Scelte da Renato Bricchetti314 c.p.

1. Peculato d’uso

Cass. S.U. 20 dicembre 2012, Vattani e altro
In tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
In tema di peculato, nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione. (Fattispecie relativa all’utilizzo di utenze cellulari per fini personali).

1. Con sentenza del 16 aprile 2009 il Tribunale di Roma condannava V.U.A. e S.B.G. alle pene, rispettivamente, di anni due e mesi otto di reclusione, e di mesi dieci di reclusione, in quanto ritenuti responsabili:
– il V., del reato di peculato continuato (capo sub A) di cui all’art. 81 cpv. c.p., e art. 314 c.p., comma 1, perché, avendo, nella qualità di ambasciatore e capo della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea, il possesso di varie utenze cellulari belghe, le utilizzava, nel periodo compreso fra il settembre 2001 e il dicembre 2003, per l’effettuazione di numerose telefonate di carattere privato, per importi consistenti;
– entrambi, del reato di falso ideologico (capo sub C) di cui agli artt. 110 e 479 c.p., materialmente commesso, su istigazione del V., dal S., nella qualità di cancelliere contabile presso la predetta Rappresentanza, e consistito nella falsa attestazione, in un atto a sua firma intestato alla “Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea”, recante la data del 22 gennaio 2004 e avente ad oggetto un resoconto di spese a carico del V., di aver ricevuto da quest’ultimo, a titolo di conguaglio per le spese non di servizio relative all’anno 2003 per una delle utenze, il rimborso pari alla somma di Euro 11.650,67, che in realtà all’epoca non era ancora avvenuto (in quanto verificatosi quasi tre mesi dopo, ossia il 6 aprile 2004);
– il S., inoltre, del reato di favoreggiamento personale aggravato (capo sub D) di cui all’art. 378 c.p., e art. 61 c.p., n. 9, contestato in relazione alla commissione della condotta delittuosa di falso.
Il Tribunale di Roma, quindi, concesse le attenuanti generiche e unificati i reati ex art. 81 cpv. c.p., condannava il V. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione (così determinata: p.b. ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: un anno e quattro mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con gli episodi di peculato), con la pena accessoria della interdizione di pari durata dai pubblici uffici, e il S. alla pena di dieci mesi di reclusione (così determinata: p.b. ridotta ex art. 62 bis c.p., per il ritenuto più grave delitto di falso: otto mesi, aumentata sino all’inflitto per la continuazione con il delitto di favoreggiamento).

2. Su appello degli imputati, la Corte di appello di Roma, con sentenza dell’8 giugno 2011, assolveva il S. dal reato di cui al capo sub D (con eliminazione del relativo aumento di pena ex art. 81 c.p., comma 2) perchè il fatto non costituisce reato (mancando la prova che il predetto avesse agito con intenti ulteriori rispetto a quello di salvaguardare le aspettative di carriera del V., evitandogli problemi disciplinari) e riconosceva al V. l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, relativamente al reato di peculato di cui al capo A (venendo in rilievo, a tale effetto, i singoli episodi delittuosi), con conseguente diminuzione a un anno della pena applicata come aumento per la continuazione, confermando, nel resto, la pronuncia di primo grado.
Per la conferma della responsabilità del V. in ordine al delitto di peculato di cui all’art. 314 c.p., comma 1, la Corte di merito si basava sul consolidato e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, nella condotta di indebito utilizzo del telefono d’ufficio da parte del pubblico funzionario, ciò che viene in rilievo agli effetti penali è l’appropriazione delle energie costituite dagli impulsi elettrici, occorrenti per realizzare la comunicazione, entrate a far parte del patrimonio dell’amministrazione.
Secondo la Corte capitolina, all’epoca dei fatti nessuna fonte consentiva al personale degli affari esteri l’utilizzo per fini privati del telefono cellulare assegnato per motivi d’ufficio. In particolare la c.d. direttiva “Frattini” n. 3/2001 subordinava espressamente la possibilità di un tale utilizzo alla esistenza di un contratto c.d. dual billing, idoneo cioè a consentire una fatturazione differenziata per le telefonate private. Nè alcun valore potevano avere, in quanto contrastanti con l’inequivoco tenore della detta direttiva, i chiarimenti ministeriali successivi alla vicenda di causa, secondo i quali, in caso di mancata attivazione del dual billing, le telefonate private potevano ugualmente farsi, senza limiti di spesa, salvo l’obbligo di rimborso, e senza vincoli temporali, da parte del pubblico funzionario. Prassi in tal senso, pur tollerate, erano palesemente illegittime. Nè il caso di specie, per le sue particolarità e per la condotta tenuta dall’imputato, offriva alcun appiglio per ritenerne sussistente la buona fede.
Riguardo al falso, la Corte ne confermava la sussistenza in base alle caratteristiche formali e al chiaro tenore dell’atto, al suo raffronto con l’omologa attestazione datata 6 aprile 2004 e ai rilievi effettuati in sede di ispezione dal 24 al 27 febbraio 2004.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.
omissis

4. Con ordinanza n. 36760 del 18 luglio – 24 settembre 2012 la Sesta Sezione penale, assegnataria del ricorso, dopo aver ricordato l’insegnamento consolidato secondo il quale “il delitto di peculato si configura quando l’appropriazione abusiva ha leso la funzionalità della pubblica amministrazione e ha causato un danno patrimoniale apprezzabile, trattandosi di reato plurioffensivo”, che si realizza con una “condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede e da cui deriva un’estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto”, ha rilevato in particolare, sulla questione dell’utilizzo (anche) a fini privati del telefono assegnato per esigenze d’ufficio, che la giurisprudenza individuò l’atto appropriativo, in un primo tempo, “nell’uso del telefono quale apparato fisico (con la – allora coerente – configurabilità della fattispecie del peculato d’uso, in relazione al carattere momentaneo di detto uso e all’immediata restituzione dell’apparato”), e successivamente, invece, secondo un indirizzo che si è poi consolidato, “nel consumo delle energie costituite dagli impulsi elettronici, o elettrici (…), attraverso i quali si trasmette la voce (impulsi la cui appropriazione non può che essere definitiva, con la conseguente configurabilita del peculato ordinario disciplinato dall’art. 314 c.p., comma 1, e l’irrilevanza dell’eventuale successivo rimborso risarcitorio”).

4.1. Secondo l’ordinanza di rimessione, “la specifica doglianza secondo cui la lettura che individua l’oggetto dell’appropriazione negli impulsi elettronici che consentono la trasmissione della voce si allontana in modo intollerabile dal concetto di entità materiale suscettibile di appropriazione, per accogliere un’interpretazione dell’art. 314 c.p., che, ben oltre il dato letterale, appare in netto contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale e con il divieto di interpretazione analogica, merita un’attenta riflessione, il cui esito può condurre ad un ripensamento delle conclusioni cui questa Corte Suprema è da tempo pervenuta”.
L’interpretazione finora accolta, infatti, riconduce al concetto normativo di “energia che abbia un valore economico”, suscettibile di sottrazione (e quindi di appropriazione), gli “impulsi elettronici”, che in realtà non preesistono all’uso illecito ma sorgono con esso e a sua causa e, inoltre, non esauriscono il costo del “servizio” oggetto del contratto, sul quale incidono in realtà una molteplicità di elementi (infrastrutture, risorse umane e tecniche, ecc.).
Ne discende, ad avviso della Sezione rimettente, la necessità di verificare se in relazione all’uso indebito dell’apparato telefonico non sia più appropriato ricorrere ad altra qualificazione giuridica, quale potrebbe essere “quella dell’abuso d’ufficio (potendosi ravvisare la violazione della disciplina sull’uso del servizio telefonico cellulare e comunque dei principi generali, anche di rilievo costituzionale, di contabilità dello Stato (…), l’ingiusto vantaggio patrimoniale dell’utilizzatore infedele e il danno ingiusto dell’Amministrazione), ovvero quella della truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 1, n. 1 (quando la mancata segnalazione delle telefonate personali, ricorrendo i parametri prima ricordati, sia riconducibile ad una inveritiera dichiarazione)”.
La delicatezza della questione e l’inopportunità di una pronuncia in qualche modo “esplorativa” in direzione contraria all’indirizzo dominante hanno indotto il Collegio della Sesta Sezione a ritenere doverosa la rimessione del processo alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 618 c.p.p..
5. Con decreto in data 1 ottobre 2012 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Omissis

Motivi della decisione

1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è “se l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato”.

La giurisprudenza
2. L’approccio e le soluzioni ad essa dati da parte della giurisprudenza sono variati nel tempo.

2.1. Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la condotta in questione integri il reato di peculato d’uso ex art. 314 c.p., comma 2.
Essa, infatti, non realizzerebbe un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli “scatti”), ma un’interversione momentanea del possesso (seguita da restituzione immediata) dell’apparecchio (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, Catalucci, RV 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, RV 209746; Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi), per la quale non sarebbe necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità e controllo del proprietario, essendo sufficiente che l’agente si comporti nei confronti della cosa medesima, sia pure in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus, realizzando finalità estranee agli interessi del proprietario (Sez. 6, n. 788 del 14/02/2000, Mari, RV 217342).
Il percorso giustificativo di tale approdo ermeneutico muove dal rilievo generale (v. Sez. 6, n. 7364 del 1997, Guida, cit.) che, se il pubblico agente possiede in nome e per conto della pubblica amministrazione gli arredi e le attrezzature dell’ufficio nella loro materiale disponibilità proprio in ragione delle sue mansioni, non par dubbio che un’aversione dal loro uso conforme alla destinazione data dalla pubblica amministrazione per il perseguimento del pubblico interesse, con correlativo volgimento a estranei fini di personale vantaggio in un tempo dato e in modi apprezzabili, comporta un’inammissibile interversione del possesso e quindi un’appropriazione. La reversibilità dell’interversione, alias la possibilità di restituire il bene impropriamente utilizzato alla normale destinazione d’uso, e quindi la durata dell’interversione predetta, sono in sè irrilevanti perché l’uso “momentaneo”, purché apprezzabile, della cosa e la sua restituzione “immediata”, cioè omisso medio, delimitano appunto e caratterizzano la nuova figura di reato del peculato d’uso rispetto alla fattispecie più grave, e ben più gravemente sanzionata, disciplinata dal comma primo del medesimo art. 314 c.p., nella formula introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 1. Nell’ipotesi in esame, dunque, il reato si realizza non già in relazione alla fruizione di un servizio non dovuto, insuscettibile, per la sua immaterialità, di essere inquadrato nella fattispecie astratta, bensì in relazione all’interversione del possesso correlata all’uso deviato, imprescindibile per fruire di quel servizio, dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità materiale dell’agente. In altri termini, a configurare il reato nel caso in questione è l’esercizio di un possesso a fini propri e, quindi, in nome proprio, che, caratterizzato da un animus rem sibi habendi diverso da quello dovuto, denunzia l’appropriazione di un bene pubblico, destinata a breve durata perché connotata appunto dal fine di “fare uso momentaneo della cosa” (affidata all’agente in ragione del suo ufficio o servizio), ma pur sempre di rilevanza penale.

2.2. Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giurisprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli estremi del peculato comune. Si osserva in proposito che l’uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione dell’apparecchio telefonico in quanto tale, ma nell’utilizzazione dell’utenza telefonica, e l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato (non già dall’apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì) dall’energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la “cosa mobile altrui”, vi sarebbe da parte dell’intraneus una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo l’uso (di tal che l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’importo delle telefonate può valere solo come ristoro del danno cagionato). In sostanza, il pubblico agente, attraverso l’uso indebito dell’apparecchio telefonico, si approprierebbe delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, Santone, RV 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, Russo, RV 224270; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, Di Niro, RV 223528; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 2002, Chirico, RV 221510; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, Menotti, RV 218435; Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, Di Maggio, RV 217710).
Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate, quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come un’unica condotta (Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, Montana, RV 234838; v. anche, sul punto, Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 2011, Di Maria, RV 249201). Sul piano della applicazione concreta possono segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico dall’importo assai elevato (Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, Maggiore e altro, RV 236627; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 2005, Aiello, RV 231032), ovvero a Paesi esteri per scopi ludici (Sez. 6, n. 21165 del 29/04/2009, G.A.), o comunque personali (Sez. 6, n. 2525 del 04/11/2009, dep. 2010).
Il rigore di questo orientamento giurisprudenziale viene mitigato anche con il rilievo che nel concreto assetto dell’organizzazione pubblica è possibile riscontrare, talora, una sfera di utilizzo della linea telefonica dell’ufficio per l’effettuazione di chiamate personali che non può considerarsi “esulante del tutto dai fini istituzionali” e nella quale, quindi, non si realizza l’evento appropriativo (Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.). Si tratta di quelle situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato da impellenti esigenze di comunicazione privata (durante l’espletamento del servizio), finirebbe – ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l’utenza dell’ufficio – per creare addirittura maggior disagio all’amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio: in questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze personali e il più proficuo perseguimento dei fini pubblici, è la stessa amministrazione ad avere interesse a consentire al dipendente l’uso della linea dell’ufficio per fini privati.
Un preciso e significativo riscontro formale di tale realtà è stato rinvenuto nel decreto del 31 marzo 1994 del Ministro per la Funzione pubblica (G.U., n. 149 del 28 giugno 1994), che, nel definire il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificamente previsto che “in casi eccezionali”, dei quali va informato il dirigente dell’ufficio, il dipendente possa effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’ufficio (v. la prima parte dell’art. 10, comma 5, del D.M. citato): statuizione nella quale, fra l’altro, all’informativa al dirigente dell’ufficio viene attribuita natura di mero adempimento formale, che – al di là delle possibili conseguenze disciplinari della sua violazione – non condiziona l’autonoma e sostanziale “rilevanza derogatoria” del “caso eccezionale”.
Numerose sono le pronunce che hanno fatto applicazione di tali criteri di “temperamento” (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, RV 251786; Sez. 6, n. 41709 del 19/10/2010, Ermini, RV 248798; Sez. 6, n. 24709 del 24/05/2007, Cavaliere; Sez. 6, n. 25273 del 2006, Montana, cit.; Sez. 6, n. 10719 del 31/01/2003, Oriente, RV 224864; Sez. 6, n. 7772 del 2003, Russo, cit.; Sez. 6, n. 7347 del 2003, Di Niro, cit.; Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.; Sez. 6, n. 3879 del 2000, Di Maggio, cit.).

