
Ponendo dunque a raffronto i due termini suesposti – la fattispecie ex art. 12 seconda parte per i fatti dianzi menzionati e la fattispecie di cui all’art. 648 c.p. prima dell’entrata in vigore della l. 197/91 (che convertendo il decreto legge n. 143, ha sancito il nuovo reato) – non è chi non veda come diversi e distinti sono i campi di applicazione delle due norme e che quindi i fatti di ricezione previsti dalle stesse sono nient’affatto identici.
Ed è la stessa nuova normativa che nella sua essenza e nella sua ratio evidenzia la totale sua estraneità all’area della ricettazione tradizionale.
Con il d.l. 43/91 il legislatore, com’è fatto chiaro anche dal titolo, ha inteso contrastare il grave fenomeno del riciclaggio del danaro sporco, attuando una disciplina di controllo dei movimenti di danaro e di limitazione dell’uso del contante mediante anche l’uso delle carte di credito e dei documenti equipollenti, le cui patologie, diffusesi proporzionalmente a quell’uso, ha dovuto combattere con quel mezzo particolarmente energico che è la repressione penale.
Se questo era l’intento del legislatore sarebbe contrario alla logica più elementare ritenere che si sia voluto abbassare la guardia, inglobando senza alcuna ragione, nella nuova disciplina repressiva anche i fatti che prima erano punibili a termini dell’art. 648 c.p. e sostituendo così ad una fattispecie più grave, quale appunto la ricettazione (punita con la reclusione da due a otto anni e con la multa da lire un milione a lire venti milioni e, nei casi di lieve entità, da quindici giorni a sei anni e da lire diecimila a un milione) altra meno grave, quale appunto quella prevista dall’art. 12, proprio in una ipotesi, tra quelle previste, di maggior disvalore sociale, in quanto avente ad oggetto gli anzidetti documenti provenienti dal più rilevante degli illeciti, il delitto.
Con, inoltre, l’aberrante conseguenza della disparità di trattamento tra colui che riceve carte di credito di origine delittuosa e colui che riceve altre cose di pari provenienza (si pensi ad una categoria simile, sotto il profilo della funzione che assolve, quella degli assegni bancari e circolari), disparità priva di qualsiasi ragionevolezza, specie in relazione alla ratio legis dianzi evidenziata, come tale in palese contrasto con l’art. 3 della carta costituzionale.
In conclusione nell’espressione «provenienza illecita» contenuta nell’art. 12, al di là del suo carattere linguisticamente generico non può ricomprendersi quella «provenienza da delitto» di cui all’art. 648 c.p.: la prima abbraccia tutte le forme di illiceità, fatta eccezione della seconda, e quindi anche quella penale, ma da contravvenzione.
5. Resta da affrontare la seconda questione sottoposta al vaglio di queste sezioni unite, il rapporto tra il reato di cui alla prima parte dell’art. 12 e quello di cui all’art. 640 c.p.
Non v’è dubbio che essa, contrariamente alla precedente, s’inquadra nell’ambito della problematica del concorso apparente di norme o del concorso di reati, risolvibile nell’uno o nell’altro senso a seconda che si ritenga che l’adozione di artifici o raggiri – come nella fattispecie concreta, essendosi il TIEZZI, secondo l’ipotesi di accusa, recepita nell’accordo delle parti e nella sentenza impugnata, servito della carta di credito di provenienza furtiva per acquistare vari ingenti quantitativi di carburante, fattispecie perfettamente identica a quella in cui il mezzo artificioso è costituito da un assegno bancario o circolare o altro analogo titolo di credito di provenienza delittuosa – si identifichi nell’uso indebito, sì da potersi parlare di un’unica condotta prevista contemporaneamente da due norme incriminatrici, ovvero costituisca condotta tutt’affatto diversa, sì da far luogo all’applicazione di entrambe.
Il problema del concorso reale o apparente di norme incriminatrici
6.1 È ben noto che il problema del concorso reale o apparente di norme incriminatrici è stato costantemente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza.
Il criterio della specialità, l’unico espressamente disciplinato (art. 15 c.p.) e l’unico secondo alcuni che avrebbe consentito di risolvere nel senso dell’apparenza il concorso di norme, ha dato luogo a diverse difficoltà interpretative e applicative [v. soprattutto il significato e il valore da attribuire all’espressione «stessa materia» – «stessa obiettività giuridica» (ex plurimis, Sez. Un. 13/9/1995, La Spina), ovvero «stesso fatto» (Sez. Un. 13/9/1982), o ancora «stesso aspetto della realtà» o «stesso settore dell’attività umana»] – ed ha consentito di approdare alla conclusione che in certe fattispecie l’adozione del principio di specialità non avrebbe portato a soluzioni razionalmente e giuridicamente soddisfacenti.
È questo il caso della c.d. specialità bilaterale, quando cioè entrambe le norme, al di là degli elementi comuni, contengono uno o più elementi specializzanti.
Per risolvere tali fattispecie sono stati proposti vari criteri, quali la specialità dei corpi o complessi legislativi in cui la norma è posta (Sez. II, 9/4/1999, Ramon), o la specificità dei soggetti cui la norma è destinata, o ancora la prevalenza quantitativa o qualitativa degli elementi speciali dell’una norma rispetto all’altra.
Ma è stato acutamente osservato che in realtà qui si è al di fuori dell’ambito del criterio di specialità, poiché non vi è subordinazione della norma speciale alla norma generale e non si è più in grado di determinare quale norma sia da applicare in quanto speciale rispetto all’altra.
Finisce per esservi una interferenza tra norme che come tale potrebbe comportare, in contrasto con le esigenze razionali ed equitative, non un concorso apparente di norme bensì un concorso reale di norme e di reati.
Di qui dunque l’esigenza di far ricorso ad ulteriori criteri di soluzione del concorso di norme nel senso dell’apparenza, dettati dallo stesso legislatore, quando espressamente esclude il concorso reale di norme e quindi di reati, o, in assenza di una specifica previsione, desumibili dal sistema, che esprime in sé un’istanza-guida di giustizia materiale che non tollera l’addebito plurimo di un medesimo fatto tutte le volte che l’applicazione di una sola delle norme in cui è sussumibile il fatto ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sotto il profilo sia oggettivo sia soggettivo: è il c.d. ne bis in idem sostanziale, rispondente ad una esigenza equitativa insopprimibile.
È su questa base c.d. valutativa che si sono elaborati i criteri della sussidiarietà e della consunzione o assorbimento, in virtù del quale ultimo – lex consumens derogat lex consumptae – si determina un concorso apparente di norme quante volte l’applicazione della sola norma che prevede la pena più grave esaurisce l’intero disvalore del fatto.
Particolarmente significativo, quale linea di tendenza de iure condendo, quanto leggesi nella relazione al progetto preliminare di riforma del codice penale: «il principio secondo cui la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale costituisce regola comunemente riconosciuta da tutte le legislazioni penali europee: esso tradizionalmente si riferisce ai rapporti di c.d. specialità in astratto tra due o più norme penali.
L’esperienza giurisprudenziale e dottrinale ha rivelato come il principio di specialità in astratto sia tuttavia inadeguato a rappresentare tutte le ipotesi in cui deve riconoscersi concorso apparente di norme coesistenti: l’elaborazione dei criteri di sussidiarietà, dell’assorbimento e della consunzione da un lato, della specialità in concreto e della specialità bilaterale nelle sue diverse specificazioni dall’altro, stanno a dimostrare l’esigenza di impedire che il soggetto agente, pur in assenza di situazioni di specialità in astratto, sia chiamato a rispondere della violazione di più norme penali quando comunque una di esse sia in grado di comprendere per intero il disvalore del fatto (c.d. ne bis in idem sostanziale)».
«In questa prospettiva la Commissione, recependo quanto era già previsto dal progetto Pagliaro, ha ritenuto di prevedere nell’art. 4, a fianco del principio di specialità in astratto, che quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge si applica quella che ne esprime per intero il disvalore, chiamando in questo modo l’interprete a valutare se in mancanza appunto della prima ipotesi di concorso apparente di norme, una delle disposizioni in gioco sia in grado di rappresentare nella sua interezza la o le offese realizzate dal fatto posto in essere.».
In conclusione si può affermare che la soluzione del problema del discrimine tra concorso reale e concorso apparente di norme incriminatrici deve essere affidata all’uno o all’altro dei criteri elaborati (e già normativamente disciplinati sia pure in forma non espressa), a seconda delle caratteristiche strutturali e ontologiche delle fattispecie criminose messe a confronto, prese singolarmente e nei rapporti reciproci.
Truffa: rapporti con il delitto di indebito utilizzo di carte di credito, di pagamento o di altro documento analogo di provenienza illecita
6.2 Tornando al rapporto tra le due norme incriminatrici di cui all’art. 12 prima parte del d.l. 143/91 e all’art. 640 c.p., va anzitutto escluso il concorso dei due reati, pur sostenuto dalla giurisprudenza prevalente di questa Corte (Sez. V, 28/2/1995, Borelli; sez.V, 5/5/1995, Lazzaro; sez. V, 9/4/1999, P.G. c/Sorgente).
Non si è anzitutto in presenza di due fatti completamente distinti dalla materialità della condotta, poiché appare evidente che l’adozione di artifici o raggiri è uno dei possibili modi in cui si estrinseca l’uso indebito di una carta di credito, sicché la prima di tali condotte ben può identificarsi nella seconda come specie a genere.
Del pari inesatta è l’affermazione che diverse sono le obiettività giuridiche, quella della truffa consistente nella tutela del patrimonio, quella dell’uso indebito delle carte di credito rappresentato dalla tutela dell’interesse pubblico alla fiducia da riporre in tali mezzi sostitutivi di pagamento.
Ma l’offesa al patrimonio individuale non è affatto estranea alla ratio incriminatrice dell’art. 12, come è stato più volte affermato ed è stato ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 302 del 19/7/2000, la quale ha basato il giudizio di infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p., nella parte in cui non comprende tra i fatti non punibili, se commessi in danno dei congiunti ivi indicati, quelli previsti dall’art. 12 del d.l. n. 143/91, sul carattere concorrente con l’offesa al patrimonio individuale dell’aggressione di valori riconducibili all’ambito dell’ordine pubblico o economico e della fede pubblica.
Una volta stabilito che la condotta prevista dall’art. 640 c.p. è una specie del genere «uso indebito», non si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell’azione in totale diversità del fatto.
Essi invece si atteggiano come fattori di specialità di tale fattispecie incriminatrice rispetto a quella prevista dall’art. 12; la quale a sua volta presenta l’elemento specializzante, rispetto alla truffa, del particolare oggetto materiale.
Si è fuori dell’ambito, quindi, del concorso (formale) di reati per entrare in quello del concorso apparente di norme, donde la necessità di stabilire, quale di quelle apparentemente concorrenti, debba, prevalendo sull’altra, applicarsi.
Se per quanto testé precisato il rapporto tra le due norme è di specialità bilaterale, un criterio accettabile per la soluzione del problema sarebbe quello della specialità del complesso legislativo in cui la norma si trova (in tal senso, seppur per risolvere il conflitto tra l’art. 12 seconda parte e l’art. 648 c.p., v. sez. II, 9/4/1999, Ramon) o anche quello della maggior specificità (Cass. S.U. 30/4/1976, Cadinu), i quali entrambi conducono all’applicabilità del solo art. 12.
Ma ancor più convincentemente può pervenirsi alla stessa conclusione adottando il principio di consunzione, in omaggio a quello che, come si è sopra spiegato, appare essere il parametro di valore sotteso all’intero sistema e probabilmente recepibile in forma espressa dal legislatore futuro, cioè la punibilità alla stregua della norma incriminatrice rappresentativa dell’onnicomprensivo disvalore del fatto e come tale caratterizzata da una sanzione più grave.
Nel momento in cui il legislatore del 1991 ha inteso punire più gravemente di quello del 1930 la condotta truffaldina posta in essere con carta di credito o equivalente, non solo, ma anche anticipare la soglia di punibilità alla mera condotta fraudolenta finalizzata al conseguimento del profitto indipendentemente dalla verificazione di esso e del danno, appare evidente il più elevato grado di antigiuridicità e quindi di offensività della condotta prevista dalla norma speciale e il suo carattere assorbente rispetto a quella contemplata dall’art. 640 c.p., sì che l’eventuale realizzazione da parte dell’agente del profitto e della correlativa diminuzione patrimoniale del soggetto passivo vengono a configurarsi come un post factum non punibile, ovviamente penalmente rilevante sotto il profilo della dosimetria della pena (art. 133 1° comma, nn. 2 e 3).
7. La condotta contestata al TIEZZI deve pertanto essere qualificata come violazione concorrente degli art. 12 prima parte del D.L. n. 143/91 e dell’art. 648 c.p. e non anche dell’art. 640 c.p.
(omissis)
10. Truffa in assunzione a pubblico impiego: momento consumativo
Cass. S.U. 16 dicembre 1998, Cellammare
In sintesi
La truffa è reato istantaneo e di danno che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo
Svolgimento del processo
1.- Cellamare Cosimo veniva rinviato a giudizio con l’accusa di avere – pur stabilmente dimorando nel territorio del comune di Tursi – ottenuto l’iscrizione nei registri anagrafici della popolazione residente nel comune di Policoro in virtù di una serie di falsità in atti pubblici, e precisamente: nella relazione informativa, contraria al vero, redatta dietro sua istigazione da un vigile urbano di Policoro nell’anno 1974 – capo c) -; nello stato di sezione provvisoria del censimento generale dell’ottobre 1981, in cui egli attestava falsamente, in qualità di rilevatore, l’esistenza del domicilio anagrafico del proprio nucleo familiare in Policoro – capo b) -; nello stato di sezione provvisoria del censimento generale dell’ottobre 1991, in cui il rilevatore, indotto in errore dal Cellammare, attestava falsamente la persistenza del domicilio anagrafico del nucleo familiare di quest’ultimo in Policoro – capo a) -.
Secondo l’ipotesi accusatoria, l’imputato, con raggiri consistenti nell’iniziale mendacio e nelle successive attività falsificatorie dirette a non disvelare la sua effettiva residenza, aveva indotto in errore gli organi pubblici competenti, ottenendo dapprima, nel dicembre 1977, l’iscrizione nella lista speciale e l’inserimento nella graduatoria dei giovani disoccupati residenti nel comune di Policoro ai sensi della l. n. 285/77, e, successivamente, l’assunzione a far data dall’1.7.1978 presso quell’amministrazione con la qualifica di operaio.
Nella costituzione e nel mantenimento del “rapporto impiegatizio che, senza l’inganno della falsa iscrizione nell’anagrafe del comune, sarebbe stato fatto estinguere per mancanza del requisito della “residenza” indefettibilmente richiesto ai fini della costituzione del medesimo, venendo in tal modo il Cellammare a procurarsi un ingiusto profitto – costituzione dello status, retribuzioni e quant’altro legato alla posizione impiegatizia – con conseguente e correlativo danno patrimoniale per l’ente pubblico”, si configuravano, secondo l’accusa, gli estremi del delitto di truffa aggravata e continuata, ai sensi degli artt. 640 cpv. n. 1 e 81 cpv. c.p., commesso “dal 19/6/1978 – data della prima delibera di assunzione con contratto di formazione lavoro da parte della giunta comunale – ad epoca corrente”.
Il tribunale di Matera, con sentenza del 10.7.1995, assolveva il Cellammare dai reati ascrittigli “perché il fatto non sussiste”, sul duplice rilievo che: per le falsità di cui ai capi a) e b), il rilevatore del censimento difettava della qualità di pubblico ufficiale, mentre per la falsità di cui al capo c) le emergenze istruttorie non consentivano di verificare con certezza il dato della residenza anagrafica; quanto alla truffa, la sua configurabilità restava esclusa dal venir meno del presupposto delle falsità documentali; d’altra parte, non sembrava logico attribuire all’imputato fin dal lontano 1974 il disegno dell’assunzione presso il comune di Policoro in forza di una legge deliberata solo successivamente nel 1977, richiedente fra l’altro il requisito della residenza anagrafica.
Con sentenza in data 18.12.1997 la corte d’appello di Potenza, impugnante il pubblico ministero, in parziale riforma della prima decisione interamente liberatoria, dichiarava il Cellamare colpevole del delitto di truffa aggravata – capo d) – in danno del comune di Policoro e, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi 7 di reclusione e lire 200.000 di multa; dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al delitto di falso di cui al capo c), commesso nel 1974, aggravato dal nesso teleologico con il ritenuto reato di truffa; confermava la pronuncia assolutoria concernente le altre due imputazioni di falso del 1981 e del 1991 di cui ai capi a) e b).
Ritenendo sostanzialmente fondata la prospettazione accusatoria, osservava la corte territoriale che gli elementi di prova acquisiti nel processo dimostravano ampiamente come l’imputato avesse sempre abitato a Tursi, sicché era provata la sussistenza delle contestate falsità: quanto ai censimenti del 1981 e del 1991 – capi a) e b) – difettava peraltro nella figura del rilevatore la qualità di pubblico ufficiale, mentre del reato di falso rubricato al capo c) risalente al 1974 doveva dichiararsi l’estinzione per essere maturato il termine prescrizionale.
Detta falsa rappresentazione della realtà integrava il mendacio che aveva consentito prima, nel dicembre 1977, l’iscrizione nella lista speciale e l’inserimento nella graduatoria dei giovani disoccupati di Policoro ai sensi della l. n. 285/77, e quindi la costituzione del rapporto d’impiego, sia pure per passaggi intermedi – dalla delibera giuntale del 19.6.1978 di assunzione a tempo determinato fino all’immissione in ruolo del 1984 -, presso quell’amministrazione comunale, con la conseguente corresponsione all’interessato delle relative retribuzioni mensili e di tutte le provvidenze connesse allo stato di impiegato: il delitto di truffa s’era consumato al momento della percezione della prima mensilità, mentre le riscossioni successive integravano ulteriori analoghi reati, tutti unificati dal vincolo della continuazione.
2. – Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato … omissis
3.- Il ricorso, assegnato alla seconda Sezione penale della Corte di cassazione, è stato rimesso da quest’ultima alle Sezioni Unite con ordinanza del 19.6.1998, sul rilievo dell’esistenza del contrasto interpretativo manifestatosi in ordine al problema – sollevato dal ricorrente con l’ultimo motivo di gravame ai fini del computo del termine di prescrizione del reato – dell’individuazione del momento consumativo della truffa commessa in danno di ente pubblico avente ad oggetto l’assunzione a un pubblico impiego, con la conseguente percezione periodica da parte dell’agente di prestazioni patrimoniali differite nel tempo. Si sostiene, da un lato, che il reato ha natura istantanea, esaurendosi con la costituzione del rapporto e non rilevando penalmente il pagamento dei singoli ratei di prestazione: con la conseguenza che, coincidendo il momento consumativo con il conseguimento illegittimo della nomina ottenuta mediante false attestazioni o dichiarazioni, il contestato delitto di truffa sarebbe ormai prescritto.
Si afferma, dall’altro, che il reato si consumerebbe all’atto della prima riscossione, mentre le successive configurerebbero un’ipotesi di reato continuato: tesi, questa, sostenuta dall’accusa e recepita dal giudice di merito.
Secondo un terzo e più recente orientamento il reato di truffa, per indebita riscossione di emolumenti maturati periodicamente, sarebbe un reato “a consumazione prolungata”, caratterizzato da un evento che continua a prodursi nel tempo finché avviene la corresponsione degli emolumenti, così aumentando a mano a mano l’entità del danno patrimoniale, che va perciò valutata unitariamente.
Il Primo Presidente Aggiunto della Corte di cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione
1.- La questione di diritto che ha dato luogo alla rimessione del ricorso alle Sezioni Unite consiste nello stabilire se – anche ai fini del computo del termine di prescrizione del reato – la truffa in danno di un ente pubblico, finalizzata all’assunzione nel pubblico impiego ed al conseguimento del diritto a periodici emolumenti correlati all’espletamento dell’attività lavorativa, abbia natura di reato istantaneo, esaurendosi con la costituzione del rapporto e non rilevando penalmente il pagamento dei singoli ratei, o di reato continuato, con riguardo alla prima ed alle successive riscossioni, ovvero di reato permanente o “a consumazione prolungata”, protraendosi nel tempo fintanto che avviene la corresponsione degli emolumenti.
Mette conto peraltro di osservare (considerato che l’inesistenza di un danno penalmente rilevante è stata denunziata dal ricorrente con uno specifico motivo di gravame) che la questione in esame è strettamente collegata all’altra, logicamente pregiudiziale, concernente addirittura l’ipotizzabilità in concreto di un danno patrimoniale per la pubblica amministrazione, nell’ipotesi di artifici o raggiri – ad esempio, mediante la produzione di falsa documentazione – finalizzati all’assunzione nel pubblico impiego. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità ha dato a questo problema risposte non univoche, rinvenendosi sul punto diversi orientamenti.
1.1.- Secondo un primo indirizzo interpretativo – espresso, per quanto consta, da un’isolata decisione (Cass., Sez. V, 20.9.1989, Pizzichetta, rv. 182649) -, sull’assunto che il raggiro, da cui non sia derivato, o che comunque non sia idoneo a cagionare, per il soggetto passivo un danno avente un contenuto patrimoniale, non integra il delitto di truffa, l’illegittimo conseguimento di un ufficio da parte di persona cui lo stesso non competa, ma che sia in possesso dei requisiti professionali richiesti, può comportare l’annullamento del provvedimento che lo conferisce ma non costituisce il reato de quo, sempreché l’illegittimità non consista nell’assenza dei requisiti di capacità professionale che rendano possibile l’adempimento degli obblighi che ne derivano.
1.2.- L’orientamento giurisprudenziale nettamente prevalente perviene invece al risultato della configurabilità di un danno per la pubblica amministrazione, anche se in forza di percorsi argomentativi non omogenei.
Il danno, da ravvisarsi nel fatto stesso del conseguimento illegittimo della nomina – senza che rilevi la circostanza che l’agente abbia esercitato l’impiego con prestazione effettiva di attività lavorativa -, viene, di volta in volta, individuato nel pregiudizio per la pubblica amministrazione derivante dall’assunzione di persona carente dei necessari requisiti e dall’alterazione della graduatoria del concorso, nelle spese che l’amministrazione deve sostenere per riparare l’errore in cui è stata indotta, nello stesso pregiudizio per gli altri concorrenti, essendo l’amministrazione tenuta a garantire il buon esito del concorso (Cass., Sez. II, 24.5.1967, Lucara, rv. 106137; 19.4.1971, Crò, rv. 119979; Sez. I, 10.1.1978, Bergamo, rv. 137755; Sez. II, 13.6.1985, Macalli, rv. 171003).
Si è posto anche l’accento sia sugli oneri finanziari sostenuti dall’amministrazione medesima per istruire la domanda e perfezionare l’assunzione (Cass., Sez. II, 24.6.1986, Luccitti, rv. 173844), sia sulle spese che l’amministrazione deve sostenere onde riparare l’errore cui è stata indotta dall’agente – e cioè, disservizi conseguenti alla modifica della graduatoria, nuova convocazione della commissione, vacanza del posto messo a concorso nel periodo di tempo fra la revoca del colpevole e la nomina dell’avente diritto ecc. -, che sul mancato guadagno dei concorrenti esclusi derivanti dal ritardo nell’assunzione (Cass., Sez. II, 15.4.1970, Astarita, rv. 116497; 12.6.1981, Capicotto, rv. 150968; 24.10.1984, Mercadini, rv. 163095; 11.3.1986, Urcinolo, rv. 173408; ma, per la riferibilità del danno soltanto all’ente pubblico, soggetto passivo della truffa, e non agli altri concorrenti, v. Sez. II, 22.11.1978, Maggio, rv. 141354). Circa il rilievo da attribuirsi, nel giudizio sulla sussistenza del danno e sulla configurabilità del reato di truffa, all’effettivo svolgimento di attività lavorativa da parte dell’agente, la giurisprudenza di legittimità è decisamente orientata ad escludere qualsiasi valenza alle circostanze che l’agente abbia dimostrato una concreta idoneità in relazione ai compiti affidatigli e prestato un servizio vantaggioso per l’amministrazione, in quanto successive al momento dell’assunzione indebita in cui si perfeziona il reato (Cass., 12.3.1960, Zampieri; Sez. II, 19.4.1971, Crò, cit.; Sez. I, 10.1.1978, Bergamo, cit.; Sez. V, 20.3.1980, Bertozzi, rv. 144752). L’indirizzo giurisprudenziale largamente maggioritario, che ritiene integrato il danno patrimoniale dell’amministrazione nello stesso fatto dell’indebito conseguimento della nomina per le disfunzioni e spese di ordine vario che ne conseguono, colloca di conseguenza il momento consumativo della truffa finalizzata all’assunzione ad un pubblico impiego, non all’atto della percezione delle retribuzioni, “che essendo il corrispettivo di prestazioni effettuate non possono comunque ritenersi elargite sine causa e quindi indebitamente”, ma all’atto stesso del “conseguimento illegittimo della nomina, da cui deriva, correlativamente, il danno patrimoniale per la pubblica amministrazione”.
1.3.- In difformità dalle indicate pronunce in tema di conseguimento di un pubblico impiego (ma in coerenza con altro indirizzo giurisprudenziale formatosi in ordine al diverso problema dell’individuazione del momento consumativo del reato di truffa in danno degli enti previdenziali, per indebita percezione di prestazioni periodiche derivanti da erogazioni pubbliche: Sez. II, 1.3.1972, Civallo, rv. 121780; 27.2.1984, Messina, rv. 164375; 25.11.1986, Di Lonardo, rv. 174983) si è pronunciata Cass., Sez. II, 9.5.1994, Cipriano, rv. 198045, la quale ha affermato che il reato perdura fino a quando non viene interrotta la riscossione dei singoli ratei, o per volontà del soggetto attivo o per iniziativa di quello passivo, sicché il momento consumativo coincide con la cessazione dell’attività illecita. Nella fattispecie in esame sarebbe configurabile un reato – non continuato, o permanente, ovvero istantaneo ad effetti permanenti, bensì – “a consumazione prolungata”, in cui sin dall’inizio l’autore è ben consapevole che la sua azione darà luogo ad un evento che continuerà a prodursi nel tempo con la realizzazione degli illeciti profitti man mano maturatisi con altrui danno, identificandosi, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria condotta illecita, la completa esecuzione del delitto e il massimo approfondimento della concreta e progressiva lesione dell’interesse protetto, e per ciò il momento consumativo “sostanziale” del reato.
Tale orientamento si pone a sua volta in contrasto con quanto statuito in argomento dalle Sezioni Unite nella sentenza 22.3.1969, P.M. in proc. Carraro, rv. 111418 (seguita da numerosissime, conformi, decisioni delle singole Sezioni: da ultimo, ex plurimis, Sez. V, 30.3.1992, Tosolini, rv. 190981, e, in tema di conseguimento di un pubblico impiego, Sez. II, 18.6.1969, Ferrandi, rv. 113218), la quale, in un’ipotesi di truffa concernente prestazioni pensionistiche, ha sostenuto che, quando l’obbligazione viene adempiuta dal soggetto passivo in momenti successivi ed a scadenze periodiche, non è configurabile un unico delitto di truffa avente ad oggetto l’obbligazione complessiva, bensì una pluralità di eventi dannosi e, quindi, un delitto continuato rispetto al quale le singole riscossioni dei ratei di pensione costituiscono altrettanti atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, nei quali l’iniziale proposito fraudolento si riproduce attraverso le successive condotte, sia mantenendo il silenzio sulla illiceità della situazione, sia manifestando un comportamento idoneo al persistere dell’errore in cui era caduta la pubblica amministrazione.
2.- Le diverse e confliggenti linee interpretative in ordine al tema del momento consumativo della truffa ripropongono il contrasto tra due tesi: quella secondo cui il delitto di truffa si consuma nel momento in cui il soggetto passivo assume, per effetto di artifizi e raggiri, l’obbligazione, e l’altra, che non ritiene sufficiente la sola circolazione giuridica dei beni, ma richiede la loro circolazione economica, e quindi l’esistenza di un danno concreto ed effettivo del patrimonio.
Tale questione ha già formato oggetto di esame da parte di queste Sezioni Unite, le quali, con le sentenze 22.3.1969, P.M. in proc. Carraro, cit. (in Foro it., 1970, II, 5) e 30.11.1974, Forneris (in Cass. pen., 1975, 741), premesso che l’elemento del danno deve necessariamente avere un contenuto patrimoniale, dovendo consistere in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l’effetto di produrre la perdita definitiva del bene da parte del soggetto passivo, hanno affermato – condividendo così la seconda delle due tesi in contrasto – che “il reato di truffa si perfeziona soltanto con l’effettivo conseguimento del bene economico o di altro bene che sia idoneo ad una valutazione patrimoniale, con la definitiva perdita di esso da parte del soggetto passivo”.
E non vi è motivo per andare in diverso avviso, poiché, se s’intende mantenere ancorata l’operatività della norma incriminatrice ad una solida base oggettiva, deve convenirsi – in coerenza con le tradizionali ma anche recenti prese di posizione di larga parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità in materia (v., da ultimo, Cass., Sez. VI, 3.6.1998, Grossi, rv. 211373; 11.3.1998, Rizzo, rv. 210534; Sez. II, 28.10.1997, Stabile, rv. 209671; Sez. I, 30.5.1997, Petrone, rv. 207988; 15.3.1989, Giusti, cit.) – che, oltre alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore, è necessario, ai fini dell’integrazione del reato di truffa, che si verifichi anche un’effettiva deminutio patrimonii, intesa in senso strettamente economico, del soggetto passivo.
Alla luce di un’attenta analisi degli elementi costitutivi della fattispecie, la truffa si costruisce dunque, secondo la linea interpretativa tracciata dal menzionato, prevalente, orientamento giurisprudenziale e dottrinale, come reato istantaneo e di danno: non reato permanente, perché si perfeziona nel momento stesso in cui si concretano tutti gli elementi che lo costituiscono e non consente né una protrazione ininterrotta dell’attività criminosa dell’agente, con la costituzione di uno stato soggettivo od oggettivo antigiuridico duraturo, né la possibilità per l’agente di far cessare volontariamente tale stato in modo giuridicamente efficace; non reato di pericolo, poiché, a differenza di altre ipotesi criminose che pure offendono il patrimonio per le quali basta una situazione di pericolo, l’evento consumativo risulta esplicitamente tipizzato in forma di conseguimento del profitto con il danno altrui, elementi questi dell’arricchimento e del depauperamento che sono collegati tra loro in modo da costituire concettualmente due aspetti di un’unica realtà.
Essendo la truffa, quanto alla collocazione sistematica della disposizione incriminatrice nel titolo XIII del libro II del codice penale e all’oggettività giuridica tutelata, delitto contro il patrimonio mediante frode, mentre il requisito del profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, l’elemento del danno, proprio in virtù dell’evento consumativo che caratterizza tipicamente la realizzazione della fattispecie criminosa, deve avere necessario contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l’effetto di produrre – mediante la “cooperazione artificiosa della vittima” che, indotta in errore dall’inganno ordito dall’autore del reato, compie l’atto di disposizione – la perdita definitiva del bene da parte della stessa.
Di talché, in tutte quelle situazioni in cui il soggetto passivo assume, per incidenza di artifizi o raggiri, l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma questo non perviene, con correlativo danno, nella materiale disponibilità dell’agente, si verte nella figura di truffa tentata e non in quella di truffa consumata.
Mette conto infine di osservare che l’opportunità di agganciare in modo rigoroso al verificarsi di un danno economico-patrimoniale la repressione penale di comportamenti che ledono la libertà negoziale consente di limitare l’area dell’intervento penale rispetto a quella del diritto civile.
L’opposta opinione, tendendo a trasformare il delitto di truffa, contro la lettera e la chiara voluntas legis, in reato di attentato alla sola libertà di consenso della vittima nei negozi patrimoniali e di mero pericolo per l’integrità del patrimonio di questa, opera in realtà un’inammissibile dilatazione dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice, la quale, invece, espressamente richiede uno specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale, ovvero un reale depauperamento economico del soggetto passivo del reato, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.
3.- Anche in tema di danno nel delitto di truffa riferito alle ipotesi in cui l’inganno colpisca interessi di pertinenza dello Stato o di altro ente pubblico, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che il danno rilevante è sempre quello di natura patrimoniale, essendo il patrimonio il bene protetto dall’art. 640 c.p., e nega di conseguenza la configurabilità del reato quando l’interesse leso attenga alla regolarità delle procedure amministrative e non si rinvenga un atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto passivo (Cass., Sez. V, 13.7.1994, Tarquini, in Cass. pen., 1995, 952; 20.6.1980, Truglio, ivi, 1982, 514).
L’essenza obiettiva del danno effettivo di contenuto stricto sensu economico-patrimoniale, insito nella ratio dell’incriminazione (nel quale s’individua l’offesa tipica con la cui verificazione si consuma il delitto di truffa), appare pertanto requisito inderogabile anche quando soggetto passivo del reato sia lo Stato o altro ente pubblico, nonostante l’indubbia rilevanza e le peculiari caratteristiche del fenomeno della truffa ai danni della pubblica amministrazione.
Ed invero, attesa la natura di circostanza aggravante speciale rispetto all’ipotesi criminosa di base della figura disciplinata dall’art. 640 cpv. n. 1 c.p., non può consentirsi che l’unitaria oggettività giuridica del reato di truffa sia alterata (mediante il richiamo alla mancanza di correlazione fra funzione e spesa pubblica che in tal caso caratterizza la portata offensiva della fattispecie fraudolenta, a causa della frustrazione degli scopi economico-sociali perseguiti mediante le erogazioni o dell’irregolarità delle procedure amministrative di ammissione o di esecuzione delle prestazioni medesime), a favore di interessi generali attinenti al buon andamento della pubblica amministrazione o alle regole d’impegno di spesa nel bilancio: valori, quest’ultimi, meritevoli anch’essi di rilievo ordinamentale, ma distinti rispetto al bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice di base.
Anche in questo caso, un’interpretazione “estensiva” o “evolutiva” del concetto di danno, divergente dai tipici connotati economico- patrimoniali configurati dal legislatore negli elementi costitutivi della fattispecie legale, darebbe luogo ad una non consentita espansione dell’area di applicazione del delitto di truffa e, nello stesso tempo, ad una degradazione di esso da reato di danno effettivo in reato di mero pericolo per il patrimonio della pubblica amministrazione.
Rileva il Collegio che, laddove si è inteso caratterizzare in modo peculiare gli elementi costitutivi della frode in danno dello Stato o di altri enti pubblici, al fine di tutelare anche l’interesse ad evitare l’indebito dirottamento di risorse economiche pubbliche dagli scopi sociali perseguiti mediante l’erogazione delle medesime, il legislatore ha opportunamente creato speciali figure criminose, nelle quali, senza ledere la tipicità della fattispecie dell’art. 640 c.p., risulta costruito in modo autonomo il requisito dell’offesa patrimoniale, ovvero sono esaltati i profili di plurioffensività della condotta ingannatrice: come, ad esempio, nella nuova figura della captazione abusiva di finanziamenti ed altre erogazioni pubbliche introdotta dall’art. 640 – bis c.p., aggiunto dall’art. 22, legge 19.3.1990 n. 55.
4.- E però, in tema di cosiddetta truffa “in attività lavorativa” o “in assunzione ad un pubblico impiego” commessa in danno della pubblica amministrazione, mediante produzione di falsa documentazione e in carenza dei requisiti richiesti a tal fine, si assiste – come si è già segnalato – ad una significativa difformità di orientamenti interpretativi.
In coerenza con altro indirizzo giurisprudenziale formatosi in ordine al problema analogo, ma non omogeneo, dell’individuazione del momento consumativo del reato di truffa nell’ipotesi di indebita percezione di prestazioni periodiche derivanti da erogazioni pubbliche, si è individuato l’eventus damni, e perciò il momento consumativo, nella riscossione dei singoli ratei di retribuzione relativa all’impiego assunto con frode, ravvisandosi talora un’unica truffa che si esaurisce all’atto della percezione della prima mensilità, altre volte un reato continuato in riferimento alle plurime riscossioni reiterate nel tempo e collegate fra loro da un unico disegno criminoso, o infine una fattispecie di reato “a consumazione prolungata” la quale perdura fino a quando non viene interrotta la riscossione dei singoli ratei con la cessazione dell’attività illecita.
L’orientamento giurisprudenziale largamente maggioritario, che ritiene integrato il danno patrimoniale dell’amministrazione nello stesso fatto dell’illegittimo conseguimento della nomina per le disfunzioni e spese di ordine vario che ne derivano, colloca invece il momento consumativo della truffa, non all’atto della percezione delle retribuzioni, che “essendo il corrispettivo di prestazioni effettuate non possono comunque ritenersi elargite sine causa e quindi indebitamente”, ma all’atto stesso dell’indebito conseguimento della nomina.
4.1.- Ritiene il Collegio che la tesi interpretativa, la quale trascura l’elemento della corresponsione della retribuzione – nonostante l’indubbia valenza economico-patrimoniale insita in esso – come componente del danno patrimoniale per la pubblica amministrazione, sia sostanzialmente corretta.
La ragione, anche se non adeguatamente esplicitata in giurisprudenza, è da rinvenire nella circostanza che la norma incriminatrice, descrivendo la figura della truffa, richiede anche il requisito della “ingiustizia” del profitto, termine di qualificazione dell’evento riflettentesi nel dolo dell’agente, che, avendo natura di elemento normativo integrativo della fattispecie, va individuato aliunde – in modo autonomo rispetto all’illiceità del fatto offensivo, siccome già frutto della scelta di repressione penale della condotta criminosa – mediante le altre indicazioni dell’ordinamento extrapenale.
Di talché, l’ingiusto profitto va ravvisato quando un vantaggio, un’utilità o un incremento patrimoniale (che, nei reati nei quali è previsto come elemento costitutivo anche il danno, rappresenta concettualmente sul versante del soggetto attivo l’aspetto speculare dell’arricchimento – ma in un’accezione non necessariamente economica – conseguito dall’autore a fronte del pregiudizio subito dalla vittima) sia stato perseguito o realizzato sine causa o sine jure, in assenza cioè di condizioni giuridiche extrapenali legittimatrici; mentre esso va escluso rispetto ad ogni situazione in cui il vantaggio sia in qualche modo, direttamente o indirettamente, tutelato dall’ordinamento come giuridicamente rilevante.