2.3. L’orientamento da ultimo illustrato trova seguito anche in relazione all’affine questione del computer in dotazione all’ufficio del pubblico funzionario, utilizzato per navigare in internet su siti non istituzionali (Sez. 6, n. 20326 del 15/04/2008, D’Alfonso). In tal caso non si manca peraltro di sottolineare la necessità di verificare il tipo di convenzione che lega l’ente al gestore del servizio di internet, e cioè se l’ente paghi una somma forfettaria al mese (c.d. tariffa flat), per cui è economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad internet eseguita dall’ufficio (e non vi è danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o se, di contro, l’ente paghi in funzione della durata delle singole connessioni, caso in cui la condotta illegittima del dipendente provocherebbe un immediato danno patrimoniale all’ente (Sez. 6, n. 41709 del 2010, Ermini, cit.).
Distinzione analoga potrebbe evidentemente farsi anche per le tariffe telefoniche. Invero, se con la tariffa “a consumo” ogni scatto in più, effettivamente, non fa altro che aumentare il danno patrimoniale della p.a., dato che ogni telefonata per scopi privati determina un indebito accrescimento di quanto dovuto al gestore telefonico, al contrario con la tariffa c.d. “forfettaria” o “tutto- incluso”, grazie alla quale l’utente corrisponde al gestore telefonico un canone mensile fisso, indipendentemente dalle telefonate e dagli scatti realmente effettuati, non vi sarebbe alcuna forma di deminutio patrimonii, dato che – indipendentemente dalla realizzazione di una o più telefonate a scopi privati – la p.a. pagherebbe al gestore telefonico sempre lo stesso importo predeterminato, a prescindere quindi dal traffico telefonico realizzato.

2.4. Talora l’uso indebito del telefono è stato ricondotto alla fattispecie dell’abuso d’ufficio (v. Sez. 6, n. 20094 del 04/05/2011, Miscia, RV 250071, relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che utilizzava l’apparecchio telefax in dotazione dell’ufficio, per procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge), anche se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione della impossibilità di configurare, in tale comportamento, una “violazione di norme di legge o di regolamento”, quale requisito essenziale per l’integrazione del delitto punito dall’art. 323 c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispecie introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n. 234.
Un ulteriore ostacolo alla riconducibilità della condotta in discorso alla fattispecie dell’abuso d’ufficio potrebbe anche ravvisarsi, in determinate situazioni, nella previsione dello svolgimento della condotta stessa “nell’esercizio delle funzioni o del servizio”.
Nell’affine materia dell’utilizzo per scopi privati della navigazione in internet attraverso il computer in dotazione all’ufficio, si è talora fatto ricorso allo schema del delitto di abuso d’ufficio nell’ipotesi in cui il contratto di connessione ad internet stipulato dall’ente preveda una tariffa flat, cioè a costo forfettario (Sez. 6, n. 31688 del 09/04/2008, Cannalire, RV 240692; Sez. 6, n. 381 del 2000, Genchi, cit.).

2.5. Per completare la rassegna di giurisprudenza, bisogna anche dar conto di un orientamento, sporadicamente emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib. Sanremo, 19 ottobre 1995, X), che ritiene che l’uso privato del telefono d’ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non potendosi equiparare il semplice “uso” alla “appropriazione”.
Si osserva, a supporto della tesi, che l’uso del telefono da luogo soltanto ad un addebito a carico della pubblica amministrazione delle somme corrispondenti all’entità delle utilizzazioni di volta in volta effettuate, con la conseguenza che parrebbe inopportuno parlare di “appropriazione”. L’oggetto materiale della condotta, infatti, è rappresentato nella specie dal telefono come strumento di utilizzazione dell’utenza telefonica d’ufficio, e, siccome tale apparecchio rimane sempre nella disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la condotta di indebita utilizzazione da parte del pubblico funzionario dell’utenza telefonica intestata all’amministrazione per l’effettuazione di conversazioni personali non può integrare né gli estremi del peculato comune, nè quelli del peculato d’uso.
In altri termini, viene negata la stessa configurabilità di una condotta di appropriazione, stante il mancato perfezionamento “negativo” della stessa, consistente nell’esclusione totale del proprietario dal rapporto con la cosa.

La dottrina
3. La disamina del panorama dottrinale mostra analoga varietà di vedute, con una sensibile divaricazione di indirizzi interpretativi, connotati, talora, da sostanziali analogie con il ragionamento sotteso al discorso giurisprudenziale, e, in altre occasioni, da una vera e propria originalità di impostazioni sul piano dogmatico.

3.1. Alcuni Autori ritengono sussumibile la fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 314 c.p., comma 1, aderendo sostanzialmente alla tesi accolta dal più rigoroso orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’appropriazione non riguarda l’apparecchio in sé e per sé, ma le energie che danno luogo al colloquio telefonico e che, pertanto, non possono essere mai oggetto di restituzione se non sotto il riflesso del risarcimento del danno provocato alla pubblica amministrazione.
Secondo tale impostazione, al pubblico agente non interessa lo strumento telefonico, ma il servizio che esso rende, che si identifica nella telefonata, e il danno cagionato alla p.a. è costituito dal consumo degli “scatti”, cioè delle energie necessarie per la effettuazione della conversazione.
All’interno dell’orientamento in discorso, e focalizzando maggiormente l’attenzione sui profili economici della fattispecie, si è proposta l’opportunità di una distinzione di carattere preliminare, a seconda che l’amministrazione interessata abbia o meno un piano telefonico a forfait, in modo tale che il numero delle singole telefonate non incida sull’ammontare di spesa.
Nel caso in cui ogni telefonata abbia un singolo costo, sembra infatti ragionevole ritenere che il pubblico agente che impiega indebitamente il telefono d’ufficio debba rispondere di peculato comune, essendosi in sostanza appropriato delle risorse economiche della pubblica amministrazione (di cui disponeva per ragioni d’ufficio) impegnate per il pagamento delle telefonate.
In caso, invece, di contratto telefonico a forfait, l’impiego del telefono d’ufficio per ragioni personali potrà configurare peculato comune, se il pubblico agente ne faccia uso in modo prolungato (impedendo ad es. l’uso ad altri o occupando le linee telefoniche d’ufficio), ovvero peculato d’uso, se l’uso sia momentaneo.
In entrambe le ipotesi considerate, esulerebbero peraltro dalla punibilità le situazioni connotate da episodicità o sporadicità, per difetto del requisito implicito del danno al patrimonio e al buon funzionamento della p.a., ovvero per l’esercizio di un diritto (arg. ex art. 51 c.p.), espressamente conferito ai pubblici dipendenti dall’art. 10, comma 5, del codice di comportamento approvato con il D.M. 31 marzo 1994.
Nel commentare criticamente l’orientamento giurisprudenziale che non inquadra nel peculato, ma nel reato di abuso d’ufficio, la connessione abusiva ad internet da parte del pubblico ufficiale, altra opinione dottrinale si colloca sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica sopra delineata, rilevando che l’autore della condotta incriminata non farebbe solo un uso momentaneo del computer e della linea telefonica (rectius del modem), ma si approprierebbe delle energie – impulsi elettronici – relative alle connessioni ad internet. Tali energie sarebbero oggetto di un’appropriazione vera e propria da parte dell’agente, con correlativa definitiva perdita per l’amministrazione, non essendone possibile la restituzione.
Muovendo dall’ampiezza del fenomeno dell’utilizzo delle nuove tecnologie sui luoghi di lavoro, pubblici e privati, un’altra posizione dottrinale ritiene che il fatto di impegnare una linea telefonica non per comunicazioni conformi al servizio, ma per frequentare chat line o per sbrigare la propria corrispondenza, può costituire, per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, un’ipotesi di peculato ordinario non solo sotto il profilo dell’appropriazione degli impulsi elettronici veicolati dall’apparecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera di disponibilità della p.a., ma anche sotto quello della sottrazione di risorse lavorative altrimenti impiegabili per il lavoro dovuto.
La qualità ordinaria del peculato si evidenzierebbe così anche per la non restituibilità delle risorse lavorative distratte e reindirizzate verso un impegno extralavorativo: a poco rileverebbe, in questa ottica, che il dipendente utilizzi un sistema non comportante di fatto un aggravio di spesa per il datore di lavoro, poiché egli, oltre a procurarsi un vantaggio lucrativo non spettantegli, certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta la durata della connessione, impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al lavoro.
Analoga soluzione interpretativa sarebbe, sia pur parzialmente, proponibile anche nel settore privato, dove tali comportamenti potrebbero ritenersi sussumibili nell’ambito dello schema descrittivo delineato dall’art. 646 c.p., e art. 61 c.p., n. 11: l’utilizzo inappropriato del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo complesso, durante l’orario di lavoro, costituirebbe infatti una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in questione, che verranno restituiti giocoforza al termine dell’attività, quanto delle risorse ed energie lavorative che altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano state affidate.

3.2. Parte della dottrina ha sottoposto invece a critica stringente la soluzione interpretativa che riconduce alla fattispecie del peculato comune il comportamento del pubblico dipendente che indebitamente utilizzi il telefono dell’ufficio per comunicazioni personali.
Muovendo dal duplice rilievo che, ove il possesso dell’energia dipenda dal possesso del bene da cui essa promana, la configurabilità del peculato va valutata in rapporto non all’energia in quanto tale, bensì alla cosa che la produce, e che il pubblico funzionario, per poter disporre dell’utenza telefonica, deve avere il possesso o la disponibilità dell’apparecchio telefonico, si perviene alla conclusione che l’utilizzo a scopi personali dello stesso, che viene così distratto dalla originaria destinazione, è riconducibile propriamente alla figura del peculato d’uso, nel quale il fatto lesivo è costituito proprio dall’utilizzo non conforme alle finalità istituzionali e volto al conseguimento di un vantaggio personale.
Non varrebbe in contrario l’obiezione che il concetto di restituzione non si attaglierebbe ai casi in cui l’uso del bene avvenga senza la sua fuoriuscita dalla sfera di controllo del legittimo titolare.
Posto infatti che la specifica ratio dell’introduzione della nuova fattispecie del peculato d’uso è quella di evitare un’impropria utilizzazione dei beni della pubblica amministrazione, il concetto di appropriazione momentanea che in esso viene in rilievo appare omologo a quello della distrazione, nella quale non rileva che il bene sia o meno sottratto alla sfera di disponibilità e controllo del legittimo proprietario, ma solo che venga distolto dalla originaria destinazione pubblicistica. La restituzione del bene, in tale ipotesi, consisterebbe nella cessazione dell’uso arbitrario, contrario all’interesse pubblico, e nella “riconduzione” del bene alla sua normale destinazione.
Allo scopo di evitare che la finalità attenuatrice della pena assegnata alla previsione di cui all’art. 314 c.p., comma 2, si converta in una eccessiva dilatazione della responsabilità, si è peraltro rimarcata la necessità che l’uso momentaneo si risolva in un’apprezzabile offesa degli interessi del proprietario del bene, non potendosi dunque ritenere configurabile il reato nelle ipotesi di uso economicamente e funzionalmente non significativo (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3).
Di converso, non basterebbe un uso non momentaneo, ovvero non seguito dall’immediata restituzione della cosa, a far rifluire automaticamente il fatto nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p., comma 1, apparendo comunque assai problematica in tal caso la ravvisabilità del dolo della condotta appropriativa, e residuando piuttosto, nella presenza dei previsti requisiti, la possibilità di una incriminazione della condotta a titolo di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..

3.3. In una prospettiva affine ma non sovrapponibile si muove altro orientamento dottrinale, che, assimilando l’uso indebito del telefono a quello dell’autovettura ed escludendo che l’oggetto della condotta, ricadente palesemente in entrambi i casi sul bene fisico impiegato, possa identificarsi con l’energia in sé e per sé considerata che ne esprime il funzionamento, rileva che non sussiste alcun valido motivo per escludere a priori che l’uso possa costituire, nello schema del novellato art. 314 c.p., una forma di manifestazione della condotta appropriativa, richiedendosi solo, a tal uopo, che la condotta di abuso possessorio si estrinsechi attraverso i due momenti realizzativi dell’espropriazione (ossia, l’estromissione totale – ma non necessariamente definitiva – del legittimo proprietario dal rapporto con la cosa) e dell’impropriazione (ossia, il disconoscimento dell’altrui signoria attraverso atti dominicali incompatibili con l’interesse del vero avente diritto). In presenza di siffatti presupposti, opererebbe come criterio di distinzione “interna” tra il peculato comune e il peculato d’uso l’elemento della definitività dell’esclusione del dominus dal rapporto con la cosa:
l’uso protratto per un tempo limitato e seguito dall’immediata restituzione sarà riconducibile al capoverso dell’art. 314 c.p., mentre quello prolungato o comunque non seguito dalla restituzione della res rientrerà nella più grave fattispecie del peculato comune.
In tale prospettiva ermeneutica, la linea di demarcazione “esterna”, rispetto alla contigua fattispecie di abuso d’ufficio, è segnata dalla completa estromissione del proprietario dal rapporto con il bene medesimo, solo in mancanza della quale, restando inconfigurabile il delitto di peculato, potrà trovare applicazione, nella ricorrenza di tutti gli altri presupposti, la fattispecie di cui all’art. 323 c.p..