Orbene, in tema di analisi dell’iniusta locupletatio con specifico riferimento all’ipotesi di truffa “in attività lavorativa”, va detto che, una volta accertata l’esplicazione della prestazione lavorativa richiesta, i singoli ratei di retribuzione costituiscono, in forza della sinallagmaticità dell’instaurato rapporto di pubblico impiego, il corrispettivo dovuto al lavoratore dalla pubblica amministrazione.
Mette conto infatti di osservare che, nel caso di nullità del contratto di lavoro per violazione di norme imperative, l’art. 2126 del codice civile, sia pure ai limitati fini dei diritti retributivi e previdenziali maturati in costanza di prestazioni lavorative, pone una fictio juris di validità del rapporto “di fatto”; e l’operatività della norma è estesa dal successivo art. 2129 anche al rapporto di pubblico impiego per i dipendenti da enti pubblici.
La giurisprudenza civile e amministrativa, in materia di assunzioni effettuate dalla pubblica amministrazione in violazione di regole o divieti imperativi, è assolutamente pacifica nel qualificare i rapporti in tal modo instaurati come radicalmente nulli, e quindi improduttivi di effetti, al di fuori del diritto del lavoratore al complessivo trattamento retributivo e previdenziale relativo al periodo in cui il rapporto ha avuto di fatto esecuzione, giusta la disciplina dettata dall’art. 2126 c.c. Il principio è stato ripetutamente affermato sia dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione in sede di riparto della giurisdizione (3.4.1998 n. 3465, 4.11.1996 n. 9531, 29.7.1995 n. 8304, 21.4.1994 n. 3779, 26.7.1994 n. 6960; 12.5.1989 n. 2171; 3.12.1988 n. 6566; 18.3.1988 n. 2490; 22.12.1987 n. 9615; 27.11.1987 n. 8830; 3.5.1986 n. 2993), che dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (29.2.1992 nn. 1 e 2, e 5 marzo 1992, nn. 5 e 6, cui si sono successivamente conformate le sezioni semplici, le quali si erano espresse in passato in senso contrario all’applicabilità dell’art. 2126 c.c. al pubblico impiego).
Identificata poi la causa del contratto, secondo un consolidato insegnamento giurisprudenziale, con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata, ontologicamente distinta dallo scopo particolare che ciascuna delle parti persegue, si avverte che l’illiceità della medesima, la quale ai sensi dell’art. 2126 priva il lavoro prestato della tutela accordata al rapporto di lavoro nullo, “non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”.
Deve trattarsi, cioè, sia nell’ipotesi di contrarietà della causa a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343, sia nell’ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge ex art. 1344, sia nel caso di motivo illecito, comune alle parti e determinante, ex art. 1345, “dell’illiceità in senso forte, non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418”, poiché un’illiceità non intesa in questo senso rigoroso, dettata “per ragioni che non attengono a principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento, non si riflette in un giudizio d’illiceità della prestazione di lavoro” (Corte cost., 19.6.1990 n. 296; Cons. Stato, Ad. plen., 29.2.1992 n. 1 e 5.3.1992 n. 5, citt.; Cass., Sez. Un. civ., 8.5.1976 n. 1609).
È infatti palese l’intenzione del legislatore di tutelare, con le disposizioni dell’art. 2126, le prestazioni effettivamente espletate dal lavoratore, “a meno che il contratto nullo non urti, con la partecipazione di entrambi i contraenti – che intenzionalmente attribuiscono al negozio come funzione obiettiva una comune finalità contraria alla legge -, con indirizzi vitali per l’integrità dell’ordinamento” o sia in contrasto con quei “valori giuridici considerati essenziali all’interno del sistema giuridico”, ovvero l’attività lavorativa resa configuri un oggetto illecito, risulti cioè intrinsecamente illecita per avere normalmente, per il suo contenuto, rilevanza penale.
Dalla suesposta soluzione, la quale trova convincente base giustificativa in inequivoci argomenti di ordine letterale e sistematico risultanti dall’analisi ricostruttiva delle fonti normative richiamate, deve trarsi il logico corollario che la riscossione della retribuzione e degli altri emolumenti, sempreché non risulti conseguita sine causa o contra jus nel senso sopra delimitato, non configura gli eventi naturalistici consumativi del reato di truffa, quanto al duplice e speculare profilo dell’ingiusto profitto e del corrispondente danno economico- patrimoniale, bensì costituisce un postfatto penalmente irrilevante e non punibile.
4.2.- Ritiene peraltro il Collegio che anche l’opposto, di gran lunga prevalente, indirizzo ermeneutico (per il quale il danno economico-patrimoniale dell’amministrazione, e di conseguenza il momento consumativo della truffa finalizzata all’assunzione ad un pubblico impiego, è integrato all’atto, non della percezione delle retribuzioni corrispondenti all’esplicata attività lavorativa, bensì dello stesso indebito conseguimento della nomina, per le disfunzioni e spese di ordine vario che ne derivano) in tanto merita di essere condiviso, in quanto ad esso si apportino alcuni necessari chiarimenti di ordine logico-giuridico, onde evitare il rischio di un indebito allargamento dell’area di operatività dell’istituto, a tutela di interessi estranei al patrimonio della pubblica amministrazione ed attinenti invece al patrimonio di altri soggetti privati, ovvero alla regolarità delle procedure di assunzione nel pubblico impiego, sì che i peculiari caratteri pubblicistici della personalità del soggetto passivo del reato finirebbero con il fare premio sull’oggettiva configurazione della fattispecie criminosa.
I dubbi e le perplessità manifestati anche di recente in dottrina, circa la configurabilità di un evento consumativo di danno patrimoniale per la pubblica amministrazione nella cosiddetta truffa “in attività lavorative” mediante la produzione di una falsa documentazione, possono essere superati alla sola condizione che l’affermata esistenza dell’elemento costitutivo del danno, e perciò del reato previsto dall’art. 640 c.p., sia ancorata, nell’analisi ricostruttiva della norma incriminatrice, ad una solida base giustificativa di ordine fattuale ed oggettivo, che, in forza del principio di tipicità della fattispecie criminosa, ne escluda la ravvisabilità in re ipsa.
L’indirizzo giurisprudenziale nettamente prevalente perviene al menzionato risultato interpretativo individuando il danno per la pubblica amministrazione, di volta in volta: nel pregiudizio derivante dall’assunzione di persona carente dei necessari requisiti e dall’alterazione della graduatoria del concorso; nelle spese che l’amministrazione deve sostenere per riparare l’errore in cui è stata indotta, con i disservizi conseguenti alla modifica della graduatoria, alla nuova convocazione della commissione, alla vacanza del posto messo a concorso nel periodo di tempo fra la revoca del colpevole e la nomina dell’avente diritto; nel pregiudizio derivante per gli altri concorrenti esclusi dal ritardo nell’assunzione, essendo l’amministrazione tenuta a garantire il buon esito del concorso; negli oneri finanziari sostenuti dall’amministrazione medesima per istruire la domanda e perfezionare l’assunzione.
Orbene, a fronte di siffatte, invero generiche e tralaticie, affermazioni giurisprudenziali, sostanzialmente dettate dall’esigenza di reprimere comunque la condotta ingannevole dell’agente che resterebbe altrimenti elusa, sembra necessario delineare con chiarezza i termini economico-patrimoniali delle conseguenze dannose subite dalla pubblica amministrazione in conseguenza dell’indebita assunzione ad un pubblico impiego (essendo il profitto o il vantaggio “ingiusto” dell’agente, di natura lato sensu patrimoniale, immediatamente configurabile nell’attribuzione della posizione impiegatizia e nell’acquisizione del relativo status, con il conseguente diritto al futuro trattamento retributivo e previdenziale come corrispettivo dell’esplicanda attività lavorativa).
Inammissibile appare innanzi tutto il ricorso a criteri di valutazione estranei alla nozione strettamente economico- patrimoniale ed effettiva dell’evento di danno proprio del delitto di truffa, con riferimento a conseguenze meramente virtuali del reato, quali le spese da sostenere per riparare l’errore e rettificare la graduatoria, indire le nuove procedure di assunzione per la copertura del posto con l’avente diritto ecc., oppure a conseguenze di natura non immediatamente patrimoniale, come l’assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e l’alterazione della graduatoria del concorso, o estrinseche rispetto all’ambito di tutela proprio della norma incriminatrice, quale il pregiudizio per gli altri concorrenti.
Non può invece escludersi, in linea teorica, l’esistenza di un danno effettivo e immediato di natura stricto sensu economico-patrimoniale, configurabile nelle spese, esborsi ed oneri finanziari sostenuti dalla pubblica amministrazione nella procedura di costituzione del rapporto d’impiego: ad esempio, per istruire la pratica e perfezionare l’assunzione, informatizzare la posizione dell’impiegato con il correlato impegno di spesa nel bilancio, predisporre i locali dell’ufficio destinati alla sua collocazione, ed altro.
Danno “emergente” dunque, effettivo seppure di non rilevante entità, per la pubblica amministrazione, identificabile nel dispendio dell’attività lavorativa dei suoi dipendenti, nell’uso indebito dei macchinari utilizzati e nelle spese vive sostenute per le operazioni amministrative e contabili d’impianto e perfezionamento della pratica, ed altresì autonomo rispetto al profilo – di per sè irrilevante in una prospettiva strettamente patrimonialistica dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice – della distrazione di risorse economiche dagli scopi istituzionali dell’ente pubblico.
Deve rispondersi pertanto positivamente, nonostante le riserve manifestate in proposito dalla dottrina più recente, al quesito interpretativo se sia configurabile, in linea di principio, il delitto di truffa “in attività lavorativa” o “in assunzione ad un pubblico impiego”.
Trattasi di reato di natura istantanea che si consuma all’atto della costituzione del rapporto impiegatizio.
E però occorre che, prima, nella prospettazione accusatoria siano precisamente individuati i confini e, poi, nel giudizio sia dimostrata l’esistenza del danno, immediato ed effettivo, di contenuto economico-patrimoniale che la pubblica amministrazione ha subito all’atto e in funzione della costituzione del rapporto impiegatizio.
Non è infatti consentito fare riferimento, sul punto, a parametri meramente congetturali e arbitrari, la cui applicazione, in contrasto con il principio di tipicità della fattispecie penale, privi del requisito di patrimonialità l’offesa sanzionata dall’art. 640 c.p. o – il che espone l’operazione ad analoga censura – identifichi presuntivamente l’esistenza di un danno in re ipsa, finendo con il fissare il momento consumativo del reato antecedentemente al verificarsi di un’effettiva deminutio patrimonii economicamente valutabile e con il trasformare la truffa da reato di danno in reato di pericolo.
5.1.- Per quanto riguarda la fattispecie concreta in esame, occorre premettere che non colgono nel segno le pur suggestive doglianze (racchiuse infine nella richiesta di “annullare l’impugnata sentenza nella parte in cui afferma la penale responsabilità dell’imputato”, ergo limitatamente alla statuizione di condanna per il delitto di truffa) in punto di esistenza della condotta ingannatrice e del dolo, sul rilievo che la falsa certificazione sulla residenza risalirebbe al lontano 1974, mentre le leggi sull’occupazione giovanile sarebbero tutte successive, o che non poteva dunque essere previsto né rappresentato dall’agente l’iter normativo che ne avrebbe assecondato l’assunzione, o che la residenza non era comunque requisito indefettibile per quest’ultima.
Ed invero, come si legge nelle analitiche contestazioni e nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, la prospettazione accusatoria disloca diversamente e progressivamente nel tempo la condotta criminosa dell’agente: nell’avere dapprima utilizzato la falsa certificazione sulla residenza nel dicembre 1977 all’epoca della formazione della lista speciale e della graduatoria dei giovani disoccupati di Policoro; nell’avere poi omesso di rappresentare all’amministrazione l’illecita situazione al momento dell’assunzione con contratto a tempo determinato nel 1978; nell’avere infine persistito nel silenzio e nella falsità durante le operazioni del censimento del 1981, nella fase dell’inserimento nel ruolo organico nell’anno 1984 ed ancora nel censimento del 1991, al fine di occultare sistematicamente, con comportamenti attivi e non solo omissivi, l’illecito penale di base e i successivi illeciti (la non punibilità delle falsità nei censimenti del 1981 e del 1991 essendo dovuta al dato formale dell’assenza di qualità di pubblico ufficiale nella figura del rilevatore), la cui scoperta avrebbe potuto legittimare l’ente alla sospensione – com’è avvenuto – e alla risoluzione del rapporto, in conseguenza della obiettiva violazione dei doveri di fedeltà e lealtà propri del pubblico impiegato.
Di conseguenza, la reiterata condotta ingannatrice risulta logicamente funzionalizzata all’ottenimento e al mantenimento del pubblico impiego.
5.2.- E però, nella vicenda processuale in esame (per la quale, in riferimento all’epoca di costituzione del rapporto impiegatizio, il reato sarebbe comunque estinto per prescrizione), non si rinviene nell’assunto accusatorio – sì che non è dato neppure sapere se si siano verificati nel caso concreto – alcun utile riferimento a spese, esborsi, oneri finanziari di alcun tipo sostenuti dall’amministrazione comunale all’atto e in funzione della costituzione del rapporto impiegatizio, essendo oggetto di contestazione nel capo d’imputazione l’iscrizione nella lista dei giovani disoccupati, l’assunzione alle dipendenze del comune, il mantenimento della posizione impiegatizia, e cioè “la costituzione dello status, retribuzioni e quant’altro legato alla posizione impiegatizia con conseguente e correlativo danno patrimoniale per l’ente pubblico, dal 19.6.1978 ad epoca corrente”.
Dati fattuali, quest’ultimi, non specifici e – come si è detto – penalmente irrilevanti, quanto alle erogazioni rateali di stipendi o provvidenze economiche correlati all’esplicata e lecita prestazione di attività lavorativa da parte di un soggetto munito dei richiesti requisiti di capacità professionale, ai fini della configurazione dell’evento naturalistico di danno economico- patrimoniale quale elemento costitutivo del delitto di truffa. Di talché, consegue logicamente alla delineata ricostruzione interpretativa, da un lato, che i comportamenti trasgressivi descritti nella contestata imputazione non integrano gli estremi della fattispecie criminosa prevista dall’art. 640 cpv. n. 1 cod. pen. e, dall’altro, che l’impugnata sentenza debba essere – limitatamente alla statuizione di condanna per la truffa – annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
11. Truffa e frodi fiscali : rapporto di specialità
Cass. S.U. 28 ottobre 2010, Giordano
In sintesi
Le frodi fiscali di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravato dal danno allo Stato
(omissis)
3. Applicando tali principi al caso in esame deve aderirsi all’orientamento giurisprudenziale che ravvisa un rapporto di specialità tra la frode fiscale e la truffa aggravata ai danni dello Stato.
Il raffronto fra le fattispecie astratte evidenzia che la frode fiscale è connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Una volta chiarito che la condotta di cui alla frode fiscale è una specie del genere “artifizio”, non si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell’azione in totale diversità del fatto.
Per quanto riguarda l’evento di danno, esso è specificato nell’art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 74 del 2000, che include nel “fine di evadere le imposte” anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta, e il conseguimento di tale fine è posto come scopo della condotta tipica, cioè come caratterizzante l’elemento intenzionale e non rileva il suo conseguimento, in quanto il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica, intendimento ulteriormente confermato dalla misura della sanzione, superiore (sia nel minimo che nel massimo) a quella prevista per il delitto di truffa aggravata.
Nella stessa relazione governativa, si osserva che la dichiarazione fraudolenta «si connota come quella ontologicamente più grave: essa ricorre, infatti, quando la dichiarazione non soltanto non è veridica, ma risulta altresì “insidiosa”, in quanto supportata da un “impianto contabile”, o più genericamente documentale, atto a sviare o ad ostacolare la successiva attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalorare artificiosamente l’inveritiera prospettazione di dati in essa racchiusi». In tal modo, il legislatore valuta che la condotta descritta, oltre che essere connotata di particolare disvalore, è anche oggettivamente idonea a raggiungere lo scopo perseguito, cioè ad esporre concretamente a pericolo il bene tutelato, ciò spiega la indifferenza dell’evento di danno nell’integrazione della fattispecie oggettiva.
Lo stesso legislatore, peraltro, non considera irrilevante l’entità del profitto e del conseguente danno, posto che prevede una diminuzione della sanzione, parametrandola proprio ai suddetti elementi (artt. 2, comma 3, e 8, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000), con la conseguenza che ritenere la configurabilità in concorso della truffa aggravata significherebbe svuotare di ogni valenza giuridica le soglie sanzionatorie.
La citata relazione governativa marca queste caratteristiche dei reati in questione e sembra proprio escludere la configurabilità di un concorso con la truffa aggravata ai danni dello Stato, osservando, rispetto a quest’ultimo reato, come «il relativo paradigma punitivo prescinda sia dall’ammontare dell’ingiusto profitto conseguito che dalla particolare natura dell’artificio utilizzato (la quale, nel delitto tributario in esame, assume connotati di particolare disvalore)».
Queste considerazioni sono sufficienti a rispondere alle obiezioni circa l’assenza nel reato di frode fiscale dei due elementi dell’induzione in errore e del danno al patrimonio dello Stato, che sono elementi essenziali per la configurazione del reato di truffa.
Ma potrebbe anche aggiungersi, sotto un altro profilo, che sia l’induzione in errore che il danno sono presenti nella condotta incriminata dal reato di frode fiscale, posto che alla presentazione di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmente il versamento di un minor (o di nessun) tributo e genera, in prima battuta e nella fase di liquidazione della dichiarazione, un’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria e un danno immediato quanto meno nel senso del ritardo nella percezione delle entrate tributarie.
Quanto alle connotazioni della condotta nel caso di specie, l’ordinanza impugnata erroneamente fa riferimento all’esistenza di ulteriori e diversi raggiri rispetto all’emissione o annotazione di fatture per operazioni inesistenti, rappresentati dalla fraudolenta costituzione ed operatività di decine di società di capitali straniere (pag. 74), quale elemento autonomamente considerabile ai fini della truffa, in tal modo richiamando quella giurisprudenza di questa Suprema Corte che affida al giudice di merito la valutazione delle particolari modalità esecutive della evasione fiscale al fine di ritenere configurabile il concorso con il reato di truffa (Sez. 5, n. 6825 del 23/01/2007, cit.).
Tale affermazione è in contrasto con il principio secondo il quale il confronto deve essere effettuato fra le fattispecie astratte e non partendo dalla condotta in concreto posta in essere, da portare a raffronto con le diverse fattispecie astratte, per risolvere il dubbio sulla operatività del criterio di specialità.
Deve considerarsi, inoltre, da un lato, che è l’artifizio della fatturazione di operazioni inesistenti ad essere in linea astratta speciale e che la sua realizzazione non può non presupporre la creazione di una “struttura” capace di produrre siffatta specifica documentazione fraudolenta; dall’altro – e comunque – che nell’ambito dei delitti in materia di dichiarazione fraudolenta (dei redditi o dell’imposta sul valore aggiunto) la frode “mediante altri artifici” è specificatamente prevista dall’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, e che essa non può concorrere con quella attuata mediante fatture per operazioni inesistenti per l’espressa clausola di riserva contenuta all’inizio dell’alinea del medesimo art. 3.
La negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell’Erario, si pone, inoltre, in contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000.
La linea di politica criminale adottata dal legislatore, nell’ambito delle scelte discrezionali che gli competono, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, sono state ampiamente delineate dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro), affrontando il problema della continuità normativa d’illecito fra l’ipotesi di frode di cui all’art. 4, lett. f), d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 e la nuova ipotesi di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e successivamente dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 49 del 2002), nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lett. b), d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui escludono, rispettivamente, la punibilità a titolo di tentativo del delitto di cui all’art. 2 del medesimo decreto legislativo, e la punibilità di chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a titolo di concorso nel reato di emissione di tali fatture o documenti, previsto dall’art. 8 del decreto stesso, posto che il giudice rimettente aveva, in sostanza, richiesto alla Corte di rimuovere la sospetta incostituzionalità tramite un riequilibrio in malam partem del rispettivo regime sanzionatorio.
Sia le Sezioni Unite che la Corte Costituzionale sottolineano che il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il «modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 – modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta – a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario.
Questa strategia – come si legge nella relazione ministeriale – ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che «realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa» (Corte Cost. cit.).
La dichiarazione annuale “fraudolenta” (art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000), siccome non soltanto mendace ma caratterizzata altresì da un particolare “coefficiente di insidiosità” per essere supportata da un impianto contabile o documentale per operazioni inesistenti, costituisce dunque la fattispecie criminosa ontologicamente più grave; «il delitto, di tipo commissivo e di mera condotta, seppure teleologicamente diretto al risultato dell’evasione d’imposta [come precisato nella definizione del dolo specifico di evasione sub art. 1 lett. d)], ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale» ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non rilevando le dichiarazioni periodiche e quelle relative ad imposte diverse, «con la conseguenza che il comportamento di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito, e perciò non punibile” (così Sez. U cit.).
Risulta poi autonomamente strutturata la fattispecie criminosa di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, finalizzata a consentire l’evasione altrui, attività illecita di spiccata pericolosità consistente nell’immissione sul mercato di documentazione idonea a supportare l’indicazione fraudolenta in dichiarazione di elementi passivi fittizi: l’ipotesi criminosa dell’emissione, regolata dall’art. 8, è dunque punita di per sé, mentre l’utilizzazione solo in quanto trasfusa in una falsa dichiarazione.
Particolare rilievo sistematico assumono altresì le disposizioni normative degli artt. 6 e 9 d.lgs. n. 74 del 2000 sul tentativo e, rispettivamente, sul concorso di persone.
La disposizione dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000, escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4 dello stesso decreto legislativo, «mira – oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta – ad evitare che violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione», come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato (così Corte Cost. cit.).
Sotto diverso profilo, «il successivo art. 9 esclude, in deroga all’art. 110 c.p., la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e soprattutto, in forza della medesima logica sottesa alla non configurabilità del tentativo («quella cioè di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione fraudolenta evitando una indiretta resurrezione del reato prodromico»: Relazione governativa, par.3.2.1), del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione anche in caso di preventivo accordo.
Di conseguenza, per l’emittente la successiva utilizzazione da parte di terzi configura un postfatto non punibile, mentre per l’utilizzatore, che se ne avvalga nella dichiarazione annuale, il previo rilascio costituisce un antefatto pure irrilevante penalmente; del pari, l’intermediario non potrà considerarsi concorrente in entrambi i reati ma, a seconda dei casi concreti, in una delle distinte ipotesi» (così Sez. U cit.).
Proprio sulla base di tali riflessioni della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite, alcune delle decisioni che sostengono l’esistenza di un rapporto di specialità tra la fattispecie penale tributaria e quella comune di truffa aggravata ai danni dello Stato osservano correttamente che la negazione della sussistenza del suddetto rapporto si porrebbe in palese contrasto con la linea di politica criminale e con la stessa ratio che ha ispirato il legislatore nel dettare le linee portanti della riforma introdotta con il decreto legislativo n. 74 del 2000; in particolare, sarebbe paradossale ipotizzare, in capo all’emittente la falsa documentazione, una responsabilità penale costruita facendo leva su di una fattispecie di “genere” (truffa ai danni dell’erario), in presenza di una condotta “fiscale” che si “esaurisce” nella configurabilità della ipotesi speciale descritta dal decreto legislativo n. 74 del 2000.
In altri termini, se il legislatore individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione, espressamente escludendo che la soglia di punibilità possa essere “anticipata”, ai sensi dell’art. 56 c.p., anche nel caso di accertamento di irregolarità fiscali compiute nel corso del periodo d’imposta, non è ovviamente consentita l’utilizzazione strumentale di un’ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio quale la truffa aggravata ai danni dello Stato (eventualmente anche sub specie di tentativo) per alterare, se non stravolgere, il sistema di repressione penale dell’evasione disegnato dalla legge.
Ugualmente deve dirsi con riferimento al reato di mera emissione di fatture, destinate alla eventuale utilizzazione da parte di soggetti terzi, poiché la configurabilità di un concorrente delitto di truffa potrebbe portare, non solo ad eludere la norma che esclude che la punibilità possa essere anticipata ai sensi dell’art. 56 c.p., ma anche quella che impedisce la configurabilità di un concorso tra emittenti ed utilizzatori, in deroga all’art. 110 c.p. (art. 9, d.lgs. n. 74 del 2000).
Argomenti a favore della prospettata interpretazione sono stati tratti anche dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria 2003), poiché ai sensi del combinato disposto del comma 6, lett. c), dell’art. 8 («….il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta…..:…c) l’esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2…») e del comma 12 dello stesso articolo («La conoscenza dell’intervenuta integrazione dei redditi e degli imponibili ai sensi del presente articolo non genera obbligo o facoltà della segnalazione di cui all’art. 331 c.p.p.
L’integrazione effettuata ai sensi del presente articolo non costituisce notizia di reato») deve ritenersi che il legislatore abbia escluso il concorso con il delitto di truffa ai danni dello Stato. Diversamente, non avrebbe stabilito l’esonero dalla denuncia e non avrebbe espressamente disposto che l’integrazione effettuata ai sensi dell’art. 8, legge cit. “non costituisce notizia di reato”.
D’altro canto, se si facesse rientrare la condotta del soggetto agente nella sfera di punibilità del delitto di truffa ai danni dello Stato, si avrebbe l’effetto di impedire il perseguimento delle finalità a cui l’intervento normativo è rivolto, poiché la legge sul condono ha lo scopo di evitare costi all’Amministrazione finanziaria invitando l’evasore a definire ogni pendenza con l’Erario attraverso il pagamento di una somma di denaro predeterminata.
In definitiva, qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa.
Occorre ancora considerare che ai sensi dell’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 280 del T.C.E.), nel testo in vigore dal 1° dicembre 2009 «l’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione (comma 1).
Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari (comma 2)».
Questa disposizione esprime il c.d. principio di assimilazione: gli interessi finanziari europei sono assimilati a quelli nazionali con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure in entrambi i casi. La Corte di Giustizia U.E., già con sentenza 21 settembre 1989, causa n. 68/88, Commissione c. Repubblica ellenica, impose agli Stati membri di equiparare la tutela degli interessi comunitari a quella dei propri interessi finanziari e di prevedere un dispositivo di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive.
A tal fine, occorre considerare che la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee (oggi dell’Unione Europea) del 26 luglio 1995, definisce, all’art. 1, la portata dell’espressione frode comunitaria, distinguendo tra quella in materia di spese (tra cui l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni e documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua il percepimento o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità europee o dai bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse) e quella in materia di entrate (tra cui l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni e documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse).
Poiché tra le fonti di approvvigionamento delle risorse finanziarie dell’U.E. rientra una certa percentuale dell’imposta sul valore aggiunto IVA riscossa dagli stati membri, appare evidente come ogni condotta diretta ad eludere il pagamento dell’IVA, oltre a generare un danno economico per gli introiti dello Stato, si ripercuote negativamente sulle finanze U.E., seppure in misura proporzionalmente inferiore.
Pertanto, la lesione degli interessi finanziari dell’U.E. in casi di frode in materia di IVA si manifesta come lesiva, sia in via diretta che indiretta, degli stessi interessi e le norme penali nazionali in materia di IVA riguardano l’imposta nel suo complesso e, quindi, sono idonee a tutelare anche la componente comunitaria.
Particolarmente significativa è la previsione contenuta all’art. 7 della citata Convenzione secondo cui «1. Gli Stati membri applicano, nel loro diritto penale interno, il principio ne bis in idem, in virtù del quale la persona che sia stata giudicata con provvedimento definitivo in uno Stato membro non può essere perseguita in un altro Stato membro per gli stessi fatti, purché la pena eventualmente applicata sia stata eseguita, sia in fase di esecuzione o non possa essere più eseguita ai sensi della legislazione dello Stato che ha pronunciato la condanna».
Tale disposto, mentre evidenzia la duplicità della lesione degli interessi finanziari dei singoli Stati e della U.E., conferma che la tutela dei suddetti interessi deve essere attuata mediante un sistema sanzionatorio che è esaustivo degli interventi repressivi, non solo all’interno dei confini nazionali, ma anche nella dimensione comunitaria. Vi è, dunque, una generale specialità delle previsioni penali tributarie in materia di frode fiscale, le quali, in quanto disciplinano condotte tipiche e si riferiscono ad un determinato settore di intervento della repressione penale, esauriscono la connessa pretesa punitiva dello Stato (e della Unione Europea).
Ciò che può rilevarsi è la inadeguatezza della disciplina del d.lgs. n. 74 del 2000 al fine di un contrasto alle frodi fiscali, soprattutto in considerazione della impossibilità di applicare la confisca per equivalente, prevista, invece, in relazione al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640-quater c.p.).
Lacuna, peraltro, colmata a seguito della legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, (Legge Finanziaria 2008), il quale dispone che «Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale», in tal modo le somme di denaro sottratte al pagamento dell’IVA dovuta costituiscono il profitto del reato, in ordine al quale è possibile la confisca per equivalente, con conseguente legittimità del sequestro preventivo, ex art. 321 c.p.p., comma 2 (Sez. III, 26 maggio 2010, n. 25890, Molon, rv. 248058).
Ulteriori interventi di contrasto contro il fenomeno delle frodi fiscali, in particolare contro le c.d. operazioni carosello, sono contenuti nel d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito con modificazioni in legge 22 maggio 2010, n. 73.
Proprio queste novelle legislative dimostrano ulteriormente che il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali.
4. Deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: «i reati in materia fiscale di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1, c.p.».
5. Diverso discorso deve farsi con riferimento alle ipotesi in cui dalla condotta di frode fiscale derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni. In tali ipotesi è possibile il concorso fra il delitto di frode fiscale e quello di truffa (in tal senso, già Sez. U, n. 27 del 2000, cit.; nonché: Sez. 2, n. 40266 del 23/11/2006, Bellavita, Rv. 235593; Sez. 2, n. 42089 del 08/10/2009, Carrera, n.m; Sez. 3, n. 14866 del 17/03/2010, Lovison, Rv. 246968).
Infatti, l’ulteriore evento di danno che il soggetto agente si rappresenta non inerisce al rapporto fiscale, con la conseguenza che se l’attività frodatoria sia diretta non solo a fini di evasione fiscale, ma anche a finalità ulteriori, non sussiste alcun problema di rapporto di specialità tra norme, perché una stessa condotta viene utilizzata per finalità diverse e viola diverse disposizioni di legge e non si esaurisce nell’ambito del quadro sanzionatorio delineato dalle norme fiscali, con la conseguenza della concorrente punibilità di più finalità diverse compresenti nell’azione criminosa.
Nel caso di specie, come risulta dalla stessa ordinanza impugnata, nessuna finalità e nessun vantaggio o danno extratributario risultano realizzati o perseguiti.
(omissis)
12. Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche
Cass. S.U. 10 luglio 2002, p.m. in proc. Fedi
in sintesi
Dovendo stabilire se la fattispecie delineata nell’art. 640-bis del codice penale consista in un’aggravante del delitto di truffa, o piuttosto si atteggi ad autonoma figura di reato, la Corte ha preso le mosse dal rilievo che non esiste alcuna differenziazione ontologica tra elementi costitutivi (o essenziali) ed elementi circostanziali (o accidentali) del reato (gli artt. 61, 62 e 84 c.p. sono univoci al riguardo, visto che riconoscono esplicitamente che lo stesso fatto materiale può essere considerato dalla legge ora come elemento costitutivo ora come circostanza del reato).
Dopo un’attenta disamina dei molteplici criteri adottati da dottrina e giurisprudenza per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie (criteri di natura testuale o topografica, di natura strutturale o di natura teleologica), è stato assunto come criterio ermeneutico decisivo per la soluzione della questione quello dell’analisi ‘strutturale’ della descrizione del precetto penale, assegnandosi rilievo alla identificazione tra le fattispecie poste in comparazione, per stabilirne la pertinenza ad un’unica ipotesi di reato, di “un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta” .
… omissis
Criterio strutturale della descrizione del precetto penale
Risulta invece decisivo, ad avviso di questo collegio, il criterio strutturale della descrizione del precetto penale.
Nel caso dell’art. 640-bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici).
Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa.
L’obiezione summenzionata (paragrafo 7.2.1), secondo cui vi sono casi in cui la descrizione per relationem è tuttavia compatibile con la configurazione di un autonomo reato, non regge a un’analisi critica più attenta.
A ben vedere, tutti i casi addotti a sostegno dell’obiezione, tra cui l’art. 251, comma 2°, l’art. 452 e l’art. 527, comma 2° (prima della recente depenalizzazione), configurano reati colposi, sicché la descrizione per rinvio alla corrispondente ipotesi dolosa non contrasta con la configurazione di una fattispecie autonoma di reato solo per la ragione che il modulo descrittivo adoperato, se da una parte richiama il fatto tipico del reato doloso, dall’altra introduce anche una variazione nell’elemento soggettivo, che è essenziale nella struttura del reato medesimo, trasformandolo da doloso a colposo.
In altri termini, è proprio la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640-bis, definita da un lato attraverso il richiamo degli elementi essenziali del delitto di truffa di cui all’art. 640 (artifici o raggiri, induzione in errore con conseguente disposizione patrimoniale, ingiusto profitto per l’agente o per altri, danno del soggetto passivo) e dall’altro con l’introduzione di un elemento specifico (erogazioni pubbliche) che è estraneo alla struttura essenziale della truffa, a denotare la inequivoca volontà legislativa di configurare una circostanza aggravante e non un diverso titolo di reato.
La descrizione della fattispecie, insomma, non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale — laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo.
Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali.
Per completezza, si deve rilevare come la specialità che caratterizza la fattispecie dell’art. 640-bis rispetto alla truffa semplice di cui all’art. 640 sia in realtà duplice, giacché riguarda sia l’oggetto materiale della condotta dell’agente e della disposizione patrimoniale del soggetto passivo (sovvenzioni ed erogazioni) sia la natura pubblica del soggetto passivo medesimo (Stato, Comunità europea, altri enti pubblici); mentre in rapporto alla fattispecie di truffa aggravata contro lo Stato o altri enti pubblici, di cui all’art. 640 C.p.v n. 1, quella specialità si riduca solo all’oggetto materiale, posto che i soggetti passivi appartengono nei due casi alla stessa categoria pubblicistica (gli istituti comunitari sono considerati pacificamente di diritto pubblico: cfr. per tutte Cassazione sezioni unite Panigoni, succitata, RV 203971).
A questo proposito va quindi rilevato che, una volta qualificata la fattispecie de qua come circostanza aggravante, la sua applicazione dà luogo a un concorso di circostanze aggravanti, disciplinato dall’art. 68 C.p., con l’assorbimento della circostanza generale dell’art. 640 C.p.v n. 1 nella circostanza speciale di cui all’art. 640-bis (è la circostanza c.d. complessa, che l’art. 68 disciplina facendo espressamente salva l’applicabilità del principio di specialità di cui all’art. 15 preleggi).
10 – Per le considerazioni sopra svolte, restando immutata la struttura essenziale del reato, non cambia neppure il bene giuridico tutelato, che è sempre il patrimonio del soggetto passivo.
L’unica particolarità è data dal fatto che nella truffa aggravata di cui all’art. 640-bis, come del resto in quella aggravata di cui all’art. 640 C.p. numero 1, a essere offeso è il patrimonio di un ente pubblico.
Vero è che si possono ipotizzare casi di truffa aggravata contro enti pubblici in cui è difficile ravvisare quella effettiva deminutio patrimoni tradizionalmente ritenuta essenziale per integrare la truffa.
Quanto lo Stato o la unione europea stanzia in bilancio fondi da destinare a finanziamenti per aiutare – ad esempio – imprese aventi particolari requisiti, l’illecita captazione del finanziamento ad altre imprese in possesso dei requisiti di legge, ma non quello di provocare uscite di bilancio superiori a quelle stanziate dall’ente erogatore.
Per tali casi tuttavia la dottrina ha opportunamente precisato che la nozione di patrimonio deve essere intesa in senso dinamico o funzionale, come corretta allocazione delle risorse pubbliche, sicché il danno patrimoniale subito dall’ente pubblico si atteggia come sviamento dal vincolo di destinazione delle risorse.
Ne deriva che anche negli esempi indicati la truffa aggravata causa un danno patrimoniale all’ente erogatore.
Del resto, se si volesse sostenere che nella truffa aggravata di cui all’art. 640-bis interviene un mutamento del bene giuridico tutelato, posto che la tutela penale si sposterebbe dal patrimonio alla funzione pubblica amministrativa (nonostante la collocazione del reato sotto i delitti contro il patrimonio), per dedurne così che la fattispecie debba qualificarsi come reato autonomo anziché come circostanza aggravante, si dovrebbe escludere la qualifica circostanziale anche per la fattispecie di cui all’art. 640 cpv. numero 1.
Ma nessuna pronuncia giurisprudenziale e quasi nessun autore arriva a tale conclusione.
11. In realtà, la tesi che opta per la qualificazione della fattispecie come autonomo titolo di reato sottende spesso, in modo più o meno esplicito, la preoccupazione di non indebolire la repressione e la prevenzione di un fenomeno criminale – spesso organizzato – quale quello della truffa per il conseguimento di erogazione pubbliche, specialmente comunitarie, giacché la prevenzione e repressione di un simile fenomeno sarebbe inevitabilmente pregiudicata dalla frequente propensione dei giudici di considerare prevalenti o equivalenti pur gracili attenuanti a fronte di circostanze aggravanti anche di maggior peso.
Ma questa pur apprezzabile ragione di politica criminale non può essere perseguita a costo di manipolazione esegetiche, che finiscono per tradire la oggettiva volontà della legge.
A questo riguardo si può ragionevolmente ritenere che il legislatore nazionale non abbia rigorosamente adempiuto agli obblighi che gli derivano dall’appartenenza alla Unione europea.
Come già accennato, a norma dell’art. 280 del Trattato di Roma (come modificato dall’art. 209 A del Trattato di Amsterdam), gli Stati membri devono combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari della Comunità adottando misure che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace degli Stati membri (primo comma). Inoltre, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari della Comunità, devono adottare le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari (secondo comma).
Atteso che da tale norma derivano per gli Stati membri due principi vincolanti per la disciplina delle frodi comunitarie, il principio di dissuasione efficace e il principio di assimilazione, si può anche concludere – con una valutazione non priva di fondamento – che il legislatore italiano ha sicuramente rispettato il principio di assimilazione (considerata la parità di trattamento delle truffe per erogazioni comunitarie e per erogazioni statali) ma ha lasciato molto a desiderare verso il principio di dissuasione efficace (considerata la possibilità di controbilanciare l’aggravamento sanzionatorio).