3.4. Alla tesi della configurabilità del peculato d’uso, altra posizione dottrinale perviene attraverso un percorso differente, che muove dal rilievo, contrario all’opinione dominante, che oggetto di tale figura di reato non sono solo le cose infungibili ma anche quelle fungibili, come il denaro. La previsione della restituzione della “stessa” cosa, recata dalla norma codicistica, andrebbe infatti letta in relazione alla natura della cosa stessa, nel senso che, in caso di beni infungibili, ne esigerebbe la piena identità fisica, mentre, in caso di beni fungibili, quale il danaro, richiederebbe solo che si tratti di cose della stessa specie e quantità.
Partendo da tale presupposto, si rileva che, quando il pubblico dipendente effettua chiamate personali dal telefono dell’ufficio, non si appropria, definitivamente, delle energie che consentono la trasmissione della voce, e neppure, momentaneamente, del mezzo fisico del telefono, ma si appropria invece, momentaneamente, dell’utenza telefonica pubblica e, più precisamente, delle somme di denaro corrispondenti al costo delle telefonate indebitamente effettuate, che distrae nell’immediato in suo favore, provvedendo poi a rifonderle.

3.5. Una diversa ricostruzione viene suggerita, infine, da quella dottrina, secondo la quale l’uso indebito del telefono pubblico non ha ad oggetto l’impulso elettrico che consente la trasmissione della voce e non realizza alcuna appropriazione di “energia”, ma investe propriamente un “diritto di utenza”, rientrante nel novero dei beni immateriali e, come tale, insuscettibile di apprensione. Con la consegna e la conseguente concessione della facoltà di utilizzo di un apparato telefonico, si trasferisce in sostanza a un soggetto il diritto di usufruire del servizio telefonico. L’oggetto della condotta resta, quindi, il solo uso dell’utenza telefonica e non l’energia che ne permette il funzionamento.
Nella prospettiva in discorso, chi si avvale in modo improprio del telefono in dotazione dell’ufficio, limitandosi solo a disporre abusivamente di un diritto che gli è stato concesso, oltre a non realizzare alcuna appropriazione di energia, non si appropria neppure, agli effetti dell’art. 314 c.p., comma 2, del mezzo fisico del telefono, in quanto non ne sottrae la disponibilità alla pubblica amministrazione, e ciò anche se l’uso indebito avvenga con assiduita e in via continuativa.
La condotta in esame resterebbe poi fuori anche dall’ambito applicativo del diverso reato di abuso d’ufficio, non potendovisi allo stato ravvisare il necessario presupposto della violazione di una norma di legge o di regolamento di carattere precettivo, considerato in particolare che il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (che vietando, all’art. 10, l’uso del cellulare e degli altri beni strumentali per fini privati, viene senz’altro violato dal pubblico agente nell’uso improprio del telefono), non è stato emanato nelle forme previste per i regolamenti governativi dalla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, e dunque non può rientrare fra le “fonti normative” previste dall’art. 323 c.p. (come rilevato anche da Sez. 6, n. 45261 del 24/09/2001, NiCita, RV 220935).
Per poter attingere la soglia della sanzionabilità penale, l’uso indebito del telefono dovrebbe assumere modalità e intensità tali da sottrarlo effettivamente e stabilmente alla disponibilità della pubblica amministrazione. In tal caso, si realizzerebbe l’effetto appropriativo nella sua forma più grave delineata nell’art. 314, comma 1.

4. Per risolvere compiutamente la questione sottoposta alla Corte, è indispensabile tracciare, nei limiti di pertinenza, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti del delitto di peculato, nelle due forme previste dall’attuale testo dell’art. 314 c.p..

4.1. Nella sua originaria formulazione, la condotta di peculato si articolava in due forme, l’appropriazione e la distrazione.
Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, si è:
a) formalmente soppressa l’ipotesi della distrazione a profitto proprio o di altri;
b) abrogato il delitto (di cui all’art. 315 c.p.) di malversazione a danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie di peculato);
c) introdotto, al comma secondo dell’art. 314, l’ipotesi del peculato d’uso.
La introduzione del peculato d’uso come figura autonomamente disciplinata è stata in particolare spiegata con l’intento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di colmare possibili vuoti di tutela al riguardo.
La riforma del ’90, pur se ha tendenzialmente accentuato l’aspetto del disvalore in sè dell’abuso qualificato e interessato del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non ha sostanzialmente inciso sul carattere plurioffensivo del reato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, in relazione alla duplice tutela del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (sotto i profili della legalità, efficienza, probità e imparzialità) e del patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, Sez., 6, n. 8009 del 10/06/1993, n. 8009, Ferolla, RV 194921): plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa, con la conseguenza, in particolare, che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, in presenza della lesione dell’altro interesse, protetto dalla norma, del buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, RV 244190; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, Aiello, RV 231032; Sez. 6, n. 4328 del 02/03/1999, Abate, RV 213660).

4.2. Il costante orientamento della giurisprudenza, in conformità al tenore letterale del dato normativo di cui all’art. 314 c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico (Sez. 6, n. 396 del 06/06/1990, Di Salvo), ricomprendendovi, oltre alla detenzione materiale, anche la (mera) disponibilità giuridica della cosa (Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, RV 211008), intesa come concreta possibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositivo – derivante dalla sfera di competenza o comunque da prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, anche se in contrasto con norme giuridiche o atti amministrativi -nelle operazioni finalizzate alla concreta apprensione (v. al riguardo Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, RV 236146).
Anche in dottrina si aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata dalla visione civilistica di possesso ex art. 1140 c.c., ritenendosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici che attribuiscono all’agente pubblico la possibilità di operare sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine tutelato dal diritto ed avviarla indebitamente verso una finalità propria del soggetto attivo.

4.3. Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. L’espressione “cosa mobile” denota ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all’altro.
Secondo la più recente giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati contro il patrimonio, per “cosa mobile” deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che possa essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte.
Alla “cosa”, inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2, “l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico” Da tale ambito si ritengono però generalmente escluse le energie umane, o muscolari, inscindibili dalla persona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.
Il requisito del valore economico – presunto per l’energia elettrica, da dimostrarsi per le altre energie – definisce l’ambito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo le energie che vengono captate dall’uomo, mediante l’apprestamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a fini pratici, distribuite, scambiate, etc.: deve trattarsi, dunque, di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve esservi sia un soggetto che la controlla, sia un soggetto disposto normalmente a versare un corrispettivo per averla in godimento.
Si ritiene in dottrina che l’equiparazione dell’energia alla cosa mobile sussiste solo se l’energia possa venire posseduta separatamente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza, tutte le volte che il possesso dell’energia dipenda e sia inseparabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso di animali, macchinari), la configurabilità del reato deve essere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all’energia; con la conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno, se del caso, i principi validi per il peculato d’uso.
Sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Comiani, RV 247270; Sez. 2, n. 36592 del 26/09/2007, Trementozzi, RV 237807) si esclude che i beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio, etc.), che patrimoniali (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio, etc.) – possano costituire oggetto di peculato, perché non sono cose.
Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un diritto.

4.4. La condotta di “appropriazione” identifica il comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario. Essa si articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. “espropriazione”), di indebita alterazione dell’originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. “impropriazione”), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.
Con l’interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare il denaro o la cosa mobile come fossero suoi, compiendo su di essi uno o più atti di disposizione – comportamenti materiali o atti negoziali – che, incompatibili con il titolo del possesso, rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebitamente si attribuisce.
Nell’esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo all’autentico dominus si realizza quella “conversione della cosa a profitto proprio o altrui” che, tradizionalmente indicata come ricompresa nel concetto stesso di appropriazione, non può non emergere anche là dove, come nell’art. 314 c.p., e diversamente da quanto avviene per il delitto di appropriazione indebita (dove, previsto come “ingiusto”, compare quale finalizzazione del dolo specifico), il profitto proprio o altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione nell’ambito del delitto di peculato – realizzantesi con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus nei confronti della res posseduta in ragione dell’ufficio, che viene, correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio dell’avente diritto – è rimasta invariata anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 86 del 1990 (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, RV 194923).
L’espunzione della distrazione dal nuovo testo dell’art. 314 c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei rapporti tra le nozioni di “appropriazione” e “distrazione”.
In giurisprudenza si ritiene che l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 c.p., operata dalla L. n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’area di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato. La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d’ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell’agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 del 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari).
E’ interessante notare che anche in relazione al delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., che non ha mai incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l’opinione che ritiene tale condotta – intesa nel suo significato di “deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall’uso legittimo”- riconducibile sostanzialmente a quella appropriativa (Sez. U, n. 9863 del 28/02/1989, Vita, RV 181789; Sez. U, n. 1 del 28/02/1989, Cresti, RV 181792; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, RV 208059; Sez. 2, n. 2829 del 19/11/1991, Griffa, RV 189314; Sez. 2, n. 5523 del 27/02/1991, B.N.L., RV 187512).
Discorso analogo, per il delitto di cui all’art. 646 c.p., si fa anche per l’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l’atto compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene (Sez. 2, n. 47665 del 27/11/2009, Cecchini, RV 245370; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, RV 208059; Sez. 3, n. 3445 del 02/02/1995, Carnovale, RV 203402; Sez. 2, n. 2954 del 15/12/1971, dep. 1972, RV 120966).
La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p. (il quale, com’è noto, ove aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione del titolo del possesso: Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, RV 237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, RV 180167), ha, dunque, finito per assumere, con il passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell’appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme di manifestazione sono l’alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione, sia dell’uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile.

4.5. Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto.
Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente, il peculato d’uso previsto dal comma secondo dell’art. 314, non costituisce un’attenuante del delitto di peculato, bensì una figura del tutto autonoma, per impianto strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I due commi prevedono, pertanto, due diverse ipotesi di reato (Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, RV 199187; Sez. 6,, n. 8156 del 29/04/1992, De Bortoli, RV 191407).
In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, connotata dalla finalità dell’agente quale elemento specializzante, delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l’uso momentaneo, seguito dall’immediata restituzione della cosa, non integra un’autentica appropriazione, realizzandosi, quest’ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.
Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata da parte della dottrina), l’ipotesi lieve di peculato prevista dal capoverso dell’art. 314 cod. pen. non è configurabile rispetto al denaro (Sez. 6, n. 27528 del 21/05/2009, Severi, RV 244531; Sez. 6, n. 3411 del 16/01/2003, Ferrari, RV 224060; Sez. 6, n. 8286 del 03/05/1996 Galdi, RV 205928) – bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo alternativo solo nell’art. 314, comma 1 -, nè, analogamente, in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe possibile la restituzione della eadem res, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell’integrazione del reato de quo (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, RV 194925; Sez. 6, n. 12218 del 17/10/1991, Bulgari, RV 189004; in senso contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e, quindi, anche al denaro, Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, RV 201264).
La nozione di restituzione viene intesa in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, RV 201264), per la quale tra la cessazione dell’uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l’uso e la restituzione) si pongano in un continuum dell’operato dell’agente: occorre, cioè, che egli, dopo l’uso, non compia altre attività che non siano quelle finalizzate alla restituzione.
Resta fermo poi che l’intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo deve esser presente sin dall’inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d’uso, bensì, sin dall’origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo.
Si ritiene comunque che non integri alcun reato l’utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la condotta non leda la funzionalità dell’ufficio nè causi un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, RV 251786).

La tesi che ravvisa il peculato comune
5. Traendo ora le fila dalla esposizione che precede, occorre passare anzitutto a esaminare le tesi che hanno, sotto vari profili, ritenuto di ravvisare nell’uso indebito del telefono d’ufficio da parte del
pubblico agente, una ipotesi di peculato ordinario ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1.

5.1. Partendo, al riguardo, dall’indirizzo, oggi dominante in giurisprudenza, che sostiene che con il detto uso si realizza la appropriazione, necessariamente definitiva (non potendosi configurare una restituzione successiva al consumo), delle energie costituite dalle onde elettromagnetiche che permettono la trasmissione della voce, si osserva che esso non è condivisibile.
In primo luogo, infatti, le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell’utente del telefono. E questo perché non preesistono all’uso dell’apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione. Oltre a ciò, sul piano intrinseco, esse si caratterizzano per il fatto di “propagarsi”, e non si può, quindi, procedere al loro concreto immagazzinamento, funzionale a un impiego pratico misurabile in termini economici, sì da rispondere all’esplicito requisito di cui all’ultima parte dell’art. 624 c.p., comma 2.
E’ noto, del resto, che il costo delle singole chiamate, anche nei contratti a consumo, non è il riflesso diretto delle onde elettromagnetiche attivate, bensì il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di comunicazione gestito, in base alla quale si determina, secondo i parametri del numero e della durata, il prezzo, economicamente congruo, della fruizione del servizio.
Se poi si vuoi vedere nel riferimento alle onde elettromagnetiche un implicito richiamo anche all’energia elettrica (rilevante ex se ai sensi del comma secondo dell’art. 624 c.p.) necessaria ad attivarle, l’esclusione della sua supposta definitiva appropriazione discende dalla considerazione che tale energia viene nella specie in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente connessa al concreto funzionamento dell’apparecchio e non può costituire, quindi (come puntualizzato da accorta dottrina: v. sopra par. 4.3.), diretto, specifico e autonomo oggetto della condotta dell’utente.

5.2. Il rilievo sopra svolto sul costo delle chiamate sollecita l’immediata presa in esame della prospettazione che sposta l’oggetto della ravvisabile appropriazione definitiva, rilevante ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1, dalle energie consumate alle somme al cui esborso l’indebito uso del telefono d’ufficio espone la pubblica amministrazione.
Tale ricostruzione – che sarebbe comunque applicabile alle sole situazioni regolate da tariffe a consumo e non anche a quelle c.d. “tutto incluso” – non è accettabile, non corrispondendo alla realtà del fenomeno in discorso, in quanto posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo, ed effetto di questa, in cui la p.a. ne sostiene l’onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all’infedele funzionario, nè il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la p.a. e il gestore di telefonia.
Parimenti inaccettabile è l’opinione che ravvisa l’oggetto dell’appropriazione definitiva nelle stesse energie lavorative che il pubblico agente, con la condotta in discorso, dirotterebbe verso fini difformi da quelli istituzionali. Qui è evidente che si è del tutto fuori dallo schema del rendere “proprio” un qualcosa che solo si possiede, verificandosi al contrario l’inadempimento dell’obbligo di mettere a servizio altrui un qualcosa che è proprio.

6. Occorre ora passare ad esaminare gli ipotizzabili inquadramenti dell’indebito uso del telefono d’ufficio in fattispecie diverse da quella del peculato ordinario.

La tesi che ravvisa la truffa aggravata
6.1. Al riguardo, bisogna anzitutto farsi carico della prospettazione, avanzata nell’ordinanza di rimessione, della riconducibilità del fenomeno alla ipotesi della truffa aggravata.
Per la verità, nell’ordinanza si fa riferimento alla eventuale esistenza di una inveritiera dichiarazione, che arricchisce in qualche modo la situazione base di cui ci si sta occupando.
In relazione a questa, la tesi della riconducibilità alla truffa non appare sostenibile. Nella truffa, invero, l’ingiusto profitto è frutto della induzione in errore, laddove, quando il pubblico agente adopera per fini privati il telefono assegnatogli per le esigenze d’ufficio, la realizzazione, da parte sua, di un indebito vantaggio è immediata e non è in sè dipendente dalla induzione in errore di alcuno. Il conseguente danno per l’amministrazione (sussistente peraltro solo nei casi regolati da contratto a consumo) deriva direttamente dal vincolo che la lega al gestore e l’eventuale silenzio del funzionario infedele interviene in relazione a una condotta ormai consumata e che egli non era in radice autorizzato a porre in essere.

La tesi che ravvisa il peculato d’uso
6.2. C’è poi da esaminare la questione della riconducibilità dell’uso indebito del telefono d’ufficio alla fattispecie del peculato d’uso, di cui all’art. 314 c.p., comma 2.
A tale quesito deve darsi, ad avviso della Corte, risposta positiva (con conseguente ritorno a quello che era stato l’iniziale orientamento della giurisprudenza).
Si è sopra visto (par. 4.4.) che la nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p., ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente la detiene.
Naturalmente, in quell’ambito, nel quale non è prevista l’ipotesi dell’uso momentaneo, si richiede l’effetto della perdita della cosa stessa da parte dell’avente diritto. Questa conseguenza è chiaramente incompatibile con un uso strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost., n. 2 del 1991) momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell’art. 314 c.p.; il quale, quindi, non potrà mai integrare un’appropriazione, nel senso specifico di cui al primo comma della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.
Si tratta, in altre parole, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua stabile inversione in dominio. La ratio dell’introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione. Ma se così è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie, è giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l’elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del titolo del possesso, che l’agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso fini personali. In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell’utilizzo indebito, in veste di dominus (per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell’altrui maggior diritto. In tale schema ricostruttivo si palesa all’evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, l’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la “restituzione” della cosa si risolverà logicamente nella cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua destinazione normale (come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, RV 209746).
Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d’uso, è evidente che l’utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio, vi diviene pienamente sussumibile. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall’apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d’ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a..
Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plurioffensività alternativa del delitto di peculato: v. sopra par. 4.1.) con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”. L’uso del telefono d’ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante.
Considerata, poi, la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile.
Il principio di diritto che si può enucleare da tutto il discorso che precede è il seguente:
“La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio, è sussumibile nel delitto di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2”.

La tesi che ravvisa l’abuso d’ufficio
6.3. Discende da quanto sopra che deve ritenersi assorbita la questione della possibilità, prospettata nell’ordinanza di rimessione, di ricondurre il fenomeno dell’uso indebito del telefono della p.a. alla fattispecie dell’abuso d’ufficio. Al di là, infatti, dei problemi concreti che la prospettazione de qua può porre (v. sopra, paragrafi 2.4. e 3.5.), non c’è dubbio che tale figura, formalmente sussidiaria in relazione ai reati più gravi (in ragione della espressa clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 323 c.p.), è comunque da considerarsi, rispetto al peculato d’uso, punito con identica pena edittale, e contraddistinto dall’elemento specifico dell’appropriazione temporanea di una res, figura di carattere residuale e non concorrente, in quanto avente genericamente ad oggetto il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dalla violazione di norme di legge o di regolamento posta in essere dal pubblico agente nello svolgimento delle funzioni o del servizio (v. in tal senso Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi, n.m.).

7. Esaminando ora, alla luce delle conclusioni come sopra assunte, il fatto come ascritto al V. nel capo A della rubrica, risulta evidente che lo stesso non può integrare il peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, ma appare sussumibile nella fattispecie del peculato d’uso di cui al secondo comma dello stesso articolo. Tale ultimo reato, peraltro, considerata l’epoca della sua commissione (protrattasi non oltre il dicembre 2003), è ormai estinto per il decorso del termine massimo di prescrizione (pur tenendo conto delle sospensioni intervenute).
Alla declaratoria dell’estinzione può peraltro procedersi solo previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare un proscioglimento più favorevole ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.
Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.
Non può dubitarsi, alla stregua dei dati di fatto accertati in sede di merito e non contestati, che le telefonate di cui è accusato l’imputato, di contenuto strettamente personale e indirizzate spesso a utenze site fuori del Paese di partenza, hanno determinato, singolarmente prese (secondo il corretto inquadramento e vaglio operato dalla Corte di appello), un danno comunque apprezzabile alla p.a. (in quanto ammontante ad alcune decine di Euro), anche se di speciale tenuità (onde è stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4).
Relativamente ai motivi con cui la difesa ha variamente invocato la sussistenza, nella specie, della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quanto meno a livello putativo, ovvero dell’errore sul fatto, in conseguenza di condotte, omissive e positive, della p.a., che avevano dato luogo a una diffusa prassi di tolleranza del comportamento addebitato al V., deve rilevarsi quanto segue.
Anzitutto, com’è noto, quando i beni oggetto di peculato sono della p.a., nessun soggetto può esprimere un valido consenso esimente.
Circa, poi, la normativa amministrativa regolante, all’epoca dei fatti, l’uso dei cellulari da parte dei pubblici funzionari residenti all’estero, e le risultanze, orali e documentali, relative all’allegata prassi anzidetta, i giudici di merito ne hanno effettuato una disamina analitica, al cui esito, da un lato, hanno affermato con certezza che la disciplina dell’epoca consentiva l’uso dei cellulari per scopi privati solo in caso di contratto dual billing (contemplante, cioè, l’utilizzo di un codice atto a distinguere e ad addebitare separatamente le chiamate non istituzionali), vietandolo conseguentemente in mancanza dell’adozione di detto sistema, e, dall’altro, hanno sottolineato che i sopravvenuti chiarimenti “interpretativi”, in quanto per nulla rispondenti all’univoco contenuto della citata disciplina, rimasta formalmente invariata, e intervenuti comunque successivamente all’epoca dei fatti, non possono costituire base utile per dare positivo sostegno e rilievo alla indicata prassi di tolleranza, che, quindi, essendosi formata in maniera non unanime e in contrasto con la normativa ufficiale vigente, deve considerarsi certamente inidonea a scriminare soggettivamente la condotta di chi, come l’imputato (tenuto, per il suo ruolo, ad avere o prendere precisa cognizione circa la legittimità dei propri comportamenti e ad astenersene in caso di incertezze al riguardo), ha utilizzato sistematicamente i cellulari di servizio per chiamate dal contenuto strettamente privato, omettendo per anni di segnalarle all’amministrazione e corrisponderne il costo.
La descritta motivazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 35813 del 21/06/2007, Bensi, RV 237767; Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, RV 229060; Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, RV 229228; Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, dep. 2001, Aliberti, RV 217862; Sez. 6, n. 6776 del 22/03/2000, Fanara, RV 216319) e scevra da vizi apprezzabili in questa sede: vizi la cui eventuale sussistenza sarebbe comunque irrilevante al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbe un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perché estinto per prescrizione, con eliminazione della relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p.

omissis

316-ter c.p.

2. Indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato: rapporti con la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (e con la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e l’uso di atto falso)

Cass. S.U. 19 aprile 2007, Carchivi

Motivi della decisione

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di Giuseppe Carchivi in ordine al delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, per avere ottenuto dal comune di Isola Capo Rizzuto, tra l’ottobre del 1998 e il marzo del 2000, la complessiva somma di £. 21.795.000 quale reddito minimo di inserimento, dissimulando a tal fine l’ostativa disponibilità di beni immobili diversi da quello di abitazione.
Ricorre per cassazione Giuseppe Carchivi e deduce violazione di legge, sostenendo che il delitto previsto dall’art. 316 ter c.p. è applicabile solo all’indebita percezione di contributi economico-finanziari, non anche alla percezione di erogazioni pubbliche assistenziali, qual è il reddito minimo di inserimento, come riconosciuto dalla giurisprudenza più recente. Esclude altresì la configurabilità del delitto di truffa, sostenendo che il semplice mendacio non è sufficiente a integrarne l’estremo degli artifizi o raggiri. Conclude che comunque l’intestazione di beni di cui non aveva la disponibilità materiale non era ostativa all’erogazione del controverso sussidio.

dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l’erogazione dell’indennità denominata “reddito minimo di inserimento”
2. La sesta sezione penale di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, ha rilevato un contrasto di giurisprudenza sulla configurabilità del delitto di cui all’art. 316 ter c.p. anche con riferimento all’indebita percezione del reddito minimo di inserimento previsto dal decreto legislativo n. 237 del 1998.
E ne ha pertanto rimesso la decisione alle Sezioni unite.
In realtà, secondo una parte della giurisprudenza “non è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), né quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), nella condotta dell’agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l’erogazione dell’indennità da “reddito minimo di inserimento”, in quanto si tratta di un tipo di contributo che rientra nell’ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, che come tali non sono prese in considerazione dalle norme incriminatrici sopra citate, che si riferiscono esclusivamente ai casi di illecita o fraudolenta percezione di contributi pubblici di carattere economico – finanziario a sostegno dell’economia e delle attività produttive” (Cass., sez. VI, 11 maggio 2005, Belcastro, m. 231865, Cass., sez. VI, 16 febbraio 2006, Liva, m. 233852, Cass., sez. VI, 2 marzo 2006, Pantorno, m. 234587).
Si rileva in particolare che gli art. 316-ter e 640-bis c.p., laddove definiscono le “erogazioni pubbliche” rilevanti come “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”, recepiscono la terminologia propria della sola legislazione di sostegno alle attività economiche e produttive.
E si sostiene che le severe sanzioni previste dagli art. 316-ter e 640-bis c.p. appaiono specificamente destinate a reprimere solo la devianza economico finanziaria, certamente più grave e sofisticata.
Per l’opposto orientamento giurisprudenziale, invece, “è configurabile il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.) nella condotta dell’agente che renda dichiarazioni mendaci in ordine alle proprie condizioni personali, familiari e patrimoniali al fine di ottenere l’erogazione di indennità di natura assistenziale (nella specie, il trasferimento monetario integrativo del reddito, ai sensi dell’art. 8 d.lgs. 18 giugno 1998 n. 237, c.d. “reddito minimo di inserimento”)” (Cass., sez. VI, 12 giugno 2006, Russo, m. 234873, Cass., sez. VI, 10 ottobre 2003, Riillo, m. 228191).
Si sostiene che il termine “contributo” è riferibile anche alle erogazioni pubbliche assistenziali, come confermato dal secondo comma dello stesso art. 316-ter c.p., laddove impone quale condizione di rilevanza penale del fatto una soglia minima di quattromila euro, certamente non giustificabile se la fattispecie si riferisse alle sole erogazioni di sostegno alle attività economico produttive.
E’ l’art. 316-bis c.p., si aggiunge, che si riferisce esplicitamente solo a “contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse”.
Mentre sarebbe irragionevole ritenere che proprio le attività illecite di minore gravità, come quelle destinate all’indebita percezione di erogazioni assistenziali, debbano in definitiva essere sanzionate più gravemente, posto che, ove escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 316-ter c.p., esse risulterebbero riconducibili alle concorrenti fattispecie della truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 comma 2 n. 1 c.p.) e del falso ideologico in atto pubblico commesso dal privato (art. 483 c.p.).

3. Dei due opposti orientamenti giurisprudenziali risulta fondato il secondo.
Il riferimento sia dell’art. 316-ter sia dell’art. 640-bis c.p. a “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” è infatti tanto deliberatamente generico da escludere che nella definizione delle fattispecie penali si sia inteso recepire un improbabile linguaggio tecnico, peraltro certamente non desumibile dalla ricchissima legislazione premiale di cui si avvale da decenni l’intervento pubblico, anche europeo, allo scopo di orientare o sostenere le più diverse attività economiche e sociali.
Allo scopo di definire l’ambito di applicazione delle fattispecie in discussione, dunque, occorre piuttosto fare specifico riferimento alla legislazione penale di settore, in particolare alle leggi n. 55 del 1990, n. 86 del 1990 e n. 300 del 2000, che hanno introdotto nel codice penale gli art. 316-bis, 316-ter, 640-bis, destinati a reprimere appunto gli abusi e le frodi connessi a tali erogazioni pubbliche.
Come queste Sezioni unite hanno già avuto modo di chiarire, l’art. 640-bis c.p. prevede in particolare una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all’art. 640, comma 2°, n. 1 c.p. (Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, m. 221663).
Infatti, se si raffrontano le due norme, risulta immediatamente evidente come sia concentrico l’ambito di applicazione delle circostanze aggravanti da esse previste.
La circostanza prevista dall’art. 640, comma 2°, n. 1, c.p. si applica a qualsiasi truffa commessa “a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare”. La circostanza prevista dall’art. 640-bis c.p. si applica solo quando la truffa abbia comportato l’indebita erogazione di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”.
Sicché l’atto di disposizione patrimoniale necessario a integrare la truffa (Cass., sez. V, 14 gennaio 2004, Bongioanini, m. 228075) può derivare nel primo caso anche da un rapporto contrattuale bilaterale con lo Stato; presuppone invece nel secondo caso un’erogazione giustificata dal mero riconoscimento dei suoi presupposti di legge.
E che la differenza tra le due circostanze sia nel titolo, piuttosto che nel contenuto, della disposizione patrimoniale è dimostrato dall’art. 316-bis c.p., che al contrario si riferisce appunto al contenuto della prestazione, quando punisce “chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità”.
E’ evidente infatti che l’art. 316-bis c.p., essendo inteso a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali erano stati erogati, non può che riferirsi a contributi connotati appunto da un tale vincolo di destinazione.
Mentre gli art. 316-ter e 640-bis c.p., essendo entrambi destinati a reprimere la percezione di per sé indebita dei contributi, indipendentemente dalla loro successiva destinazione, sono applicabili anche a erogazioni non condizionate da particolari destinazioni funzionali, come sono appunto i contributi assistenziali.
Si può pertanto concludere che il diverso ambito di applicazione dell’art. 316-bis c.p. rispetto al comune ambito di applicazione degli art. 316-ter e 640-bis c.p. giustifica il riferimento di queste ultime fattispecie anche a erogazioni a destinazione non vincolata, come quelle assistenziali.