Ma, ancora una volta, il principio comunitario non può diventare criterio di interpretazione della legge nazionale, al punto da capovolgerne il chiaro dettato normativo in base a una supposta e opinabile violazione del principio stesso.
Una cosa è la voluntas legis nell’ordinamento nazionale, quale si desume da una corretta esegesi, altra cosa è la valutazione degli obblighi comunitari. Superfluo aggiungere che manca qualsiasi presupposto per il ricorso alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato di Roma (già art. 177), non trattandosi di interpretazione di norme comunitarie.
12. In conclusione, la questione sottoposta a queste sezioni unite va risolta nel senso che l’art. 640-bis C.p. configura una circostanza aggravante del reato di truffa di cui all’art. 640 C.p..
Per conseguenza il ricorso del procuratore distrettuale di Firenze va rigettato.
13. Usura: momento consumativo e concorso di persone
Cass. II 13 ottobre 2005, p.m. in proc. Casadei
in sintesi
Poiché, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 7 marzo 1996 n. 108, si deve ritenere che il reato di usura sia annoverabile tra i delitti a “condotta frazionata” o a “consumazione prolungata”, concorre nel reato previsto dall’art. 644 c.p. solo colui il quale, ricevuto l’incarico di recuperare il credito usurario, sia riuscito a ottenerne il pagamento; negli altri casi, l’incaricato risponde del reato di favoreggiamento personale o, nell’ipotesi di violenza o minaccia nei confronti del debitore, di estorsione, posto che il momento consumativo del reato di usura rimane quello originario della pattuizione.
Motivi della decisione
Con ordinanza del 18 maggio 2005, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli dispose la custodia cautelare in carcere di CASADEI Luigi, CAVONE Ciro, LISTA Giuseppe e FERRARA Ciro, indagati per i reati di usura, tentata estorsione aggravata e lesioni volontarie.
Avverso tale provvedimento gli indagati proposero istanza di riesame, e il tribunale di Napoli, con ordinanza del 1 giugno 2005, in parziale accoglimento del gravame annullò l’ordinanza cautelare in relazione al delitto di usura nei confronti dei primi tre indagati, confermando nel resto e mantenendo ferma la custodia preventiva per tutti.
Ricorre per Cassazione il Pubblico Ministero deducendo contraddittorietà e illogicità della motivazione nonché erronea applicazione e violazione dell’art. 644 C.P. o, in alternativa, dell’art. 379 c.p..
Il ricorrente sostiene che gli indagati CASADEI, CAVONE e LISTA sarebbero intervenuti per il recupero del credito non come meri “esattori camorristi”, ma come “nuovi creditori”, avendo acquistato dall’originario usuraio parte del credito; così che risponderebbero del reato di usura. Secondo il ricorrente, poi, ove non si ritenesse raggiunta la prova della cessione del credito, gli indagati dovrebbero comunque rispondere anche del delitto di favoreggiamento reale giacché, con il loro comportamento, avrebbero aiutato l’originario usuraio a conseguire il profitto del delitto punito dall’art. 644 C.P.. Il ricorso è da respingere per le ragioni che saranno tra breve chiarite, ma pone una serie di interessanti problemi giuridici. Il fatto è stato ricostruito dai giudici del Tribunale di Napoli nel modo seguente: FERRARA Ciro, approfittando dello stato di bisogno di PETTA Umberto, si era fatto promettere in corrispettivo di una prestazione di denaro interessi usurari e aveva, in epoca successiva, incaricato il CASADEI, il CAVONE e il LISTA di recuperare il credito; questi ultimi – ben consci della natura usuraria del credito in questione – avevano tentato, con violenza e minacce e addirittura cagionando lesioni al debitore, di ottenerne il pagamento, senza però riuscirvi per la denuncia presentata dalla persona offesa agli organi di polizia.
Così che per i giudici del riesame l’ordinanza impugnata andava integralmente confermata nei confronti del FERRARA, mentre andava annullata nei confronti degli altri tre indagati solo in relazione al delitto di usura, trattandosi di “reato istantaneo con effetti permanenti” e quindi attribuibile esclusivamente al FERRARA, che aveva stipulato il patto usurario con il PETTA.
Quanto sopra premesso, si osserva anzitutto che il ricorso del Pubblico Ministero non può trovare accoglimento nella parte in cui afferma che il CASADEI, il CAVONE e il LISTA sarebbero “nuovi creditori” e non “meri esattori camorristi”, atteso che la censura propone una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito.
Tuttavia, resta il problema se l’attività estorsiva svolta dai suddetti indagati e volta a ottenere il pagamento del credito e degli interessi usurari da parte del debitore integri il delitto di usura ovvero quello di favoreggiamento reale, prospettato in alternativa dal Pubblico Ministero ricorrente.
natura giuridica del delitto di usura
Per risolvere tale problema è necessario partire dalla natura giuridica del delitto di usura, che i giudici del riesame definiscono “reato istantaneo ad effetti permanenti”, rifacendosi a quell’orientamento giurisprudenziale e dottrinario risalente ai primi anni del codice Rocco, secondo cui i pagamenti successivi alla pattuizione di interessi usurari costituivano post facta non punibili, in quanto semplici effetti di un reato istantaneo consumatosi già con la pattuizione (cfr. Cass. II, 27 febbraio 1935, Belfiore, in Ann. dir. proc. pen., 1936, 805; Cass. II, 23 dicembre 1935, Asteriti, in Ann. dir. proc. pen., 1936, 732).
Per il vero, tale qualificazione è stata anche successivamente e per lungo tempo adottata dalla giurisprudenza prevalente (cfr. tra le più recenti sentenze: Cass. II, 25 ottobre 1984, Perna, RV 167798, in Riv. pen. 1985, 1040; Cass. II, 18 febbraio 1988, Mascioli, RV 178350, in Riv. pen. econ., 1991, 25; Cass. II, 24 aprile 1990, Di Rocco, RV 186750, in Riv. pen., 1991, 817); ma come tra breve si vedrà, essa non è più attuale ed è stata superata da più recenti decisioni, oltre che ripudiata dalla quasi generalità della dottrina.
L’occasione per il mutamento di indirizzo è stata offerta dalla riforma del reato di usura del 1996, che ha introdotto una speciale regola in tema di decorrenza della prescrizione, l’art. 644-ter c.p., il quale stabilisce che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”.
Tale statuizione, infatti, non è allineata con l’orientamento che attribuiva all’usura la natura di reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, e rappresenta – ad avviso di questo Collegio – un segnale forte di superamento di quella visione del delitto tutta incentrata sul momento della pattuizione.
Così che, anche questa Corte, in una recente decisione ha affermato che “in tema di usura, qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata. (Principio enunciato con riferimento a una fattispecie relativa all’incasso degli interessi usurari da parte di soggetti diversi da quelli partecipanti alla stipula del patto, dei quali la Suprema corte ha ritenuto la responsabilità a titolo di concorso nel reato)” (Cass. I, 19 ottobre 1998, D’Agata e altri, RV 211610).
Aderendo allo schema giuridico dell’usura intesa appunto quale delitto a consumazione prolungata o – come sostiene autorevole dottrina – a condotta frazionata, ne deriva che effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto.
Tuttavia, ad avviso di questo Collegio, ben diversa è la situazione nell’ipotesi che colui il quale ha ricevuto l’incarico da parte dell’usuraio di recuperare il credito non riesca a ottenerne il pagamento.
In tal caso, infatti, il momento consumativo del reato di usura resta quello originario della pattuizione, anteriore alla data dell’incarico: e dunque a tale delitto non può concorrere il “mero esattore” scelto in epoca successiva.
Né può parlarsi di tentata usura, con riferimento alla condotta volta a ottenere il pagamento del credito, considerata la natura unitaria del reato punito dall’art. 644 c.p., di cui si è fatto cenno, la quale preclude in ogni caso che al suo autore possano essere contestati a titolo di episodi autonomi di usura i singoli pagamenti del credito.
Per le ragioni su esposte, la soluzione adottata dai giudici del riesame – anche se non è più attuale il principio secondo cui l’usura è un reato istantaneo con effetti permanenti – appare nella sostanza corretta.
Si osserva, infine, con riferimento all’ipotesi alternativa prospettata dal pubblico ministero ricorrente, che l’azione posta in essere da coloro che aiutano il creditore a recuperare un credito usurario realizza gli estremi del delitto di favoreggiamento solo se soggetto agente non usa violenza o minaccia nei confronti del debitore; se invece – come nella fattispecie – viene posta in essere anche una violenza o minaccia, il reato attribuibile all’agente è quello di estorsione, nel caso concreto correttamente contestata a tutti gli indagati, ivi compresa la persona accusata di usura.
Ciò posto, si osserva che la contestazione del delitto di estorsione esclude che possa venire attribuito agli agenti anche il delitto punito dall’art. 379 c.p..
Quest’ultimo ha, infatti, come presupposto negativo la mancata compartecipazione del suo autore nel precedente reato, stabilendo la norma del codice penale da ultimo menzionata che risponde di favoreggiamento reale “chiunque fuori dei casi di concorso nel reato … aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato”.
Ebbene, nella fattispecie, i due delitti attribuiti a FERRARA Ciro, l’usura e l’estorsione, tendono entrambi a conseguire un profitto, che è poi quello di ottenere il pagamento del credito e degli interessi usurari; e gli indagati, CASADEI Luigi, CAVONE Ciro e LISTA Giuseppe, concorrono nell’estorsione, e cioè in uno dei due reati volto a fare conseguire all’altro autore proprio quel vantaggio;
così che è ad essi applicabile la causa di esclusione del delitto di favoreggiamento, essendo a tal fine del tutto indifferente a quale dei due reati presupposto essi abbiano partecipato.
(omissis)
14. Appropriazione indebita: concessione di fido bancario abusivo o irregolare come arbitraria attribuzione di beni della banca a favore di terzi, quindi atto di disposizione “uti dominus”
Cass. S.U. 28 febbraio 1989, Vita
…
A seguito di istruzione formale, VITA Giuseppe, CARBONE Lidia, FAZZARI Salvatore e ALLEGRI Giulio venivano tratti dinanzi al Tribunale di Palmi per rispondere del reato di truffa continuata, aggravata ai sensi dell’art. 61 n/ri e 11, per avere, in concorso tra loro, indotto errore i funzionari della Banca cooperativa Palmi servendosi dell’azione artificiosa dell’ALLEGRI, che, nella qualità di direttore della Barca predetta, vistava gli assegni emessi e girati dagli altri imputati, consentendo che venissero accreditati a più riprese, sul conto del VITA, assegni privi di copertura, con un danno per la Banca per lire 1.280.900.000=, e relativo ingiusto profitto degli imputati.
All’udienza fissata per il dibattimento, a richiesta del P.M., veniva contestato agli imputati anche il reato di cui agli artt. 110 e 315 c.p. per aver l’ALLEGRI, nella sua indicata qualità, in concorso con gli altri tre, distratto a favore del VITA la somma predetta di cui aveva la disponibilità per ragioni del suo servizio.
All’esito del dibattimento, il Tribunale con sentenza dell’11 maggio 1987, assolveva tutti gli imputati dal reato di truffa perché il fatto non sussiste, dichiarandoli invece responsabili del reato di malversazione sul presupposto che, all’epoca dei fatti, l’ALLEGRI rivestiva la qualifica di incaricato di pubblico servizio, condannandoli a pene varie, e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Avverso tale sentenza producevano impugnazione tutti e quattro gli imputati e la Corte di appello – sezione di Reggio Calabria con sentenza del 25 maggio 1988, in adesione alla decisione di queste Sezioni unite del 23 maggio 1987 e non ravvisando quindi nell’ALLEGRI la qualifica di incaricato di pubblico servizio, assolveva gli appellanti dal reato di malversazione perché il fatto non costituisce reato.
(omissis)
La trattazione del ricorso, originariamente assegnato alla VI sezione penale, è stata dal Primo Presidente rimessa alle Sezioni Unite in considerazione del contrasto giurisprudenziale sorto in ordine alla attribuibilità delle qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ai dipendenti delle imprese bancarie.
Motivi della decisione
1. Questa Corte, riunita a Sezioni Unite, è chiamata ancora una volta a decidere la questione della natura, pubblica o privata, dell’attività di raccolta del risparmio e del credito ordinario, con la conseguente applicabilità o meno dello statuto penale della pubblica amministrazione ai soggetti che esercitano la detta attività.
(omissis)
Va premesso che gli orientamenti di questa Suprema Corte sul problema della qualifica dell’attività bancaria ordinaria (e, quindi, degli operatori del settore) si sono snodati attraverso un iter interpretativo in relazione al quale, possono fissarsi, a grandi linee, tre distinte fasi.
In un primo tempo, infatti, un consolidato indirizzo giurisprudenziale aveva riconosciuto agli operatori di credito di diritto pubblico la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, distinguendo sulla base delle funzioni svolte.
Oscillante era, invece, la giurisprudenza di questa Corte nel qualificare gli operatori delle banche private talvolta attribuendo, tal’altra negando carattere pubblico all’attività bancaria.
Tale differente qualificazione aveva sollevato critiche da parte della dottrina, la quale aveva avvertito, in sostanza, che una simile disparità di trattamento tra soggetti che svolgevano identica attività avrebbe potuto generare conseguenze negative sul terreno della libera concorrenza nell’ambito di un settore caratterizzato, anche in sede internazionale, da particolari esigenze di imprenditorialità ed efficienza.
Interveniva, allora, la sentenza di queste Sezioni Unite del 10 ottobre 1981 in procedimento Carfì, la quale statuiva che l’attività volta alla raccolta del risparmio e all’esercizio del credito doveva ritenersi contrassegnata da un interesse pubblico immanente, in virtù del quale essa era inserita in un’organizzazione unitaria del relativo settore economico, costituita, regolata, diretta e controllata da pubblici poteri anche per la realizzazione di pubbliche finalità.
Come tale, essa veniva ad acquistare, indipendentemente dalla soggettività dell’impresa, la qualità di servizio pubblico in senso oggettivo, la cui prestazione ad opera istituti di credito privati determinava negli agenti la qualifica di incaricati di pubblico servizio.
Conseguentemente, nei casi di commissione da parte degli operatori bancari di appropriazione o distrazione a profitto proprio o di altri, i predetti rispondevano dei reati di peculato o di malversazione a seconda dell’appartenenza del denaro o altra cosa mobile a banca pubblica o a banca privata.
Il 13 ottobre 1985 entrava in vigore il D.P.R. 27 giugno 1985 n. 350, che, in applicazione della legge delega 5 marzo 1985 n. 74, dava attuazione alla direttiva del Consiglio della Comunità Europea n. 780 del 12 dicembre 1977, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio.
Dopo tale adeguamento del legislatore nazionale alla direttiva comunitaria, le Sezioni Unite penali di questa Corte riconsideravano la questione e, con sentenza del 23 maggio 1987 in procedimento Tuzet, affermavano che l’ordinaria attività bancaria, indipendentemente dalla soggettività dell’ente che la esercita, deve ritenersi di natura privata e che tale attività rimane, quindi, al di fuori dell’ambito dell’art. 358 n. 2 c.p..
Precisavano che lo statuto penale della pubblica amministrazione trova applicazione con riguardo all’attività degli enti creditizi pubblici che esula dalla gestione economica, a quella collaterale che gli enti creditizi, pubblici e privati, esplicano in campo monetario, valutario, fiscale e finanziario nella veste di banche agenti o delegate nonché all’attività connessa con i crediti di scopo legale.
Concludevano che, in considerazione del carattere privato dell’ordinaria attività bancaria e della divergenza del concetto di appropriazione da quello di distrazione, nel caso in cui la distrazione venga commessa da un operatore bancario nell’ambito della detta attività, il fatto non realizza l’ipotesi dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p..
(omissis)
Valutate le opposte argomentazioni, non ritengono queste Sezioni Unite di doversi discostare sostanzialmente dalla soluzione adottata con la sentenza 23 maggio 1987, Tuzet.
(omissis)
Le considerazioni svolte non possono dunque portare ad altro risultato che non sia quello del riconoscimento della natura privatistica della attività bancaria di raccolta del risparmio e della ordinaria erogazione del credito: conclusione avvalorata anche dalla constatazione dell’esistenza di enti non bancari che professionalmente esercitano un’attività analoga (art. 1 p.p. della direttiva 77/780), ma rispetto ai quali una opzione pubblicistica non risulta essere stata mai ipotizzata.
E non sarà fuori di luogo segnalare che, ove si concludesse per il riconoscimento del pubblico servizio nell’attività bancaria, gli operatori in Italia di istituti esteri, che nel loro Paese svolgono le loro funzioni in regime di privata concorrenza, si vedrebbero automaticamente assoggettati al più severo regime penale.
Né in senso contrario può invocarsi la decisione della Corte di giustizia del 7 aprile 1987 in risposta al quesito proposto dalla corte di appello di Venezia, assumendola come interpretazione autentica della direttiva 77/780 in relazione alla compatibilità con la qualifica di pubblico servizio degli operatori in Italia, poiché ad essa non può in effetti attribuirsi più di quanto essa non esprima: un atteggiamento puramente neutrale rispetto al problema, essendo la Comunità appagata dalla introduzione di un’autorizzazione vincolata a criteri oggettivi per la costituzione di nuove aziende di credito.
Le ragioni che hanno indotto queste Sezioni unite nel 1987 ad escludere il carattere di servizio pubblico nell’attività bancaria sono stante anche condivise sia dalla giurisprudenza civile di questa Corte (Cass. 10 gennaio l986, n. 62), sia dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato IV, 14 settembre 1988, n. 741), e nello stesso ordine di idee si è collocata la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 309 del 1988, ha condiviso non so le conclusioni ma anche esplicitamente la motivazione della sentenza Tuzet, affermando che “il commercio del denaro, sia esso esercitato da istituti bancari di diritto pubblico o privato, è attività concorrenziale di impresa privata, e, come tale, esclude l’applicabilità delle norme penali previste dal Capo I del Titolo II del codice penale, perché gli impiegati degli enti creditizi pubblici, quando esercitano detta attività, non esercitano una pubblica funzione amministrativa”.
A questa sentenza hanno fatto seguito altre due decisioni della Corte Costituzionale, la n. 330 e n. 419 del 1988, di non diverso contenuto.
(omissis)
Tale conclusione porta alla conseguenza, dell’impossibilità di applicare all’attività bancaria ordinaria la norma di cui all’art. 358 c.p.; e quindi di quelle imputazioni configuranti reati di cui possono essere autori solo coloro che rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio.
La dottrina penalistica ha infatti da tempo abbandonato il criterio formale soggettivo di individuazione del pubblico servizio, mediante il quale, utilizzando un dato esterno alla dimensione funzionale dei soggetti coinvolti, si finiva col determinare una inammissibile discriminazione tra dipendenti delle banche, a seconda della natura pubblica o privata dell’ente creditizio di appartenenza.
L’aver riguardo alla natura dell’attività svolta è criterio in fondo già suggerito nella stessa relazione al progetto del codice penale (vol. II, pag. 118), in cui si affermava, in relazione alle nozioni degli artt. 357, e segg., il deliberato proposito di non distinguere, non potendo esse avere un significato diverso da quello fornito dalla cultura giuspubblicistica.
Ma, essendo i compilatori del codice consapevoli delle difficoltà di rinvenire identificazioni precise nel diritto pubblico, per sua natura alieno da intenti definitori, rimaneva e tuttora rimane a carico dell’interprete ricercare nel complesso della disciplina amministrativa delle singole situazioni, elementi univoci nell’una o nell’altra direzione, privilegiando peraltro nel dubbio la soluzione più favorevole all’imputato.
La direttiva, la legge di delega, il decreto di attuazione, la normazione amministrativa hanno reso inequivoca la qualificazione in senso privatistico della ordinaria attività bancaria, pur nella perdurante constatazione che i disegni di legge diretti alla definitiva esplicitazione di tale carattere non sono stati ancora approvati (esemplare è la vicenda che riguarda il disegno di legge n. 387, presentato al Senato già nel dicembre 1983 e messo in disparte propri in occasione della discussione della legge di delega).
Che tuttavia la tendenza legislativa sia in questa direzione è comprovato da un ultimo dato, per il quale non occorre alcuna operazione tecnica di rinvio.
L’art. 4 della legge 17 aprile 1986 n. 114 ha previsto l’autonoma figura del reato di false comunicazioni, di cui possono essere autori solo coloro cui è conferito, a vario titolo l’amministrazione di enti creditizi. Il fatto configurato, se non vi fosse questa previsione legislativa, rivestirebbe i caratteri di un falso ideologico (peraltro non configurabile in scrittura privata), tanto più che la pena prevista non è molto dissimile da quella dell’art. 479 c.p..
L’autonoma previsione dimostra l’intento legislativo di avviare una disciplina anche penalistica del settore bancario distinta da quella tradizionale codicistica di riferimento, in armonia con le istanze della dottrina penale commercialistica, che propone la creazione di figure di reato più calate nella esperienza del settore in via di sviluppo.
Non può inoltre essere dimenticato che la legge n. 114 è stata emanata in attuazione della direttiva comunitaria 83/350 e che la previsione dell’art. 4 appare, come si è avuto già occasione di ricordare, in perfetta consonanza n l’art. 5 della legge n. 216/74, che configura analogo reato per gli amministratori delle società quotate in borsa, ad ulteriore dimostrazione della tendenza legislativa a realizzare anche nel nostro Paese quel modello imprenditoriale dell’attività bancaria che è ormai diffusamente acquisito nella comunità europea.
Al termine di questa indagine va, pertanto, ribadita la conclusione cui era già pervenuta la sentenza Tuzet, vale a dire che l’ordinaria attività bancaria, indipendentemente dall’ente che la esercita, è un’attività di natura privata e, conseguentemente, agli operatori bancari, quando esplicano la normale attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, non sono riferibili le qualificazioni soggettive di cui agli artt. 357 e 358 c.p.
(omissis)
configurabilità del reato di appropriazione indebita in una concessione di credito abusivo o irregolare
In relazione all’ultimo motivo di ricorso, va affrontata infine la questione relativa alla configurabilità del reato di appropriazione indebita nei fatti in esame, questione non esaminata dalla Corte di merito.
Il che è quanto dire se possa ravvisarsi in un’impropria concessione di credito abusivo o irregolare tale specie di illecito.
Le due problematiche vanno esaminate congiuntamente.
Va rilevato che è indubitabile che nell’ambito delle condotte descritte negli artt. 314 e 315 c.p. quella distrattiva debba tenersi distinta da quella appropriativa.
Non vi è cioè alcuna difficoltà ad ammettere che, ai sensi delle suindicate disposizioni, la condotta di “appropriazione” consiste nell’esercizio sulla cosa di atti di dominio, incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso, mentre quella di “distrazione” si concreta nel dare alla cosa una destinazione diversa da quella cui era originariamente destinata.
In sostanza la distrazione sta nella divergenza tra la destinazione prestabilita e quella in concreto attuata, senza alcun comportamento “uti dominus”.
Merita, invece, attenta riconsiderazione l’enunciato secondo il quale la concessione abusiva o irregolare di fido integra in ogni caso una distrazione e che, pertanto, quando venga commessa da un dipendente bancario che non rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, il fatto non realizza l’ipotesi dell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p..
Si impone, a questo punto, una osservazione preliminare.
La qualificazione dell’ordinaria attività creditizia come attività di diritto privato e, quindi, l’esclusione per essa delle ipotesi di reato di cui agli artt. 314 e 315 c.p. non significa che la detta attività sia rimasta priva di sanzione penale.
In particolare, dal riconosciuto schema privatistico della gestione del credito ordinario non discende la irrilevanza penale dei comportamento dei dipendenti bancari, i quali, in violazione di specifiche norme penali poste a tutela del patrimonio, abbiano operato con mezzi fraudolenti oppure in collusione coi terzi.
A prescindere dalla considerazione che una impunità per siffatte modalità di gestione bancaria sarebbe in contrasto con le fondamentali esigenze di protezione dei beni giuridici, riferibili non solo al pubblico dei consumatori del credito, ma anche agli stessi istituti bancari, va comunque rilevato che nell’opinare in tale ottica non è ravvisabile alcun fenomeno di supplenza giurisprudenziale.
Si tratta soltanto di una doverosa applicazione di norme penali già presenti nel sistema e immediatamente utilizzabili; applicazione che consegue alla diversa qualificazione dei fatti, derivante dal venir meno del presupposto della qualità pubblicistica e dalla conseguente inapplicabilità del delitto contro la pubblica amministrazione.
Orbene, già in epoca precedente alla sentenza delle Sezioni unite in data 23/5/1987, più volte le sezioni semplici avevano avuto occasione di affermare che il reato di appropriazione indebita può sussistere sia nel caso in cui l’agente abbia dato alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni del suo possesso, sia nel caso in cui abbia omesso deliberatamente di restituire la cosa, giacché in entrambe le ipotesi è manifestata la sua volontà di affermare un dominio sulla cosa stessa (v., tra le altre, Cass. 11/3/1975, Semeraro; Cass. 1/2/1983, Rappollo; Cass. 19/2/1985, Amato).
Era stato altresì ritenuto (cfr. tra le altre, Cass. 25/10/1972, Girelli e Cass. 16/4/1985, Fugaroli) che, allorquando il possesso del denaro importi l’impiego dello stesso per un determinato uso, tale possesso non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili col diritto del proprietario e che ove ciò avvenga, l’agente commette il delitto di appropriazione indebita.
Trasferendo tali concetti al caso che ne occupa, si delinea, con sufficiente chiarezza, la configurabilità del reato di appropriazione indebita nel caso in cui il dipendente dell’istituto bancario abbia concesso di fatto un fido al cliente, violando, in collusione con lo stesso, le norme sugli affidamenti stabilite dagli istituti, in modo da realizzare sostanzialmente un’arbitraria disposizione di beni della banca a profitto di terzi.
Se, infatti, l’appropriazione di concreta anche col dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, ne consegue che, allorquando il dipendente dell’istituto di credito, nel concedere il fido al cliente, travalichi i limiti fissati dalle norme o dalle direttive che regolano gli affidamenti; egli pone in essere una condotta che rientra nella previsione dell’art. 646 c.p..
Ed invero, sotto il profilo oggettivo, il dipendente bancario, realizzando un’arbitraria attribuzione di beni della banca a favore di terzi, compie un atto di disposizione “uti dominus”, si comporta cioè come se la cosa fosse propria.
Qualora, poi, ciò avvenga in collusione con il cliente abusivamente favorito ed al fine di procurargli un ingiusto profitto, si realizza anche l’estremo soggettivo del reato di cui all’art. 646 c.p., che consiste appunto nella volontà di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa un ingiusto profitto per sé o per altri.
Così, concorrendo l’indispensabile elemento soggettivo, si rende configurabile la fattispecie criminosa dell’art. 646 c.p. nei casi in cui il dipendente della banca abbia compiuto un atto di disposizione a favore del cliente, assumendo arbitrariamente i poteri dell’organo di amministrazione competente ad autorizzare il superamento dei limiti del fido o della provvista del conto corrente di corrispondenza.
In tali casi di abuso nella gestione del credito, il dipendente bancario non si limita, infatti, a rivolgere la cosa ad un fine diverso da quello cui era destinata, strumentalizzando il possesso a profitto del terzo, esercita sulla cosa poteri di dominio incompatibili col titolo da cui il possesso medesimo trae giustificazione.
E ciò – anche se il discorso è qui chiuso dalla relativa pronuncia assolutoria – senza pregiudizio della configurabilità del delitto di truffa ogni qual volta, attraverso un comportamento fraudolento, il soggetto attivo abbia comunque procurato a sè o ad altri, un ingiusto profitto, inducendo il soggetto passivo a compiere un atto di disposizione patrimoniale, con conseguente danno.
L’induzione in errore e la disposizione patrimoniale vanno individuati nell’ambito bancario con riferimento agli organi dell’istituto, di diverso livello, che siano rimasti vittime del meccanismo fraudolento.
Poiché, come sopra si è detto, la condotta del reato di appropriazione indebita deve ritenersi integrata allorquando il dipendente bancario travalichi i limiti fissati dalle norme o dalle direttive in materia di affidamenti, devesi stabilire se, mediante il comportamento sopra delineato, gli imputati abbiano in concreto oltrepassato i limiti suddetti, cioè i limiti entro i quali il possesso del denaro trova giustificazione, ponendo in essere un atto di gestione del denaro “uti dominus”.
Trattasi però di un accertamento sostanzialmente di fatto che non può che essere rimesso al giudice di merito, il quale dovrà anche portare il suo esame sulla sussistenza dell’elemento soggettivo nei sensi in precedenza esposti.
Ritenuta possibile pertanto, la configurabilità nel fatto di cui è procedimento della ipotesi di reato di cui agli artt. 110, 646, 61 nn. 7 e 11 c.p., l’impugnata sentenza va sul punto annullata, con rinvio ad altro giudice, che si designa nella Corte di appello di Catanzaro, per la nuova deliberazione.
(omissis)
15. Appropriazione indebita: il possesso di cosa altrui
Cass. S.U. 27 ottobre 2004, Li Calzi
in sintesi
Il mancato versamento alla Cassa Edile delle somme “trattenute” dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente per ferie, gratifica natalizia e festività non integra il reato di appropriazione indebita, bensì solo l’illecito amministrativo previsto dall’art. 13 d.lgs. 19.12.1994, n. 758
…
1.1. Con sentenza del 7 maggio 2002 la corte d’appello di CALTANISSETTA, accogliendo l’appello proposto dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di NICOSIA, dichiarava LI CALZI Antonino responsabile del delitto di cui agli artt. 81, 646, 61 n. 11, c.p. “perché in più occasioni ometteva di versare somme che egli, quale imprenditore edile, aveva trattenuto sugli stipendi dei lavoratori dipendenti per versarle alla Cassa Edile per ferie gratifica natalizia e contributi” fino al giugno 1997 e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia.
Contro la sentenza il LI CALZI, per mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione, denunziando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1 e 8 legge 14 luglio 1959, n. 741, 646 c.p., 2 legge 12 settembre 1983, n. 463.
(omissis)
1.2. La seconda Sezione, alla quale il ricorso è stato assegnato per competenza interna, ha rimesso con ordinanza del 20 maggio 2004 la decisione alle Sezioni Unite, osservando che nella giurisprudenza di questa Corte sussiste un sostanziale contrasto in ordine alla determinazione del concetto di “altruità” delle somme o delle cose oggetto del delitto di appropriazione indebita con specifico riferimento alle somme “trattenute dal datore di lavoro e destinate a terzi a vario titolo”.
Infatti, mentre nel caso delle trattenute effettuate per fini previdenziali è stata ritenuta la sussistenza del reato in esame, la ricorrenza del medesimo è stata esclusa per le trattenute effettuate per conto del fisco, pur non presentando i due prelievi rilevanti differenze.
Aggiunge la sezione rimettente che, pur avendo il diritto penale caratteristiche proprie, il concetto di “altruità” non può essere definito senza tenere conto almeno dei principi generali del diritto civile, in considerazione della “unicità” dell’ordinamento.
Infine, qualora fosse ritenuta l’esistenza del reato di appropriazione indebita, sarebbe necessario verificare i rapporti intercorrenti tra questo e le autonome figure criminose previste dall’art. 2, comma 1 e 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463 e dagli artt. 1 e 8 legge 14 luglio 1959, n. 741.
Il Primo Presidente, con apposito decreto, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Considerato in diritto
2.1. La questione giuridica controversa che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere è la seguente:
“Se integra il reato di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p. il mancato versamento delle somme “trattenute” dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e da destinare alla Cassa Edile per ferie, gratifiche natalizie, festività, ovvero tale condotta integri soltanto l’illecito amministrativo previsto dagli artt. 1 e 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741 e dall’art. 13 del d.lg. 19 dicembre 1994, n. 758”.
Natura e modalità delle “trattenute” effettuate dal datore di lavoro
Per la soluzione delle questione è necessario esaminare previamente la natura e le modalità delle “trattenute” effettuate dal datore di lavoro nel caso di specie, approfondimento tanto più necessario in considerazione della coesistenza, in ipotesi, di più disposizioni incriminatrici applicabili.
Con la legge 14 luglio 1959, n. 741 il legislatore, al fine di dare esecuzione all’art. 38 della Costituzione, delegava il Governo “ad emanare norme giuridiche aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria”.
In esecuzione della delega, il Governo ha recepito, con decreti presidenziali, nel corso degli anni gli accordi economici ed i contratti nazionali collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Tra questi, per il caso che ne occupa, debbono essere presi in esame i C.C.N.L. “per gli addetti delle piccole e medie industrie edilizie ed affini”, che, con disposizione risalente e sostanzialmente immutata, hanno previsto che al fine di assicurare “il trattamento spettante agli operai per le ferie e per la gratifica natalizia” e festività infrasettimanali l’impresa è tenuta ad “accantonare”, mediante versamento alla Cassa Edile (od ad altro istituto di credito che la riversi alla Cassa Edile – ciò a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni originarie: cfr. C. cost. 7 novembre 1994, n. 258 -) la somma corrispondente ad una percentuale complessiva, calcolata su determinati “elementi” della retribuzione, onde consentire la successiva corresponsione da parte delle Casse Edili (di solito costituite in ogni provincia) delle somme spettanti a ciascun lavoratore per ferie, gratifica natalizia e festività infrasettimanali “alle scadenze e secondo le modalità … stabilite dagli accordi locali”; ed altresì che, con il versamento della percentuale alle Casse Edili “s’intendono integralmente assolti gli obblighi a carico del datore di lavoro” per i trattamenti economici cui i versamenti si riferiscono.
2.2. La giurisprudenza civile di legittimità, alla quale è necessario fare riferimento per la qualificazione dei rapporti derivanti dal C.C.N.L., ha escluso che la Cassa Edile sia assimilabile “ad un ente previdenziale perché è depositaria di somme da corrispondere agli aventi diritto alla scadenza a titolo retributivo, sicché viene a svolgere una funzione di intermediazione e non di previdenza ed assistenza” (Cass., sez. lav., 19 aprile 2001, n. 5741) ed ha affermato che “le somme che il datore di lavoro ha l’obbligo di versare alla casse edili quali accantonamenti al pagamento delle somme dovute per ferie, gratifiche natalizie e festività infrasettimanali, costituiscono somme spettanti ai lavoratori a titolo retributivo”, di guisa che “il meccanismo previsto per il pagamento da parte del datore di lavoro ed il conseguente diritto dei lavoratori, integra una delegazione di pagamento”.
Quindi, “la cassa non diventa obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento da parte del datore, delle somme stesse”; e di conseguenza “ben può il lavoratore agire nei confronti del datore di lavoro per il pagamento delle somme dovute per ferie, festività e gratifiche natalizie” (Cass., sez. lav., 1° ottobre 2003, n. 14658).
La giurisprudenza civile di legittimità ha ritenuto pertanto che il lavoratore è titolare di un diritto di credito nei confronti del datore di lavoro direttamente azionabile anche nel caso in cui quest’ultimo abbia omesso il versamento delle somme trattenute sulla retribuzione.
Verifica della sussistenza del requisito della “altruità” delle somme trattenute dal datore di lavoro
2.3. Con riferimento al delitto di appropriazione indebita ascritto al ricorrente, non essendo stata contestata la sussistenza degli altri elementi costituivi del reato, l’indagine deve essere incentrata, come rilevato dalla Sezione remittente, sulla verifica della sussistenza del requisito della “altruità” delle somme trattenute dal datore di lavoro.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria di legittimità (condivisa da una parte della dottrina) il concetto di “altruità” nel delitto di appropriazione indebita non va determinato con riferimento all’istituto civile della “proprietà”, ma in base alla ratio della disposizione incriminatrice di volta in volta presa in esame, che per il reato di cui all’art. 646 c.p. “deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa, altresì nel caso che si tratti di una somma di denaro” (Cass., sez. II, 3 marzo 1989, n. 11628, Barbuto).
Su tali presupposti è stato ritenuto – in una fattispecie relativa ad omesso versamento di contributi in favore della “Nuova Cassa Edile” (Cass., sez. II, 11 febbraio 1999, n. 5785, p.m. in c. Visentin; conf. Sez. II, 27 giugno 2003, n. 30075, p.m. in c. Gallini) – che “le somme “trattenute” dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo o per ogni altro atto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore come corrispettivo per la prestazione già resa; tali somme, dunque, non appartengono più al datore di lavoro, che ne ha solo una disponibilità precaria posto che esse hanno una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente in maniera lecita, ma vincolata ad un versamento da effettuare entro un termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore. Ne deriva che commette il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lascia trascorrere il termine per il versamento, manifestando la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente dispone”.
2.4. Le conclusioni cui giungono le sentenze Visentini e Gallini non sono tuttavia condivise dal Collegio, sull’assorbente rilievo che esse, come osservato dalla Sezione rimettente, sono incoerenti con il principio affermato per l’analoga fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell’Erario.
Con riguardo a tali ritenute, il cui meccanismo è del tutto assimilabile a quello previsto per le trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Casse Edili, va infatti rilevato che con giurisprudenza costante (Cass., sez. II, 26 maggio 1983, n. 10667, Sdattrino, RV. 161665; Sez. II, 26 maggio 1983, n. 8780, Francino, RV. 160823; Sez. II, 26 maggio 1983, n. 9037, Montanari, RV. 160912; Sez. II, 26 maggio 1983, n. 10437, Carion, RV. 161553; da ultimo, sez. III, 5 ottobre 2001, n. 39178, Romagnoli A., RV. 220359) è stata esclusa la configurabilità del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti, sia nei confronti dello Stato proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla “altruità” delle somme trattenute.
Si è, al riguardo, considerato che il datore di lavoro, quale “sostituto d’imposta”, è debitore in proprio e non meramente responsabile per un debito altrui, per cui è direttamente e personalmente obbligato verso lo Stato per le somme dovute dai lavoratori dipendenti a titolo di imposta sul reddito delle persone fisiche e da lui ritenute sulla retribuzione.
Pertanto, il mancato versamento all’erario da parte del datore di lavoro delle dette somme, sulle quali non può configurarsi una titolarità attiva da parte del lavoratore (liberato dall’obbligazione tributaria a seguito della ritenuta effettuata), non integra il reato di appropriazione indebita, la cui essenza consiste nella lesione del diritto di ‘proprietà’ o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o denaro altrui.