I delitti di cui agli art. 316-ter e 640-bis c.p., configurabili entrambi, diversamente dal delitto previsto dall’art. 316-bis c.p., anche nel caso di indebita erogazione di contributi di natura assistenziale, sono in rapporto di sussidiarietà e non di specialità
5. Rimane da chiarire tuttavia il rapporto tra le fattispecie previste dagli art. 316-ter e 640-bis c.p., giacché esse non possono distinguersi in ragione della natura delle erogazioni, che invece, come s’è visto, le distingue entrambe dalla fattispecie prevista dall’art. 316-bis c.p.
L’introduzione nel codice penale dell’art. 316-ter ha in realtà messo in discussione una risalente giurisprudenza, che ha sempre riconosciuto il falso come idoneo a integrare gli artifici o raggiri costitutivi della truffa. Infatti l’art. 316-ter c.p., che pure fa salva l’applicazione dell’art. 640-bis c.p., prevede come punibile l’indebita erogazione di contributi pubblici ottenuta non solo con la mera “omissione di informazioni dovute”, che potrebbe riconoscersi talora inidonea a integrare da sola gli estremi della frode, bensì anche “mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere”, vale a dire per mezzo di condotte comunemente riconosciute idonee a integrare gli artifici e i raggiri propri del delitto di truffa. Sicché quella prevista dall’art. 316-ter c.p. risulterebbe così un’ipotesi speciale di truffa, perché, pur essendo insita nel falso un’idoneità all’inganno, non ogni inganno presuppone un falso e la realizzazione dell’inganno mediante un falso è una mera eventualità (Cass., sez. V, 13 giugno 2000, Casano, m. 218018).
E tuttavia la costruzione del delitto di cui all’art. 316-ter c.p. come un’ipotesi speciale di truffa finirebbe per vanificare l’intento del legislatore che, anche in adempimento di obblighi comunitari, aveva perseguito l’obiettivo di espandere ed aggravare la responsabilità per le condotte decettive consumate ai danni dello Stato o dell’Unione europea; mentre proprio tali condotte risulterebbero invece punite meno severamente a norma dell’art. 316-ter comma 1 c.p. o addirittura sottratte alla sanzione penale a norma dell’art. 316-ter comma 2 c.p. nei casi di minore gravità.
Ora non v’è dubbio che il legislatore del 2000, quando ha inserito nel codice penale l’art. 316-ter, ha ritenuto appunto di estendere la punibilità a condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, esattamente come già il legislatore del 1986, che aveva previsto un’analoga fattispecie criminosa (art. 2 della legge 23 dicembre 1986 n. 898).
E questa possibile diversità della fattispecie di truffa rispetto a quelle introdotte nel 1986 e nel 2000 è stata più volte riconosciuta sia dalla Corte costituzionale sia da queste stesse Sezioni unite, sebbene con un affidamento all’interprete del compito di verificare caso per caso se sia configurabile il delitto di truffa aggravata (art. 640-bis c.p.) ovvero quello residuale previsto appunto dall’art. 316-ter c.p. (C. cost., n. 25/1994, C. cost., n. 433/1998, C. cost., n. 95/2004; Cass., sez. un., 24 gennaio 1996, Panigoni, m. 203969).
Sicché all’interprete si sono offerte due sole possibilità di risoluzione di questo problema: o ridurre l’ambito di applicazione dell’art. 316-ter c.p. in termini di radicale marginalità; o ridurre considerevolmente l’ambito di applicazione della truffa.
E su tali opposte soluzioni si è in effetti divisa anche la giurisprudenza di questa Corte.
Una parte della giurisprudenza ha ritenuto infatti di poter restringere l’ambito di applicazione della fattispecie di truffa, escludendo che la mera presentazione di documentazione falsa integri gli estremi degli artifici o raggiri, in modo da riservare così all’art. 316-ter un effettivo ambito di applicazione (Cass., sez. II, 22 marzo 2002, Morandell, m. 221838; Cass., sez. VI, 10 ottobre 2003, Riillo, m. 228191, Cass., sez. II, 28 ottobre 2005, Maiorana, m. 232785).
Altra parte della giurisprudenza tende invece a mantenere fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa, ritenendo che siano riconducibili all’art. 316-ter c.p. solo o comunque soprattutto quelle condotte cui non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore (Cass., sez. II, 10 febbraio 2006, Fasolo, m. 233449, Cass., sez. II, 8 giugno 2006, Corsinovi, m. 234996, Cass., sez. II, 6 luglio 2006, Carere, m. 234848; Cass., sez. VI, 24 settembre 2001, Tammerle, m. 220200).
Il primo di questi due orientamenti finisce però per tradursi in una mera finzione interpretativa ad hoc, perché, quando non venga in discussione l’applicabilità dell’art. 316-ter c.p. o di altre fattispecie speciali di frode, la giurisprudenza continua correttamente a ritenere che il falso sia di per sé uno strumento di raggiro idoneo a integrare gli estremi della truffa (Cass., sez. I, 31 gennaio 2000, Petrarca, m. 215516, Cass., sez. V, 27 marzo 1999, Longarini, m. 214868, Cass., sez. VI, 25 febbraio 2003, Di Rosa Donatella, m. 224495), anche se si tratti della truffa aggravata prevista dall’art. 640-bis c.p. (Cass., sez. V, 14 aprile 2004, Ballesio, m. 229203).
Sicché questo orientamento interpretativo varrebbe solo a dissimulare, ma certo non a scongiurare, un risultato repressivo opposto a quello perseguito dal legislatore; oltre a legittimare inaccettabili disparità di trattamento di situazioni del tutto simili.
Non rimane quindi che privilegiare il secondo orientamento interpretativo, con la consapevolezza tuttavia che, in conformità del resto ai dichiarati intenti del legislatore, l’ambito di applicabilità dell’art. 316-ter c.p. si riduce così a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale.
In molti casi, invero, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l’effettivo accertamento da parte dell’erogatore dei presupposti del singolo contributo.
Ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche.
Sicché in questi casi l’erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente.
D’altro canto l’effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell’erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto.
E quindi l’accertamento dell’esistenza di un’induzione in errore, quale elemento costitutivo del delitto di truffa, ovvero la sua mancanza, con la conseguente configurazione del delitto previsto dall’art. 316-ter c.p., è questione di fatto, che risulta riservata al giudice del merito.

il residuale e meno grave delitto di cui all’art. 316-ter, che diversamente da quello di cui all’art. 640-bis c.p. assorbe anche i delitti di falso ideologico previsto dall’art. 483 c.p. e di uso di atto falso previsto dall’art. 489 c.p., è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa
Questa conclusione restituisce peraltro ragionevolezza al sistema anche nella prospettiva del rapporto dei reati in discussione con quelli di falso.
Secondo una plausibile e prevalente giurisprudenza infatti “il reato di cui all’art. 316-ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall’art. 483 c.p., in quanto l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscano elemento essenziale per la sua configurazione” (Cass., sez. VI, 19 settembre 2006, Cristodaro, m. 234765, Cass., sez. VI, 31 maggio 2006, Raccioppo, m. 235091, Cass., sez. VI, 31 maggio 2006, Magnolia, m. 234840).
Si rinviene certo un precedente secondo il quale “il delitto di tentata frode comunitaria e quello di falso ideologico commesso da soggetto privato in atto pubblico concorrono per la diversità del bene giuridico offeso” (Cass., sez. III, 2 ottobre 1998, Carone, m. 212164).
Tuttavia, una volta riconosciuto un rapporto di parziale identità tra le fattispecie, il riferimento anche all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia.
E’ invece ragionevolmente indiscusso in giurisprudenza che la truffa concorre con i delitti di falso destinati a integrarne l’estremo degli artifici e raggiri, perché, come s’è detto, il falso è solo uno dei possibili strumenti di frode (Cass., sez. V, 13 giugno 2000, Casano, m. 218018, Cass., sez. II, 16 dicembre 1988, Piazza, m. 180937, Cass., sez. V, 18 gennaio 1984, Arenare, m. 163439).
Sicché, ove non si ritagliasse per l’art. 316-ter c.p. un ambito di applicazione estraneo a quello della truffa, si avrebbe l’ulteriore conseguenza discriminante di escludere solo per queste frodi il concorso con il falso.
Vale piuttosto chiarire che solo la falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’art. 483 c.p. ovvero l’uso di un atto falso costituiscono modalità tipiche di consumazione del delitto di cui all’art. 316-ter c.p., mentre è solo eventuale che l’utilizzatore degli atti o documenti falsi sia anche autore della falsificazione.
Deve perciò ritenersi che solo i delitti di cui all’art. 483 c.p. e all’art. 489 c.p. rimangono assorbiti ai sensi dell’art. 84 c.p. nel delitto previsto dall’art. 316-ter c.p., che concorre invece con gli altri delitti di falso eventualmente commessi al fine di ottenere le indebite erogazioni.

6. Si può pertanto enunciare il seguente principio di diritto:
I delitti di cui agli art. 316-ter e 640-bis c.p., configurabili entrambi, diversamente dal delitto previsto dall’art. 316-bis c.p., anche nel caso di indebita erogazione di contributi di natura assistenziale, sono in rapporto di sussidiarietà e non di specialità.
Sicché il residuale e meno grave delitto di cui all’art. 316-ter, che diversamente da quello di cui all’art. 640-bis c.p. assorbe anche i delitti di falso ideologico previsto dall’art. 483 c.p. e di uso di atto falso previsto dall’art. 489 c.p., è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa.
(omissis)

Cass. S.U. 16 dicembre 2010, Pizzuto

IN SINTESI
Integra il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere che non induca in errore ma determini al provvedimento di esenzione sulla base della corretta rappresentazione dell’esistenza dell’attestazione stessa.
La Corte ha precisato che si ha erogazione, pur in assenza di un’elargizione, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico che viene posto a carico della comunità.
Il reato di falso di cui all’art. 483 resta assorbito in quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato in tutti i casi in cui l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscano elementi essenziali di quest’ultimo, pur quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima di erogazione – Euro 3.999,96 -, dia luogo a una mera violazione amministrativa.

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Messina, con sentenza del 19 ottobre 2009, ha confermato la sentenza 19.12.2006 del Tribunale monocratico di Patti, che aveva affermato la responsabilità penale di Guglielmo Eugenio Pizzuto in ordine ai reati di cui agli artt. 483, 61, comma primo, n. 2, c.p., in relazione agli artt. 76 e 46 del d.P.R. 28. 12.2000, n. 445 e all’art. 640, comma secondo, c.p. in danno della A.U.S.L. n. 5 di Messina; per avere autocertificato, con dichiarazione falsa resa all’impiegato addetto all’ufficio ticket dell’ospedale di Patti, di percepire redditi non superiori a quelli previsti dalla legge per l’attribuzione del diritto alla fruizione delle prestazioni mediche in regime di esenzione contributiva, così procurandosi l’ingiusto profitto costituito dal risparmio sulla quota di partecipazione alla spesa con correlato danno per l’ente pubblico – in Patti, il 3.8.2002; e, riconosciute circostanze generiche equivalenti all’aggravante contestata per il delitto di truffa, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81, comma secondo, c.p., lo aveva condannato alla pena (condizionalmente sospesa) di mesi quattro e giorni quindici di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.