E’ agevole rilevare che le citate sentenze, mentre affrontano la natura del rapporto tra il datore di lavoro-sostituto di imposta e lo Stato e tra questo ed il lavoratore contribuente, nulla dicono sul rapporto intercorrente tra il datore di lavoro e il dipendente.
La circostanza, infatti, che il datore di lavoro sia un sostituto di imposta e, quindi, obbligato “direttamente e personalmente” nei confronti dello Stato, non spiega la ragione per la quale la somma da lui trattenuta sulle retribuzioni con l’obbligo di versarla allo Stato non venga considerata di “proprietà” del lavoratore, pur non essendovi alcun dubbio che la stessa viene trattenuta sulla sua retribuzione con l’obbligo di versarla alle scadenze ad un terzo.
Né alcuna rilevanza può attribuirsi al fatto che il lavoratore è sciolto dall’obbligazione tributaria, in quanto la liberazione dall’obbligo del versamento del tributo è una conseguenza del fatto che la “ritenuta” è stata effettuata, e che, quindi, costui ha assolto al suo dovere di contribuente, anche se per fatto a lui non imputabile la somma non è confluita nelle casse dello Stato.
E che la liberazione sia la conseguenza dell’adempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore risulta dal fatto che il reato di cui all’art. 2, comma 2, d.l. 429/1982 è configurabile soltanto per l’omesso versamento all’erario “delle ritenute effettivamente operate … sulle somme pagate”.
Va osservato che se la ragione per la quale è esclusa la “altruità” della somma fosse quella della liberazione del lavoratore dall’obbligo del pagamento del tributo, a maggior ragione dovrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa Edile (e delle ritenute per contributi previdenziali) atteso che l’obbligazione grava sin dal suo nascere unicamente sul datore di lavoro (anche per la parte di contributi a carico del lavoratore).
In definitiva, la posizione del datore di lavoro-sostituto d’imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa Edile, ed a maggior ragione al datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali, in quanto, in ogni caso, si è in presenza di un “accantonamento” di una somma determinata di denaro finalizzata ad un fine determinato da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite.
2.4. In realtà, se si confrontano le fattispecie in esame contraddistinte dalla comune caratteristica dell’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di “ritenute” a vario titolo effettuate (per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi) con gli altri casi di appropriazione indebita in cui è stata ritenuta la sussistenza del requisito della “altruità” del denaro o della cosa mobile, si rileva che la peculiarità è data dalla circostanza che il denaro oggetto dell’appropriazione è rappresentato da una quota ideale del “patrimonio” del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo.
La somma “trattenuta” o “ritenuta” rimane, infatti, sempre nella esclusiva disponibilità del “possessore”, non soltanto perché non è mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto in quanto mai potrebbe esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro.
Le “trattenute”, quindi, si risolvono a ben vedere in una operazione meramente contabile diretta a determinare l’importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione.
Al contrario, in tutti gli altri casi trattati dalla giurisprudenza, il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del “patrimonio” del possessore, ma si tratta sempre di denaro o di cose di “proprietà” diretta od indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel “patrimonio” dell’agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza, di sua proprietà, in deroga – come espressamente previsto dall’art. 646 c.p.- ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (cfr. Cass., sez. II, 17 giugno 1977, n. 2445, Pomar, RV. 137092).
Sicché, ove l’agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita, tutti casi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza di legittimità, in cui la somma entra ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perché connotata da una vincolo specifico di destinazione.
Va rilevato, d’altra parte, che se l’appropriazione consistesse nel solo fatto “di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa, altresì nel caso che si tratti di una somma di denaro” (Cass., sez. II, 3 marzo 1989, n. 11628, Barbuto, cit.), non si comprenderebbe la ragione per la quale il reato in esame dovrebbe essere escluso nell’ipotesi della mancata corresponsione della retribuzione. Anche in questo caso, infatti, potrebbe sostenersi che il denaro da corrispondere alla scadenza al lavoratore ha una destinazione specifica prevista da una norma avente forza di legge, consistente nel C.C.N.L. recepito dal Governo al fine di garantire “minimi di trattamento economico e normativo” ex art. 1 legge 741/1959.
Al quesito posto alle Sezioni Unite deve darsi, pertanto, risposta negativa.
Sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro “trattenuto” dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel “patrimonio” del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la “proprietà” di tale somme, ma ha soltanto l’obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d’imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni.
2.5. Questa conclusione comporta che il mancato versamento delle trattenute in percentuale da parte del datore di lavoro sulla retribuzione per il versamento alle Casse edili può configurare unicamente la infrazione amministrativa prevista dall’art. 13 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, che ha sostituito integralmente l’art. 8 legge 14 luglio 1959, n. 741.
Deve al riguardo porsi in evidenza che, contrariamente a quanto stabilito per “le ritenute previdenziali ed assistenziali” (art. 2, commi 1 e 2, d.l. 9 ottobre 1989, n. 338 che ha sostituito l’art. 2, comma 1, d.l. 12 settembre 1983, n. 463) e per “le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto di imposta” (art. 2, comma 2 n. 4, d.l. 10 luglio 1982, n. 429, ora abrogato: Cass, sez. III, 5 ottobre 2001, n. 39178, cit.), l’omesso versamento della “percentuale trattenuta” dal datore di lavoro sulla retribuzione per effetto degli accordi economici e del C.C.N.L. non forma oggetto di una specifica fattispecie penale.
Né può ritenersi applicabile la fattispecie speciale di cui all’art. 2, comma 2, d.l. 463/1983, come modificato dall’art. 1 d.lgs. 211/1994: disposizione, questa, emanata al fine di assicurare il tempestivo versamento da parte di tutti i datori di lavoro, esclusi quelli agricoli, “entro termini uniformi”, “[del]l’imposta sul valore aggiunto, [del]le somme dovute quali sostituti d’imposta e [di] quelle dovute a gestioni previdenziali ed assistenziali”..
Risulta infatti evidente che non può essere riconosciuto alle Casse Edili natura di enti di previdenza e di assistenza, sia perché con la locuzione “gestioni previdenziali ed assistenziali” il legislatore, come pacificamente ammesso, intendeva riferirsi agli enti di previdenza ed assistenza all’epoca esistenti, quali l’INPS, l’INAM, l’INAIL ed altre gestioni speciali autonome; sia perché la trattenuta effettuata a favore della Casse Edili non ha natura “contributiva previdenziale o assistenziale”, ma di salario differito che trova la sua legittimazione in un accordo contrattuale (sia pure recepito formalmente in un atto avente forza di legge); sia, infine, perché le Casse Edili non svolgono funzioni previdenziali ed assistenziali, ma di intermediazione tra datori di lavoro e lavoratori, secondo gli approdi consolidati della giurisprudenza civile di legittimità.
La condotta in esame, quindi, integra esclusivamente l’illecito di cui all’art. 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741, che, con disposizione onnicomprensiva, punisce “il datore di lavoro che non adempie agli obblighi derivanti dalle norme di cui all’art. 1 della presente legge”, obblighi tra i quali deve senz’altro annoverarsi l’omesso versamento alla scadenza delle somme trattenute sulla retribuzione del lavoratore.
Con la conseguenza che, essendo stato trasformato tale illecito in violazione amministrativa dall’art. 13 d.lgs. n. 758 del 1994, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
In forza della disposizione di carattere generale di cui all’art. 41 legge 24 novembre 1981, n. 689 va disposta la trasmissione degli atti all’Autorità amministrativa competente.
Cass. S.U. 25 maggio 2011, Orlando
in sintesi
L’omesso versamento da parte del datore di lavoro ad un istituto finanziario creditore delle somme di denaro trattenute sulla retribuzione spettante ad una lavoratrice dipendente (cedente il cd. “quinto dello stipendio”), debitrice verso l’istituto predetto (cessionario) a seguito di un mutuo erogatole non integra un fatto penalmente rilevante, segnatamente il reato di appropriazione indebita, ma un mero fatto illecito civile
RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza in data 11 febbraio 2009 del Tribunale di Lecce, sez. dist. di Galatina, nella parte in cui aveva dichiarato Cosimo Orlando responsabile del reato di cui agli artt. 81, 61, primo comma, n. 11, e 646 c.p., commesso da luglio a novembre dell’anno 2002, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di nove mesi di reclusione e 600 euro di multa, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile. In parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello riduceva l’ammontare dei danni liquidati in favore della parte civile, che determinava in 6.000 euro.
1.1. Stando alla contestazione, Cosimo Orlando, agendo in tempi diversi e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, nei mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre e novembre dell’anno 2002, s’era appropriato denaro della dipendente Simona Ubaldo, per la somma complessiva di 557,75 euro, corrispondente agli importi mensili di 111,55 euro fatti figurare sulle buste paga come trattenuti per essere versati alla s.p.a. Fineco Banca Icq in adempimento del contratto di cessione pro solvendo di una quota dello stipendio stipulato dalla Ubaldo con l’istituto di credito, a seguito di prestito di denaro da questo erogatole, notificato al datore di lavoro e da questo accettato (con separato atto di benestare”). Non essendo stati gli importi mai pagati, la Fineco aveva proceduto con decreto ingiuntivo nei confronti della Ubaldo e della Cedis.
1.2. La Corte disattendeva i rilievi dell’appellante, secondo cui difettava nella specie l’elemento costitutivo della altruità del bene – denaro – oggetto di appropriazione, evocando i principi affermati da Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, Li Calzi, Rv. 229634.
Affermava, in particolare, che a base delle argomentazioni svolte in tale sentenza stava la necessità di distinguere il caso in cui il datore di lavoro opera quale sostituto d’imposta, rispetto a quelli in cui egli sia “meramente responsabile per debito altrui”. Solamente nelle prime ipotesi il datore di lavoro poteva ritenersi “debitore in proprio” ed era personalmente e direttamente obbligato (verso lo Stato o la Cassa edile) per le somme dovute, rispetto alle quali il lavoratore non aveva “titolarità attiva”, ma soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate: con la conseguenza che l’omesso versamento di tali somme non integrava il reato di appropriazione indebita. Negli altri casi [di mera responsabilità per debito altrui], il denaro o la cosa mobile non entravano a far parte “ab origine del “patrimonio” del possessore” e, pur confluendo nel “patrimonio” dell’agente, restavano, per il vincolo di destinazione che li caratterizzava, “di “proprietà” diretta o indiretta di altri”: in deroga, come espressamente previsto dall’art. 646 c.p., ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà di cose fungibili. Sicché l’agente che dava alla cosa o al denaro una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui lo possedeva o non restituiva la cosa o il denaro a richiesta o alla scadenza, commetteva, come era avvenuto nel caso di specie, il reato di appropriazione indebita.
2. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione … (omissis)
4. La Seconda Sezione penale, investita del ricorso, lo ha rimesso alle Sezioni unite rilevando che, pur dopo la sentenza Li Calzi, s’era obiettivamente manifestato un contrasto di giurisprudenza sul punto oggetto di doglianza, relativo alla riconducibilità alla fattispecie di appropriazione indebita della condotta del datore di lavoro che ometta di versare le somme di denaro trattenute sulla retribuzione spettante al lavoratore in vista del versamento in favore di un soggetto creditore di quest’ultimo. E richiama da un lato Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400, già citata dal ricorrente; dall’altro Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv. 244737.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione posta alle Sezioni Unite è così sintetizzabile: “se, in caso di cessione di parte della retribuzione dal lavoratore al suo creditore, integri il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che ometta di versare la quota dovuta al cessionario”.
2. La sentenza impugnata ha ritenuto che costituiva appropriazione indebita la condotta contestata all’imputato che, agendo quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, aveva omesso di versare all’istituto finanziario cessionario di quota del credito da prestazioni lavorative della dipendente Ubaldi, in forza di atto negoziale notificato e accettato dal debitore, le somme di denaro trattenute a tale titolo dalle retribuzioni erogate alla dipendente.
Il ricorso contesta tale assunto, sostenendo che il denaro corrispondente alle somme trattenute dal datore di lavoro sullo stipendio della lavoratrice per far fronte al debito di costei, non poteva considerarsi, ancora, di proprietà “altrui”. Il datore di lavoro aveva in altri termini assunto soltanto la veste di debitore (ceduto) verso un terzo ed era responsabile di mera inadempienza.
3. Deve rilevarsi che il reato, contestato come commesso da luglio a novembre 2002 e per il quale la sentenza di primo grado è intervenuta il giorno 11 febbraio 2009, sarebbe ad oggi prescritto.
Il termine di sette anni e sei mesi, sospeso dal 23 gennaio al 15 maggio 2008 a causa di rinvio del dibattimento per l’adesione dei difensori all’astensione di categoria, cadeva difatti il 23 aprile 2011. La configurabilità del reato è però questione che deve essere comunque risolta a mente dell’art. 129, secondo comma, c.p. L’evidenza risultante dagli atti, cui si riferisce tale disposizione, concerne esclusivamente gli aspetti della fattispecie concreta. Postulata la rispondenza della contestazione agli atti del procedimento, la sussumibilità del fatto nella fattispecie astratta è questione di diritto che, per quanto complessa, si risolve nella individuazione del contenuto normativo del precetto penale. È perciò premessa legale di ogni altra decisione sul processo o sul fatto.
4. Con riguardo alla configurabilità del reato, sia la sentenza impugnata sia il ricorrente evocano, a sostegno delle rispettive contrapposte tesi, Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi, Rv. 229634, propugnando differenti interpretazioni dei principî affermati da tale sentenza in tema di “altruità” delle somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione erogata ai dipendenti.
Secondo la Sezione rimettente, né l’una né l’altra di tali letture divergenti, che riprendono pregressi orientamenti, sarebbe implausibile, corrispondendo ciascuna a distinti orientamenti che si sono manifestati nella giurisprudenza di legittimità anche dopo la sentenza Li Calzi.
Il caso trattato da Cass. S.U. Li Calzi: il mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione in vista del versamento alle Casse edili
5. Occorre dunque in premessa ricordare che il quesito esaminato dalla sentenza Li Calzi era se il mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione in vista del versamento alle Casse edili integrasse appropriazione indebita, ovvero configurasse unicamente la violazione amministrativa prevista dall’art. 13 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 (che aveva sostituito integralmente l’art. 8 legge 14 luglio 1959, n. 741).
Le Sezioni Unite risolsero il dubbio nel senso che detta condotta poteva configurare esclusivamente la violazione amministrativa.
Osservarono in particolare che, “sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro “trattenuto” dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel “patrimonio” del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono.
Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la “proprietà” di tali somme, ma ha soltanto l’obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d’imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni”.
6. Come rileva l’ordinanza di rimessione, prima della sentenza Li Calzi la giurisprudenza di questa Corte aveva numerose volte affermato che le somme trattenute dal datore di lavoro sulle retribuzioni del dipendente e destinate a terzi per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore, erano da considerare parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore quale corrispettivo per la prestazione già resa.
La circostanza che tali somme avessero una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente e vincolata al versamento da effettuare entro un termine certo, a garanzia del terzo e del lavoratore, portava a ritenere che esse non “appartenessero” più al datore di lavoro, che, si sosteneva, ne manteneva solo una disponibilità precaria.
Da ciò si desumeva che commettesse il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lasciasse trascorrere il termine per il versamento, manifestando con tale omissione la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente disponeva.
La stessa ordinanza di rimessione cita come espressioni di tale orientamento Sez. 2, n. 30075 del 27/06/2003, Vecchio, Rv. 226684; Sez. 2, n. 5785 dell’11/02/1999, Visentin, Rv. 213304; Sez. 2, n. 10683 del 12/05/1993, Giallini, Rv. 196734, tutte relative a trattenute per contributi da versare alla Cassa edile.
6.1. In linea con detto orientamento si poneva il filone giurisprudenziale che aveva riguardo all’omesso versamento di somme trattenute per contributi previdenziali e assicurativi e riteneva che il mancato versamento di detti contributi, oltre il termine di scadenza previsto, integrasse il reato di appropriazione indebita.
Aderivano tra le altre: Sez. 2, n. 463 del 27/02/1970, Marzano, Rv. 115348, che osservava come nell’effettuare le trattenute di dette somme il datore ne divenga il depositario e altresì come i lavoratori siano tenuti a lasciare nelle mani del datore di lavoro le quote di salario corrispondenti alla parte dei contributi assicurativi posta a loro carico, in forza di un rapporto fiduciario insito al rapporto di lavoro; Sez. 2, n. 3528 del 27/09/1982, Magnelli, Rv. 158589, che escludeva, in particolare, l’assorbimento dell’appropriazione indebita nel reato di omesso versamento di contributi previdenziali, affermando la ravvisabilità del concorso formale; Sez. 2, n. 10339 del 30/03/1987, Ratini, Rv. 176762, sul presupposto che titolare di tali somme dovesse ritenersi il dipendente dal momento del pagamento del salario o dello stipendio sino all’effettivo versamento all’istituto previdenziale.
6.2. Il tema della natura appropriativa della condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, era lambito anche da Sez. U, n. 27641 del 28/05/ 2003, Silvestri, a proposito della configurabilità dell’art. 2, commi 1 e 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 683, in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione.
La conclusione raggiunta, nel senso che il reato non è configurabile a carico del datore di lavoro nel caso di mancata corresponsione della retribuzione ai dipendenti, veniva in tale decisione sostenuta, oltre che sulla base del riferimento testale alle “ritenute operate”, sui rilievi: “che il legislatore con l’articolo 2 del decreto-legge n. 463 del 1983 ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, ma il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti”; “che quindi l’obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate”; che, “ove così non fosse, la differenza di trattamento tra le due fattispecie sarebbe del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di legittimità costituzionale”; che al contrario “tale differenza di trattamento si giustifica perfettamente se si considera che il legislatore ha chiaramente assimilato il mancato versamento delle ritenute previdenziali e assicurative al delitto punito dall’articolo 646 del codice penale, la cui pena edittale – non certamente per un caso – è assolutamente identica a quella prevista dall’articolo 2, comma 1-bis, del decreto-legge n. 683 del 1983”.
A giustificazione di tale ultima asserzione, la sentenza Silvestri si limitava tuttavia a fare rimando alle considerazioni di Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, relativa all’omesso versamento di ritenute operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente, già sanzionato dall’art. 2 della legge 7 agosto 1982, n. 516, nella quale si concludeva nel senso che tale condotta non poteva trovare inquadramento e sanzione nell’art. 646 c.p., ma si faceva richiamo, tra l’altro, agli argomenti del Procuratore Generale (riportati in motivazione e dichiaratamente condivisi dal Collegio) il quale a sua volta partiva dalla premessa che occorreva distinguere tra l’ipotesi del datore di lavoro debitore in proprio verso l’amministrazione finanziaria, in relazione alla quale l’omesso pagamento non costituiva appropriazione indebita per difetto del requisito dell’altruità, e l’ipotesi del datore di lavoro tenuto al pagamento di un debito altrui, come nel caso di quote di contributi previdenziali trattenute sulla retribuzione, in cui il mancato versamento integrava invece appropriazione indebita. Il riferimento alla “appropriazione indebita” ad opera del datore di lavoro delle somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti per il pagamento di oneri previdenziali, contenuto nella sentenza Silvestri, appare dunque estremamente indiretto, ed assume nell’economia della decisione un valore meramente, per così dire, sostanziale, servendo al limitato fine di sostenere che la condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, istituito dall’art. 2 d.l. n. 463 del 1983, era in qualche modo strutturalmente “assimilabile” a quella prevista dall’art. 646 c.p. La sentenza non affronta difatti il problema della utilità della disposizione speciale né quello del concorso o dell’assorbimento del reato di cui all’art. 646 c.p., per l’ipotesi in cui la medesima condotta fosse stata da ritenere realmente sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
7. Tutti codesti orientamenti venivano, ad ogni buon conto, considerati nella sentenza Li Calzi.
7.1. A fini di chiarezza, é anzitutto da dire che, in relazione alla specifica questione posta al suo esame, la sentenza individua la natura retributiva delle somme trattenute dal datore di lavoro per il versamento alla Cassa edile, di cui si discuteva.
Evidenzia, in particolare, che il meccanismo previsto per il pagamento alla Cassa da parte del datore di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad ottenere da questa la corresponsione delle somme dovute – per ferie, festività e gratifiche natalizie – integra una delegazione di pagamento; la Cassa non diviene obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme stesse; il lavoratore, dal suo canto, può agire nei confronti del datore di lavoro per il pagamento delle somme dovute, essendo titolare di un diritto di credito direttamente azionabile nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso il versamento delle somme trattenute sulla retribuzione.
Sottolinea, quindi, che alle Casse edili non poteva essere riconosciuta natura di enti di previdenza e di assistenza, perché con la locuzione “gestioni previdenziali ed assistenziali” il legislatore, come pacificamente ammesso, intendeva riferirsi agli enti di previdenza ed assistenza all’epoca esistenti, quali l’INPS, l’INAM, l’INAIL ed altre gestioni speciali autonome; perché la trattenuta effettuata a favore della Casse edili non ha natura “contributiva previdenziale o assistenziale”, ma di salario differito che trovava la sua legittimazione in un accordo contrattuale (sia pure recepito formalmente in un atto avente forza di legge); perché le Casse edili non svolgono funzioni previdenziali ed assistenziali, ma di intermediazione tra datori di lavoro e lavoratori, secondo gli approdi consolidati della giurisprudenza civile di legittimità.
7.2. Tentando, poi, di mettere ordine nella contraddittoria elaborazione giurisprudenziale in materia di somme a vario titolo trattenute, la sentenza Li Calzi osserva che le sentenze Visentin e Giallini [quest’ultima citata con i riferimenti della sentenza Vecchio, di cui ha per altro i medesimi contenuti; v. sopra, al par. 6] non sono condivisibili, perché l’orientamento in esse seguito non é coerente con il principio affermato per la fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell’erario, in realtà analoga e in relazione alla quale era al contrario già costantemente esclusa la configurabilità del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti sia nei confronti dello Stato, proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla “altruità” delle somme trattenute.
Rileva che, se la ragione per la quale è esclusa dalla costante giurisprudenza la “altruità” della somma trattenuta per il versamento all’erario risiede nella liberazione del lavoratore dall’obbligo del pagamento del tributo (Sez. 2, n. 10667 del 26/05/1983, Sdattrino, Rv. 161665; Sez. 2, n. 8780 del 26/05/1983, Francino, Rv. 160823; Sez. 2, n. 9037 del 26/05/1983, Montanari, Rv. 160912; Sez. 2, n. 10437 del 26/05/1983, Carion, Rv. 161553; Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, Rv. 220359), a maggior ragione divrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile (e delle ritenute per contributi previdenziali), atteso che anche in questo caso l’obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la quota spettante al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro.
In realtà – prosegue la sentenza Li Calzi –, la posizione del datore di lavoro-sostituto d’imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si é in presenza di un “accantonamento” di una somma determinata di denaro, finalizzata ad un fine determinato, da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite.
Siffatte ipotesi – rimarca la sentenza – sono accomunate dalla caratteristica dell’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di “ritenute” a vario titolo effettuate (“per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi”), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che “il denaro oggetto dell’appropriazione è rappresentato da una quota ideale del “patrimonio” del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo”.
La somma trattenuta o ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore, non soltanto perché non é mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perché mai può esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro.
Le “trattenute”, perciò, si risolvono “in una operazione meramente contabile diretta a determinare l’importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione”. Al contrario – conclude la sentenza Li Calzi – in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti riconducibili all’appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, “non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore”, ma vi entrano “ab extrinseco”, e con esso patrimonio non si confondono perché connotati da una vincolo specifico di destinazione; sicché di tali beni può dirsi che restano di “proprietà” diretta od indiretta di altri, in virtù della deroga – espressamente prevista dall’art. 646 c.p. – ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (Sez. 2, n. 2445 del 17/06/1977, Pomar, Rv. 137092).
8. Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza non sembra tuttavia – come segnala l’ordinanza di rimessione – essersi del tutto sopito.
8.1. Da un lato si pongono, difatti, Sez. 2, n. 768 dell’11/11/2005, dep. 2006, D’Ecclesiis; Sez. 2, n. 16361 del 28/04/2006, Procaccini; Sez. 2, n. 7182 del 25/01/2006, Aloise; Sez. 2, n. 43739 del 13/11/2007, Chiriatti; Sez. 2, n. 47646 del 05/12/2008, Geleardi; Sez. 2, n. 5216 del 19/12/2008, dep. 2009, Rigoni; Sez. 2, n. 10057 del 24/02/2009, Trosini (tutte non massimate); che richiamando la sentenza Li Calzi, hanno escluso la sussistenza dell’appropriazione indebita contestata in fattispecie analoghe a quella oggetto di tale decisione; Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400 (indicata nell’ordinanza di rimessione), che, sempre richiamando la sentenza Li Calzi, ha escluso la sussistenza dell’altruità del denaro, e dunque dell’appropriazione indebita, nell’ipotesi di mancato versamento delle quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti dipendenti dell’imputata, delegata dai lavoratori interessati al versamento di tali quote trattenute sullo stipendio; nonché Sez. 2, n. 20851 del 21/04/2009, Celona, Rv. 244806, che, sul presupposto che denaro altrui è quello che non fa parte ab origine del “patrimonio” del possessore ma confluisce in esso con un vincolo di destinazione, come affermato dalla sentenza Li Calzi, ha ritenuto che non integra il delitto di cui all’art. 646 c.p. la condotta di corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore rispetto a quella risultante dalla busta paga.
8.2. Dall’altro militano, invece, Sez. 2, n. 8023 del 07/02/2008, La Tona (non massimata) e Sez. 2, n. 23034 del 18/04/2007, Altieri (non massimata), che, occupandosi di contestazioni relative, rispettivamente, all’omesso versamento delle trattenute previdenziali ed assistenziali alla competente gestione dell’I.N.P.S. e all’omesso versamento alla Cassa edile delle somme trattenute a tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, hanno affermato sussistente il delitto di appropriazione indebita, non facendo menzione delle Sezioni Unite Li Calzi, ma rifacendosi invece direttamente agli orientamenti delle sentenze Vecchio, Visentin e Giallini (sopra, par. 6); nonché Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv. 244737, (segnalata dall’ordinanza di rimessione) che ravvisa il delitto in questione nella condotta del datore di lavoro che omette di accantonare, e di versare all’INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, sull’assunto che i principî della sentenza Li Calzi, concernenti l’accantonamento di trattenute non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, non riguardavano la fattispecie in esame.
9. Alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza Li Calzi, è però evidente che allorché le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi in essa affermati non si riferivano all’omesso versamento di somme trattenute in vista dell’adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti retributivi, contributivi o d’imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto di non configurabilità dell’appropriazione indebita per difetto del requisito dell’altruità degli importi trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall’esterno nel patrimonio dell’obbligato con tale vincolo di destinazione, ma in quello sin dall’origine comprese.
cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente pro solvendo a favore di un terzo e omesso versamento al cessionario da parte del datore di lavoro
10. Tanto posto, ritiene il Collegio che non vi sono ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza Li Calzi.
La decisione, benché riferita a fattispecie concreta concernente l’omesso versamento delle trattenute destinate alla Cassa edile, s’attaglia indubbiamente alla situazione oggetto del giudizio a quo, relativa alla cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente pro solvendo a favore di un terzo.
La cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente all’istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della titolarità del credito ceduto – con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri – in capo all’ente finanziatore contestualmente all’erogazione dell’anticipazione, indipendentemente dalla notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione all’eventuale atto del pagamento. Nulla consente di distinguere perciò, come già rilevava la sentenza Li Calzi, l’omesso pagamento al cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore, dall’omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore. In relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista – ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo – la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell’assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall’art. 36 Cost.. Sicché non v’è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita (su tale conclusione in relazione al mancato pagamento delle retribuzioni pareva già convenire, peraltro, anche Sez. U, Silvestri).
Il “possessore di cosa altrui”
11. Il Collegio è consapevole delle critiche mosse a questa impostazione nella memoria della parte civile e da quella parte della dottrina, e della giurisprudenza, che biasimano da un lato l’adozione di criteri interpretativi assertivamente improntati a canoni troppo marcatamente civilistici, dall’altro la perdita di vista delle ragioni di tutela proprie del diritto penale.
Tuttavia, la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell’altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s’ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche.
12. Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un “termine” che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione “tecnica”, dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l’uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività.
Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce “una giustificazione conveniente”, per “segni certi”, della diversa accezione.
Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull’interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle “finalità perseguite dall’incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca”, come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell’offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).
Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all’individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto.
Non può negarsi, all’inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnico-giuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal “linguaggio comune”, fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri fini.
Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l’appunto tradizionalmente individuati nell’uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di “possesso” e “detenzione”, di “altruità” e proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l’esatto equivalente degli omonimi concetti propri del diritto civile.
Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d’altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che, come efficacemente ricordato dall’Avvocato Generale nella requisitoria odierna richiamando copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra molte: sentenze 5 aprile 2011, Sarigiannis c. Italia; 17 maggio 2010, Kononov c. Estonia; 3 novembre 2009, Sujagic c. Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l’ordinamento obiettivo: anche l’effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati.
12.1. Il problema interpretativo di cui si è occupata la sentenza Li Calzi, che è ora riproposto alle Sezioni Unite, concerne in particolare l’individuazione della portata normativa del termine “altrui” impiegato nell’art. 646 c.p. per definire l’oggetto della “appropriazione” penalmente rilevante, posta in essere dal “possessore”, su denaro o bene fungibile.
Nella struttura della norma la condizione di “altruità” del bene si contrappone dunque a quella di mero “possessore” dell’agente, che, appropriandosene, pone in essere, per usare una definizione usuale, una interversione del possesso.
La nozione di altruità non può per conseguenza prescindere, in primo luogo, dalla nozione di possesso.
il termine “possesso”
12.2. Ora, è osservazione unanime, in giurisprudenza e dottrina, che il termine “possesso” è numerosissime volte adoperato nel codice penale con significato del tutto equivalente a quello di “detenzione”.
La promiscuità dell’uso è particolarmente evidente in tutte le disposizioni che si riferiscono ad ipotesi di detenzione o possesso in sé illegali o sanzionati per la provenienza illecita dei beni cui si riferiscono.
Parimenti, nell’ambito dei reati che hanno a specifico oggetto la tutela del patrimonio, pubblico o privato che sia, il “possesso” non appare distinguibile, secondo l’esegesi oramai tradizionale, dalla “detenzione”, purché autonoma.
I due termini, correlati a quelli di “altruità” e di “patrimonio”, lungi dal connotare di significati civilisti le condotte cui si riferiscono, fungono così piuttosto da criteri denotativi, e vanno letti in funzione della delimitazione in negativo, prima ancora che della perimetrazione in positivo, delle condotte incriminate.
L’analisi del significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine “altrui”, riferito a bene fungibile posseduto da altri, richiede, per conseguenza, di considerare altresì le linee di demarcazione tra le varie figure criminose che hanno ad oggetto la tutela del medesimo bene, il patrimonio privato, e i profili di corrispondenza con le fattispecie, analoghe, che concernono il patrimonio pubblico.
l’autonoma detenzione non derivante da sottrazione integra il possesso rilevante per l’appropriazione indebita
12.3. È egualmente considerazione condivisa che come la sottrazione a chi autonomamente detiene la cosa é elemento costitutivo del furto; così, specularmente, l’autonoma detenzione non derivante da sottrazione integra il possesso rilevante per l’appropriazione indebita.
Nella nozione di possesso rilevante per l’appropriazione indebita possono rientrare vari casi di detenzione, ma, perché resti saldo il confine tra fattispecie, il minimo richiesto è che si tratti di detenzione in nome proprio e non in nome altrui, ossia in virtù di un rapporto di dipendenza con il titolare del diritto (tra molte: Sez. 6, n. 32543 del 10/05/2007, Varriano, Rv. 237175; Sez. 2, n. 4853 del 20/12/1993 Balzaretti, Rv. 197781).
È, d’altra parte, significativo (come puntualmente osserva Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Donti, Rv. 246070) che in relazione al peculato, figura omologa all’appropriazione indebita nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, il legislatore, con la riforma del 1990, abbia affiancato nell’art. 314 c.p. alla nozione di “possesso” quella di “disponibilità”, così espressamente riconducendo il rapporto dell’agente con la cosa nell’ambito “di un ampio potere autonomo, che gli consenta di disporne, con obbligo tuttavia di rispettarne la destinazione”, in linea con l’interpretazione già consolidata in relazione ad entrambe le fattispecie appropriative.
l’altruità di una cosa fungibile
12.4. Parallelamente, proprio la considerazione del denaro, che è bene fungibile per eccellenza, come possibile oggetto dell’appropriazione di cosa altrui, rende palese che il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità.
Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, né in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull’accipiente soltanto l’obbligo di rendere o di impiegare l’equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso.
Il riferimento, nell’art. 646 c.p., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente.
Deve per altro rammentarsi che se nel diritto civile proprietà e diritti reali consistono nella signoria sulla cosa che si acquista nei modi stabiliti dalla legge, mentre il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale (esercitabile direttamente o per mezzo di chi ha la detenzione), non suscettibile di trasferimento per atto tra vivi disgiuntamente dalla proprietà o dal diritto reale del quale costituisce l’esercizio (Sez. U, n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815), va da sé che tali nozioni legali interessano poco il diritto penale patrimoniale in generale, e la fattispecie recata dall’art. 646 c.p. in particolare, che guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l’esercizio di essi poteri sulle cose.
Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l’autonomia dell’accezione con la quale le nozioni di “possesso” o bene “altrui” sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l’ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata e, perciò, la diversità di natura, nell’ambito del diritto civile, dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti.
12.5. Così, nonostante l’ampliamento della nozione di “altruità”, nulla consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile. Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un’obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure “vincolata”, la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l’inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente – e più lievemente – dall’art. 641 c.p., ma esclusivamente nell’ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d’insolvenza.
Efficace indicazione per una regolazione di confini proviene da Sez. 2, n. 7770 del 09/02/2010, Di Bernardo (non massimata), laddove osserva che sarebbe irragionevole “assegnare ad una stessa condotta materiale di interversione del possesso una portata differenziata a seconda della natura del bene – fungibile o infungibile – quando è lo stesso testo normativo a parificare sotto questo profilo il precetto, facendo espresso riferimento, quale oggetto della condotta appropriativa, al “denaro” o ad altra “cosa mobile altrui””.
È la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all’interprete di considerare il denaro, al quale l’agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile. Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell’inadempiente quando ha assunto l’obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz’altro responsabile con l’intero suo patrimonio per l’inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l’inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell’art. 646 c.p.
il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell’obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui
13. In conclusione, non può che essere ribadito che la regola della acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell’art. 646 c.p.; ma, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell’obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la configurazione del delitto di cui all’art. 646 c.p.
Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta.
Possono indicarsi, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come mezzo per l’esecuzione di una qualche forma di mandato ovvero riscossi dal rappresentante per conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o pegno irregolare o – non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad pompam, cose fungibili – in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l’impiego in fondo patrimoniale separato.
Non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo.
14. Deve affermarsi per conseguenza che “non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo”.
15. L’Avvocato Generale, sulla scorta di considerazioni sostanzialmente analoghe, ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Ritiene il Collegio, in aderenza agli argomenti esposti e alla luce dell’imputazione formulata, che la sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
La formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” va riferita all’ipotesi della mancanza di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato.
La formula “il fatto non sussiste” va invece impiegata nel caso di difetto di un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814).
L’adozione della prima formula dipende, perciò, dal tenore formale dell’addebito, dalla circostanza cioè che con esso si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima.
Mentre, quando il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, occorre adottare la seconda.
Se, dunque, al ricorrente fosse stato formalmente addebitato d’essersi appropriato denaro proprio, si sarebbe dovuto dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Poiché gli é stato contestato d’essersi appropriato denaro altrui (“di pertinenza della dipendente”, recita il capo d’imputazione), ma sull’erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa, deve ritenersi che fa difetto nella fattispecie concreta l’elemento dell’altruità del bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita. Va dichiarato di conseguenza che il fatto-reato contestato non sussiste.
16. Ricettazione: delitto presupposto
Cass. S.U. 7 giugno 2001, Ndiaye Papa
in sintesi
Il delitto di commercio di prodotti con segni falsi, previsto dall’art. 474 c.p., concorre con il distinto delitto di ricettazione, di cui all’art. 648 c.p., in quanto nella ricettazione viene incriminato l’acquisto o più in generale la ricezione di cose provenienti da delitto, mentre l’art. 474 sanziona la detenzione per la vendita o comunque la messa in circolazione di beni con marchi o segni contraffatti e non contempla il momento dell’acquisto.
Con sentenza 23/8/99 il Pretore di Pisa dichiarava NDIAYE PAPA responsabile del reato di cui all’art. 474 c.p. (per avere detenuto per la vendita 5 cinture aventi il marchio «LEVIS STRAUSS» contraffatto; capo 1) e lo condannava, con le attenuanti generiche, a pena stimata di giustizia; assolveva il medesimo dall’imputazione ascrittagli ex art. 648 c.p. (per avere acquistato o comunque ricevuto, al fine di trarne profitto, gli oggetti sopradescritti, provento del reato di contraffazione di marchi e segni distintivi, commesso da ignoti; capo 2) perché il fatto non sussiste.
Con riguardo alla pronuncia assolutoria il giudicante segnalava che i suddetti reati non possono concorrere essendo le relative norme incriminatrici in rapporto di specialità e che la ricezione o l’acquisto di prodotti con marchi contraffatti non integra ricettazione in quanto tali beni non costituiscono «provento» di delitto.
Avverso la riportata decisione ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze il quale ha denunciato violazione di legge in ordine alla esclusa ricorrenza del reato sub 2, all’uopo deducendo la diversità delle condotte descritte dagli artt. 474 e 648 c.p.
Il ricorso veniva assegnato alla quinta sezione penale della Cassazione ed il collegio, rilevata l’esistenza di contrasto giurisprudenziale sulla questione sottoposta al suo esame, disponeva trasmettersi gli atti alle Sezioni Unite.
Ragioni della decisione
Il quesito per il quale il gravame è stato rimesso alle Sezioni Unite concerne dunque la possibilità o meno di concorso tra il reato di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi, previsti rispettivamente dagli artt. 648 e 474 c.p.