(omissis)

3. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda sezione penale, la quale, all’udienza del 21 ottobre 2010 (con ordinanza depositata il successivo 29 ottobre), ne ha rimesso la trattazione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale riferito alla assorbente questione della qualificazione giuridica della condotta consistente nel rendere una falsa dichiarazione circa le condizioni di reddito indicate in quelle di legge, allo scopo di fruire dell’esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario. La Sezione rimettente ha evidenziato, in proposito, che alcune decisioni di questa Corte (Sez. 2: n. 24817 del 25/02/2009, dep. 16/06/2009, Molonia; n. 32849 del 26/06/2007, dep. 13/08/2007, Mannarà) qualificano la condotta sopra descritta in termini di truffa aggravata in danno di ente pubblico e non già come reato di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato o di altri enti pubblici, muovendo da quanto statuito dalle Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carchivi – circa i rapporti tra le fattispecie criminose di cui agli artt. 316-ter e 640-bis c.p.
Le Sezioni Unite hanno ricondotto l’ambito di operatività dell’art. 316-ter c.p. a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, e dai principi affermati si evincerebbe che il reato di cui all’art. 316-ter ricorre quando l’erogazione del contributo non presupponga l’effettivo accertamento, da parte dell’erogatore, dei presupposti necessari per la concessione del contributo richiesto. L’oggetto dell’attività dell’autore è costituito dal conseguimento, secondo quanto recita la norma, di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”. Esula, invece, dalla previsione normativa dell’art. 316-ter c.p. il caso in cui non ricorra la percezione di una pubblica sovvenzione ma la esenzione dalla corresponsione di una somma. Il concetto di contributo o di finanziamento o di mutuo agevolato non è assimilabile a quello di esenzione da un pagamento, ma va ricompreso nella generica accezione di sovvenzione, ossia di aiuto economico concesso sotto forma di elargizione o prestito agevolato, che si concretizza nell’attribuzione pecuniaria giustificata dall’attuazione di un interesse pubblico e che si correla, nella commissione del reato di cui all’art. 316-ter, al danno patrimoniale dell’ente, identificabile esclusivamente con il danno emergente sorto al momento dell’elargizione del denaro.
La Seconda sezione ha quindi dato atto di un diverso ed opposto orientamento, secondo il quale la condotta di cui si discute non integra il reato di truffa, bensì quello di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato o di altri enti pubblici, restando in esso assorbito il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico, e ciò anche nel caso in cui, dato il livello quantitativo dell’indebita percezione, il fatto integri una mera violazione amministrativa.
Anche questo secondo orientamento fa richiamo alla già citata sentenza Carchivi delle Sezioni Unite, ma valorizza quel passo della decisione in cui si afferma che nella nozione di “erogazioni pubbliche” rientrano pure quelle di natura assistenziale.
Trae dunque la conseguenza che nel concetto di erogazione rientra non solo l’ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo ma altresì l’esenzione dal pagamento di una somma dovuta a enti pubblici, perché anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio, che è posto a carico della comunità.
La Sezione rimettente cita, in proposito, alcune decisioni che esplicitamente interpretano il concetto di erogazione di cui all’art. 316-ter come comprensivo “sia di somme versate dall’ente pubblico, sia di somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi da detto ente” (Sez. 5, n. 39340 del 9/07/2009, dep. 9/10/2009, Nicchi; Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 05/08/2009, Arcidiacono; Sez. 6, n. 28665 del 31/05/2007, dep. 18/07/2007, P.M. in proc. Piga).

4. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

Considerato in diritto

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: “quale sia la corretta qualificazione giuridica del fatto criminoso consistente nella falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire, a termini di legge, delle prestazioni del servizio sanitario pubblico senza il versamento della quota di partecipazione alla spesa sanitaria”.

2. Sul punto si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

2.1 Alcune decisioni hanno affermato che la condotta dianzi descritta, connotata, com’è, dall’artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto, deve essere qualificata in termini di truffa, ex art. 640, comma secondo, c.p. Si è sostanzialmente di fronte ad una falsificazione della realtà, consistente nella dichiarazione di trovarsi nelle condizioni di reddito previste dalla legge per l’esenzione, e questo è un dato di fatto che dà corpo all’elemento degli artifici e dei raggiri richiesto dalla fattispecie criminosa come sopra individuata.
La condotta medesima non può essere ricondotta alla previsione di cui all’art. 316-ter c.p., anche perché l’elemento dell’esenzione da un pagamento resta estraneo alla nozione di “contributo, finanziamento o mutuo agevolato”, elementi questi ricompresi tutti nella generica accezione di “sovvenzione” (vedi Sez. 2, n. 32849 del 26/06/2007, dep. 13/08/2007, Mannarà; Sez, 5, n. 38478 del 09/07/2008, dep. 14/10/2008, Nicotera, Sez. 2, n. 24817 del 25/02/2009, dep. 16/06/2009, Molonia). L’orientamento in esame risulta organicamente delineato, da ultimo, nella sentenza della Sez. 2, n. 32578 del 27/04/2010, dep. 01/09/2010, Di Costanzo, che – a fronte di una pronunzia di condanna ai sensi degli artt. 483 e 640, comma secondo, n. 1, c.p., in un contesto fattuale di mero mendacio riferito alle condizioni di reddito e finalizzato ad ottenere l’esenzione dal pagamento del ticket sanitario – ha rigettato la tesi difensiva della riqualificazione ai sensi dell’art. 316-ter, evidenziando che:
– la fattispecie di cui all’art. 316-ter c.p. ha carattere residuale rispetto a quella della truffa, con la quale non è in rapporto di specialità e può con essa concorrere, ove della stessa siano integrati i presupposti (se, ad esempio, le falsità e le omissioni si risolvano in un’artificiosa rappresentazione della realtà capace di indurre in errore);
– la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 95 del 2004, ha escluso la sovrapponibilità delle condotte individuate dall’art. 316-ter c.p. con quelle integranti il reato di truffa;
– le Sezioni Unite penali – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carchivi – hanno precisato che l’ambito di applicazione dell’art. 316-ter si riduce a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, aggiungendo come l’erogazione delle pubbliche sovvenzioni possa non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore nella misura in cui può legarsi, almeno in via provvisoria, all’esistenza della formale dichiarazione del richiedente;
– il concetto di contributo, finanziamento o mutuo agevolato, di cui alla enunciazione della fattispecie incriminatrice posta dall’art. 316-ter, non è assimilabile a quello di esenzione da un pagamento, ma va ricompreso nella generica accezione di “sovvenzione”, ossia di aiuto economico concesso sotto forma di elargizione o prestito agevolato.

2.2 In senso contrario si esprimono altre pronunzie, secondo le quali la condotta di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si distingue da quella di truffa aggravata in ragione dell’assenza dell’elemento dell’induzione in errore realizzata attraverso la messa in atto di artifici o raggiri.
Nell’ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, indicate dall’art. 316-ter c.p., rientrano anche quelle concernenti l’esenzione dal ticket per prestazioni sanitarie. Nel concetto di erogazione deve ritenersi compreso, infatti, non solo l’ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo, ma pure l’esenzione dal pagamento di una somma dovuta ad enti pubblici, perché anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio che viene posto a carico della comunità (così Cass.: Sez. 5, n. 41383 del 17/09/2008, dep. 06/11/2008, Capalbo; Sez. 6, 21/10/2010, dep. 22/11/2010, Gelsi).

3. Appare utile ricordare che – sempre sulla premessa che nel termine “erogazioni”, che si rinviene nell’art. 316-ter c.p., rientrano non solo le somme versare dall’ente pubblico, ma anche le somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi dal predetto ente – sono state inquadrate nell’ambito applicativo dell’art. 316-ter c.p. le condotte del privato che dichiari un reddito familiare inferiore a quello effettivamente percepito al fine di ottenere:
– un canone agevolato per la locazione di alloggio appartenente all’Amministrazione provinciale (Sez. 5, n. 39340 del 09/07/2009, dep. 09/10/2009, Nicchi);
– un abbonamento mensile, con tariffa agevolata, al servizio municipale di trasporto pubblico (Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 05/08/2009, Arcidiacono).

4. Le Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carchivi – hanno risolto un duplice contrasto relativo sia alla riconducibilità o meno delle sovvenzioni pubbliche a carattere assistenziale o previdenziale alle previsioni degli artt. 316-ter e 640-bis c.p. (a seconda il diverso conformarsi delle singole fattispecie) sia alle differenze tra gli elementi costitutivi di tali delitti.
Nella citata decisione – quanto ai rapporti tra il reato di truffa aggravata e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici – le Sezioni Unite hanno posto anzitutto in rilievo che l’art. 640-bis c.p. “prevede una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all’art. 640, comma secondo, n. 1, c.p. (così già Sez. Unite, 26/06/2002, Fedi).
Infatti, se si raffrontano le due norme, risulta immediatamente evidente come sia concentrico l’ambito di applicazione delle circostanze aggravanti da esse previste. La circostanza prevista dall’art. 640, comma secondo, n. 1, c.p. si applica a qualsiasi truffa commessa “a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare”. La circostanza prevista dall’art. 640-bis c.p. si applica solo quando la truffa abbia comportato l’indebita erogazione di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”.
Hanno quindi osservato – in congruenza con l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 95 del 2004 – che l’introduzione nel codice penale dell’art. 316-ter ha risposto all’intento di estendere la punibilità a condotte “decettive” (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell’ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Con questa premessa hanno condotto il problema a una secca alternativa: o la riduzione dell’ambito di applicazione dell’art. 316-ter in termini di radicale marginalità o la riduzione sostanziosa dell’ambito di applicazione della fattispecie di truffa.
Rispetto alla delineata alternativa, che riassumeva il contrasto giurisprudenziale allora esistente, le Sezioni Unite hanno optato per la soluzione di tenere fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa e di ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 316-ter le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore, con la conseguente compressione dell’art. 316-ter a situazioni del tutto marginali, “come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale”.
Una falsa rappresentazione della realtà in capo all’erogatore può dipendere, oltre che dalle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto, sicché l’accertamento dell’esistenza di una induzione in errore, quale elemento costitutivo del reato di truffa, ovvero la sua mancanza in favore dell’applicabilità dell’art. 316-ter, è questione di fatto riservata al giudice del merito.

5. La Corte Costituzionale – con la citata ordinanza n. 95 del 2004 – ha affermato, come dato inequivoco, il carattere sussidiario e residuale dell’art. 316-ter rispetto all’art. 640-bis del codice penale, chiarendo che, alla luce del dato normativo e della ratio legis, l’art. 316-ter assicura una tutela aggiuntiva e “complementare” rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall’art. 640-bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode. Ha quindi rinviato all’ordinario compito interpretativo del giudice l’accertamento, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie dell’art. 316-ter integri anche la figura descritta dall’art. 640-bis, dovendosi, in tal caso, fare applicazione solo di quest’ultima.

6. A fronte del quadro interpretativo dianzi delineato, queste Sezioni Unite ritengono che debba essere affermato il principio secondo il quale:
“L’art. 316-ter c.p. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente”.
Rileva in proposito il Collegio che la giurisprudenza di questa Corte, in relazione al reato di truffa, ha gradualmente svalutato il ruolo della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del delitto in senso causale, ove ciò che rileva non è tanto la definizione dei concetti di artifici e raggiri, quanto, piuttosto, la idoneità di quelle condotte a produrre l’effetto di induzione in errore del soggetto passivo.
Si è così assistito al consolidarsi della affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di truffa, l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso.
Le Sezioni Unite, già con la sentenza 24/01/1996, Panigoni, ebbero ad evidenziare la rilevanza della questione “se il concetto di “artifizi e raggiri” sia integrato anche dalla menzogna pura e semplice e cioè dalla menzogna che, senza particolari modalità ingannatorie aggiuntive, abbia determinato l’errore nel soggetto passivo”: questione – avvertivano le Sezioni Unite – senz’altro seria, “potendosi ritenere che la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri”.
A fronte di tale avvertimento, poi, sempre le Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 2007, Carchivi – hanno statuito che “vanno ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 316-ter – e non a quella di truffa – le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto”.
Questo principio va ribadito ed alla stregua di esso la truffa va ravvisata solo ove l’ente erogante sia stato in concreto “circuito” nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi.
La sussistenza della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall’altro, deve formare oggetto (come segnalato dalla Corte Costituzionale) di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto.
Significazioni in tal senso possono trarsi, del resto, dalla stessa collocazione topografica dell’art. 316-ter c.p. e dagli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma, chiaramente evidenzianti la volontà del legislatore di perseguire sostanzialmente la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l’indebita percezione si è realizzata.

7. Il principio dianzi enunciato va poi specificato nel senso che:
“Integra il delitto di cui all’art. 316-ter c.p. anche la indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, tra le quali rientrano quelle concernenti la esenzione del ticket per prestazioni sanitarie ed ospedaliere, in quanto nel concetto di conseguimento indebito di una “erogazione” da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di “contribuzione” ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità”.
La nozione di “contributo” va intesa, infatti, quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante e tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro.
Appare utile rilevare, in proposito, che l’art. 316-ter è stato inserito nel codice penale dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, nel quadro delle misure di adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee redatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, e nessun argomento contrario all’inclusione anche delle prestazioni assistenziali nelle previsioni dello stesso art. 316-ter potrebbe trarsi dalla locuzione “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo”, che pure nella normativa comunitaria viene formulata con termini del tutto generici e privi di uno specifico significato tecnico riferibile soltanto a sovvenzioni in danaro e non anche ad agevolazioni ed ausili economici di qualsiasi tipo, attribuiti con scopi sociali.
Deve considerarsi, poi, che – mentre la norma peculiare posta dall’art. 316-bis c.p. è rivolta specificamente a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali sono stati erogati – l’art. 316-ter sanziona la percezione di per sé indebita delle erogazioni, senza che vengano in rilievo particolari destinazioni funzionali, e ciò può ritenersi ulteriore elemento confermativo della possibilità di ricondurre nell’ambito di quest’ultima fattispecie anche erogazioni a destinazione non vincolata quali quelle assistenziali.

8. Esaminato secondo l’impostazione dianzi delineata, il caso che ci occupa appare caratterizzato dalla inesistenza di quella “induzione in errore”, che integra elemento costitutivo del reato di truffa. La vicenda, invero, nei suoi elementi fattuali, non è integrata dall’esistenza di un attestato o di un certificato di esenzione della compartecipazione alla spesa sanitaria, in relazione al reddito, rilasciato dall’azienda USL in seguito alla compilazione di un’autocertificazione del beneficiario, ma l’assistito ha apposto la propria firma in calce ad un timbro impresso sul retro dell’impegnativa di prescrizione (riferita ad accertamenti specialistici) recante la dichiarazione “Sono licenziato e disoccupato. Il mio nucleo familiare non supera il reddito previsto per l’esenzione”.
In base a ciò solo la struttura sanitaria ha erogato le prestazioni in regime di esonero.
Nella Regione Siciliana soltanto con la legge regionale 31 maggio 2004, n. 9 (attuata con decreto assessoriale n. 3665 del 18.6.2004 ed ulteriormente integrata nel novembre del 2007) è stata introdotta una disciplina delle esenzioni del ticket sanitario, secondo la quale, per essere esentati dal pagamento, è necessario munirsi del certificato ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), ottenibile presso i CAF o CAAF previa compilazione, da parte dell’utente, di una dichiarazione sostitutiva unica ex artt. 38, 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, avente validità di 12 mesi dalla data di rilascio.
Tale normativa non era vigente all’epoca dei fatti per i quali si procede (agosto 2002) e – tenendosi comunque presente che nel concetto di “induzione in errore” non può essere assorbito quello di “falsa rappresentazione” – la esenzione del ticket venne ammessa quale conseguenza automatica della formale dichiarazione del richiedente (questo regime è stato successivamente emendato in senso restrittivo proprio a cagione del rilevante numero di abusi che ad esso si riconnettevano).
Per la relazione di residualità e sussidiarietà rispetto alla ipotesi di truffa (già evidenziata dianzi), dunque, trova applicazione la fattispecie di cui all’art. 316-ter c.p.