I numerosi precedenti che sono pervenuti a soluzione positiva hanno sottolineato l’inapplicabilità dell’art. 15 c.p. alla luce della eterogeneità sia dell’elemento materiale che di quello psicologico delineati dalle menzionate disposizioni nonché del bene da queste tutelato (Cass. 18/2/88 n. 02060 RV. 177638; Cass. 30/6/88 n. 07505 RV. 178739; Cass. 13/12/88 n. 12249 RV. 179899; Cass. 15/2/89 n. 02307 RV. 180501; Cass. 26/5/89 n. 07692 RV. 181408; Cass. 12/10/89 n. 13498 RV. 182239; Cass. 31/5/90 n. 07613 RV. 184490; Cass. 27/7/90 n. 10874 RV. 185018; Cass. 5/4/91 n. 03720 RV. 186763; Cass. 6/12/91 n. 12366 RV. 188808; Cass. 27/7/96 n. 03154 RV. 205594; Cass. 6/3/97 n. 02098 RV. 206998; Cass. 17/12/99 n. 14277 RV. 215801).
In particolare si è evidenziato:
– l’art. 474 c.p. non considera i comportamenti attraverso i quali si realizza la ricettazione;
– la commercializzazione delle opere ovvero dei prodotti con marchi o segni contraffatti non esige nel momento della ricezione la consapevolezza della falsità, dato costitutivo della ricettazione;
– quest’ultima offende il patrimonio mentre l’altro reato la pubblica fede commerciale.
In talune sentenze (tre per l’esattezza: Cass. 27/4/98 n. 01315 RV. 210602; Cass. 14/1/2000 n. 05525 RV. 215569; Cass. 16/12/99 n. 05526 RV. 216377) è stato invece ritenuto che tra gli artt. 474 e 648 c.p. sussista rapporto di specialità e che la norma in tema di segni contraffatti sia quella che meglio qualifica il fatto, anche se presidiata da pena minore.
Questi gli argomenti a sostegno:
– l’art. 474 c.p. è diretto a tutelare non solo la pubblica fede, ma altresì il patrimonio ed precisamente il monopolio sull’opera o sul marchio: di conseguenza il delitto ivi sanzionato non può concorrere con la ricettazione la quale offende un bene (il patrimonio) che è già garantito;
– le attività di acquisto o di ricezione sono presupposto necessario della detenzione per la vendita e pertanto esse assumono rilevanza penale solo in tale occasione, altrimenti realizzano un antefatto non punibile.
Nell’ambito dell’orientamento minoritario si è infine assunto che comunque la ricettazione non sarebbe configurabile in relazione ad opere abusive o con marchi contraffatti perché mancherebbe il requisito essenziale di questa figura criminosa, ossia la circostanza che la cosa (ricevuta o acquistata) provenga da delitto, posto che detti beni rappresenterebbero «prodotto» è non «provento» del reato; del pari si è rilevato che l’acquisto di quanto recante segni falsi non rientra nella previsione dell’art. 648 c.p. non pregiudicando gli interessi alla correttezza del mercato né quelli del titolare dei segni stessi.
In senso contrario, anche su questo specifico punto, si è invece espresso l’opposto indirizzo giurisprudenziale, sottolineando che la frase «cose provenienti da qualsiasi delitto» va riferita all’apprensione di ogni tipo di bene derivante da attività delittuosa e che le cose con segni contraffatti sono provenienti da delitto, atteso che il contrassegno si immedesima nel prodotto per cui, una volta impresso, diviene impossibile una distinzione concettuale tra prodotto e segno (precisamente: Cass. 18/2/88 n. 02060 RV. 177638; Cass. 30/6/88 n. 07505 RV. 178739; Cass. 13/12/88 n. 12249 RV. 179899; Cass. 27/7/90 n. 00874 RV. 185018; Cass. 5/4/91 n. 03720 RV. 186763; Cass. 27/7/96, n. 03154 RV. 205593; Cass. 28/10/00 n. 11083 RV. 217381).
Procedendo in ordine logico queste Sezioni osservano.
la ricettazione è configurabile con riguardo a condotta che abbia ad oggetto beni con segni o marchi falsi
Innanzitutto occorre affrontare il problema – che si colloca su di un piano ben distinto da quello del concorso, apparente o reale, degli artt. 474 e 648 c.p. – circa la ipotizzabilità della ricettazione qualora la ricezione abbia ad oggetto cose con marchi o segni contraffatti: se la risposta dovesse essere negativa è chiaro che non si porrebbe più questione di concorso, derivando l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 648 c.p. dalla circostanza che essa non qualifica il citato contesto e non già dall’essere questo incriminato da entrambe le norme.
In realtà una siffatta conclusione va respinta.
Il legislatore, nel sanzionare ex art. 648 c.p. l’acquisto o la ricezione di cose «provenienti da qualsiasi delitto» ovvero l’intromissione in simili attività, ha inteso colpire ogni acquisizione patrimoniale consapevolmente ottenuta o procurata in virtù di beni aventi origine delittuosa; in codesta visione e considerato altresì il fine di profitto nel quale si concreta il richiesto dolo specifico («fine di procurare a sé o ad altri un profitto»), trova spiegazione l’inserimento della figura tra i reati contro il patrimonio, dovendosi al contempo riconoscere che la condotta tipica è idonea a rafforzare l’offesa arrecata con il fatto criminoso presupposto.
Quest’ultimo, peraltro, può essere di qualsiasi natura e non necessariamente contro il patrimonio: il che è confermato dal termine «qualsiasi» e corrisponde alla illustrata ratio dell’incriminazione; del resto la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata in tal senso, ravvisando la ricettazione con riguardo a pistola con matricola abrasa, a opere cinematografiche e musicassette abusivamente riprodotte, a assegni turistici falsi, a sigilli contraffatti, a moduli falsificati di identità (Cass. 30/11/83 n. 10251; Cass. 6/5/93 n. 04625 RV. 194158; Cass. 12/1/94 n. 00148 RV. 197027; Cass. 29/12/95 n. 12788 RV. 203148; Cass. 16/4/97 n. 03527 RV. 207227; Cass. 15/5/97 n. 02667 RV. 207833).
Tanto premesso, onde individuare l’esatta area di operatività dell’art. 648 c.p., deve stabilirsi la portata dell’espressione «cose provenienti da reato».
La stessa si palesa ampia né sussiste ragione alcuna, sotto il profilo letterale ovvero dal punto di vista logico, per interpretarla siccome limitata a quanto costituisce «il profitto» del reato e non invece quale volta a comprendere in sé anche «il prodotto», puntualizzandosi che «proviene» da reato ciò che col reato è creato.
Orbene, è indubbio che l’apposizione di un segno contraffatto su un bene (fattispecie delittuosa ai sensi dell’art. 473 c.p.) funga da fonte rispetto alla cosa così realizzata nella quale il segno si fonde: ne deriva che acquisizione del tutto, con la consapevolezza della sua contraffazione, integra una condotta rilevante ai sensi della suddetta previsione.
La tesi contraria è priva di aderenza al dato normativo, testualmente e razionalmente inteso; in particolare non può sostenersi che attraverso l’acquisto della cosa avente il segno contraffatto non si arrechi offesa al diritto del titolare dell’esclusiva ed alla correttezza del mercato.
Così ragionando si confonde l’oggettività giuridica del reato di ricettazione con quella del delitto presupposto di cui all’art. 473 c.p., mentre in realtà è innegabile che un acquisto del genere realizzi l’offesa tipica del primo: basti osservare che gli acquirenti o più in generale i destinatari ricevono la cosa con un attributo che essa non potrebbe avere, il quale viene valutato dal mercato in termini positivi ed è conseguente alla ingerenza indebita nell’altrui creazione e diritto di esclusiva.
la ricettazione che abbia ad oggetto beni con segni o marchi falsi può concorrere con il reato di commercio dei medesimi
Riconosciuto dunque che l’apprensione di entità con segni o marchi falsificati è in astratto riconducibile alla ricettazione, può passarsi all’esame dell’ulteriore questione.
Sussiste concorso fittizio di norme qualora una pluralità di disposizioni sia apparentemente applicabile nei confronti di una determinata condotta, mentre in effetti una sola di esse può operare perché altrimenti verrebbe addebitato più volte un accadimento unitariamente, valutata dal punto di vista normativo, in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale posto a fondamento degli artt. 15, 68, 84 c.p.
Una tale convergenza ricorre in primis quando, ai sensi dell’art. 15 c.p., due norme regolino «la stessa materia», ossia qualifichino un identico contesto fattuale nel senso che una delle suddette comprenda in sé gli elementi dell’altra oltre ad uno o più dati specializzanti: in questo caso dovrà prevalere, salvo che sia altrimenti stabilito, la previsione speciale ossia quella che descrive la situazione con maggiori particolari.
Poiché il citato criterio presuppone una relazione logico-strutturale tra norme ne deriva che la locuzione «stessa materia» va intesa come fattispecie astratta – ossia come settore, aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste.
In base a quanto sopra è da escludersi che gli artt. 648, 474 c.p. attribuiscano rilevanza penale alla stessa materia.
All’uopo il richiamo alla natura del bene protetto – effettuato, con divergente valutazione, sia dalle sentenze che affermano una situazione di specialità sia da quelle che la negano – non pare decisivo.
È pur vero che vari precedenti di queste Sezioni, ai fini della nozione che qui interessa, si sono riportati a detto dato: esso, in ogni caso, non è stato preso in considerazione quale unico fattore, ma unitamente agli aspetti comportamentali, oggettivi e soggettivi, della fattispecie (Cass. S.U. 30/4/76 n. 00010 imp. Canidu RV. 13365; Cass. S.U. 7/7/81 n. 06713 imp. Santamaria RV. 149667; Cass. S.U. 19/1/82 n. 00420 imp. Emiliani RV. 151618; Cass. S.U. 8/1/98 n. 00119 imp. Deutsch RV. 20912. Il concetto de quo in Cass. S.U. 13/9/95 n. 09568 imp. La Spina RV. 202011 è stato utilizzato per così dire ad abundantiam, essendosi escluso un concorso fittizio tramite il rilievo espressamente definito «risolutivo» della diversa natura, penale e procedimentale, delle norme esaminate: artt. 218 c. 6 c.d.s. e 108 disp. att. c.p.p.).
D’altro canto è da ricordare che recentemente queste Sezioni hanno chiaramente sottolineato, in tema di individuazione di continuità normativa o meno tra reati, la necessità di accertare ed identificare, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme gli elementi strutturali delle ipotesi tipiche con riguardo alla natura e modalità dei comportamenti nonché ai caratteri del dolo (Cass. S.U. 7/11/00 n. 00027 imp. Di Mauro RV. 217031; Cass. S.U. 15/1/00 n. 00035 imp. Sagone RV. 217374).
Né va sottaciuto che il riferimento alla identità o diversità dei beni tutelati può dare adito a dubbi nel caso di reati plurioffensivi; a ciò aggiungasi che le parole «stessa materia» sembrano utilizzate in luogo di «stessa fattispecie» o «stesso fatto», per comprendere nel dettato dell’art. 15 c.p.p. anche il concorso di norme non incriminatrici che altrimenti resterebbe escluso.
Tornando ai rapporti tra l’art. 648 c.p. e l’art. 474 c.p. si rileva: nella ricettazione viene incriminato l’acquisto e più in generale la ricezione (ovvero l’intromissione in tali attività) di cose provenienti da reato; l’art. 474 c.p. sanziona invece la detenzione per la vendita o comunque la messa in circolazione di beni con marchi o segni contraffatti e non contempla il momento dell’acquisto; l’azione raffigurata nella prima norma è istantanea, mentre la detenzione a fini di vendita è permanente ed interviene successivamente.
Dal raffronto che si è operato emerge dunque che le condotte delineate sono ontologicamente nonché strutturalmente diverse e che esse non sono neppure contestuali, essendo ipotizzabile una soluzione di continuità anche rilevante; né varrebbe assumere che l’una presuppone l’altra: infatti, se la detenzione implica per sua natura un’apprensione, questa non integra sempre la ricettazione, ben potendosi verificare un acquisto senza la consapevolezza del carattere contraffatto dei segni (elemento essenziale della ricettazione), con posticipata presa di conoscenza e deliberazione di porre in circolazione i relativi prodotti. In tal caso la ricettazione non sarà addebitabile, non certo perché vi sia concorso apparente di norme, bersi perché gli estremi della medesima non risultano realizzati; di converso potrebbe accadere che la ricezione del bene con marchio contraffatto integri detto reato, ma non si addivenga all’altro ed allora è ovvio che si risponderà solo di ricettazione.
Sintomatica è la circostanza che l’art. 455 c.p. – in tema di messa in circolazione e spendita di monete falsificate – abbia inserito l’acquisto tra i comportamenti incriminati, così atteggiandosi, stante la peculiarità dei beni ricevuti, quale disposizione speciale rispetto all’art. 648 c.p.: l’assenza di un analogo elenco nell’art. 474 c.p. indica la inapplicabilità dell’art. 15 c.p.p.
Rimane da verificare se, al di là del principio di specialità, il concorso materiale dei reati per cui si discute debba essere escluso alla luce di una diversamente manifestata volontà normativa di valutare in termini di unitarietà, le pur disomogenee fattispecie.
L’esito è negativo.
Non esiste al proposito clausola di riserva, essendo quella di cui all’art. 474 c.p. limitata al concorso nel reato di cui all’art. 473 c.p; né potrebbe invocarsi il criterio della consunzione e precipuamente ipotesi di ante factum non punibile affermandosi che la detenzione a fini di vendita – se non necessariamente, quantomeno secondo l’id quod plerumque accidit – passa attraverso una ricettazione per cui il legislatore si sarebbe rappresentato una tale evenienza con previsione globale sotto il profilo sanzionatorio.
Una siffatta operazione interpretativa di giudizi di valore, onde evitare che venga pregiudicata la fondamentale esigenza di determinatezza in campo penale, postula che la considerazione abbinata delle vicende tipiche sia resa oggettivamente evidente e detta risultanza non può che essere individuata nella maggiore significatività della sanzione inflitta per il reato consumante o assorbente; quando invece sia più grave la pena sancita per quello che andrebbe assorbito, la consunzione va negata, dovendosi ravvisare un intento di consentire, attraverso un effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi criminose, il regine del concorso dei reati.
Invero, l’avere sottoposto a più benevolo trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la punisce è applicabile in concorso con l’altra, senza incorrere in duplicità di addebito.
Nel presente caso, poiché la ricettazione è punita più gravemente rispetto al commercio di prodotti con segni contraffatti, non ricorrono gli estremi per l’assorbimento del primo delitto nel secondo.
Concludendo si enunciano i seguenti principi:
– la ricettazione è configurabile con riguardo a condotta che abbia ad oggetto beni con segni o marchi falsi;
– il reato di ricettazione dei suddetti beni può concorrere con quello di commercio dei medesimi.
(omissis)
17. Ricettazione e danno patrimoniale di speciale tenuità
Cass. S.U. 12 luglio 2007, Ruggiero
in sintesi
La valutazione del danno patrimoniale cagionato alla persona offesa dal reato, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., nel caso di ricettazione non deve avere esclusivo riguardo al valore economico della cosa ricettata, ma deve fare riferimento a tutti i danni patrimoniali oggettivamente prodotti alla (o alle) persona(e) offesa(e) dal reato quale conseguenza diretta del fatto illecito e, perciò, ad esso riconducibili, la cui tenuità – gravità deve essere apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti. L’apprezzamento del giudice di merito, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Torino, con sentenza del 20 maggio 2004, dichiarava Ruggiero Giuseppe responsabile del delitto di ricettazione di assegni, facenti parte di un carnet oggetto di furto, successivamente riempiti dallo stesso Ruggiero ed utilizzati per effettuare acquisti per un ammontare complessivo di lire 3.932.860; nonché dei delitti di ricettazione di carta di identità denunciata smarrita, di falsità materiale in relazione alla stessa carta di identità e di sostituzione di persona.
A seguito di impugnazione dell’imputato, la Corte di Appello di Torino, con sentenza del 20 marzo 2007, in parziale riforma della sentenza appellata, dichiarava non doversi procedere in ordine ai reati di falso e sostituzione di persona, perché estinti per prescrizione, e rideterminava la pena.
La Corte di Appello escludeva che il fatto imputato come ricettazione potesse essere qualificato come furto, poiché l’imputato non aveva fornito alcuna indicazione in merito; riteneva che il fatto stesso non potesse essere considerato di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 648, comma 2, c.p. “essendo stato commesso da soggetto pluripregiudicato per reati contro il patrimonio che così operando ha denotato una notevole propensione all’illecito”.
La Corte di Appello, inoltre, negava la concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., dichiarando di aderire all’insegnamento della Suprema Corte, che, con sentenza n. 31169 del 2006 aveva affermato che detta attenuante non può essere riconosciuta, laddove si abbia riguardo ad assegni o a moduli di documenti, in sé privi di rilevanza economica, che non potendo formare oggetto di alcun negozio, non consentono di ravvisare un danno patrimoniale misurabile in termini di speciale tenuità.
Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo:
omissis
Il magistrato assegnato all’ufficio spoglio della seconda sezione penale ha prospettato un contrasto di giurisprudenza e ha chiesto l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Il Primo Presidente con provvedimento del 25 maggio 2007 assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
Motivi della decisione
I motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.
omissis
Il secondo motivo di ricorso solleva una questione di diritto controversa, che ha determinato l’assegnazione a queste Sezioni Unite.
In effetti, sull’applicabilità dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, di cui all’art. 62, comma 1°, n. 4, c.p. nel caso in cui la ricettazione abbia per oggetto moduli di assegni bancari, si registrano diversi orientamenti giurisprudenziali, fermo, peraltro, il principio, ormai pacifico, fissato da Cass. S.U. n. 13330 del 26 aprile 1989, Beggio (RV 182220 e 182221) secondo il quale “l’attenuante di aver cagionato alla persona offesa del reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, prevista dall’art. 62 n. 4 c.p., è compatibile con l’ipotesi attenuata di ricettazione prevista dall’art. 648, secondo comma c.p., solo se la valutazione del danno patrimoniale sia rimasta estranea al giudizio sulla particolare tenuità del fatto che caratterizza l’ipotesi attenuata di ricettazione, e che va condotto alla luce di tutti i parametri di cui all’art. 133 c.p., perché ove il danno patrimoniale sia stato tenuto presente in tale giudizio l’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 c.p. è assorbita nell’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, secondo comma c.p.”.
Neppure si ravvisa contrasto giurisprudenziale con riferimento al caso in cui l’oggetto del reato di ricettazione sia un assegno già formato con indicazione dell’importo e non un assegno in bianco, e ciò perché, si afferma, la natura di titolo di credito e le obbligazioni in esso consacrate fanno assumere all’assegno i connotati di un “bene”, con valore economicamente apprezzabile, e, con riferimento al quantum portato dallo stesso, anche agli effetti del danno patrimoniale causato dalla commissione del reato; in tal caso, si precisa, “è da escludersi che il danno conseguente alla utilizzazione del titolo possa essere dissociato dalla condotta del colpevole e riferito, invece, ad una diversa e successiva attività criminosa” (Cass. S.U. n. 13330 del 1989, Beggio cit.; conformi: Cass. V 6 dicembre 2005 – 23 febbraio 2006, n. 6770, Bertucci, RV 233998; Cass. II 18 dicembre 2003 – 27 gennaio 2004, n. 2919, Melia, RV 228564; Cass. II 14 maggio 1991, n. 9280, Battaglia, RV 187935).
Controversa, invece, è l’individuazione dei criteri di applicabilità dell’attenuante di aver cagionato alla persona offesa del reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, nel caso in cui oggetto della ricettazione siano moduli di assegni bancari in bianco.
Sulla questione controversa, in verità, le Sezioni Unite si sono già pronunciate con la sentenza n. 10446 del 7 luglio 1984, Del Pozzo (RV 166806), la quale ha affermato che “la questione relativa all’applicabilità, o meno della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, di cui all’art. 62 n.4 c.p., nell’ipotesi di ricettazione di assegni bancari in bianco (art. 648 c.p.) va risolta, in linea generale, nel senso che la speciale tenuità del danno deve essere apprezzata in relazione al valore della cosa che forma oggetto del reato. Ciò significa che, quando non si tratti di denaro, si deve tener conto del valore economico che la cosa oggetto del reato ha nelle normali contrattazioni commerciali, in un determinato momento storico; senza che possa darsi peso, a tale riguardo, ad elementi contingenti o casuali, di natura oggettiva o soggettiva, che possano influenzare, in un senso o nell’altro, la valutazione economica della cosa come tale”.
Sulla base di tale principio, che si considera conseguenza di quello più generale per cui il danno, ai fini dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., è quello che deriva in modo immediato e diretto dal reato, si afferma che nell’ipotesi di ricettazione di moduli di assegni bancari in bianco, la valutazione, ai fini della concessione o del diniego dell’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 c.p., del danno patrimoniale derivante dal reato di ricettazione va effettuata in base al valore (materiale) dei moduli stessi e non al diritto di credito incorporabile nei titoli (così Cass. Un. Cit.).
Identico principio è stato espresso da Cass. S.U. 7 luglio 1984, n. 10445, Suardi (RV 166805), che, con riferimento all’ipotesi di ricettazione di moduli per carte di identità, ha formulato l’ulteriore precisazione che non “rileva al fine de quo, che con azioni successive, ad opera dello stesso o di altri soggetti la cosa in questione venga utilizzata, per commettere altre azioni delittuose integranti di per se stesse uno o più reati, in relazione ai quali la tenuità o la gravità del danno eventualmente prodotto si atteggia in un’autonoma tematica circostanziale”.
Successivamente a tali pronunce delle Sezioni Unite, si registrano orientamenti giurisprudenziali difformi.
Molte decisioni mostrano adesione ai principi espressi dalle citate Sezioni Unite, affermando che al danno patrimoniale previsto dall’attenuante debba assegnarsi valore oggettivo intrinseco, così che, nel caso di ricettazione di moduli di assegni in bianco, il riferimento non possa che essere al valore dei moduli e non già agli importi che risultino apposti in un momento successivo, dando luogo ad ulteriori ipotesi delittuose, come il falso o la truffa (Cass. IV, 5 luglio 2005, n. 44639, Verderosa, RV 232613; Cass. IV, 9 marzo 2004, n. 20303, Benedetti, 228580; Cass. II, 28 settembre 1992 – 5 febbraio 1993, n. 1036, Cacace, RV 193008; Cass. II, 8 gennaio 1992, n. 1999, Fontana, RV 189160; Cass. II, 15 luglio 1987 – 30 gennaio 1988, n. 1315, Di Mauro, RV 177511; Cass. II, 3 luglio 1986, n. 13861, Verrecchia, RV 174539).
E’ evidente che questa scelta interpretativa consente un’amplissima possibilità di ricorrenza dell’attenuante, dato che il valore economico intrinseco di un assegno non compilato o di un documento è assai limitato.
Si comprende perché il formale ossequio alle decisioni delle Sezioni Unite non ha impedito che la giurisprudenza in più occasioni precisasse, sia pure con riferimento alla ricettazione di moduli di documenti (carta di identità, patente di guida, porto d’armi), che occorre valutare non soltanto il costo della carta e della stampa, ma anche i costi connessi alle attività ed alla documentazione necessarie per conseguire il documento (Cass. II, 31 maggio 1991, n. 8759, Angelone, RV 188343), e soprattutto, i costi delle operazioni tecniche necessarie a rendere i moduli difficilmente imitabili o addirittura inimitabili (Cass. II, 14 gennaio 1985, n. 4404, Ranieri, RV 169881), anche se, poi, il costo di tali operazioni, in altre decisioni, pur ritenuto rilevante, non è stato considerato comunque sufficiente ad elevare il danno al di sopra della soglia della speciale tenuità (Cass. II, 4 novembre 1988, n. 2840, Proietti, RV 180595; Cass. II, 19 maggio 1992, n. 7133, Moschera, RV 191330)
Secondo un’interpretazione in radicale contrasto con quella espressa dalle citate Sezioni Unite, la sussistenza dell’attenuante in questione nella ricettazione di assegni in bianco dovrebbe essere esclusa, in ragione della potenziale utilizzazione dei titoli che conferirebbe agli stessi un valore che trascende quello della loro materialità cartacea (Cass. II, 11 luglio 1991, n. 4988, Petrelli, RV 188048).
Si precisa, altresì, che “occorre avere riguardo non esclusivamente al valore venale della carta e del costo della stampa del modulo, ma anche all’interesse generale della banca emittente al cosiddetto “valore formale” del documento, per la peculiare funzione garantistica nel commercio giuridico dei titoli di credito, interesse la cui lesione è attuale e concomitante alla ricettazione, indipendentemente dall’utilizzazione concreta del titolo e dalla conseguente eventuale realizzazione degli ulteriori reati di falso e truffa (Cass. II, 30 giugno 1992 – 5 gennaio 1993, n. 8, La Rocca, RV 192641).
Analoghe affermazioni di principio sono contenute in quelle pronunce che esaminano la problematica della speciale tenuità con riferimento alla ricettazione di quell’altro strumento di pagamento che è costituito dalle carte di credito il cui “valore strumentale” si sovrappone al valore economico intrinseco, in considerazione della potenzialità del danno derivante dalla circolazione di detti documenti (Cass. II, 10 ottobre 1995 – 26 aprile 1996, n. 4320, Di Mauro, RV 204759; Cass. II, 22 maggio 1990 – 5 aprile 1991, n. 3731, Fundarò, RV 186765, che espressamente considera “equiparabile” la carta di credito a un modulo in bianco di assegno bancario).
Una terza soluzione interpretativa è quella sostenuta dalla sentenza della Sezione II di questa Corte n. 31169 del 1° giugno 2006, Pomettini, RV 234681, sulla quale si è basata la decisione della Corte di Appello di Torino oggetto del ricorso, che considera il modulo di assegno in bianco cosa priva di rilevanza economica, non potendo formare oggetto di transazioni commerciali, con la conseguenza che l’attenuante di cui si parla “non può trovare applicazione proprio perché difetta la patrimonialità della res”, la cui acquisizione, pertanto, “non può integrare, ex se, un fatto o un danno di particolare tenuità”. Tale orientamento giurisprudenziale, peraltro, osserva che “comunque” “anche la condivisione della tesi che ha come esclusivo riferimento il valore del modulo in bianco, porta a ritenere irragionevole (. . .) l’affermazione che l’acquisizione dell’oggetto non presenti una intrinseca (sia pur modesta) potenzialità aggressiva del patrimonio del derubato”, dovendosi tenere conto di tutte le operazioni tecniche necessarie a rendere il modulo difficilmente imitabile, del costo di tutte le operazioni indispensabili per la sua utilizzazione, del disagio e delle spese da affrontare per la denuncia e il rinnovo del documento, così come degli adempimenti (quali il “blocco” del conto corrente) che la vittima deve sovente porre in essere per impedire la indebita utilizzazione del conto mediante operazioni bancarie effettuate prima della denuncia.
Si può constatare che tutte le soluzioni interpretative della norma in questione, conducono, spesso, peraltro, con argomentazioni apodittiche, a soluzioni radicali: o la generale applicabilità dell’attenuante in ogni caso di ricettazione di moduli di assegni in bianco, in considerazione dell’intrinseco tenue valore della cosa ricettata o la sua totale inapplicabilità, tenuto conto della insuscettibilità di valutazione economica della cosa stessa oppure della sua potenzialità criminosa.
A fronte di tali radicali soluzioni, che, in applicazione di principi astratti, non consentono al giudice valutazioni discrezionali in merito alla graduazione della pena nelle fattispecie concrete, pur in presenza di un’ipotesi tipica di circostanza del reato, occorre procedere ad una ricostruzione della normativa in materia che non si lasci suggestionare da indimostrate pregiudiziali interpretative e che verifichi la percorribilità di un percorso argomentativo che consenta al giudice di esercitare i suoi poteri di accertamento della sussistenza nello specifico caso di specie dell’ipotesi di legge.
La base di partenza non può che essere il testo letterale del disposto dell’art. 62 n. 4 c.p..
La norma fa riferimento al “danno patrimoniale di speciale tenuità” cagionato alla persona offesa dal reato e non al semplice valore della cosa ricettata
Sulla base di tale testo, si può formulare una prima osservazione, cioè che la giurisprudenza quando dibatte sul valore economico della cosa ricettata trascura di considerare che il disposto della legge fa riferimento al “danno patrimoniale di speciale tenuità” cagionato alla persona offesa dal reato e non al semplice valore della cosa ricettata.
Quando il legislatore ha voluto fare riferimento al valore della cosa oggetto del reato lo ha detto espressamente, come nel caso del furto punibile a querela dell’offeso se il fatto è commesso su “cose di tenue valore” (art. 626 n. 2 c.p.).
Si può anche ricordare che la disposizione in esame trova riscontro in quella dell’art. 431 del codice penale Zanardelli, che, invece, faceva riferimento, per l’aumento o la diminuzione della pena, al “valore della cosa che ha formato oggetto del delitto” o al “danno recato”, con ciò distinguendo chiaramente i due termini di riferimento.
La norma parla di tenuità del danno non di entità
Anzi, il richiamo alla “tenuità” del danno e non alla sua semplice “entità” rende ancora più evidente che il punto di riferimento per la valutazione in merito all’applicabilità dell’attenuante in questione non può essere il semplice valore oggettivo della cosa ricettata.
La circostanza attenuante in questione si contrappone alla circostanza aggravante delk danno patrimoniale di rilevante gravità
La circostanza attenuante comune di cui all’art. 62 n. 4 c.p. si contrappone alla circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n. 7 c.p., l’avere “cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità”.
La “tenuità”, pertanto, si contrappone alla “gravità” e lo stesso riferimento normativo alla gravità piuttosto che all’entità del danno invita ad una valutazione il più possibile completa del danno; in altri termini, il valore della cosa che costituisce l’oggetto materiale del reato non necessariamente esaurisce la gravità del danno che rileva ai fini in esame.
Lascia perplessi l’affermazione secondo cui un modulo di assegno in bianco non è suscettibile di valutazione economica
Si deve, inoltre, considerare che la tesi secondo la quale il modulo di assegno in bianco non è suscettibile di valutazione economica non potendo formare oggetto di transazioni commerciali, suscita anche perplessità sistematiche.
Infatti, la stessa sentenza che introduce tale principio si preoccupa di argomentare che esso “non comporta, ovviamente, ricadute in tema di reato presupposto (in ipotesi, in tema di furto), atteso che in relazione a tale fattispecie è stato costantemente affermato che il bene oggetto della condotta criminosa non deve essere considerato unicamente nella sua consistenza materiale, ma anche con riferimento alla sua normale destinazione d’uso, equivalente al profitto illecito che ne trae colui che se ne è impossessato (cfr., ex plurimis, Cass., Cass. V, 25 settembre 1998, Di Gioia): in altri termini, la nozione di “patrimonio”, ai suddetti fini, ricomprende necessariamente anche quelle cose che, pur prive di reale valore di scambio, rivestono comunque interesse per il soggetto che le possiede”.
Non si considera, peraltro, che tale affermazione se può non comportare conseguenze in tema di furto, che richiede per la sua configurabilità soltanto il fine di profitto, può, invece, comportare conseguenze inaccettabili con riferimento a quei delitti contro il patrimonio, come l’estorsione, la truffa, la frode informatica, che richiedono per il perfezionamento della fattispecie oltre al profitto anche l’altrui danno.
D’altro canto, la stessa pronuncia della Sezione II, mentre tenta di andare al di là della interpretazione delle Sezioni Unite, ad essa, poi, si richiama, integrandola con una precisazione in merito ai criteri di determinazione del valore del modulo di assegno in bianco, che conduce, comunque, ad escludere sempre l’applicabilità dell’attenuante in questione, mantenendo, però, in tal modo, irrisolto il problema dell’esatta individuazione del corretto fondamento giuridico dell’inapplicabilità, nella specie, dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p..
La giurisprudenza che tiene in preminente considerazione le potenzialità criminose del bene ricettato potrebbe ritenersi coerente con lo spirito dell’incriminazione di cui all’art. 648 c.p., soprattutto dopo le modifiche operate dall’art. 15 della legge 22 maggio 1975, n. 152 e l’aggiunta effettuata dall’art. 3 della legge 9 agosto 1993, n. 328.
E’ opinione diffusa che la previsione del delitto di ricettazione non abbia una valenza di tipo quasi esclusivamente patrimoniale, ma svolga anche rilevanti funzioni di prevenzione generale rispetto a quei comportamenti che rendono produttivo il commettere reati e che consentono ai loro autori di negoziare il provento delle attività criminose.
Tale giurisprudenza non considera, però, che la potenzialità criminosa della cosa ricettata, per potere essere valutata ai fini della diminuzione o dell’aggravamento di pena, deve avere avuto concreta attuazione, poiché il danno potenziale è estraneo alla funzione dell’attenuante in questione che richiama una dimensione effettiva e concreta del danno, come si desume anche dall’art. 133, comma 1, n. 2, c.p. che attribuisce, invece, rilevanza non solo alla “gravità del danno cagionato alla persona offesa” ma anche al semplice “pericolo” di danno. Pertanto, perché l’“interesse generale della banca emittente al cosiddetto valore formale del documento” possa acquistare rilevanza ai fini della valutazione dell’applicabilità dell’attenuante ex art. 62 n. 4 c.p., occorre individuare una concreta fattispecie risarcitoria di natura patrimoniale, la cui configurabilità è confermata dalla giurisprudenza civilistica in materia (Cass. I, 30 maggio 1963, n. 1466, RV 262186; Cass. III, 9 aprile 1982, n. 2208, RV 420075; Cass. III, 14 ottobre 1992, n. 11207, RV 478912; Cass. III, 18 febbraio 2000, n. 1859, RV 534078; Cass. I, 7 giugno 2000, n. 7698, RV 537354; Cass. III 29 settembre 2004, n. 19565, RV 577422).
Altra affermazione non attentamente approfondita dalla giurisprudenza è quella secondo la quale deve considerarsi soltanto il valore cartaceo del modulo di assegno in bianco ricettato, quando il riempimento sia addebitabile all’autore dell’ulteriore e successivo reato.
Non si considera che applicando tale affermazione di principio in un corretto quadro sistematico, dovrebbe, con ragionamento speculare, riconoscersi che quando il ricettatore riceve cose provenienti da delitto, il danno cagionato da questo si può ritenere già compiutamente verificato, con la conseguente impossibilità di trasferire nello schema della ricettazione, e con identità di qualifica, la persona offesa dal reato presupposto, con la conseguenza che può sostenersi che, essendo la ricettazione reato autonomo rispetto al delitto presupposto, le circostanze del danno patrimoniale devono essere valutate non in rapporto al valore della cosa ricettata (che riguarda il danno cagionato dal delitto presupposto), bensì in rapporto al danno patrimoniale ulteriore.
Pertanto, come chiaramente discende dalla stessa formulazione letterale della norma, agli effetti dell’attenuante in questione ciò che effettivamente rileva è il danno cagionato dal reato, che nel suo significato più proprio é quello giuridicamente considerabile, cioè, quello per cui è data l’azione di risarcimento, tenendo ben presente che il danno risarcibile che il reato può determinare può essere elemento costitutivo dell’incriminazione, ma potrebbe anche essere pregiudizio inerente all’aggressione del bene protetto o conseguenza diretta scaturente dall’offesa tipica. Risulta allora evidente che la chiave di lettura dell’art. 62, n. 4 c.p. (ed anche dell’art. 61 n. 7 c.p.), è offerta dall’art. 185 c.p., che, senza alcun riferimento al titolo ed alla collocazione sistematica del reato e, quindi, all’interesse primario da esso previsto e tutelato, concerne l’obbligo del risarcimento in via civile del danno, di cui il reato stesso in concreto sia stato causa immediata.
L’espressione danno “cagionato” di cui all’art. 62 n. 4 c.p. trova perfetta corrispondenza nell’art. 185, che fa riferimento appunto al danno “cagionato” dal reato, esprimendo il concetto che tra l’azione (o l’omissione) e il danno deve esistere un rapporto di causa ad effetto: ciò che rileva, appunto, è che il danno sia conseguenza diretta del fatto illecito a prescindere dalla riferibilità al momento consumativo dello stesso.
Tale chiave di lettura è pacifica nella giurisprudenza, a prescindere dalla obiettività giuridica del reato, purché siano coinvolti interessi a carattere patrimoniale, con riguardo all’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. (“l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno”), ma non si ravvisa alcuna giustificazione giuridicamente fondata per ritenere che la stessa non valga anche con riguardo all’attenuante di cui si discute. L’unica differenza tra le due attenuanti è data dalla loro rispettiva natura, l’una, quella di cui all’art. 62 n. 4 c.p., di natura oggettiva, che prescinde dalla condotta dell’agente, l’altra, quella di cui all’art. 62 n. 6 c.p., di natura soggettiva, che presuppone il ravvedimento attivo del colpevole.
Le differenti formule legislative sono, appunto, conseguenza della diversa natura, che importa soltanto nell’ipotesi di cui all’art. 62 n. 6 c.p. una valutazione integrale, oltre che analitica, del danno risarcibile senza distinzioni all’interno di esso.
E’, pertanto, una conseguenza logica, che risponde anche a una ortodossa regola di ermeneutica, ritenere la unitarietà del concetto di danno nell’ambito della stessa norma, sia ai fini del n. 4 sia a quelli del n. 6 dell’art. 62.
La circostanza attenuante in esame richiede la produzione del danno in capo alla persona offesa dal reato
In verità la giurisprudenza ha rilevato che, diversamente da quanto previsto dall’art. 62 n. 6 c.p., l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., richiede la produzione del danno in capo alla “persona offesa” dal reato, e ciò giustificherebbe nell’un caso il riferimento ad ogni nocumento patrimoniale derivante dal fatto lesivo, nell’altro caso alla diminuzione patrimoniale determinata dall’azione del colpevole nel momento della consumazione del reato (Cass. S.U. 6 dicembre 1991 – 1 febbraio 1992, n. 1048, Scala).
Senza entrare nella dibattuta questione dell’esatta individuazione del concetto di “persona offesa”, questione della quale queste Sezioni Unite non sono investite, si può rilevare che, mentre la circostanza attenuante del risarcimento del danno prima del giudizio (art. 62 n. 6 c.p.) fa riferimento al danno patrimoniale che può derivare da qualsiasi reato, con riguardo alla circostanza in esame (e a quella di cui all’art. 61 n. 7 c.p.), invece, il legislatore ha voluto delimitare l’ambito di applicazione, prendendo in considerazione, non soltanto i reati classificati dalla stessa legge come “contro il patrimonio” (Titolo XIII del codice penale), ma anche quelli c.d. ad offesa plurima, la cui categoria è stata elaborata dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Un. 9 luglio 1960, Esti, che si è pronunciata con specifico riferimento alle circostanze, attenuante e aggravante, in esame) e da larga parte della dottrina.