9. Le Sezioni Unite, con la citata sentenza Carchivi, hanno già dato risposta alla ulteriore questione dei rapporti della fattispecie di cui all’art. 316-ter c.p. con i reati di falso ed in proposito hanno concluso che il reato di cui all’art. 316-ter assorbe quello di falso previsto dall’art. 483, in quanto l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce un elemento essenziale per la sua configurazione, nel senso che la falsa dichiarazione rilevante ex art. 483, ovvero l’uso di un atto falso, ne costituiscono modalità tipiche di consumazione.
Le Sezioni semplici si sono conformate a tale orientamento ed hanno ribadito che il concorrente reato di cui all’art. 483 c.p. resta assorbito nella fattispecie di cui all’art. 316-ter, dal momento che tale ultimo delitto ne contiene tutti gli elementi costitutivi, dando così luogo ad un reato complesso, e ciò pure quando occorra avere riguardo alla previsione dell’art. 316-ter, comma 2, non superandosi i livelli quantitativi dell’indebitamente percepito posti dalla legge come spartiacque tra il fatto di mera rilevanza amministrativa e quello di rilevanza penale (vedi Cass.: Sez. 6, n. 28665 del 31/05/2007, dep. 18/07/2007, P.M. in proc. Piga; Sez. 5, n. 41383 del 17/09/2008, dep. 06/11/2008, Capalbo; Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 5/08/2009, Arcidiacono; Sez. 6, 21/10/2010, dep. 22/11/2010, Gelsi).

10. Nel quadro giurisprudenziale come sopra delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire i principi secondo i quali:
a) “Il reato di cui all’art. 316-ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall’art. 483 dello stesso codice in tutti i casi in cui l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elementi essenziali per la sua configurazione”.
La fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, infatti, si configura come fattispecie complessa, ex art. 84 c.p., che contiene tutti gli elementi costitutivi del reato di falso ideologico.
Né può attribuirsi rilevo alla diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme, considerato che in ogni reato complesso si ha, per definizione, pluralità di beni giuridici protetti, a prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice.
b) “L’assorbimento del falso ideologico nel delitto di cui all’art. 316-ter c.p. si realizza anche quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima dell’erogazione (euro 3.999,96), integri la mera violazione amministrativa di cui al secondo comma dello stesso art. 316-ter”.
Rientra, infatti, nelle valutazioni discrezionali del legislatore la scelta della natura e qualità delle risposte sanzionatorie a condotte antigiuridiche, e quindi l’assoggettabilità dell’autore, in una determinata fattispecie, a sanzioni amministrative, pure se frammenti di queste condotte, ove non sussistesse la fattispecie complessa, sarebbero sanzionabili con autonomo titolo di reato.

11. Nella vicenda in esame, in conclusione, i fatti contestati vanno ricompresi nello schema descrittivo dell’art. 316-ter c.p., ivi assorbiti i reati di falso e di truffa, ed a ciò consegue la declaratoria di non previsione del fatto come reato, in quanto non risulta superata la soglia di punibilità, ragguagliata al valore di euro 3.999,96, indicata nel secondo comma della richiamata previsione legislativa.
Vanno revocate, quindi, le statuizioni civili e, per l’applicazione della prevista sanzione amministrativa, gli atti devono essere trasmessi al Prefetto di Messina.
(omissis)

319-ter c.p.

3. Corruzione per atti giudiziari “susseguente”

Cass. S.U. 25 febbraio 2010, Mills

(omissis)

Motivi della decisione

1. Per un’evidente esigenza sistematica deve essere affrontata, in via prioritaria, la questione controversa sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, consistente nello stabilire: “se il delitto di corruzione in atti giudiziari sia configurabile nella forma della corruzione susseguente”.
Tale questione, infatti, si connette alla possibilità di configurare la stessa sussistenza del reato e si pone, pertanto, come preliminare e dirimente rispetto a tutte le altre confutazioni svolte nel ricorso.

2. Quanto alla compatibilità delle forme susseguenti con la struttura della fattispecie di corruzione in atti giudiziari, descritta nell’art. 319-ter c.p., si rinvengono effettivamente due contrastanti impostazioni nelle decisioni della sesta Sezione penale di questa Corte Suprema.

L’orientamento contrario alla configurabilità
2.1 Premesso che è “susseguente” la corruzione allorquando la retribuzione concerna un atto già compiuto in precedenza, va rilevato che – secondo un primo orientamento [che si rinviene in Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, Battistella e altri] – non è ipotizzabile la corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente, benché il generico rinvio operato dalla disposizione incriminatrice ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p. possa far pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna distinzione o limitazione.
Il dato normativo che gioca un ruolo decisivo nella ricostruzione interpretativa di detta sentenza è racchiuso nell’inciso “per favorire o danneggiare una parte…”: siccome la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, assume rilievo nell’attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, e per il cui compimento il pubblico ufficiale assume un impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resta fuori dell’area di tipicità.
La corruzione in atti giudiziari si qualifica per la tensione finalistica verso un risultato e non è quindi compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente.
Un diverso ragionamento, che punti alla valorizzazione dell’indistinto richiamo contenuto nell’art. 319-ter ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., per poi inferire la piena compatibilità della forma susseguente, si risolverebbe in una forzatura interpretativa in malam partem con l’attribuzione di una valenza anche causale, oltre che finale, all’espressione “per favorire o danneggiare”, come se ad essa fosse affiancata anche quella “per aver favorito o danneggiato”.
Se si procedesse su questa strada, peraltro, sarebbe evidente il contrasto con il principio di tassatività.
Questa conclusione è poi confermata da considerazioni di tipo sistematico. Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari sono equiparate le condotte di corruzione propria e impropria antecedente, perché entrambe condizionano il processo e sono espressione di un medesimo disvalore. Se si ritenesse compresa anche la corruzione susseguente, che a differenza di quella antecedente non influenza l’andamento dell’attività giudiziaria perché già compiuta, si avrebbe l’irragionevole risultato di assoggettare ad uno stesso trattamento sanzionatorio tipologie di corruzione oggettivamente diverse.
Si avrebbe così la conseguenza di escludere, stante il generico rinvio che l’art. 321 c.p. fa all’art. 319-ter, la non punibilità del corruttore in caso di corruzione impropria susseguente in atti giudiziari, a dispetto di quanto per lui è previsto in ogni altro caso di corruzione impropria susseguente. L’appiattimento di diversi contenuti offensivi e lo stravolgimento della gerarchia di valori a essi sottesi integrerebbero i presupposti per più che fondati dubbi di costituzionalità.
Nello stesso senso si pongono considerazioni di natura storica.
Prima della novella codicistica del 1990, che ha introdotto la corruzione in atti giudiziari come fattispecie autonoma di reato, la corruzione in atti giudiziari era fattispecie aggravata della corruzione propria antecedente, tanto da richiedere un diretto rapporto causale tra il fatto di corruzione e il favore o il danno per una parte del processo, come risultava dall’inciso: “la pena è aumentata se dal fatto deriva…il favore o il danno…” del vecchio testo dell’art. 319, comma 2°, n. 2, c.p.
Sembra allora coerente ritenere che il legislatore della novella abbia mantenuto l’estraneità della corruzione susseguente all’area della corruzione in atti giudiziari, fermo restando che essa è comunque soggetta alle previsioni sanzionatrici della corruzione ordinaria per atto d’ufficio o per atto contrario ai doveri d’ufficio.
Nessuna sentenza successiva ha aderito espressamente alla soluzione qui delineata.

L’orientamento favorevole alla configurabilità
2.2 Un orientamento nettamente difforme si rinviene, invece, in altre decisioni della sesta Sezione penale, tra le quali vanno già ricordate le sentenze 4 febbraio 2004, n. 23024, Drassich e 28 febbraio 2005, n. 13919, Baccarini.
In particolare poi – con la sentenza 3 luglio 2007, n. 25418, Giombini e altro – è stato evidenziato che l’affermazione dell’incompatibilità della forma susseguente si risolve in un’interpretazione abrogatrice del precetto dell’art. 319 ter ove viene richiamato, senza distinzione alcuna, l’integrale contenuto degli artt. 318 e 319 c.p.
Il richiamo all’intero contenuto di questi due ultimi articoli impone l’adattamento della struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli, della corruzione antecedente e di quella susseguente.
Tali due modelli di corruzione in atti giudiziari hanno in comune il presupposto che l’autore del fatto [necessariamente un pubblico ufficiale, perché l’art. 319-ter non è richiamato dall’art. 320 c.p.] viene meno ai doveri di imparzialità e terzietà, e questo presupposto si realizza anche nella forma susseguente, in quanto il peculiare elemento soggettivo del “favorire o danneggiare una parte”, che qualifica testualmente la disposizione incriminatrice, finalizza la tipicità dei fatti.
La finalità, in buona sostanza, si riferisce al fatto ed il dato di rilievo nell’integrazione del fatto-reato è che la promessa o la ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione o per un comportamento strumentale all’atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. E’ l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, sicché l’elemento del dolo specifico, presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel caso di corruzione susseguente per essere l’atto già stato compiuto.
Nella fattispecie di corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo specifico si articola nella doppia finalità, l’una – propria della corruzione generica – consistente nell’adozione di un atto, conforme o contrario ai doveri d’ufficio, l’altra – specifica della corruzione in atti giudiziari – consistente nella violazione, per mezzo del compimento dell’atto, del dovere rafforzato di imparzialità che connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente, invece, l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che però si atteggia ad elemento antecedente alla condotta tipica.
Il dolo specifico, nella corruzione in atti giudiziari susseguente, si incentra nel compimento dell’atto, che di per sé non è condotta punibile, rispetto al quale la successiva condotta di ricezione del denaro o di accettazione della promessa assume valenza esclusivamente causale, in presenza di un precedente comportamento orientato specificamente a favorire o danneggiare una parte processuale.
Da detto elemento soggettivo scompare l’ulteriore finalizzazione specifica costituita dallo scopo tipico della corruzione antecedente.
Si ha così che – mentre nella fattispecie di corruzione antecedente l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, costituisce l’oggetto finalistico della condotta, il cui compimento non è necessario per la consumazione del reato – nella fattispecie di corruzione susseguente il dolo, generico, deve investire, oltre che la condotta, anche l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, e l’elemento soggettivo che dell’atto è profilo indispensabile, il favorire o danneggiare una parte processuale.
Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente si ha, dunque, una causalità invertita rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel senso che l’atto (conforme o contrario ai doveri d’ufficio) costituisce il presupposto strutturale indispensabile della condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto stesso.
Alla tesi della configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente ha prestato adesione sempre la Sezione sesta, con la sentenza 18 settembre 2009, n. 36323, Drassich, secondo cui l’ampiezza della disposizione incriminatrice, che racchiude tutte le ipotesi di corruzione (propria e impropria, antecedente e susseguente), assoggettandole alla medesima pena, trova ragione nella tutela della funzione giudiziaria, costituzionalmente prevista per il riconoscimento dei diritti fondamentali e il rispetto del principio di legalità.
La sentenza in oggetto ha tratto quindi la conclusione che il delitto di corruzione in atti giudiziari ben può essere posto in essere con la ricezione di un’utilità dopo il compimento di un atto, pur conforme ai doveri d’ufficio, che, funzionale a un procedimento giudiziario, sia strumento di un favore o di un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo.
In termini particolarmente sintetici si è mossa nella stessa direzione la successiva sentenza della Sez. VI, 9 luglio 2007, n. 35118, Fezia, che ha risposto al rilievo difensivo circa l’impossibilità di riconoscere la responsabilità del corruttore per il delitto di corruzione in atti giudiziari susseguente per compimento di atto conforme ai doveri d’ufficio, richiamando la giurisprudenza secondo cui anche la corruzione in atti giudiziari impropria può integrare il delitto di cui all’art. 319-ter c.p., là dove le utilità economiche costituiscano il prezzo della compravendita della funzione giudiziaria, considerata nel suo complessivo svolgimento, sia trascorso che futuro.