La circostanza attenuante è applicabile anche ai delitti che comunque offendono il patrimonio
Non è irrilevante che l’attenuante in questione sia applicabile non solo ai delitti contro il patrimonio ma anche a quelli che comunque offendono il patrimonio.
Con tale formula si fa riferimento all’incriminazione di fatti, in cui, pur essendo primaria e principale l’offesa ad interessi non patrimoniali, non manca, in via secondaria o accessoria, l’offesa al patrimonio.
Si aggiunga che gli articoli 61 n. 7 e 62 n. 4 c.p. prevedono l’applicabilità del danno grave – tenue anche nei confronti dei delitti, che, pur non essendo contro il patrimonio e pur non rientrando nella categoria dei delitti che comunque offendono il patrimonio, sono determinati da motivi di lucro.
Ciò significa che la circostanza deve essere applicata in ogni caso nel quale vi sia una persona offesa danneggiata dal reato, cioè il titolare di un interesse inerente alla tutela del bene leso o messo in pericolo dall’azione criminosa sul quale ricadono direttamente gli effetti economici dell’aggressione al bene tutelato.
Si può, pertanto, affermare che il riferimento al “danno” cagionato alla persona offesa, a prescindere dall’oggettività giuridica primaria del reato, rende evidente che il legislatore ha inteso riferirsi alla produzione di un danno risarcibile, con la limitazione del riferimento al danno “patrimoniale” che sia stato cagionato ad una “persona offesa” (a differenza dell’art. 62 n. 6, che dà rilievo alla gravità del danno, senza alcuna specificazione, e dell’art. 133 n. 2 c.p., che prende in considerazione la gravità del danno “cagionato alla persona offesa”, ma senza la specificazione della patrimonialità del danno e senza delimitazione di categorie di reati); ciò non significa, però, come si è detto, che il danno considerato sia soltanto quello costituente elemento della fattispecie criminosa, proprio perchè non tutti i reati contro il patrimonio e, ancor meno, quelli che offendono il patrimonio o che sono determinati da motivi di lucro prevedono all’interno della fattispecie tipica la produzione di un danno, così che appare incongruo riferirsi al momento consumativo del reato per la determinazione del danno.
Anche sul punto può richiamarsi il disposto dell’art. 431 del codice Zanardelli, il quale stabiliva che il “il valore della cosa” o il “pregiudizio recato” dovevano essere determinati “nel momento del delitto”: proprio la necessità di una disposizione espressa evidenziava che tale principio non si deduceva dal sistema, ma era una precisa scelta legislativa, che non è stata ribadita nel codice vigente.
Che si tratti, poi, di una circostanza del reato che opera oggettivamente, comporta che il giudice di merito dovrà in concreto accertare se il danno patrimoniale sia conseguenza diretta del fatto illecito e valutare la sua gravità in termini generali e globali, senza quelle specificazioni analitiche che sarebbero richieste per la pronuncia di statuizioni civilistiche. Inoltre, perché si possa invocare l’applicazione di una circostanza attenuante è necessario che sussista la prova certa del peculiare fatto che è invocato a fondamento della stessa. Lo stabilire se le risultanze processuali forniscano tale dimostrazione spetta al giudice di merito, il cui giudizio, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione.
Deve, pertanto, essere formulato il seguente principio di diritto: “La valutazione del danno patrimoniale cagionato alla persona offesa dal reato, ai fini della concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., nel caso di ricettazione non deve avere esclusivo riguardo al valore economico della cosa ricettata, ma deve fare riferimento a tutti i danni patrimoniali oggettivamente prodotti alla (o alle) persona(e) offesa(e) dal reato quale conseguenza diretta del fatto illecito e, perciò, ad esso riconducibili, la cui tenuità – gravità deve essere apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti. L’apprezzamento del giudice di merito, quando è sorretto da logica ed adeguata motivazione, è incensurabile in cassazione”.
La motivazione della sentenza impugnata, pertanto, deve essere corretta in diritto (art. 619 c.p.p.), con l’applicazione nel caso di specie del principio sopra formulato, in luogo di quello utilizzato per la decisione, ma tale correzione non ha alcuna influenza sul dispositivo.
Infatti, premesso che non è stato oggetto del ricorso per cassazione il diniego dell’attenuante speciale di cui all’art. 648 cpv. c.p., deve rilevarsi che la motivazione della sentenza di primo grado, la quale, alla luce della pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, integra quella di appello ad essa conforme, nega la suddetta attenuante speciale considerando non solo la componente soggettiva del reato (imputato particolarmente pericoloso atteso che si è dimostrato proclive a delinquere), ma anche la componente oggettiva, cioè “l’entità del danno economico arrecato, ammontante a diverse migliaia di euro”, tenuto conto dell’importo degli assegni ricettati in bianco, che sono stati riempiti dallo stesso ricettatore, come conseguenza, quindi, riconducile all’autore del reato di ricettazione.
Pertanto, deve ritenersi non accoglibile il motivo di ricorso con il quale si lamenta il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., in applicazione del principio formulato dalle Sezioni Unite, più sopra citate, che non ammette la duplice valutazione dell’entità del danno ai fini della concessione sia dell’attenuante comune (art. 62 n. 4 c.p.) che di quella speciale della ricettazione (art. 648 cpv. c.p.).
(omissis)
18. Ricettazione e dolo eventuale
Cass. S.U. 26 novembre 2009, Nucera
in sintesi
E’ configurabile il dolo nel delitto di ricettazione anche nel caso in cui l’agente abbia la consapevolezza della concreta probabilità che la cosa provenga da delitto.
…
1. Mario Nucera, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del 20 settembre 2006 con la quale la Corte di appello di Torino, riformando parzialmente la decisione di primo grado, gli ha riconosciuto le attenuanti degli artt. 62, n, 6, e 62 bis c.p. e ha rideterminato in tre mesi di reclusione e cento euro di multa la pena inflitta al ricorrente per i reati previsti dall’art. 648 c.p. e dall’art. 12 d.l. 3 maggio 1991, n. 143.
Risulta dalla sentenza impugnata che Nucera, a bordo dell’autovettura tg. BG882JV, aveva utilizzato per il pagamento del pedaggio autostradale al casello di Cigliano (VC) una tessera Viacard del valore nominale di lire 50.000, che era stata ritirata dall’operatore perché, dopo essere stata usata per l’ultima volta lecitamente il 14 aprile 1999, era stata rigenerata e poi utilizzata indebitamente il 7 giugno 2000 e successivamente altre sei volte. Nocera si era giustificato affermando di avere acquistato la tessera da uno sconosciuto, che all’interno di un’area di servizio gliela aveva venduta dicendo di essere rimasto senza benzina e con poco denaro.
Per questo fatto, in seguito a un giudizio abbreviato, il ricorrente era stato ritenuto responsabile dei reati di ricettazione e di uso indebito della tessera Viacard.
La corte di appello aveva confermato la condanna ritenendo che le circostanze dell’acquisto dimostrassero quanto meno l’esistenza di un dolo eventuale, in presenza del quale doveva ravvisarsi il reato di ricettazione e non quello di incauto acquisto. Inoltre, dopo avere aggiunto che l’imputato non aveva dato una giustificazione del proprio acquisto, perché aveva riferito circostanze incontrollabili, la Corte aveva rilevato che secondo una giurisprudenza consolidata «la mancata giustificazione del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della sua illecita provenienza».
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2. La seconda sezione di questa Corte con ordinanza del 19 giugno 2009 ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., avendo rilevato l’esistenza di un contrasto sulla configurabilità del reato di ricettazione quando l’agente non conosce la provenienza delittuosa della cosa ma se ne rappresenta la probabilità o la possibilità.
Come ha ricordato la sezione rimettente, secondo un primo orientamento nel delitto ex art. 648 c. p. è ravvisabile il dolo eventuale quando la situazione fattuale – nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e dell’esperienza – sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res, ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza.
Secondo un altro orientamento invece il dolo eventuale non sarebbe compatibile con il reato di ricettazione perché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa che si acquista o comunque si riceve provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del bene, non essendo sufficiente che l’agente si sia rappresentata la possibilità di tale origine per circostanze idonee a suscitare perplessità; quest’ultima ipotesi, ricadrebbe, invece, nell’ambito dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa, ovvero anche solo contravvenzionale, ed impongano all’acquirente, indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza.
A questo indirizzo, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, possono essere ascritte anche le decisioni che ritengono necessaria la certezza della provenienza illecita della res aggiungendo però che tale certezza si può desumere anche dalla qualità delle cose e dagli altri elementi sintomatici considerati dall’art. 712 c. p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la comune esperienza la convinzione che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre.
Peraltro, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, in varie decisioni della Suprema Corte l’adesione a uno degli orientamenti indicati deriva da scelte non argomentate, che prescindono dal dibattito, anche dottrinale, sulle caratteristiche del dolo eventuale: con riguardo alla ricettazione, in particolare, non si tiene conto delle problematiche connesse ai limiti di applicabilità della categoria del dolo eventuale, elaborata principalmente nella materia dei reati di evento, ai reati non causalmente orientati e connotati dal riferimento strutturale ad un reato presupposto, ossia a un fatto già accaduto. Inoltre, non vengono approfonditi i rapporti tra le fattispecie criminose di cui agli artt. 648 e 712 c. p. né si chiarisce se e per quali aspetti il dubbio sul reato presupposto, che dovrebbe bastare per ritenere sussistente l’elemento soggettivo della ricettazione, si distingua dal “sospetto” che integra il reato di acquisto di cose di sospetta provenienza, essendo difficile affermare che solo in un caso e non nell’altro l’autore del reato abbia accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, adottando una formula (quella dell’accettazione del rischio) elaborata con specifico riferimento ai reati di evento, mentre la provenienza illecita nel delitto di ricettazione costituisce un presupposto del fatto, che può essere oggetto di vari gradi di rappresentazione, ma che non è prevedibile né evitabile.
…
la questione della compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione
1. La questione rimessa alle Sezioni unite riguarda, come si è visto, la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, e la sezione rimettente, dopo aver ricordato gli argomenti addotti a sostegno dei due orientamenti giurisprudenziali contrastanti, ha indicato un’ulteriore ragione, di carattere preliminare, che a suo avviso potrebbe imporre una soluzione negativa, perché ha osservato che la provenienza illecita nella ricettazione costituisce un presupposto del fatto, rispetto al quale può dubitarsi che assuma rilevanza l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale.
l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale
Si tratta però di un dubbio agevolmente superabile perché il dolo eventuale è una figura di costruzione giurisprudenziale e dottrinale e non c’è ragione di ritenere che essa possa riferirsi al solo evento del reato e che l’atteggiamento psicologico nel quale la si fa consistere non possa riguardare anche i presupposti.
L’elemento psicologico del reato è costituito, prima che da una componente volitiva, da una componente rappresentativa, che investe il fatto nel suo complesso, e dunque non solo gli effetti della condotta ma anche gli altri elementi della fattispecie, e dà piena ragione della colpevolezza dell’agente.
Perciò se si ritiene che il dolo sia costituito dalla rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico o anche, nel caso di dubbio, dalla sua accettazione, alla quale si collega secondo la giurisprudenza il dolo eventuale, non c’è ragione di distinguere il caso in cui il dubbio cade sulla verificazione dell’evento, che viene accettato, da quello in cui cade su un presupposto.
In un caso e nell’altro l’agente si rappresenta la possibilità di commettere un delitto e ne accetta la realizzazione: egli non si astiene dal tenere una condotta ben sapendo che può dar luogo a un illecito, anche se questo non viene direttamente voluto.
L’agente, come è stato affermato in dottrina, deve rappresentarsi l’esistenza dei presupposti «come certa o come possibile, accettando l’eventualità della loro esistenza», sicché può dirsi che ci si trova in presenza di un dolo eventuale quando chi agisce «si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi: il soggetto decide di agire “costi quel che costi”, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto».
Deve quindi convenirsi che l’atteggiamento psicologico nel quale si fa consistere il dolo eventuale ben può riguardare i presupposti del reato, anche se si tratta di un atteggiamento che in questo caso si riferisce a una situazione già esistente al momento dell’azione mentre quando ha ad oggetto l’evento si riferisce a una situazione futura, che potrà derivare dalla condotta dell’agente.
il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto
Del resto il contrasto di giurisprudenza sulla configurabilità del dolo eventuale nella ricettazione, nel caso in cui l’agente si rappresenti la possibilità della provenienza delittuosa della cosa, non concerne la configurabilità di un atteggiamento psicologico del genere rispetto ai presupposti del reato ma il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto, perché una parte della giurisprudenza è dell’opinione che l’ipotesi in questione rientri specificamente nella previsione dell’art. 712 c.p., che insomma per espressa previsione della legge il dolo eventuale valga a costituire la fattispecie dell’incauto acquisto, rimanendo così sottratto alla sfera applicativa dell’art. 648 c.p.
il delitto previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231)
Il contrasto concerne quindi il rapporto tra i due reati, ma nel caso sottoposto alle Sezioni unite entra in gioco anche il delitto previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231), che tra l’altro punisce l’acquisto di carte di credito o di pagamento di provenienza illecita.
Con la sentenza 28 marzo 2001, n. 22902, Tiezzi, rv. 218872 le Sezioni unite hanno ritenuto che l’acquisto di carte di provenienza delittuosa costituisca ricettazione, «dovendosi viceversa ricondurre alla previsione incriminatrice di cui all’art. 12, seconda parte, d.l. 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella l. 5 luglio 1991, n. 197 (che sanziona, con formula generica, la ricezione dei predetti documenti “di provenienza illecita”), le condotte acquisitive degli stessi, nelle ipotesi in cui la loro provenienza non sia ricollegabile a un delitto, bensì a un illecito civile, amministrativo o anche penale, ma di natura contravvenzionale».
Ciò posto, se si dovesse ritenere che l’acquisto con dolo eventuale di una carta di credito o di pagamento di origine delittuosa non costituisca ricettazione ci si dovrebbe chiedere quale delle due altre fattispecie, quella dell’art. 12 l. n. 143 cit. o quella dell’art. 712 c.p. sia integrata, e verosimilmente si dovrebbe optare per la prima soluzione.
E’ da aggiungere che nel caso in esame, se questa dovesse essere la conclusione, ci si troverebbe di fronte all’alternativa sull’applicabilità dell’art. 648 c.p. o dell’art. 12 l. n. 143 cit., ma la questione dei rapporti tra l’art. 648 c.p. e l’art. 712 c.p. resterebbe rilevante per stabilire se il dolo eventuale possa o meno integrare il delitto di ricettazione, perché un’eventuale conclusione negativa, rendendo inapplicabile l’art. 648 c.p., lascerebbe il campo all’art. 12 d.l. n. 143 cit.
2. L’orientamento contrario alla tesi della compatibilità tra ricettazione e dolo eventuale è stato ben delineato da Sez. II, 2 luglio 1982, n. 1180/83, Blanc con l’affermazione che il delitto di ricettazione, sia per la sua strutturazione giuridica sia per la sua correlazione logica con la contravvenzione di incauto acquisto, non prevede la punibilità a titolo di dolo eventuale o alternativo, ma solo a titolo di dolo diretto.
Secondo questa decisione, ad integrare gli elementi costitutivi della ricettazione «occorre, oltre al presupposto di fatto dell’effettiva esistenza di un delitto da cui il denaro o le altre cose provengano, che l’agente, al momento dell’acquisto o della ricezione, pienamente consapevole dell’origine delittuosa delle cose, volontariamente e coscientemente le abbia trasferite nella propria disponibilità, non essendo sufficiente che egli si sia rappresentata la possibilità di tale origine delittuosa per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza delle cose stesse». Quest’ultima ipotesi, osserva la sentenza Blanc, «ricade invece nell’ambito della specifica previsione dell’art. 712 c. p., che punisce a titolo di colpa l’acquisto o la ricezione di cose che, per le obiettive condizioni stabilite nello stesso disposto di legge, denuncino, di per sé, il sospetto di un’origine di natura delittuosa ovvero anche solo contravvenzionale e impongano all’acquirente, indipendentemente anche dall’effettiva sussistenza di un reato presupposto, l’obbligo di ragionevoli accertamenti sulla liceità o meno della provenienza».
Nello stesso ordine di idee si sono espresse successivamente numerose sentenze tra le quali merita una segnalazione Sez. II, 14 maggio 1991, n. 9271, Castelli, per la chiarezza dell’affermazione del principio di diritto, così massimato: «Il dolo eventuale non è compatibile con il delitto di ricettazione poiché la rappresentazione dell’eventualità che la cosa che si acquista, o comunque si riceve, provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto. Per contro il dubbio motivato dalla rappresentazione della possibilità dell’origine delittuosa dell’oggetto per circostanze idonee a suscitare perplessità sulla lecita provenienza dello stesso, integra la specifica ipotesi di reato prevista dall’art. 712 c. p., che punisce l’acquisto di cose di sospetta provenienza».
Una parte di questa giurisprudenza aggiunge però che la certezza nell’agente della provenienza delittuosa della cosa può desumersi anche dagli elementi delineati dall’art. 712 c.p., purché i sospetti siano così gravi e univoci da ingenerare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo la più comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre (Sez. II, 3 aprile 1992, n. 2/93, Nicoletti; Sez. II, 21 febbraio 1995, n. 3237, Quasdallah), e analoghe affermazioni sono contenute in numerose decisioni che per riconoscere l’esistenza del dolo diretto utilizzano dati probatori che nella maggior parte dei casi avrebbero potuto più correttamente essere dimostrativi di un dolo eventuale (Sez. II, 20 giugno 1996, n. 8072, Coletto; Sez. VI, 4 giugno 1997, n. 6753/98, Finocchi; Sez. IV, 12 dicembre 2006, n. 4170/07, Azzaouzi).
Opposto a quello che riconduce alla contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. i fatti di acquisto o ricezione con dolo eventuale delle cose di provenienza delittuosa è l’orientamento giurisprudenziale che, ritenendo la contravvenzione di natura esclusivamente colposa, ravvisa un’ipotesi di ricettazione in tutti i casi in cui la condotta dell’agente è sorretta da un dolo, anche solo eventuale.
Chiara in questo senso è Sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, Conti, che, dopo aver ricordato l’orientamento contrario, obietta che in realtà, confrontando il tenore testuale delle due norme incriminatrici, non emerge affatto che il dolo di ricettazione non possa sussistere se non quando vi sia la soggettiva certezza dell’illecita provenienza della res, sicché mancando questa si verterebbe automaticamente nella minore e diversa ipotesi di cui all’art. 712 c. p. Illuminante al riguardo, secondo la pronuncia in esame, appare in particolare l’esegesi di quest’ultima disposizione, che punisce non chi ha acquistato o ricevuto cose di cui “sospetti” la provenienza da reato ma chi quelle cose ha acquistato o ricevuto quando “si abbia motivo di sospettare” tale provenienza. Di qui la configurazione della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza in termini di reato colposo, perché, si dice: «emerge chiaramente da tale formulazione della norma che il legislatore con l’art. 712 c.p. ha inteso punire la mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della res quando vi sia una oggettiva ragione di sospetto in ordine a detta provenienza. Ciò vale a dire che del reato di cui all’art. 712 c.p. si risponde essenzialmente per colpa consistente appunto nella suddetta mancanza di diligenza». Perciò, «quando invece la situazione fattuale, nella valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e dell’esperienza, sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una semplice mancanza di diligenza ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, del tutto corretta risulta la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di ricettazione. Quest’ultimo infatti come ogni delitto, è punibile a titolo di dolo, e il dolo di regola può assumere anche la forma del c.d. dolo indiretto o eventuale, salvo che ciò sia escluso dalla particolare struttura della fattispecie incriminatrice».
Un ulteriore approfondimento a sostegno dell’orientamento in esame lo si deve a Sez. II, 15 gennaio 2001, n. 14170, Macchia, che opta per la configurabilità del dolo eventuale in relazione al delitto di ricettazione, osservando che due sono le possibilità che si presentano in concreto:
1) l’agente si è posto il quesito circa la legittima provenienza della res, risolvendolo nel senso dell’indifferenza alla soluzione;
2) l’agente è stato negligente, perché, pur sussistendo oggettivamente il dovere di sospettare circa l’illecita provenienza dell’oggetto – a causa della qualità di quest’ultimo o per la condizione di chi lo offre ovvero per la sproporzionata entità del prezzo – non si è posto il problema.
Nel primo caso, rileva la sentenza Macchia, «sussiste il dolo eventuale, poiché il soggetto ha affrontato consapevolmente il rischio di violare il codice penale, ricevendo una cosa che può provenire da delitto e d’incorrere nelle conseguenti sanzioni»; nel secondo caso, invece, la condotta tenuta dall’agente è meramente colposa, perché egli non si è avvalso degli ordinari criteri di prudenza e diligenza per svolgere l’accertamento che la situazione concreta gli imponeva. L’orientamento è stato poi ribadito da varie decisioni; tra le più recenti, favorevoli alla configurabilità del dolo eventuale nel reato di ricettazione, si possono ricordare Sez. II, 22 novembre 2007, n. 45256, Lapertosa;Sez. II, 28 novembre 2008, n. 46966, Gorgoni;Sez. II, 17 dicembre 2008, n. 2807/09, Dragna; Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 13358, Rubes; Sez. II, 2 aprile 2009, n. 17813, Ricciardi.
3. Le Sezioni unite ritengono che nessuno dei due orientamenti possa essere interamente condiviso.
Non il secondo, che arriva all’eccesso di espungere dalla fattispecie dell’art. 712 c.p. anche i casi in cui l’agente abbia un mero sospetto sulla provenienza della cosa.
E’ vero infatti che l’art. 712 c.p. fa riferimento, come ha osservato la sentenza Conti, a «una oggettiva situazione di sospetto», e non a una situazione soggettiva, ma è anche vero che nulla fa ritenere che la disposizione sia inapplicabile nell’ipotesi in cui i dati oggettivi in essa indicati abbiano determinato un sospetto nell’agente.
Una interpretazione siffatta finirebbe con il limitare oltre il ragionevole e senza una sicura base testuale il campo di applicazione dell’incauto acquisto.
Neppure il primo orientamento però può essere condiviso perché dal riconoscimento che nel caso di sospetto è ravvisabile un incauto acquisto trae la conclusione ingiustificata che sia di pertinenza di questa fattispecie tutta l’area che il dolo eventuale potrebbe occupare nel reato di ricettazione, sicché il delitto previsto dall’art. 648 c.p. sarebbe configurabile solo nei casi in cui l’agente abbia la certezza della provenienza della cosa da delitto, mentre sarebbe configurabile solo la contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p. in tutti i casi in cui, pur non essendoci elementi dai quali trarre tale certezza, l’agente sia ben consapevole della concreta possibilità che la cosa provenga da delitto e ne accetti il rischio.
Questo orientamento non considera da un lato che il dolo eventuale può riferirsi a situazioni soggettive che investono la provenienza della cosa in forme ben più impegnative di quella del mero sospetto, pur non arrivando a costituire una forma di dolo diretto, e dall’altro che l’art. 712 c.p., a differenza dell’art. 648 c.p., non intende punire l’acquisto o la ricezione di cose con tale provenienza ma più semplicemente l’acquisto o la ricezione di cose rispetto alle quali si abbiano motivi di sospetto, senza aver prima compiuto gli opportuni accertamenti.
Correlativamente l’elemento soggettivo della contravvenzione non concerne la provenienza illecita della cosa ma i relativi accertamenti, che non avrebbero potuto essere omessi, e i motivi di sospetto che li rendevano necessari.
L’art. 712 c.p. non richiede espressamente l’effettiva provenienza della cosa, e una parte consistente della giurisprudenza (in questo senso Sez. III, 15 aprile 1994, n. 5361, La Grutta; Sez. II, 2 luglio 1982, n. 1180/83, Blanc; Sez. II, 1 ottobre 1980, n. 2232/81, Acquafredda; Sez. VI, 9 febbraio 1971, n. 162, Langella; in senso contrario, ma immotivatamente, Sez. II, 7 luglio 1994, Manduano) e della dottrina è dell’opinione che tale provenienza non debba essere accertata: la norma non lo esigerebbe.
Se si conviene che la contravvenzione sussiste anche quando, in presenza di motivi di sospetto, la provenienza illecita della cosa non viene accertata e comunque che tale provenienza esula dalla fattispecie descritta dall’art. 712 c.p. è ragionevole concludere che essa non fa parte del relativo elemento soggettivo e che quindi non è sostenibile la tesi dell’assorbimento nell’incauto acquisto dei fatti di ricettazione sorretti da dolo eventuale.
Sono i motivi di sospetto tipizzati, e non il sospetto, che caratterizzano l’incauto acquisto, e sotto questo aspetto può dirsi che la differenza dalla ricettazione è strutturale. E’ possibile che nell’agente venga ingenerato un sospetto, ma questo, quando ciò avviene, costituisce un fatto accidentale, che rimane estraneo alla struttura della contravvenzione.
In conclusione non ci sono argomenti convincenti per ritenere che in ogni ipotizzabile caso di dolo eventuale l’agente dovrebbe rispondere della contravvenzione dell’art. 712 c.p., anziché di ricettazione, sia perché si tratta di una forma di dolo di per sé compatibile con il delitto previsto dall’art. 648 c.p., sia perché non può ritenersi che tale forma integri tipicamente la fattispecie contravvenzionale.
Si pensi al caso del collezionista che di fronte all’offerta di un pezzo di pregio sia in dubbio sulla sua provenienza e, considerate le circostanze e le spiegazioni di chi glielo offre, si rappresenti la probabilità che sia di origine delittuosa, anche se non ne ha la certezza, e tuttavia non rinunci all’acquisto perché il suo interesse per il pezzo è tale che lo acquisterebbe anche se gli risultasse che per venirne in possesso chi glielo offre ha commesso un delitto.
In un comportamento del genere non c’è nulla di incauto; c’è la lucida volontà di dare soddisfazione al proprio interesse nella consapevolezza che molto probabilmente l’acquisto si risolve in una ricettazione.
E’ vero però che rispetto alla ricettazione il dolo eventuale, a meno che non emerga dalle stesse dichiarazioni dell’agente, viene desunto dalle circostanze del caso, indicative della possibilità che la cosa provenga da delitto, e che queste circostanze ben possono coincidere, e normalmente coincidono, con quelle che l’art. 712 c.p. individua come motivi di sospetto, ed è anche vero che dai semplici e soli motivi di sospetto indicati dall’art. 712 c.p. il giudice non può desumere l’esistenza di un dolo eventuale, perché altrimenti, per le cose provenienti da delitto (e non da contravvenzione), l’incauto acquisto verrebbe nella maggior parte dei casi trasformato in una ricettazione.
Fermo rimanendo quindi che la ricettazione può essere sorretta anche da un dolo eventuale resta da stabilire come debba avvenire il suo accertamento e quali debbano essere le sue caratteristiche, posto che lo stesso non può desumersi da semplici motivi di sospetto e non può consistere in un mero sospetto, se è vero che questo non è incompatibile con l’incauto acquisto. Del resto, come già si è avuto occasione di osservare, il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa: la sua costruzione è rimessa all’interprete ed è ben possibile che per particolari reati assuma caratteristiche specifiche.
Occorrono per la ricettazione circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto.
Insomma perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse; è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.
4. La sentenza impugnata ha confermato la condanna del ricorrente per il reato ricettazione sulla base di due diverse rationes decidendi: il dolo eventuale del ricorrente e la mancanza di giustificazione da parte sua del possesso della carta Viacard, che secondo un orientamento giurisprudenziale sarebbe «sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede».
E’ evidente che la seconda ratio decidendi si risolve in un’affermazione apodittica e ingiustificata, dato che la stessa sentenza impugnata, come quella di primo grado, ha mostrato di dar credito alle dichiarazioni del ricorrente sulle circostanze dell’acquisto della carta Viacard e da queste ha dedotto l’esistenza del dolo eventuale. Perciò è solo sul solo dolo eventuale che può basarsi l’affermazione di responsabilità per la ricettazione ma sul punto la sentenza non è conforme ai principi affermati da queste Sezioni unite, perché si è limitata ad affermare «che quanto meno il dubbio circa la illecita provenienza della tessera» doveva essersi «affacciato alla mente del Nocera il quale senza procedere ad alcuna forma di benché minimo accertamento aveva ricevuto e varie volte utilizzato la carta in questione».
Come si è visto non basta un sospetto e non basta un semplice dubbio per integrare il dolo eventuale della ricettazione e di conseguenza si impone l’annullamento della sentenza impugnata, demandando al giudice di rinvio un nuovo giudizio sul punto relativo all’elemento psicologico, da compiere facendo applicazione dei principi sopra specificati.
L’altro delitto per il quale il ricorrente ha riportato condanna, quello previsto dagli artt. 81 c.p. e 12 d.l. n. 143 del 1991 invece è prescritto, perché in seguito all’applicazione delle attenuanti degli artt. 62, n. 4 e 6 e 62 bis c.p. risulta punito con una pena inferiore a cinque anni di reclusione e il termine di sette anni e sei mesi, determinato in base alle disposizioni previgenti degli artt. 157 e 160 c.p., e decorrente dall’8 luglio 2000 ormai è ampiamente decorso.
Poiché secondo una giurisprudenza di questa Corte, alla quale la sentenza impugnata ha fatto riferimento (per un caso analogo a quello in esame v. Sez. I, 8 marzo, 2006, n. 11937, Elies) e nei cui confronti il ricorrente non svolto critiche argomentate, l’utilizzazione indebita di una tessera Viacard integra il reato previsto dall’art. 12 d.l. n. 143 del 1991 (sostituito dall’art. 55 d. lgs. 21 novembre 2007, n. 231) e non risultano elementi che possano giustificare un’assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, c.p.p., relativamente al reato del capo B) la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché lo stesso è estinto per prescrizione.
Il giudice di rinvio dovrà provvedere all’eventuale rideterminazione della pena e al regolamento delle spese tra le parti per questo giudizio.
19. Ricettazione: l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale
Cass. SU 19.1.2012, Micheli
In sintesi
Non può configurarsi una responsabilità penale (ricettazione) per l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, ritenendosi corretta la contestazione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito nella l. 14 maggio 2005, n. 80
Ritenuto in fatto
1. II Tribunale di Bergamo, con sentenza in data 16 giugno 2006, assolveva F. M. dal delitto di cui agli artt. 56 e 648 c.p. perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Secondo la contestazione, l’imputato, al fine di profitto, facendo un ordinativo tramite corriere espresso, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a ricevere un orologio recante il marchio contraffatto Rolex, cosa proveniente dal delitto di cui all’art. 473 c.p., senza riuscire nel proprio intento per cause indipendenti dalla sua volontà e, segnatamente, a causa del controllo doganale cui veniva sottoposto il collo proveniente dalla Cina.
Il Tribunale osservava che l’elemento oggettivo della fattispecie era previsto dal delitto di cui all’art. 648 c.p., dalla contravvenzione di cui all’art. 712 c.p. e, infine, dall’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80; e che, pertanto, la distinzione tra i diversi illeciti doveva essere individuata nell’elemento soggettivo. Il Tribunale escludeva nel caso di specie sia il dolo specifico che quello diretto di ricettazione e riteneva incompatibile con la figura delittuosa il dolo eventuale, affermando che non vi era prova che il M., non avendo avuto modo di visionare l’orologio da lui ordinato, potesse essersi rappresentato con certezza o con elevata verosimiglianza la contraffazione del marchio Rolex. Riteneva, infine, ravvisabile l’illecito amministrativo, che doveva considerarsi speciale, ai sensi dell’art. 9 legge 24 novembre 1981, n. 689, rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 712 c.p., posto che conteneva tutti gli elementi propri del reato contravvenzionale cui si aggiungeva la limitazione della condotta sanzionata ai prodotti acquistati o accettati in violazione delle leggi di tutela dei marchi.
2. Proponeva ricorso per cassazione il Pubblico ministero, il quale, premesso che il primo giudice aveva erroneamente ritenuto l’incompatibilità tra il dolo eventuale e il delitto di ricettazione, osservava che l’illecito amministrativo contemplava il fatto di colui che acquista beni con marchio contraffatto «senza averne prima accertata la legittima provenienza», mentre, nel caso di specie il M. aveva la certezza di acquistare merce contraffatta, essendosi rivolto a canali di fornitura in estremo oriente notoriamente operanti nel settore della contraffazione di marchi di lusso.
3. La Corte di appello di Brescia, a seguito di conversione del ricorso operata dalla Corte di cassazione, con sentenza in data 25 ottobre 2010, dichiarava il M. colpevole del delitto ascrittogli, ritenuta l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 648 c.p., e lo condannava, con sostituzione della pena, alla multa di euro 2.480 e, inoltre, al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite Rolex s.a. e Rolex Italia s.p.a. da liquidare in separata sede.
La Corte di appello rilevava che l’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005 era stato modificato dall’art. 17 legge 23 luglio 2009, n. 99, con la soppressione (fra l’altro) dell’inciso iniziale «salvo che il fatto costituisca reato» ed affermava che l’illecito amministrativo doveva considerarsi speciale rispetto al reato di cui all’art. 712 c.p., qualora oggetto dell’illecito siano cose fabbricate in violazione di norme «in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale». La stessa Corte riteneva, invece, che dall’ambito dell’illecito amministrativo dovessero escludersi le ipotesi in cui l’acquirente abbia la certezza di comperare un oggetto frutto della violazione delle suddette norme. Nel caso di specie, le circostanze relative al prezzo pagato (trenta dollari) e la chiara spiegazione contenuta nel sito Internet, su cui era avvenuto l’acquisto dell’orologio, che si trattava di un’imitazione dell’originale portavano la Corte di merito a concludere che il M. aveva direttamente voluto l’acquisto di un oggetto che riproducesse pedissequamente il prodotto genuino e che fosse con quest’ultimo esteriormente confondibile.
… omissis
6. La Seconda Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, con ordinanza del 28 settembre 2011, depositata il successivo 12 ottobre, ha rilevato l’esistenza di due distinte tesi giuridiche sulla questione della specialità o meno del nuovo testo di cui all’art. 1 d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, così come modificato dall’art. 17, comma 2, legge 23 luglio 2009, n. 99, rispetto al delitto di ricettazione.
Secondo un primo orientamento, l’illecito amministrativo sarebbe speciale solo rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 712 c.p., ma non rispetto alla ricettazione, atteso che soltanto l’elemento oggettivo della contravvenzione, essendo incentrato sull’acquisto o ricezione di cose di cui si abbia motivo di sospettare la provenienza da reato in ragione della loro qualità, della condizione di chi le offre o del prezzo, è seriamente sovrapponibile con l’ultima versione legislativa dell’illecito amministrativo, mentre non altrettanto può dirsi del delitto di cui all’art. 648 c.p., che si sostanzia nell’acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto a fini di profitto.
Secondo il contrario orientamento, invece, deve trovare sempre applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria, dovendosi l’illecito amministrativo considerare speciale non soltanto rispetto all’incauto acquisto, bensì anche in relazione alla ricettazione. Tale soluzione poggia, in primo luogo, sull’interpretazione della volontà legislativa, che è maggiormente compatibile con l’esclusione dell’applicazione di sanzioni penali ai danni dell’acquirente finale di beni con marchi contraffatti; in secondo luogo, sull’esigenza di evitare che la norma sull’illecito amministrativo resti relegata a meri casi di scuola, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che l’acquirente finale di un prodotto con segni falsi – si pensi al frequente caso dell’acquisto da venditori ambulanti – non sia consapevole che l’oggetto acquistato rappresenta il provento della violazione dell’art. 474 c.p.; in terzo luogo, sulla considerazione per cui non è vero che l’illecito amministrativo è maggiormente compatibile con la struttura dell’art. 712 c.p., atteso che in esso il legislatore impiega l’espressione «inducano a ritenere», laddove nella contravvenzione la lettera della norma usa le parole «abbia motivo di sospettare», dal che si desume che lo stesso illecito amministrativo è idoneo ad «abbracciare sia le situazioni di mero sospetto che quelle di piena consapevolezza della provenienza del bene oggetto di transazione commerciale».
Ne conseguiva, secondo la parte finale dell’ordinanza, l’opportunità di rimettere la questione alle Sezioni unite soprattutto per la sua potenzialità di riguardare «migliaia di acquirenti di beni con marchi contraffatti».
7. Con decreto in data 17 ottobre 2011, il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.
omissis
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: «Se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata».
2. Su tale questione non sussiste un concreto contrasto nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale non risulta essersi pronunciata ex professo su di essa.
Si registra soltanto un intervento delle Sezioni Unite (sent. n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232304), con il quale, nel pronunciarsi in merito al concorso tra il reato di ricettazione (art. 648 c.p.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente riprodotti (art. 171-ter legge 22 aprile 1941, n. 633), si esamina anche il disposto dell’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005, nel suo testo originario e si osserva: «questa nuova fattispecie di illecito amministrativo è evidentemente applicabile nei soli casi in cui neppure la presupposta violazione delle norme “in materia di proprietà intellettuale” costituisca reato; al contrario di quanto invece presuppone la fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 712 c.p., sulla quale la fattispecie amministrativa è ricalcata pressoché letteralmente, e salva la disciplina eventualmente diversa dettata dalle “norme in materia di origine e provenienza dei prodotti”.
Attesa l’apparente identità delle due fattispecie, in realtà, la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio della fattispecie contravvenzionale prevista dal codice penale. Infatti, come s’è visto, l’art. 1, comma 7, del decreto stabilisce che la nuova fattispecie di illecito amministrativo è applicabile solo quando il fatto non costituisce reato; ma anche l’analoga fattispecie prevista dall’art. 712 cod, pen. è appunto un reato. Sicché deve ritenersi che l’incauto acquisto di cose provenienti da reato possa integrare gli estremi della contravvenzione prevista dall’art. 712 c.p.; mentre l’incauto acquisto di cose di provenienza altrimenti illecita può integrare gli estremi dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80».
La sentenza delle Sezioni Unite è stata pronunciata quando il testo originario dell’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, 35, conteneva, nel suo incipit, la clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca reato”.
Sul punto è rilevante citare la sentenza Sez. 2, n. 35080 del 07/07/2009, la quale dopo aver aderito alla tesi delle Sez. U, n. 47164 del 2005 (cit.), quasi anticipando le successive modifiche normative, afferma che «soltanto l’eliminazione dell’inciso “salvo che il fatto costituisca reato”, renderebbe con sicurezza applicabile, in tale specifica situazione di acquisto, accettazione, ecc. – ed alla luce del generale principio di specialità di cui alla I. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 – la sanzione amministrativa pecuniaria, eliminando il carattere inutilmente ridondante della disposizione. In questo modo la condotta di acquisto o accettazione, ovviamente, assumerebbe rilevanza – secondo i principi generali di cui alla citata I. n. 689, art. 3 – se connotata da dolo In caso di piena consapevolezza della provenienza illecita, ovvero da colpa».
Deve ancora registrarsi una sentenza pronunciata in materia di acquisto di sostanze farmaceutiche assoggettate ad un titolo di proprietà industriale, che incidentalmente esamina la disposizione dell’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005, alla luce delle novelle intervenute nel settore, in particolare la legge 23 luglio 2009, n. 99, ed afferma che, sulla base di tale disposizione, la quale punisce con una semplice sanzione amministrativa l’acquisto di beni assoggettati a privativa industriale, «è di per sé categoricamente da escludersi che il fatto possa essere punito come reato, ostandovi all’evidenza il principio di specialità sancito dalla I. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9» (Sez. 2, n. 14053 del 15/03/2011, Fredducci).
I criteri sull’individuazione della norma speciale di recente
3. Dovendosi raffrontare il delitto di ricettazione con l’illecito amministrativo, occorre tener presenti i criteri sull’individuazione della norma speciale di recente ridefiniti dalla giurisprudenza di legittimità, posto che il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative è disciplinato dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale, se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale piuttosto che il concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722, pronunciandosi in tema di rapporti tra l’art. 334 c.p. e l’art. 213, comma 4, cod. strade, hanno affermato che «rilevante è, nel testo dell’art. 9, la differenza rispetto all’art. 15 c.p., laddove, invece di parlare di “stessa materia”, si fa riferimento allo “stesso fatto”. Non è, però, da ritenere che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto, dovendosi al contrario ritenere che li richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione, evitando quella genericità che caratterizza l’art. 15 c.p. con ll riferimento alla materia. Valgono infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, le medesime considerazioni […] sulla necessità che il confronto avvenga tra le fattispecie tipiche astratte e non tra le fattispecie concrete. Il che, del resto, è confermato dal tenore dell’art. 9 che, facendo riferimento al “fatto punito”, non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso».
Nel contempo Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864, in tema di rapporti tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato, hanno affermato che in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità di cui all’art. 15 c.p. richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.
Entrambe le sentenze, dunque, chiariscono che il rapporto di specialità deve essere verificato nel confronto strutturale tra le fattispecie astratte; ciascuna di esse, poi, contiene altre importanti affermazioni di principio: la prima sottolinea che il citato art. 9 «diretto a privilegiare la specialità (e quindi l’apparenza del concorso) costituisce un’importante chiave di lettura in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga (soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all’entrata in vigore della prima norma) una disciplina normativa che la preveda anche come violazione di natura amministrativa»; la seconda invita ad «una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU».
Modifiche legislative apportate alla norma di riferimento (art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35)
4. Per la soluzione della questione sottoposta a queste Sezioni Unite è necessario ripercorrere lo sviluppo delle modifiche legislative apportate alla norma di riferimento.
La norma base è quella introdotta con l’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, articolo che porta in rubrica l’indicazione «lotta alla contraffazione» e così dispone al comma 7, nel suo testo originario: «7. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70» (l’ultimo periodo è stato aggiunto dalla legge di conversione).
Successivamente l’art. 2, comma 4-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha apportato le seguenti modificazioni: «al comma 7, al primo periodo, dopo le parole: “sanzione amministrativa pecuniaria” sono inserite le seguenti: “da 100 euro” e sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: “Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’art. 13 della citata legge n. 689 del 1981, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
Successivamente ancora l’art. 5-bis, d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che porta nuovamente in rubrica «lotta alla contraffazione», sostituisce al primo periodo le parole «da 100 euro» con quelle «da 500 euro».
Infine, l’art. 17 legge 23 luglio 2009, n. 99, che reca in rubrica «contrasto della contraffazione», entrato in vigore li 15 agosto 2009, apporta, con il comma 8, all’art. 1, comma 7, citato, le seguenti modificazioni:
«a) nel primo periodo:
1) le parole: “Salvo che il fatto costituisca reato,” sono soppresse;
2) le parole: “da 500 euro fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose” sono sostituite dalle seguenti: “da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose”;
3) la parola: “intellettuale” è sostituita dalla seguente: “industriale”;
b) il secondo periodo è soppresso;
c) nel quinto periodo prima delle parole: “Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale” sono inserite le seguenti: “Salvo che il fatto costituisca reato,”».
Il comma 3 del citato art. 17, inoltre, dispone:
«3. Fermo restando quanto previsto dall’ art. 1, comma 7, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come modificato, da ultimo, dal comma 2 del presente art., e salvo che il fatto costituisca reato, è prevista la confisca amministrativa dei locali ove vengono prodotti, depositati, detenuti per la vendita o venduti i materiali contraffatti, salvaguardando il diritto del proprietario in buona fede.»
Il testo finale, attualmente vigente, del comma 7 dell’art. 1 d.l. n. 35 del 2005 è, dunque, il seguente:
«7. E’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’art. 13 della citata legge n. 689 del 1981, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
Il significato della disposizione attualmente vigente
5. Dall’esame dello sviluppo delle modifiche legislative al testo originario si desumono elementi interpretativi per chiarire il significato della disposizione attualmente vigente.
Un primo elemento è quello che concerne gli autori dell’illecito amministrativo:
1) in origine erano puniti con identica sanzione tutti coloro che effettuavano l’acquisto o la ricezione ovvero l’intermediazione all’acquisto o alla ricezione a qualsiasi titolo e per qualsiasi finalità di cose che violavano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale;
2) successivamente si prevede una sanzione amministrativa “rafforzata” per gli operatori commerciali o importatori o, comunque, soggetti diversi dall’acquirente finale.
Un secondo elemento è quello relativo alle modalità dell’acquisto:
1) in origine qualsiasi acquisto, da chiunque effettuato, doveva essere avvenuto «senza avere prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale»;
2) tali modalità rimangono ferme anche quando successivamente si distingue tra acquirente finale e non finale;
3) con la legge n. 99 del 2009 viene soppressa la formula «senza averne prima accertata la legittima provenienza».
Un terzo elemento di fondamentale importanza è quello relativo alla clausola di riserva:
1) in origine la formula «salvo che il fatto costituisca reato» riguardava indistintamente qualsiasi tipologia di acquisto;
2) con la legge n. 99 del 2009 la clausola di riserva viene soppressa con specifico riferimento all’acquirente finale e viene introdotta solo con riguardo agli acquisti effettuati da qualsiasi soggetto diverso dall’acquirente finale.
Già quest’ultima modifica potrebbe essere sufficiente a ritenere la specialità dell’illecito amministrativo rispetto agli acquisti effettuati dall’acquirente finale sulla base del solo testo della disposizione vigente alla data di entrata in vigore della legge n. 99 del 2009, in applicazione del principio formulato dalle citate Sezioni Unite n. 1963 del 2011 (v. retro par. 3), laddove si afferma che l’art. 9 della I. 24 novembre 1981, n. 689, è diretto a «privilegiare la specialità» in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga, soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all’entrata in vigore della prima norma, una disciplina normativa che la preveda anche come violazione amministrativa, ciò che appare evidente nel caso di specie, in cui il legislatore ha manifestato chiaramente il suo intento con una mirata e selezionata eliminazione della clausola di specialità.
Se, poi, si procede, sempre in applicazione dei principi formulati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite n. 1963 del 2011 e n. 1235 del 2011, ad un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte, si deve rilevare, in primo luogo, che il legislatore del 2009 ha voluto delimitare l’ambito dell’illecito amministrativo speciale al soggetto agente costituito dall’ “acquirente finale”, mentre i reati del codice penale (artt. 648 e 712) possono essere commessi da “chiunque”.
L’art. 648 c.p. richiede che colui che commette il delitto non sia concorrente nel reato presupposto, ma è evidente che la stessa qualifica di “acquirente finale” esclude tale possibilità con riferimento alla contraffazione quale presupposto della condotta amministrativamente illecita, trattandosi di qualifica del soggetto agente che intende escludere un qualsiasi concreto apporto causale all’attività criminosa presupposta, non solo sotto forma di previo concerto o di agevolazione, ma anche di concreta istigazione che abbia determinato l’autore materiale all’azione.
In secondo luogo, il concetto di «cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale», costituisce specificazione di quello di «cose provenienti da un qualsiasi delitto» di cui all’art. 648 c.p.
In terzo luogo, la formula relativa alla modalità dell’acquisto che doveva avvenire «senza averne prima accertata la legittima provenienza» – che aveva fatto porre in raffronto la fattispecie in esame esclusivamente con quella dell’art. 712 c.p., che adottava analoga formula – è stata eliminata, in tal modo evidenziandosi la possibilità di configurare l’illecito amministrativo quale che sia l’atteggiamento psicologico del soggetto agente, poiché la semplice formula «inducano a ritenere» è idonea comprendere sia iI mero sospetto che la piena consapevolezza della provenienza illecita del bene che si acquista; mentre non costituisce elemento specialistico “per aggiunta” il fine di profitto che caratterizza il delitto di ricettazione, posto che esso certamente è individuabile nei diversi profili di vantaggio che si propone l’acquirente finale di un prodotto contraffatto, sicché si tratta di un elemento che appare inerente alla fattispecie delineata, Il rapporto di specialità, pertanto, sussiste sia rispetto al delitto che alla contravvenzione del codice penale, posto che, secondo quanto dispone l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 «nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».
6. Dai lavori preparatori della legge di modifica del 2009 non si desume la depenalizzazione in parte qua solo dell’incauto acquisto e non anche dell’art. 648 c.p., come affermato nella memoria della parte civile, la quale fa riferimento ad una “scheda di lettura” redatta dal Servizio Studi del Senato con riferimento al disegno di legge, nella quale effettivamente si osserva che la nuova norma prevede «la sola punibilità a titolo amministrativo dell’incauto acquisto da parte dell’acquirente di prodotti in violazione della disciplina sulla proprietà industriale (anziché intellettuale)».
Infatti, li testo dell’art. 17, comma 8, legge n. 99 del 2009, era contenuto, negli stessi termini, nell’art. 12 del disegno di legge n. 1441, presentato in data 2 luglio 2008, d’iniziativa del Governo. Tale articolo, rimasto inalterato nel suo contenuto, venne stralciato, insieme ad altri artt., con delibera dell’Assemblea della Camera dei Deputati del 5 agosto 2008 (atto n. 1441-ter) e successivamente approvato il 1° luglio 2009. Passò quindi al Senato (atto 1195-B) dove venne definitivamente approvato il 9 luglio 2009.
Ebbene, la relazione che accompagnava il disegno di legge governativo, con riferimento al suddetto art. 12, parla di norma che reca «modifiche alla disciplina sanzionatoria del consumatore consapevole». Il concetto di “consapevolezza” dell’acquirente è all’evidenza ben diverso da quello di un acquisto semplicemente incauto, mentre il riferimento al “consumatore” chiarisce che l’intento del legislatore è quello di dettare una disciplina sanzionatoria speciale riguardante appunto l’utente finale, trattandosi di una qualificazione che ha avuto ampia elaborazione nell’ambito della disciplina della tutela dei consumatori e che si riferisce strettamente a «qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale» (art. 2 direttiva dell’Unione Europea 11 maggio n. 2005/29/CE).
In ogni caso, In mancanza di elementi sistematici certi, è arbitrario ritenere che il legislatore, sopprimendo l’inciso «salvo che il fatto costituisca reato», abbia voluto eliminare la riserva con riferimento non a tutte le tipologie di reato, ma solo alle contravvenzioni; tanto più che all’eliminazione di quell’inciso si accompagna anche la soppressione dell’espressione «senza averne prima accertata la legittima provenienza», che consentiva, per questa parte, la sovrapposizione della fattispecie dell’illecito amministrativo a quella dell’incauto acquisto.
D’altro canto, la preoccupazione espressa nella memoria delle parti civili che la depenalizzazione del comportamento dell’acquirente privato consumatore finale «comporterebbe la corsa ad iscriversi a tale categoria», è osservazione di mero fatto che non può incidere nel raffronto tra fattispecie astratte; si tratta di un aspetto che attiene al campo probatorio e riguarda la corretta e prudente valutazione del giudice di merito, il quale terrà conto che il legislatore, facendo riferimento all’acquirente finale, non ha inteso semplicemente contrapporlo all’acquirente “professionale”, posto che la stessa norma del comma 7, dell’art. 1, d.l. n. 35 del 2005 e successive modifiche, distingue quella figura soggettiva non solo dall’operatore commerciale e dall’importatore, ma anche «da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale»; pertanto, quest’ultimo deve intendersi colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad un acquisto ad uso personale.
7. Come si è detto, la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all’illecito amministrativo in esame si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma dell’art. 1, comma 7, legge n. 35 del 2005, che trova la sua sistemazione finale con la legge n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009, così che si comprende come l’interpretazione offerta dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 47164 del 20 dicembre 2005 (v. retro par. 2) resta superata proprio dalle citate modifiche.
Del resto, la previsione di un semplice illecito amministrativo per gli acquirenti finali di prodotti contraffatti rende la normativa in esame congruente con quella relativa all’acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, in relazione ai quali la suddetta sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 68, si configuri una fattispecie penalmente rilevante a carico di coloro che effettuino l’acquisto a fine di commercializzazione, «configurandosi l’illecito amministrativo previsto dall’art. 174-ter legge n. 633 del 1941 soltanto quando l’acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale».
La sostituzione, nel comma 7 dell’art. 1 d.l. n. 35 del 2005, della parola “intellettuale” con quella “industriale” evidenzia il chiaro intento del legislatore di attuare proprio un parallelismo sanzionatorio tra le ipotesi di acquisto per uso personale di prodotti “provenienti” dalle violazioni dei diritti di esclusiva intellettuale e quelle di acquisto di prodotti “provenienti” dalla violazione dei diritti di proprietà industriale.
La interpretazione offerta nella suddetta sentenza, invece, mantiene la sua validità per quanto concerne l’illecito amministrativo previsto nei confronti di soggetti diversi dagli acquirenti finali. Infatti, il legislatore non a caso per questi soggetti ha mantenuto la clausola «salvo che il fatto costituisca reato», sicché la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio delle fattispecie previste dal codice penale, nel senso che solo l’acquisto di cose di provenienza «altrimenti illecita», ovvero non provenienti da reato, configura l’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005 a carico di coloro che non sono acquirenti finali.
8. Stabilito che il complesso normativo che regola nella legislazione nazionale la materia in esame configura come illecito amministrativo la condotta dell’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, la parte civile ha posto il problema di una interpretazione del diritto nazionale conforme alla normativa comunitaria, quale si desume, in particolare, dalla direttiva n. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, oppure di un rinvio alla Corte di giustizia U.E. per la interpretazione della normativa comunitaria in materia, oppure, in via ulteriormente subordinata, di una rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa in esame con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.
La citata direttiva, dopo avere precisato all’art. 1 che il termine «diritti di proprietà intellettuale» include i diritti di proprietà industriale, definisce all’art. 3 il suo obiettivo, che è quello di individuare «le misure, le procedure e i mezzi di ricorso» che siano «effettivi, proporzionati e dissuasivi», ravvicinando le legislazioni nazionali al fine – come si precisa nel preambolo della stessa direttiva – «di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno». Secondo la tesi sostenuta dalla parte civile, ciò comporterebbe l’utilizzo di sanzioni penali costituendo esse un mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo. Nel citato preambolo, in effetti, si legge: «anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati, un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale».
9. La questione in tal modo sottoposta all’attenzione di questa Corte comporta, preliminarmente, ancora prima di stabilire se essa sia fondata e rilevante, l’esame di una problematica più ampia: se sia consentito un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E. perché chiarisca se la normativa comunitaria imponga nella fattispecie considerata l’applicazione di sanzioni penali ovvero alla Corte costituzionale perché stabilisca se la normativa nazionale che prevede nei casi esaminati la configurabilità di un illecito amministrativo in luogo di quello penale sia in contrasto con la normativa comunitaria, quale parametro di costituzionalità alla luce degli artt. 11 e 117 Cost.
10. La Corte di giustizia U.E. ha chiarito, con costante giurisprudenza (da ultimo, contenente anche richiami ai precedenti, 5 luglio 2007, causa C-321/05 Kofoed) che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano, di per se stesse, creare obblighi in capo ai singoli; esse non possono quindi essere fatte valere in quanto tali contro i singoli dallo Stato membro, il quale ha la scelta della forma e dei mezzi di attuazione delle direttive che meglio permettono di garantire il risultato a cui mirano. Peraltro, tutte le autorità di uno Stato membro, quando applicano il diritto nazionale, sono tenute ad interpretarlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie, ma «tale obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni» (in tali termini, sentenza sopra citata). Si tratta di un limite che deriva dai principi generali del diritto, quello della legalità della pena e quello connesso di applicazione retroattiva della pena più mite, che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario (Corte di giustizia, Grande Sezione, 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; 16 giugno 2005, Pupino, causa C105/03). Principi dei resto, sanciti anche dall’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (da ultimo, Corte EDU, Grande Camera, 17/09/2009, Scoppola c. Italia); dall’art. 15, n. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonché dall’art. 49, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Tali principi, pertanto, acquistano particolare rilevanza allorché si intenda far valere una norma comunitaria contenuta in una direttiva nell’ambito di procedimenti penali. Infatti, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte di giustizia, dovessero giungere alla conclusione che le norme nazionali non soddisfano gli obblighi comunitari, ne deriverebbe che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, tali norme, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale. E appunto ciò che è avvenuto:
– con riferimento alle condotte illecite di cui all’art. 171-ter lett. d) e all’art. 171-bis, comma primo, legge n. 633 del 1941, riguardanti rispettivamente i supporti audio e video e i programmi per elaboratore privi di contrassegna Siae, per l’inopponibilità nei confronti dei privati dell’obbligo di apposizione del contrassegno Siae, in relazione alle quali i soggetti agenti sono stati assolti con la formula “il fatto non sussiste”, quale effetto della mancata comunicazione alla Commissione dell’Unione Europea di tale “regola tecnica” in adempimento della direttiva europea 83/189/CE, come interpretata dalla sentenza della Corte di giustizia 8 novembre 2007, Schwibbert (da ultimo, tra le tante, Sez. 3, n. 1073 del 19/11/2009, dep. 2010, Ramonda, Rv. 245758);
– con riferimento al reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento dl cui dell’art. 14, comma 5-ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, disapplicato, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato a seguito della sentenza della Corte di giustizia 28 aprile 2011, EI Didri (Sez. 5, n. 26027 del 08/06/2011, Marouani, Rv. 250938; Sez. 1, n. 18586 del 29/04/2011, Sterian, Rv. 250233; Sez. 1, n. 22105 del 28/04/2011, Thourghi, Rv. 249732).
Quelli sopra citati sono all’evidenza casi in cui l’interpretazione del diritto comunitario da parte della Corte di giustizia ha comportato una sostanziale abolitio criminis, cioè un effetto penalmente favorevole nei confronti dei destinatari della norma. Ben diverso è il caso in cui si pretenda dalla Corte di giustizia un’interpretazione con conseguenze penali sfavorevoli per i singoli destinatari dei precetti comunitari.
La Corte di giustizia riconosce che «sarebbe difficile per l’Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale cooperazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari In grado di garantire l’esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, non si imponesse anche nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale», e che, pertanto, applicando il diritto nazionale, il giudice, chiamato ad interpretare quest’ultimo, è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della normativa comunitaria, ma tale obbligo di interpretazione “conforme” «trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione-quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» (sent. Pupino, cit.). La conseguenza è che un eventuale rinvio pregiudiziale non potrebbe avere come conseguenza che una sostanziale decisione di non liquet da parte della Corte di giustizia, in quanto una normativa comunitaria «non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli Imputati nell’ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati» (è questo il dispositivo della citata sentenza Berlusconi e altri, pronunciata con riferimento ad un caso in cui si chiedeva alla Corte di giustizia di verificare la compatibilità con il diritto comunitario delle nuove norme di cui agii artt. 2621 e 2622 cod. civ., verifica che avrebbe potuto comportare l’effetto di escludere l’applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti artt.).
In definitiva, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato. La mancata previsione come fattispecie di reato di comportamenti che ai sensi della normativa comunitaria si sarebbero dovuti considerare come penalmente illeciti, potrebbe, al più, costituire un inadempimento del legislatore nazionale rispetto ad obblighi di fonte comunitaria, ma non consente che i cittadini dello Stato inadempiente siano perseguiti penalmente per fatti considerati illeciti ai sensi della normativa comunitaria, ma non punibili o non più punibili ai sensi di quella interna.
Questa Corte, adeguandosi a tali principi, ha ritenuto, anche a Sezioni Unite, di escludere la possibilità di un rinvio pregiudiziale, quando, appunto, tale rinvio fosse stato chiesto per legittimare un’interpretazione in malam partem della norma penale interna (Sez. 5, n. 38967 dell’11/10/2005, Galliani, Rv. 232571, con riferimento all’art. 2621 cod. civ.; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244191, che ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio U.E. 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter, comma primo, c.p. anche al profitto del reato).
Analogamente non è percorribile la strada della questione di legittimità costituzionale. Infatti, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che il principio della riserva di legge (art. 25 Cost.) preclude l’adozione di pronunce con effetto in malam partem, allorché tale effetto discenda dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ovvero dal ripristino di una norma abrogata, essendo tali operazioni riservate alla discrezionalità del legislatore, non potendo la Corte costituzionale, senza esorbitare dai suoi compiti, invadere il campo ad esso riservato dall’art. 25, comma secondo, Cost., sovrapponendo alla scelta dallo stesso effettuata una diversa strategia di criminalizzazione (tra le tante: sentenze n. 161 del 2004 e n. 57 del 2009).
In definitiva, l’utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando «gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale» (Sez. U, n. 38691 del 2009, cit.).
11. Per completezza argomentativa, con riferimento all’obbligo del giudice nazionale di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme, deve osservarsi, in primo luogo, che la citata direttiva comunitaria 2004/48/CE nel preambolo chiarisce che essa non si propone di stabilire «norme armonizzate», ma solo di “ravvicinare” le legislazioni nazionali al fine di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno; in secondo luogo, che la stessa direttiva, pur prevedendo sempre nel preambolo che «anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale», nell’articolato definisce analiticamente le misure, le procedure e i mezzi di ricorso di natura civile e amministrativa che gli Stati membri devono adottare e solo in via residuale e aggiuntiva stabilisce all’art. 16 che gli Stati membri “possono” applicare altre “appropriate” sanzioni nei casi in cui il diritto di proprietà intellettuale sia stato violato. E’ evidente la volontà del legislatore comunitario di lasciare in questo campo libertà di scelta ai singoli Stati in materia di politiche criminali.
12. Per quanto concerne il concetto di “appropriatezza” non può non rilevarsi, al fine di sottolineare la non sindacabilità in termini di irragionevolezza delle scelte di politica criminale del legislatore, da un lato, che, nel caso di specie, l’imputato è stato condannato, con sanzione sostitutiva, alla pena di euro 2.480 di multa interamente condonata, a fronte di un illecito amministrativo che prevede una sanzione pecuniaria fino a 7.000 euro, dall’altro lato, che il legislatore ha previsto la confisca amministrativa delle cose che violano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, con la conseguente possibilità di procedere a sequestro cautelare ai sensi dell’art. 13, comma 2, legge 24 novembre 1981, n. 689. Ma soprattutto la legge dispone che alla confisca si proceda «in ogni caso»; ciò significa che la confisca deve essere disposta a prescindere da qualsiasi accertamento di responsabilità. Infatti, le cose suddette devono considerarsi “intrinsecamente” illecite, alla stregua di quelle di cui all’art. 240, comma secondo, n. 1, c.p., e di esse non può consentirsi la circolazione sotto qualsiasi forma, anche ad uso personale, a tutela non solo delle imprese che hanno interesse a mantenere certa la funzione di marchi e segni distintivi, ma anche, più in generale, della pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano i prodotti industriali e ne garantiscono la corretta circolazione.
A completamento del quadro sanzionatorio amministrativo deve anche rilevarsi che, ai sensi del comma 8 d.l. n. 35 del 2005, le somme derivanti dall’applicazione delle sanzioni di cui al precedente comma 7 sono versate al bilancio dello Stato per essere riassegnate ad appositi capitoli da destinare alla lotta alla contraffazione.
13. In definitiva, deve formularsi il seguente principio di diritto: «Non può configurarsi una responsabilità penale per l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale».
14. In applicazione di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Non deve essere disposta la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa per l’applicazione delle sanzioni per l’illecito depenalizzato, poiché la depenalizzazione è successiva alla data di commissione del fatto.
Deve essere disposta la confisca dell’orologio in sequestro.
La formula di assoluzione non consente di adottare provvedimenti relativi alla parte civile.
20. Riciclaggio e associazione di tipo mafioso
Cass. SU 27.2.2014, Iavarazzo
RITENUTO IN FATTO
… omissis
7. La Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato ratione materiae, registrata l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sul tema centrale che ha formato oggetto del ricorso, con ordinanza del 1° ottobre 2013 (depositata il successivo 28 novembre), ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.
7.1. L’ordinanza di rimessione osserva che, nella giurisprudenza della Suprema Corte, esistano due orientamenti interpretativi.
Il primo indirizzo, parte dalla considerazione che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere non esiste alcun rapporto di “presupposizione” e non opera la clausola di riserva (“fuori dei casi di concorso nel reato”) che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa.
Pertanto, il concorrente nel reato associativo può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa sia quando il delitto presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Cardati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665).
Sulla stessa linea, Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166; Sez. 2, n. 27292 del 04/06/2013, Aquila, Rv. 255712.
Tali principi opererebbero anche con riguardo al delitto previsto dall’art. 648-ter c.p.
In base al secondo indirizzo, una volta che il delitto associativo di tipo mafioso sia ritenuto potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche per escludere anche per esso l’operatività della cosiddetta clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato”, contenuta negli artt. 648-bis e 648-ter c.p. (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010).
7.2. Alla luce del rilevato contrasto, la Prima Sezione penale, nel rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ha così formulato la questione di diritto: “Se sia configurabile il delitto di `riciclaggio’ previsto dall’art. 648-ter c.p. nei confronti di un imputato al quale sia stato contestato anche il delitto previsto dall’art. 416-bis, sesto comma, c.p., nel caso in cui il reimpiego riguardi capitali provenienti dalla attività illecita svolta dalla stessa associazione mafiosa di appartenenza”.
8. Con decreto del 14 dicembre 2013, il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, così riformulando il quesito di diritto: “Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648- ter c.p. e quello di cui all’art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa”.
Per la trattazione del ricorso è stata fissata l’odierna udienza in camera di consiglio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
QUESITO
1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente: “Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter c.p. e quello di cui all’art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa”.
Interventi legislativi che hanno introdotto neIl’ordinamento penale i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.
2. Ai fini del corretto inquadramento delle problematiche sottoposte al|’esame del Collegio occorre prendere le mosse dagli interventi legislativi che hanno introdotto neIl’ordinamento penale i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.
2.1. Il d.l. 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191, inseriva il nuovo art. 648-bis c.p. sotto la significativa rubrica «Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione».
Veniva in tal modo per la prima volta disciplinata un’autonoma fattispecie incriminatrice volta a perseguire le condotte di “trasformazione” dei beni provenienti da un numero chiuso di delitti, condotte che, in precedenza, ricadevano nelle previsioni della ricettazione, del favoreggiamento personale o di quello reale, a seconda dei relativi dati tipizzanti e deIl’elemento soggettivo. In questa prima fase, l’attenzione del legislatore era prevalentemente rivolta ad ostacolare e a reprimere i reati-presupposto, come desumibile dalla struttura del delitto quale reato a consumazione anticipata, per la configurabilità del quale erano sufficienti “fatti” o “atti” diretti alla sostituzione del denaro o dei valori, posti in essere al fine di procurare a sé o ad altri un profitto. La nuova figura criminosa si caratterizzava, quindi, per la sua peculiare e ambivalente fisionomia: esso, infatti, non si connotava per una sua spiccata autonomia né era rivolto al contrasto del “riciclaggio” in quanto tale, ma svolgeva piuttosto una funzione sussidiaria rispetto ai reati presupposto, di cui condivideva l’oggetto giuridico, comprensivo della tutela non del solo patrimonio, ma anche dell’ordine pubblico; al contempo, al pari della ricettazione e del favoreggiamento personale 10e reale, prevedeva una “clausola di esclusione” rispetto all’ipotesi del concorso nei reati presupposto.
2.2. Le modifiche apportate all’art. 648-bis c.p. dall’art. 23 legge 19 marzo 1990, n. 55 (“Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”), motivate dall’esigenza di conformare la normativa interna agli impegni assunti in sede di adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti (adottata a Vienna il 20 dicembre e ratificata con legge 5 novembre 1990, n. 328), caratterizzavano in maniera più accentuatamente autonoma il reato.
Esse costituivano altresì il recepimento, sul versante interno, dei principi affermati dalla Dichiarazione dei principi di Basilea del 12 dicembre 1988 e dal Comitato internazionale di esperti delle Amministrazioni finanziarie per lo studio del riciclaggio, (cd. “Comitato di azione finanziaria”, GAFI) in seno al vertice dei Capi di Stato e di Governo dei sette Paesi più industrializzati svoltosi a Parigi nel 1989, dal quale ha tratto origine una parte significativa della normativa in questa materia.
Oltre ad assumere l’espressa denominazione di “riciclaggio”, la fattispecie incriminatrice estendeva il novero dei reati presupposto ai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti. Ampliava, inoltre, l’oggetto materiale della condotta (“denaro, beni o altre utilità»), riferito non solo a proventi derivanti da atti ablatori di ricchezze, ma anche a quelli originati da processi creativi delle stesse ed espressivi di realtà economiche più complesse.
Eliminava ogni richiamo alla finalità di procurare a sé o ad altri profitto o aiuto, con il chiaro intento di recidere definitivamente qualsiasi collegamento con i reati di ricettazione e di favoreggiamento. Aggravava, poi, il complessivo trattamento sanzionatorio e introduceva un’aggravante per l’ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso nell’esercizio di un’attività professionale, così rivelando una nuova consapevolezza della dimensione di criminalità economica organizzata espressa dal reato.
2.3. Con la legge 9 agosto 1993, n. 328, che ratificava e dava esecuzione alla Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca di proventi del reato, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo l’8 novembre 1990, il testo dell’art. 648-bis c.p. subiva ulteriori modifiche: veniva eliminata la categoria “chiusa” dei reati-presupposto, estesa a tutti i delitti non colposi; la condotta materiale del reato era estesa non solo alla sostituzione dei beni, bensì anche al trasferimento dei proventi illeciti – evocativo di meccanismi traslativi di occultamento della genesi delle ricchezze – e al compimento di “altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione”, comportamento quest’ultimo indicativo di uno scopo, più che di un evento, a differenza di quanto in precedenza previsto (“ostacola l’identificazione”).
Per tale via veniva assicurata la tutela penale a tutte e tre le fasi attraverso le quali si realizza il riciclaggio:
a) il “collocamento” (placement), consistente nell’insieme delle operazioni intese a trasformare il denaro contante in moneta scritturale ovvero in saldi attivi presso intermediari finanziari;
b) la stratificazione (layering), comprendente qualsiasi operazione che fornisce alla ricchezza proveniente da reato una copertura tale da renderne apparentemente legittima la provenienza;
c) l’integrazione (integration), consistente nella reimmissione della ricchezza ripulita nel circuito economico legale.
2.4. Con l’art. 24 della legge 19 marzo 1990, n. 55, era poi stato introdotto nel codice penale l’art. 648-ter (“Impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita”), che configurava come illecito penale l’impiego in attività economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilità) richiamati nella descrizione delI’oggetto materiale del delitto di riciclaggio.
La ratio della disposizione era quella di non lasciare vuoti di tutela a valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di recycling (il c.d. integration stage), ossia l’integrazione del denaro di provenienza illecita nei circuiti economici attraverso l’immissione nelle strutture dell’economia legale dei capitali previamente ripuliti. L’obiettivo evidente, sotteso aIl’introduzione della nuova fattispecie, era, quindi, quello di tutelare la fase successiva rispetto a quella relativa all’area d’intervento prevista dalla ricettazione e dal riciclaggio. La disposizione in esame era, infatti, tesa ad evitare il successivo impiego del denaro ripulito in legittimi investimenti. In sostanza si preoccupava di colpire tutte quelle operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico-imprenditoriale.
2.5. Il legislatore, nell’introdurre la nuova fattispecie, l’ha dunque disegnata in forma residuale rispetto ai delitti di ricettazione e di riciclaggio, come si desume dalla doppia clausola nell’incipit della disposizione (“Fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis››) che circoscrive in maniera significativa il suo ambito di applicazione. Con tale norma, secondo una parte della dottrina, il legislatore ha inteso rendere possibile la responsabilità per la condotta anche quando non è dato provare che l’agente che impiega il bene proveniente da delitto sia consapevole di tale provenienza al momento in cui l’ha ricevuto, mentre vi sia la prova di tale consapevolezza (comunque necessaria) in un altro e successivo momento.
Altri Autori hanno osservato che la previsione realizza, nel sistema di tutela dell’ordinamento dalla creazione di patrimoni illeciti, una particolare forma di progressione criminosa, composta secondo un’ideale scala crescente di disvalore.
Tali rilievi, uniti all’analisi del testo della norma, nel quale è assente la locuzione “in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa>› (presente, invece, nell’art. 648-bis, c.p.) e l’abbandono di una prospettiva “accessoria” rispetto ai reati presupposto, hanno fatto propendere per la natura plurioffensiva della fattispecie che, pur se collocata tra i delitti contro il patrimonio, appare maggiormente orientata alla tutela dalle aggressioni al mercato e all’ordine economico e ad evitare l’inquinamento delle operazioni economico-finanziarie (Sez. 2, n. 4800 del 11/11/2009, Aschieri, Rv. 246276).
l’analisi diacronica della giurisprudenza
3. Le tappe significative di questa articolata elaborazione normativa possono essere colte mediante l’analisi diacronica della giurisprudenza.
Inizialmente, le modifiche introdotte dal d.l. n. 59 del 1978 venivano valorizzate soprattutto nella loro valenza dissuasiva alla realizzazione di vantaggi patrimoniali grazie alla commissione dei reati-presupposto e nella loro finalità di contrasto degli stessi (Sez. 2, n. 2347 del 30/06/1980, Vilasi, Rv. 145758; Sez. 2, n. 11011 del 19/09/1988, Agresta, Rv. 179703).
A seguito delle modifiche apportate nel 1990 e nel 1993, gli artt. 648-bis e 648-ter c.p. venivano letti come una forma di “particolare ricettazione”, atteso che il riciclaggio presuppone il più delle volte l’acquisto o la ricezione dei beni di provenienza delittuosa e che l’impiego degli stessi in attività economiche o finanziarie ne presuppone il riciclaggio o rappresenta esso stesso una forma di riciclaggio (Sez. 6, n. 3390 del 14/07/1994, Masito, Rv. 201066).
Al contempo veniva sottolineata l’irrisolta dicotomia sottesa agli interventi del legislatore, tesi, per un verso, ad incidere sui proventi dei reati presupposto impedendone la realizzazione e, per altro verso, a scongiurare qualsiasi forma di contaminazione tra economia legale e ricchezza illecite.
La complessità della vicenda normativa, che ha condotto ad una moltiplicazione dei tipi codicistici, si è riflessa inevitabilmente nella ricostruzione dell’oggetto giuridico del reato, indubbiamente caratterizzato da una polivalenza di scopi politico-criminali. Si è, infatti, correttamente osservato che le condotte di riciclaggio non offendono solo l’ambito patrimoniale, ma incidono sulI’interesse all’accertamento dei fatti – rendendo più difficile la ricostruzione della provenienza illecita dei beni riciclati – e sull’ordine economico (Sez. 2, n. 25773 del 12/06/2008, Fiore, Rv. 241444), atteso che la ricollocazione d’ingenti ricchezze sui mercati finanziari di ricchezze illecite rappresenta un meccanismo d’inquinamento dell’economia, del mercato, della libera concorrenza, della stabilità ed affidabilità degli intermediari finanziari (come desumibile anche dal d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, attuativo della direttiva 2005/60/CE, concernente la prevenzione delI’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, nonché della direttiva 2006/70/CE, che ne reca misure di esecuzione), arrivando a compromettere l’uguaglianza nei rapporti economici e la libertà d’iniziativa economica (artt. 3 e 41 Cost.).
La plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p. costituisce uno dei profili che giustificano l’affermazione che il delitto di riciclaggio è speciale rispetto alla ricettazione (cfr. ex plurimis Sez. 2, n. 43730 del 12/12/2010, Gizzi, Rv. 248976; Sez. 2, n. 32901 del 09/05/2007, Batacchi, Rv. 237488; Sez. 2, n. 199707 del 19/02/2009, Abruzzese, Rv. 244879), ferma restando la loro reciproca distinzione anche per l’elemento materiale e per quello soggettivo (Sez. 2, n. 25940 del 12/02/2013, Bonnici, Rv. 256454; Sez. 2, n. 35828 del 09/05/2012, Acciaio, Rv. 253890; Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Di Capua, Rv. 227731; Sez. 2, n. 13448 del 23/02/2005, De Luca, Rv. 231053), e che analogo rapporto di specialità esiste tra il delitto di riciclaggio e quello di reimpiego (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394; Sez. 2, n. 29912 del 17/05/2007, Porzio, Rv. 237262; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Aschieri, Rv. 216733).
Il complesso degli interventi legislativi in precedenza ricordati e l’esame della giurisprudenza conseguentemente formatasi mette in luce una progressiva e sempre più accentuata autonomia dei reati di riciclaggio e di reimpiego rispetto al reato presupposto, una loro chiara emancipazione rispetto ad ipotesi di partecipazione post delictum al reato precedentemente commesso, un loro netto affrancamento concettuale e strutturale dalla categoria della complicità criminosa.
La natura giuridica della clausola che sancisce l’impunità dell’autoriciclatore
4. Tanto premesso, si tratta di cogliere il nesso esistente tra le connotazioni assunte dai delitti di riciclaggio e reimpiego (quali desumibili dagli interventi legislativi in precedenza illustrati) e la clausola, contenuta nell’incipit delle due disposizioni, che prevedono entrambe l’impunità per tali reati nei confronti di colui che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto.
Le due ipotesi di delitto esordiscono facendo salvi i casi di concorso di persone nel reato, con la conseguenza che il riciclaggio e l’impiego di denaro, beni o utilità, posti in essere dai partecipi dei delitti dai quale essi provengono non determinano l’attribuzione di una responsabilità ulteriore rispetto a quella che deriva dall’art. 110 c.p.
Il significato di tale clausola (“fuori dei casi di concorso nel reato) è stato variamente interpretato.
In giurisprudenza si è affermato che essa esprime un rapporto di sussidiarietà espressa, funzionale a delineare un concorso apparente di norme in luogo di un concorso di reati (Sez. 2, n. 47375 del 06/11/2009, Di Silvio, Rv. 246433 e 246434).
Tale tesi è stata oggetto di alcuni rilievi critici.
Innanzitutto si è osservato che la sussidiarietà presuppone norme incriminatrici che convergono su un medesimo “fatto” e che dunque, non può sussistere un rapporto di sussidiarietà tra riciclaggio e delitto presupposto che si qualificano per condotte fra loro profondamente diverse.
Si è, inoltre, argomentato che la sussidiarietà richiede o diversi gradi di offesa ad un medesimo bene o, comunque, la convergenza nella delineazione di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati interessi.
Sotto questo profilo, l’analisi comparativa tra la pluralità dei reati- presupposto e i delitti di riciclaggio e reimpiego evidenzia l’insussistenza di un rapporto di gradualità o di complementarietà, avuto riguardo alla significativa divergenza dell’offensività dei fatti e alla eterogeneità dei rispettivi oggetti giuridici. La stessa diversità del trattamento sanzionatorio è stata valorizzata quale argomento di conferma del fatto che la sussidiarietà è una categoria inidonea a qualificare i rapporti tra reato presupposto, riciclaggio, reimpiego, considerato che, spesso, queste ultime due fattispecie sono punite più severamente del primo.
Una parte della dottrina evoca il principio del ne bis in idem sostanziale quale linfa del criterio dell’assorbimento (o consunzione), osservando che punire a titolo di riciclaggio I’autore del reato presupposto comporterebbe una doppia punizione per un medesimo fatto, unitariamente voluto dal punto di vista normativo.
Tale richiamo – secondo altri Autori – non tiene conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224605-08).
Le norme del cui “assorbimento” si discute devono, infatti, perseguire scopi per loro natura omogenei, pur escludendosi che I’omogeneità si traduca in identità del bene giuridico.
Lo scopo perseguito dalla norma che prevede il reato meno grave è assorbito da quello concernente il reato più grave. La punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo e la condotta successiva rappresenta un normale sviluppo di quella antecedente, attraverso la quale il soggetto realizza l’utile perseguito con il primo reato o se ne assicura il frutto. E’ soltanto in questi limiti che, in ossequio al principio di proporzione tra fatto e pena che ispira l’ordinamento penale, non è ammessa una duplicazione di tutela e di sanzione.
L’eterogeneità dei beni giuridici tutelati rispettivamente dal delitto presupposto e da quelli di riciclaggio e reimpiego impedisce di ritenere che la punizione per il reato presupposto possa “assorbire” il disvalore dei reati previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.
Al riguardo è stata sottolineata la circostanza che talora i delitti di riciclaggio o di reimpiego sono assistiti da una sanzione penale più elevata rispetto a quella prevista per il reato presupposto.
Infine, una parte della giurisprudenza (Sez. 5, n. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv.236254) e della dottrina ricollegano la clausola presente nell’incipit degli artt. 648-bis e 648-ter c.p. al post factum non punibile, osservando che il disvalore della condotta susseguente è già incluso in quella precedente che integra il reato più grave e che le operazioni d’investimento dei proventi dei delitti costituiscono il normale sbocco della precedente attività criminale.
Pertanto, essendo tali condotte strettamente funzionali agli illeciti principali, sarebbe l’antefatto delittuoso a risolvere “sostanzialmente” il contenuto offensivo della condotta consequenziale.
Tale criterio è considerato inappagante da una parte delle dottrina, tenuto conto dell’eterogeneità dei delitti presupposto e del corredo di sanzioni potenzialmente più gravi per le attività post-delictum rispetto a quelle previste per il reato base all’esito delle modifiche normative in precedenza ricordate.
In altra prospettiva si è osservato che l’escIusione della sanzione penale nei confronti di colui che ricicla o reimpiega i proventi derivanti da un delitto da lui stesso in precedenza commesso costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità alla cui stregua il legislatore, pur riconoscendo il disvalore penale del fatto, rinuncia ad irrogare per esso la pena.
La ratio di questa scelta viene individuata nell’esigenza di evitare cause pressoché automatiche di aggravamento della responsabilità, indipendenti dal disvalore rinvenibile nel riciclaggio o nel reimpiego del bene e degli effetti ad esso ricollegabili, nell’irragionevolezza di un’indiscriminata risposta sanzionatoria a fronte di un’ampia varietà delle singole situazioni concrete e della differente pericolosità del loro concreto atteggiarsi, nonché nella volontà di scongiurare meccanismi presuntivi nella ricostruzione del fatto tipico e delle responsabilità per il reato presupposto.
Indipendentemente dalla ricostruzione dogmatica della clausola, il Collegio tuttavia ritiene che la previsione che esclude |’applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione dì essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto.
Così ricostruito l’intervento normativo, occorre anzitutto verificare se il delitto di associazione di tipo mafioso possa costituire di per sé una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati-fine.
Il delitto di associazione di tipo mafioso può costituire di per sé una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati-fine.
5.1. Il Collegio, condividendo I’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso (Sezione 6, n. 45643 del 30/10/2009, Papale, n.m.; Sez. 1, n. 6930 del 27/11/008, Ceccherini, Rv. 243223; Sez. 1, n. 2451 del 27/11/2008, Franchetti, Rv. 242723; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665; Sez. 1, n. 1024 del 27/11/2008, Di Cosimo, Rv. 242512; Sez. 1, n. 6931 del 27/11/2008, Diana, n.m.).
Depongono in tal senso plurimi elementi interpretativi.
Su un piano letterale devono essere valorizzati la rubrica e il dato testuale dell’art. 416-bis c.p.
La significativa diversità tra la rubrica dell’art. 416 c.p. (“Associazione per delinquere”) e quella dell’art. 416-bis c.p. (“Associazioni di tipo mafioso anche straniere”) rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie, l’una preordinata esclusivamente alla commissione di reati, l’altra contraddistinta da una maggiore articolazione del disegno criminoso.
L’associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti.
Il terzo comma dell’art. 416-bis c.p. individua il “metodo mafioso” mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti – forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà – da considerare tutti e tre come elementi necessari ed essenziali, perché possa configurarsi questo reato associativo, come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall’uso della congiunzione “e” impiegata nel testo normativo.
Il ricorso specifico, da parte di ciascun membro del gruppo, all’intimidazione, all’assoggettamento e all’omertà non costituisce una modalità di realizzazione della condotta tipica – la quale si esaurisce nel fatto in sé di associarsi, ovvero di promuovere, dirigere, organizzare un’associazione di questo tipo, apportando un certo contributo all’esistenza dell’ente – ma costituisce l’elemento strumentale tipico di cui gli associati si avvalgono in vista della realizzazione degli scopi propri dell’associazione. La tipicità del modello associativo delineato dall’art.416-bis c.p. risiede, quindi, nella modalità attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente (modalità che si esprimono nel concetto di “metodo mafioso”).
La maggiore ampiezza degli scopi perseguiti dal sodalizio di stampo mafioso, delineati nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p. in modo alternativo, esprime, traducendole nello schema della fattispecie penale, le più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose, che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche attuato mediante il ricorso alla metodologia mafiosa, la realizzazione di profitti o vantaggi non tutelati in alcun modo, né direttamente né indirettamente, dall’ordinamento e conseguiti avvalendosi della particolare forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano.
Particolarmente significativo appare, altresì, il settimo comma dell’art. 416-bis c.p. che, nel prevedere la confisca obbligatoria, nei confronti del condannato per tale reato, delle cose costituenti il prezzo, il prodotto, il profitto del reato o l’impiego dei predetti proventi, presuppone che l’associazione in quanto tale sia produttiva di ricchezze illecite.
Qualora, invece, si ritenesse che il presupposto dei delitti di riciclaggio o di reimpiego possa essere rappresentato unicamente dai profitti acquisiti grazie alla commissione dei singoli reati-fine, e non negli altri casi, si giungerebbe a conseguenze prive di qualsiasi intrinseca razionalità e coerenza: sarebbe, infatti, obbligatoria, ai sensi dell’art. 416-bis, settimo comma, c.p., soltanto la confisca dei profitti conseguiti grazie alle attività – diverse da quelle consistenti nella commissione dei singoli delitti – gestite con metodologia mafiosa dall’associazione; al contrario, sarebbe meramente facoltativa, ai sensi dell’art. 240 c.p., la confisca dei profitti derivanti dalla realizzazione dei reati-fine.
5.2. Il richiamo contenuto nell’ordinanza di rimessione ad alcuni precedenti apparentemente difformi di questa Corte su tale specifica questione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/07/2003, Carciati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) appare, per un verso, non pertinente e, sotto altro aspetto, riduttivo.
Una di tali pronunce (Sez. 2, n. 44138 del 2007, Rappa) riguarda, infatti, una fattispecie concreta diversa da quella oggetto del presente giudizio e, in particolare, un caso in cui la ricchezza oggetto del riciclaggio proveniva dai reati- fine e non dal reato di associazione mafiosa in quanto tale.
Le altre due decisioni si pronunziano, invece, in senso negativo, sull’esistenza del rapporto di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di cui all’art. 416 c.p. e, così, negano l’operatività della clausola di riserva nei confronti del partecipe dell’associazione per delinquere chiamato a rispondere anche dell’imputazione di riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati-fine dell’associazione.
In coerenza con tale impostazione, affermano che la partecipazione all’associazione di cui all’art. 416 c.p. non è autonomamente produttiva di proventi illeciti che possano essere oggetto del delitto di riciclaggio e che, pertanto, esiste un’impossibilità ontologica a far derivare i beni oggetto del delitto previsto dall’art. 648-bis c.p. dalla condotta associativa.
E’, quindi, evidente che il contrasto giurisprudenziale non verte tanto sulla capacità dell’associazione mafiosa in quanto tale di generare autonomamente ricchezza illecita, anche a prescindere dalla realizzazione di singoli reati-scopo, quanto piuttosto sulle conseguenze logico-giuridiche derivanti da tale affermazione.
1° principio di diritto
5.3. Alla stregua delle argomentazioni sinora svolte deve, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto: “Il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter c.p.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti”.
6. Le opzioni ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al possibile ruolo di reato presupposto del reato associativo ex art. 416-bis c.p. rappresentano l’antecedente logico della questione riguardante l’applicabilità della clausola di riserva al concorrente nel|’associazione o al partecipe.
Al riguardo è dato registrare un contrasto interpretativo che forma l’oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite.
6.1. Al primo indirizzo – ritenuto prevalente nell’ordinanza di rimessione, ma in realtà non qualificabile come tale, ove si abbia riguardo all’effettivo contenuto delle singole decisioni – vengono ascritte decisioni contraddistinte da significative diversità e, in quanto tali, non suscettibili di essere accomunate.
Una prima pronunzia (Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166), dopo avere argomentato che l’associazione di stampo mafioso rientra nel novero dei reati-presupposto in ragione della sua capacità di costituire di per sé fonte di ricchezza illecita, esclude l’applicabilità della clausola di riserva (“Fuori dei casi di concorso nel reato») sia nel caso in cui i proventi delittuosi siano riconducibili all’associazione mafiosa in quanto tale sia nel caso in cui essi derivino dai soli reati-fine.
Tale conclusione viene giustificata in duplice modo:
a) richiamando l’assenza di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., a sua volta basata sul fatto che l’associazione per delinquere non è di per sé produttiva di proventi illeciti, ove non vengano commessi i singoli reati-fine;
b) evocando l’indirizzo esegetico (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, cit.) secondo il quale l’associazione di stampo mafioso è riconducibile alla categoria dei reati-presupposto del delitto di riciclaggio, indirizzo che, però, non si era pronunziato sulla non punibilità dell’autoriciclaggio.
Una seconda decisione, riprendendo le osservazioni sviluppate dalla sentenza sopra menzionata (Sez. 1, n. 40354 del 27/5/2011, Calabrese, cit.), si esprime, invece, soltanto, escludendolo, sull’ammissibilità del concorso tra associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990) e riciclaggio (art. 648-bis c.p.). Muovendo dal presupposto che l’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 in quanto tale non è di per sé produttiva di ricchezza illecita, ha negato l’operatività della clausola di riserva nei confronti delI’imputato che non aveva concorso nella realizzazione dei singoli reati-scopo previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990), bensì soltanto nel delitto associativo (Sez. 2, n. 27292 del 04/06/20013, Aquila, Rv. 255712).
Sulla base delle considerazioni sinora svolte é, quindi, evidente che le decisioni ricondotte al primo dei due indirizzi giurisprudenziali ritenuti espressione del contrasto non hanno, in realtà, affrontato la specifica questione sottoposta all’esame del Collegio.
6.2. Altre pronunzie hanno, invece, esaminato specificamente il tema del possibile concorso tra il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e quello di reimpiego. Una prima sentenza (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010) ha ritenuto non configurabile il reato previsto dall’art. 648-ter c.p., quando la contestazione di reimpiego riguardi denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trovi la sua fonte nell’attività costitutiva dell’associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quell’attività sia concretamente attribuibile. In proposito argomenta che, ove si ritenga che il delitto associativo di tipo mafioso sia da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, “non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l’operatività della cd. clausola di riserva – “fuori dei casi di concorso nel reato” – anche per esso››.
A conclusioni analoghe è pervenuta un’altra sentenza (Sez. 5, n. 17694 del 14/01/2010, Errico, non massimata), che – sia pure incidentalmente – ha ammesso che il reato di associazione di tipo mafioso può costituire reato presupposto del delitto di riciclaggio e ha affermato che nei confronti del soggetto cui siano stati contestati sia il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. che quello di riciclaggio opera la clausola di riserva.
Tale orientamento è confermato da un’altra decisione di questa Corte (Sez.
2, n. 9226 del 23/01/2013, Del Buono, Rv. 255245) che ha affermato la non punibilità a titolo di riciclaggio del soggetto responsabile del reato presupposto che abbia in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui abbia fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno.
6.3. Il Collegio ritiene che le due sentenze ricondotte al primo orientamento (cfr. paragrafo 6.1.) fanno impropriamente interagire, confondendo la loro valenza, principi attinenti ad aspetti tra loro profondamente diversi e che operano su piani distinti:
a) l’attitudine dell’associazione di stampo mafioso in quanto tale a produrre proventi illeciti; b) la possibilità di ricomprendere tra i delitti presupposto di riciclaggio anche l’associazione di stampo mafioso;
c) il significato della clausola di riserva contenuta nell’art. 648-bis c.p.;
d) la configurabilità del delitto di riciclaggio nei confronti del concorrente nel delitto associativo presupposto (l’associato di rango primario o secondario, nonché il concorrente esterno).
Esse giungono ad affermare che il concorrente nel delitto associativo di stampo mafioso può essere chiamato a rispondere anche di quello di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa sia quando il delitto presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione mafiosa sia quando esso sia costituito dallo stesso reato associativo di cui all’art. 416-bis c.p., di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, richiamando impropriamente, a sostegno della inoperatività della esclusione della punibilità, i principi espressi da altre due decisioni (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, cit.) che non avevano affrontato tale problematica, ma si erano limitate ad analizzare (fornendo ad essa risposta affermativa) un’altra questione; se il delitto di associazione di stampo mafioso possa costituire o meno il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti.
La corretta analisi della questione implica, invece, la netta individuazione dei successivi passaggi logici che essa comporta. Una volta riconosciuta la capacità dell’associazione mafiosa in quanto tale di produrre ricchezze illecite e ammessa la possibilità che il delitto previsto dall’art. 416-bis c.p. possa rientrare nella categoria dei reati-presupposto della fattispecie di riciclaggio, si tratta di ricostruire l’esatto significato e ambito applicativo della clausola presente nell’incipit degli artt. 648-bis e 648-ter c.p. (“fuori dei casi di concorso nel reato”), di verificare le condizioni e i limiti del concorso nel reato presupposto, di chiarire i rapporti tra clausola di riserva contenuta negli artt. 648-bis e 648-ter c.p. e i reati associativi.
7. Gli artt. 648-bis e 648-ter c.p. stabiliscono che fra i soggetti agenti non é ricompreso colui che abbia concorso nel reato presupposto. La valenza di tale previsione è anch’essa controversa sia in giurisprudenza che in dottrina.
7.1. Un primo indirizzo interpretativo valorizza il c.d. criterio temporale che ha riguardo al momento in cui è intervenuto l’accordo tra l’autore del reato presupposto e il soggetto deputato al riciclaggio o al reimpiego. Argomenta, pertanto, che la promessa di assistenza o di aiuto nelle successive attività di riciclaggio o di illecito reimpiego, prestata prima o durante l’esecuzione del delitto presupposto e idonea a suscitare o a rafforzare nel suo autore il proposito criminoso, esclude la punibilità autonoma per i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p. Se, invece, l’accordo interviene successivamente, si configurano, a seconda dei casi e in presenza dei relativi presupposti, i delitti di riciclaggio o di reimpiego, in quanto l’accordo non ha esercitato alcuna influenza causale sulla realizzazione del reato presupposto.
7.2. Secondo un diverso orientamento, questo criterio non è appagante, in quanto eccessivamente schematico e non pienamente rispondente ai principi generali del diritto penale in tema di concorso di persone nel reato. In ossequio al criterio della determinazione causale si sottolinea, pertanto, che occorre stabilire se l’accordo intervenuto anteriormente abbia fornito un contributo effettivo alla realizzazione del reato presupposto. Sotto altro profilo si evidenzia che il riciclaggio (o il reimpiego) non può considerarsi come un mezzo necessario per la realizzazione del fine perseguito dall’autore del delitto presupposto. Sulla base di queste premesse si argomenta che ogni contributo causale che abbia determinato, sotto il profilo materiale o psicologico, la commissione del reato presupposto integra l’ipotesi del concorso nello stesso. Qualora l’accordo, pur se intervenuto antecedentemente alla commissione del reato presupposto, non abbia esercitato su di esso alcuna efficacia, non si configurano gli elementi costitutivi del concorso nel medesimo.
Tale impostazione è recepita da quella parte della giurisprudenza che, in tema di riciclaggio di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, afferma che il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto (che escluderebbe la prima in virtù della clausola di riserva) non può essere unicamente quello temporale, ma occorre verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di “lavare” il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere (Sez. 5, 1n. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv. 236254).
E’, infine, non controverso che la condotta descritta nell’art. 648-bis c.p. può essere sussunta in una fattispecie di concorso nel reato presupposto solo in presenza del necessario requisito psicologico: il soggetto deve rappresentarsi gli effetti della propria condotta sulla realizzazione del c.d. reato principale e deve volerli come consapevole contributo alla realizzazione dello stesso.
La dimensione probatoria, indubbiamente in parte evocata da questo indirizzo interpretativo, non pare configurarsi – come pure prospettato da un’autorevole dottrina – come una “contaminazione” delle categorie penalistiche, ma esprime piuttosto lo sforzo di una corretta traduzione, anche nei canoni di valutazione del fatto dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.
8. Le condizioni e i limiti della configurabilità del concorso fra il delitto associativo ex art. 416-bis c.p. e quelli di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e reimpiego (art. 648-ter c.p.) devono essere ricostruiti in base al fatto tipico nelle sue connotazioni oggettive e soggettive, alla provenienza dei beni oggetto delle attività di riciclaggio o reimpiego, ai principi in precedenza enunciati in tema di concorso nel reato presupposto.
L’estraneità del soggetto che ripulisce o reimpiega il denaro, i beni o le altre utilità sia all’organizzazione mafiosa che ai delitti fine rende configurabile, nei suoi riguardi, in presenza dei rispettivi elementi costitutivi, le contestazioni di riciclaggio o reimpiego, essendo da escludere qualsiasi suo apporto alla commissione dei reati presupposto.
Il concorso del soggetto, non appartenente all’associazione mafiosa, nei soli reati-fine espressione dell’operatività della stessa, comporta la responsabilità in ordine agli stessi, aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, quando l’oggetto dell’attività di riciclaggio o di reimpiego sia costituito da denaro, beni o altre utilità conseguiti proprio grazie alla commissione dei suddetti reati.
Qualora il soggetto non fornisca alcun apporto all’associazione mafiosa, ma si occupi esclusivamente di riciclare o reimpiegare il denaro, i beni, le altre utilità prodotti proprio dalla stessa, sono integrati i presupposti applicativi delle sole fattispecie previste, rispettivamente, dall’art. 648-bis c.p. o dall’art. 648-ter c.p., non sussistendo alcun contributo alla commissione del reato presupposto.
Nei confronti del membro dell’associazione mafiosa che “ripulisca” o reimpieghi il denaro, i beni, o le altre utilità riconducibili ai soli delitti-scopo, alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun apporto, non opera la clausola di esclusione della responsabilità prevista dall’art. 648-bis c.p., in quanto l’oggetto dell’attività tipica del delitto di riciclaggio non è direttamente ricollegabile al reato cui egli concorre.
Il partecipe del sodalizio di stampo mafioso che, nella ripartizione dei ruoli e delle funzioni all’interno dell’associazione, abbia il compito di riciclare o reimpiegare la ricchezza prodotta dall’organizzazione in quanto tale, non è punibile per autoriciclaggio, in quanto oggetto della sua condotta sono il denaro, i beni, le altre utilità provenienti dall’associazione cui egli fornisce il suo consapevole e volontario contributo.
Infine, in adesione ai principi espressi dalle Sezioni Unite in tema di concorso esterno in associazione mafiosa (Sez. U, n. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670 e 231679), risponde del delitto previsto dagli artt. 110, 416-bis c.p. il soggetto che, pur se non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione di stampo mafioso e privo dell’affectio societatis, fornisca, mediante l’attività di riciclaggio o di reimpiego dei relativi proventi, un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un’effettiva rilevanza causale e si configuri, quindi, come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, se si tratta di un sodalizio particolarmente articolato. In tale ipotesi, infatti, |’apporto di colui che pone in essere le condotte di riciclaggio o reimpiego caratterizzate, in base ad una valutazione ex post, da effettiva efficienza causale in relazione alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo, costituisce un elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale.
2° principio di diritto
Le argomentazioni sinora svolte consentono di affermare il seguente ulteriore principio di diritto: Non è configurabile il concorso fra i delitti di cui gli artt. 648-bis o 648-ter c.p. e quello di cui all’art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa”.
9. Alla luce dei principi sinora illustrati, il primo motivo di ricorso merita accoglimento.
9.1. L’incipit dell’imputazione per il delitto di reimpiego ripropone la dizione normativa, escludendo il concorso nel delitto presupposto di cui all’art. 416-bis c.p.; l’ulteriore descrizione della condotta incriminata, quale desumibile dall’imputazione provvisoria, contiene, invece, l’espresso richiamo al ruolo di Mario Iavarazzo quale «esponente del clan dei casalesi».
Analoghi riferimenti al|’organico e stabile inserimento di Mario Iavarazzo nel sodalizio di stampo camorristico sono presenti rispettivamente a ff. 23 e 50 dell’ordinanza impugnata, contenenti l’esplicito riferimento all’attività di reimpiego degli investimenti provenienti dal sodalizio di stampo camorristico posta in essere dall’indagato nella sua qualità di esponente del suddetto clan.
A ciò si aggiunga che – movendo all’evidenza dal medesimo erroneo presupposto che ispira la formulazione del capo d’imputazione, e cioè che non sarebbe in astratto da escludere la configurabilità del concorso fra i delitti di cui gli artt. 648-bis o 648-ter c.p. e quello di cui all’art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa – il Tribunale del riesame trae conseguenze giuridicamente inaccettabili dalla circostanza che nei confronti di Mario Iavarazzo il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli aveva emesso, nell’ambito di un separato procedimento penale, ordinanza di custodia cautelare in carcere per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., arbitrariamente affermando che la clausola di riserva contenuta nell’art. 648-ter c.p. si applicherebbe soltanto a coloro che rivestono la qualità di capi, promotori, organizzatori all’interno del sodalizio di stampo mafioso, senza neppure considerare che in quel procedimento era stata contestata al ricorrente l’aggravante del sesto comma dell’art. 416-bis c.p. (configurabile nei confronti dell’associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego e che, come condivisibilmente affermato da un’autorevole dottrina, rappresenta una sorta di “progressione criminosa” rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un’organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita).
9.2. Il provvedimento impugnato non chiarisce, d’altra parte, se il denaro, i beni, le altre utilità, oggetto delle condotte qualificate ai sensi dell’art. 648-ter c.p., provengano o meno dall’attività dell’associazione di stampo camorristico in quanto tale. Omette, inoltre, una compiuta analisi delle condotte in concreto asseritamente realizzate da Iavarazzo, indispensabile al fine di verificare la sussistenza degli elementi costitutivi dei due reati contestati, la loro corretta qualificazione giuridica tenuto conto anche della formulazione dell’incolpazione ex art. 416-bis c.p. nell’ambito del separato procedimento penale, la configurabilità o meno del concorso dell’indagato (nel senso in precedenza chiarito) nel delitto presupposto del delitto di reimpiego.
9.3 L’erronea prospettiva di diritto e le lacune motivazionali sui profili evidenziati hanno inciso sulla correttezza e coerenza dell’iter argomentativo in ordine all’analisi degli artt. 416-bis e 648-ter c.p., ai rapporti tra le due fattispecie incriminatrici, alla valenza della clausola di riserva contenuta nell’art.648-ter c.p., ai relativi presupposti applicativi, alla sussistenza del quadro di gravità indiziario.
10. L’annullamento dell’ordinanza impugnata per ovviare, nel rispetto dei principi sopra enunciati, agli errori e alle carenze motivazionali indicati al paragrafo che precede in ordine ai rapporti tra il delitto di associazione di stampo mafioso e quello di reimpiego, rende superfluo, atteso il suo carattere pregiudiziale ed assorbente, l’esame in questa sede della doglianza difensiva concernente la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, contestata sotto entrambi i profili in relazione al reato ex art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992 e, invece, sotto il solo profilo della finalità di agevolazione del sodalizio mafioso con riguardo al delitto di reimpiego.
11. In sede di rinvio il Tribunale del riesame dovrà affrontare la questione dei rapporti intercorrenti tra il delitto di reimpiego (art. 648-ter c.p.) e quello di associazione di stampo mafioso anche alla luce della contestazione dell’aggravante di cui al sesto comma dell’art. 416-bis c.p., presente nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 28 novembre 2011 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli.
L’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma , c.p.
11.1. L’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma , c.p. ricorre quando gli associati cercano di penetrare in un determinato settore della vita economica e si pongono nelle condizioni di influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza, finanziando, in tutto o in parte, le attività con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti.
L’aggravante in esame stabilisce una precisa correlazione logico-causale tra le diverse finalità indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p., colte nella loro proiezione dinamico-strutturale, essendo delineato un chiaro nesso funzionale tra la consumazione di delitti, la gestione di attività imprenditoriali, la realizzazione di vantaggi ingiusti, intesi o quale derivazione da attività economiche sanzionate come contravvenzione o quali aspetti complementari al controllo delle attività economiche. L’apporto di capitale deve corrispondere ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose. Il riferimento all’attività economiche è da intendere come intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano beni e servizi.
La ratio di tale previsione è da ravvisare nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l’inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell’economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base, così concretizzando una più articolata e incisiva offesa degli interessi protetti.
Come si desume dal chiaro tenore letterale dell’art. 416-bis, sesto comma , c.p., ai fini della configurabilità dell’aggravante non è necessario che l’attività imprenditoriale mafiosa venga finanziata interamente con fondi provenienti da delitto: la norma stabilisce espressamente, infatti, che deve ritenersi configurata l’aggravante anche se il finanziamento è di tipo misto, ossia è alimentato, in parte, dagli utili della gestione formalmente lecita e, in parte, dai proventi delittuosi.
L’interpretazione letterale del sesto comma, la sua lettura logico-sistematica nel contesto complessivo dell’art. 416-bis c.p. e la sua ragione giustificativa inducono a ritenere che la previsione normativa si applichi esclusivamente alle ipotesi di reimpiego in attività economiche e non in altre finalità programmatiche dell’associazione. Sotto questo profilo non appare, quindi, condivisibile quell’orientamento dottrinale che, valorizzando l’assenza di distinzione in ordine alla liceità formale delle attività finanziate, ritiene che la circostanza aggravante sussista anche quando il finanziamento di origine delittuosa interessi attività economiche di per sé penalmente illecite.
La lettura coordinata dei commi terzo e sesto dell’art. 416-bis c.p., la chiara distinzione, presente nel terzo comma, tra “delitti” e “attività economiche”, il riferimento specifico alla provenienza da “delitti” del prezzo, del prodotto o del profitto, destinate a finanziare, almeno in parte, le attività economiche, portano ad escludere l’applicabilità dell’aggravante di cui al sesto comma al caso in cui i componenti dell’associazione mafiosa reimpieghino in ulteriori attività economiche gli utili provenienti dalle attività imprenditoriali, costituenti l’espressione della seconda finalità descritta dal terzo comma (c.d. finalità di monopolio).
11.2. L’aggravante, che appartiene al novero di quelle speciali, ha natura oggettiva (art. 70 c.p.), poiché il perseguimento della finalità descritta nell’art. 416-bis, sesto comma, c.p. mediante i proventi dei delitti, costituisce una connotazione obiettiva dell’associazione e ne qualifica la pericolosità al pari del suo carattere armato. In coerenza con tale natura dell’aggravante è da ritenere che essa vada riferita all’attività dell’associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172; Sez. 6, n. 6547 del 10/10/2011, Panzeca, Rv. 252114; Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, Rv. 244904; Sez. 6, n. 17249 del 26/01/2004, Rv. 228111; Sez. 2, n. 5343 del 28/01/2000, Oliveri, Rv. 215908).
Ne consegue che, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma , c.p., non è necessario che il singolo associato s’interessi personalmente di finanziare, con i proventi dei delitti, le attività economiche, di cui i partecipi dell’associazione mafiosa intendano assumere o mantenere il controllo (Sez. 1, n. 4375 del 25/06/1996, Trupiano, Rv. 205497).
La natura oggettiva della circostanza aggravante comporta, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 59, secondo comma, c.p. (introdotto dalla legge del 7 febbraio 1990, n. 19), che essa sia valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio, sempre che essi siano stati a conoscenza dell’avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa Peraltro, qualora sia in concreto accertata la normalità e frequenza del reimpiego di profitti delittuosi da parte di un determinato sodalizio di tipo mafioso, ciascuno dei membri del sodalizio mafioso deve considerarsi al corrente della relativa circostanza e deve, di regola, ritenersi ascrivibile a colpa I’eventuale ignoranza sul punto da parte di taluno dei componenti.
11.3. La circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, c.p. deve ritenersi applicabile anche al concorrente esterno consapevole dei fatti oggetto della medesima aggravante o che per colpa Ii ignori (Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, cit.).
In assenza di qualsiasi specificazione normativa, i proventi destinati alI’assunzione o al mantenimento del controllo delle attività economiche possono derivare anche da delitti commessi da terzi che li affidino successivamente all’associazione mafiosa senza partecipare alla gestione del relativo programma.
Pertanto, se – come osservato da autorevole dottrina – l’associazione di stampo mafioso, fungendo da “impresa di riciclaggio” per conto di altre consimili organizzazioni, reimpiega i proventi conseguiti da queste ultime nelle proprie attività economiche formalmente lecite, la circostanza aggravante in esame viene, comunque, valutata a carico di tutti i membri del sodalizio mafioso nei termini e nei limiti indicati dagli artt. 70, primo comma, n. 1 e 59, secondo comma, c.p.
Del delitto di reimpiego risponderanno, invece, i soli associati che abbiano direttamente svolto le attività di reimpiego.
11.4. L’aggravante prevista dall’art. 416-bis, sesto comma, c.p. é configurabile nei confronti dell’associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego.
Una conclusione del genere si fonda sull’interpretazione letterale dell’art. 416-bis, sesto comma, c.p., in cui sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi, e sulla ratio giustificatrice della disposizione.
Come condivisibilmente affermato da un’autorevole dottrina, essa rappresenta una sorta di “progressione criminosa” rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un’organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita.
Il doveroso coordinamento sistematico tra l’art. 416-bis, sesto comma, c.p. e l’art. 648-ter c.p. porta, al contrario, ad escludere che, in questo caso I’associato possa autonomamente rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola personale di esclusione della responsabilità contenuta nel reato disciplinato dall’art. 648-bis c.p. e avente valenza generale.
La lettera dell’art. 416-bis, sesto comma, c.p. osta, infine, a che l’associato possa essere chiamato a rispondere ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio.
3° principio di diritto
11.5. All’esito delle argomentazioni sinora svolte deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: “L’aggravante prevista dall’art. 416-bis, sesto comma, c.p. é configurabile nei confronti dell’associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego”.
art.12-quinquies d.l. n. 306 del 1992
12. La riscontrata carenza della motivazione circa i comportamenti effettivamente posti in essere da Mario Iavarazzo e circa il quadro di gravità indiziaria è ravvisabile anche con riferimento al contestato delitto di cui all’art.12-quinquies d.l. n. 306 del 1992.
12.1. Tale reato costituisce una fattispecie a forma libera che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o disponibilità di denaro o di qualsiasi altro bene o utilità, realizzata con modalità non predetermìnate, al fine di eludere specifiche disposizioni di legge. La condotta vietata consiste nella creazione di una situazione di apparenza formale della titolarità di un bene, difforme dalla realtà sostanziale, e nel mantenimento consapevole e volontario di tale situazione.
L’interpretazione letterale e logico-sistematica della norma rende evidente che il suo ambito di applicabilità non è limitato alle ipotesi riconducibili a precisi schemi civilistici, ma comprende tutte quelle situazioni in cui il soggetto viene a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene, e, inoltre, che essa prescinde da un trasferimento in senso tecnico-giuridico, rimandando non a negozi giuridici tipicamente definiti ovvero a precise forme negoziali, ma piuttosto ad una indeterminata casistica, individuabile soltanto attraverso la comune caratteristica del mantenimento dell’effettivo potere sul bene attribuito in capo al soggetto che effettua l’attribuzione ovvero per conto o nell’interesse del quale l’attribuzione medesima viene compiuta.
Lo spazio di illiceità delineato dalla norma in relazione a manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, si connota per il fine perseguito dall’agente, individuato alternativamente nell’elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali ovvero nell’agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. Sotto tale profilo la disposizione in esame consente di perseguire penalmente anche questi fatti, per così dire, di “auto” ricettazione, riciclaggio, reimpiego, che non sarebbero altrimenti punibili per la clausola di riserva presente negli artt. 648-bis e 648-ter, che ne esclude l’applicabilità agli autori dei reati presupposti (Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193).
Di conseguenza, l’autore del delitto presupposto il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di beni o di altre utilità, di cui rimanga effettivamente dominus, al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo è punibile anche ai sensi dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992.
A sua volta, colui che, mediante la formale titolarità o disponibilità dei beni o delle attività economiche, si presta volontariamente a creare una situazione apparente difforme dal reale, così contribuendo a ledere il generale principio di affidamento, risponde di concorso nel medesimo delitto, ove abbia la consapevolezza che colui che ha effettuato l’attribuzione è motivato dal perseguimento di uno degli scopo tipici indicati dalla norma (cfr. ex plurimis Sez. 1, n. 30165 del 26/04/2007, Di Cataldo, Rv. 237595; Sez. 1, n. 14626 del 10/02/2005, Pavanati, Rv. 231379; Sez. 2, n. 38733 del 09/07/2004, Casillo, Rv.230109) Il disvalore della condotta è dato, poi, dalle finalità che costituiscono il profilo soggettivo (dolo specifico) della figura delittuosa, intesa ad eludere – come già sopra detto – le misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero ad agevolare la commissione di reati che reprimono fatti connessi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza.
4° principio di diritto
12.2. Conclusivamente è possibile affermare il seguente principio di diritto:
“I fatti di “auto” riciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendone i relativi presupposti, ai sensi dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992. convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356″.
12.3. Il Tribunale del riesame dovrà procedere ad una nuova valutazione delle concrete condotte asseritamente realizzate da Mario Iavarazzo alla luce dei principi in precedenza enunciati.
13. Il confronto strutturale tra il delitto di trasferimento di valori ex art. 12- quinquies d.l. n. 306 del 1992 e quelli di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e reimpiego (art. 648-ter c.p.) consente di affermare l’autonoma e distinta valenza strumentale del primo reato rispetto agli altri due (Sez. 6, n. 18496 del 09/11/2011, Figliomeni, Rv. 252658; Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193).
L’assenza, nell’art. 12-quinques d.l. n. 306 del 1992, di una clausola di esclusione della responsabilità per l’autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi consente di affermare che il soggetto attivo del reato può essere anche colui che ha commesso o ha concorso a realizzare il delitto presupposto, qualora abbia predisposto una situazione di apparenza giuridica e formale difforme dalla realtà circa la titolarità o disponibilità dei beni di provenienza delittuosa al fine di agevolare la commissione dei delitti di riciclaggio o di reimpiego (Sez. 2, n. 12999 del 16/11/2012, Bitica, Rv. 254804; Sez. 6, n. 25616 del 21/04/2008, Giombini, Rv. 240987; Sez. 6, n. 15104 del 09/10/2003, Gioci, Rv. 229239, tutte in materia di riciclaggio).
14. L’annullamento dell’ordinanza impugnata per procedere a nuovo esame dei profili in precedenza illustrati rende superfluo l’esame in questa sede delle censure difensive riguardanti la sussistenza delle esigenze cautelari.
15. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, deve essere disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata e il rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli.
La Cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.