La dottrina
2.3 In dottrina l’indirizzo nettamente prevalente è nel senso della inconfigurabilità della forma della corruzione susseguente laddove si versi nella peculiare fattispecie della corruzione in atti giudiziari.
Le argomentazioni alla base di tale indirizzo muovono essenzialmente dalla presenza, nel testo dell’art. 319-ter c.p., della espressa previsione, afferente al dolo specifico che caratterizzerebbe il reato, che i fatti siano commessi “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”, senza che nulla possa autorizzare, pena la violazione del principio di tassatività, ad includervi anche le condotte collegate all’“avere favorito o danneggiato” la stessa parte.
Ciò, evidentemente, considerando che nelle ipotesi di corruzione susseguente il dolo non potrebbe che essere generico attesa l’incompatibilità di un comportamento proteso ad ottenere un evento successivo con la già avvenuta realizzazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio.
Sotto un diverso profilo (che, accettato però nella sua integralità, non potrebbe non coinvolgere la stessa fattispecie di corruzione susseguente “ordinaria”), si è sottolineato come sembrerebbe abbastanza difficile configurare la fattispecie di corruzione in atti giudiziari con riferimento alla cosiddetta corruzione successiva, “essendo difficile provare che l’illecito influsso ormai determinatosi sul processuale sarebbe stato architettato dal giudicabile in vista di una retribuzione indebita” postuma.
Si è altresì affermato, sul piano logico, che “se il provvedimento giudiziale è già stato emesso, non si vede come si possa supporre che il soggetto privato “successivamente” dia o prometta denaro o altra utilità proprio allo scopo di conseguire un obiettivo (emissione del provvedimento in questione) che, al momento della dazione o della promessa, è già stato conseguito: in questo momento la condotta corruttiva del privato, lungi dall’essere finalizzata a uno scopo futuro, si atteggia a corrispettivo di un interesse già soddisfatto e consistente, nella specie, nel favore o nel danno concreto arrecato all’altra parte”.
A fronte della specifica previsione riguardante la connotazione del dolo, dunque, assumerebbe carattere recessivo il richiamo (apparentemente solo integrale, ma in realtà da interpretare, in senso logico, selettivamente) ai fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p. (ivi compresa, dunque, la fattispecie della corruzione susseguente contemplata appunto dall’art. 319 c.p.); ciò tanto più in quanto, a dispetto della configurazione della norma nel senso di una meccanica trasposizione, sul piano del processo, dei fatti corruttivi ordinariamente ricollegabili alla generica attività della pubblica amministrazione, apparentemente suggerita, appunto, dal richiamo indifferenziato agli artt. 318 e 319 c.p., il peculiare e significativo disvalore proprio della fattispecie in oggetto (nata, anche storicamente, per tutelare nel massimo grado la imparzialità e correttezza della funzione giudiziaria) dovrebbe condurre ad attribuire alla norma una originale e autonoma fisionomia.
Non vi sarebbe, del resto, ragione alcuna di estendere l’applicazione di una disciplina, la cui maggiore gravità sarebbe realmente giustificata soltanto nelle ipotesi di corruzione propria antecedente proprio per la assoluta mercificazione della funzione giurisdizionale e la grave violazione al principio di imparzialità, “anche a quelle ipotesi di reato la cui carica offensiva trova sufficiente risposta punitiva nelle sanzioni previste per le ipotesi comuni di corruzione”.
Esclusa in tale caso la configurabilità della corruzione in atti giudiziari, il fatto corruttivo commesso a mo’ di ricompensa per un atto giudiziario contrario ai doveri di ufficio in precedenza posto in essere non potrebbe comunque non rientrare nella corruzione “ordinaria” susseguente, di cui all’art. 319 c.p., attesa la generale ed onnicomprensiva struttura di tale reato.
Su una linea divergente si colloca, invece, una minoranza dottrinale, che ritiene astrattamente configurabile il reato di corruzione susseguente in atti giudiziari sul presupposto che l’atto contrario ai doveri di ufficio, in quanto idoneo a determinare un mutamento in meglio o in peggio della posizione di una delle parti nel processo, attraverso il successivo accordo, può venir fatto proprio da entrambi i soggetti in quell’effetto di danno o vantaggio che esso può produrre; l’intervenuto accordo dimostrerebbe così, sia pure a posteriori, che il corruttore ha inteso l’atto come compiuto ovvero omesso a suo favore, tanto da retribuirlo, e che nel medesimo senso lo ha inteso il corrotto, ricevendo l’utilità con quella direzione psicologica.
Nel senso della inclusione, nella figura di reato dell’art. 319-ter c.p., anche della corruzione susseguente, potrebbero infine annoverarsi anche quelle impostazioni che, pur con riferimento alla diversa questione della ammissibilità della corruzione impropria in atti giudiziari, individuano sostanzialmente, a fondamento della figura autonoma introdotta dal legislatore nel 1990, la volontà di “voler evitare qualsiasi forma di mercimonio allorché l’atto della pubblica amministrazione dovesse riguardare la speciale funzione giudiziaria”, di talché l’oggetto della tutela si risolverebbe, in definitiva, nella “incontaminatezza da qualsiasi forma di incidenza dettata da finalità di lucro”.
Se, infatti, l’essenza della norma stesse nel divieto, per chi eserciti funzioni giudiziarie, di ricevere comunque denaro od altra utilità ad esse collegata, a poco rileverebbe, in definitiva, anche la collocazione cronologica della utilitas rispetto all’atto compiuto o da compiere, indubbiamente recessiva a fronte di una superiore esigenza di preservazione assoluta del bene della correttezza dell’operato giudiziario.

Gli argomenti favorevoli alla configurabilità
3. Queste Sezioni Unite aderiscono all’orientamento prevalente, espresso nelle sentenze nn. 25418/2007 e 36323/2009, e ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

L’interpretazione letterale
3.1 Nel senso della configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari anche nella forma della corruzione susseguente è inequivoca – anzitutto – la formulazione letterale dell’art. 319 ter c.p., che riconnette la sanzione in esso prevista ai “fatti indicati negli artt. 318 e 319”.
L’art. 12, 1° comma, delle disposizioni sulla legge in generale (R.D. 16.3.1942, n. 262) dispone che il primo canone interpretativo della norma giuridica è quello letterale, dovendosi prevalentemente attribuire alla legge il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Il successivo accenno alla “intenzione del legislatore” consente il ricorso alla c.d. “interpretazione logica” nel caso in cui il senso letterale della norma non dovesse risultare di univoca e chiara interpretazione.
In tal caso, per la individuazione della mens legis, può farsi ricorso ai lavori preparatori, fermo comunque il fondamentale principio ermeneutico secondo il quale, una volta entrata in vigore, la norma giuridica ha una propria vita, autonoma rispetto alle intenzioni di chi la pose in essere.
Le Sezioni Unite civili di questa Corte Suprema (già con la sentenza 5.7.1982, n. 4000) hanno affermato il primato dell’interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici, il cui impiego ha carattere sussidiario a causa della loro funzione ausiliaria e secondaria, riflettendo l’ordine con cui i diversi criteri interpretativi sono enunciati dall’art. 12 delle preleggi, secondo una gerarchia di valori non alterabile.
L’indagine per la corretta interpretazione di una disposizione legislativa deve essere condotta, pertanto, in via primaria, sul significato lessicale della stessa, che, se chiaro ed univoco, non consente l’utilizzazione di altre vie di ricerca.
Ciò comporta che, quando l’interpretazione letterale di una norma sia sufficiente ad individuarne il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere ai criteri ermeneutici sussidiari, poiché il ricorso a tali canoni secondari non può portare al risultato di modificare la volontà della norma come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti dubbia o ambigua l’intento del legislatore assume un ruolo paritetico in seno al procedimento interpretativo, sì che funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare.
La stessa mens legis, inoltre, può assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo [vedi, tra le decisioni più recenti, Cass. civ. 6 aprile 2001, n. 5128].
L’applicazione del canone ermeneutico letterale alla formulazione dell’art. 319-ter c.p. elimina la possibilità di una interpretazione riduttiva, poiché la norma in oggetto risulta formulata con un rinvio puro e semplice alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 c.p. e tali disposizioni contemplano tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente.
Escludendo la corruzione susseguente dal paradigma dell’art. 319-ter c.p. si violerebbe il principio di legalità, dato che si verrebbe arbitrariamente a ritagliare solo sul tipo della corruzione antecedente il rinvio operato nel primo comma di detta norma a tutti i fatti di corruzione ex artt. 318 e 319 c.p.

la finalità di “favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo” è collegata a tutti i “fatti indicati negli articoli 318 e 319”
3.2 I “fatti indicati negli articoli 318 e 319” – testualmente richiamati dall’art. 319 ter c.p. – si identificano con le condotte poste in essere dai pubblici ufficiali alle quali fanno esclusivamente riferimento le due disposizioni anzidette [mentre la punibilità di colui che dà o promette il denaro o altra utilità è sancita dal successivo art. 321, al pari di quanto avviene per la corruzione in atti giudiziari] e tali condotte vanno individuate nel compimento dell’atto (conforme o contrario ai doveri) dell’ufficio, più che nella ricezione o nell’accettazione della promessa di denaro o di altra utilità.
L’art. 319-ter c.p. collega, però, a tutti i fatti indicati nei precedenti artt. 318 e 319 la finalità di “favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”.
Secondo la sentenza n. 33435/2006 (Battistella), da tale previsione discenderebbe logicamente che l’atto del pubblico ufficiale debba essere realizzato solo sulla base di un previo accordo con il corruttore o di una previa ricezione di denaro o altra utilità (corruzione antecedente). Infatti, se la corruzione fosse susseguente, non potrebbe dirsi che la retribuzione o la promessa fatta al pubblico ufficiale avvenga “per favorire o danneggiare una parte”, dato che l’atto è stato già compiuto. Per ammettere la forma della corruzione susseguente nell’art. 319-ter c.p., tale espressione normativa dovrebbe ritenersi implicitamente affiancata da quella “per avere favorito o danneggiato una parte”, ma ciò contrasterebbe con il principio di tassatività delle fattispecie penali.
Osserva al riguardo il Collegio – tenuto anche conto della formulazione del secondo comma dell’art. 319-ter c.p., ove viene prevista un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui “dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno …” – che il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale.
Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati; sollecitazioni della parte interessata o di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.
La finalità si riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante ai fini della ipotizzabilità del fatto di corruzione giudiziaria da cancellare la distinzione tra atto contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l’autore del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale.
L’elemento soggettivo peculiare [come rilevato nella sentenza Giombini] “finalizza la stessa tipicità dei fatti previsti dagli artt. 318 e 319 c.p. entro un ambito puntualmente delimitato dalla finalità del contegno”.
Trattasi di un comportamento psicologicamente orientato, riconducibile a quelli che, come viene rilevato in dottrina, “per la loro stessa natura o per i modi di estrinsecazione nella realtà, parlano, per così dire, il linguaggio del dolo”.
E’ opportuno altresì evidenziare il rapporto di specialità che sussiste tra la corruzione “comune” di cui agli artt. 318 e 319 c.p. e la corruzione in atti giudiziari, con la conseguenza che la species di cui all’art. 319-ter non può non contenere tutti gli elementi del genus (quindi quelli integranti la corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente), ai quali si aggiunge l’elemento specializzante di essere commessa per favorire o danneggiare una parte.

l’atteggiarsi del dolo
3.3 Quanto all’atteggiarsi del dolo, poi, sono senz’altro da condividersi le argomentazioni svolte nella medesima sentenza Giombini (di cui si è detto diffusamente dianzi).
E’ vero che, nel caso della corruzione antecedente, la condotta del pubblico ufficiale, rivolta a favorire o danneggiare una parte, trova la sua ragione in un accordo corruttivo già intervenuto, laddove invece, nella corruzione susseguente, la condotta medesima non costituisce la controprestazione rispetto ad una promessa o ad una dazione di denaro o di altra utilità: l’attività giudiziaria, però – in entrambi i casi – resta comunque influenzata dall’atto o dal comportamento contrario ai doveri d’ufficio, mediante il quale si realizza il fine perseguito dal pubblico ufficiale.
In tutte le forme di corruzione antecedente (e quindi anche nella corruzione antecedente in atti giudiziari) l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta del corrotto penalmente rilevante già in itinere.
Nelle ipotesi di corruzione susseguente, invece, l’atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione e che tale rilevanza assume se, successivamente all’atto o al comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato.
Pure in questo caso, comunque, si è in presenza di una strumentalizzazione della pubblica funzione, sotto l’aspetto particolare, quanto alla corruzione in atti giudiziari, di uno sviamento della giurisdizione (anche solo tentato), non essendo necessario, infatti, per il perfezionamento del reato, che la finalità avuta di mira sia conseguita.
Le considerazioni anzidette si attagliano agevolmente ai casi di corruzione susseguente propria; mentre perplessità vengono manifestate in dottrina per la corruzione susseguente impropria, evidenziandosi che un atto conforme ai doveri di ufficio, in mancanza di un accordo preventivo, difficilmente può essere considerato volto a favorire o danneggiare una parte nel momento in cui è stato posto in essere per il solo fatto che successivamente il pubblico ufficiale riceva per esso denaro o altra utilità.
La circostanza che oggettivamente sussistano difficoltà probatorie, però, non può essere confusa con la ontologica strutturale impossibilità di realizzare un tale tipo di corruzione.

3.4 Né argomentazioni decisive, a favore della tesi contraria alla configurabilità della corruzione in atti giudiziari susseguente, possono farsi derivare dalla prospettazione che la disposizione di cui all’art. 319-ter c.p. si pone in continuità normativa con l’art. 319, comma 2°, dello stesso codice, che – nella formulazione anteriore alla sua sostituzione ad opera dell’art. 7 della legge 26.4.1990, n. 86 – prevedeva un aumento della pena per la corruzione propria antecedente “se dal fatto deriva … il favore o il danno di una parte in un processo …”.
La legge n. 86/1990, infatti, ha introdotto un’autonoma figura delittuosa per la corruzione in atti giudiziari, in un contesto ispirato alla ratio generale dell’inasprimento delle sanzioni per i fatti di corruzione, con lo scopo pratico di sottrarre la preesistente aggravante al giudizio di bilanciamento e di anticipare la soglia della tutela (e, quindi, della punibilità) nella più ampia finalizzazione di rafforzamento del dovere di imparzialità, il quale incombe su tutti i pubblici dipendenti, ex art. 97, 1° comma, Cost., ma assume peculiari connotazioni per coloro che partecipano, con un ruolo potenzialmente decisivo, all’attuazione della giurisdizione.
Se lo scopo della innovazione legislativa è stato, dunque, quello di apprestare una più incisiva tutela alla funzione giurisdizionale, per la preminente rilevanza che essa ha nell’organizzazione statuale, non è dato comprendere per quale ragione ciò dovrebbe valere solo per la corruzione antecedente, mentre quella susseguente resterebbe residualmente relegata nell’ambito della sfera di operatività degli artt. 318 e 319 c.p. e sarebbe conseguentemente parificata ad una corruzione “comune”, il che palesemente integrerebbe un contrasto sistematico con la stessa legge n. 86/1990, che ha inteso differenziare la corruzione in atti giudiziari dalla corruzione “comune”.
Nella medesima prospettiva va letta la rilevanza penale – desumibile dall’art. 321 c.p. con il suo integrale rinvio all’art 319-ter – della condotta dell’extraneus in tutti i casi di corruzione in atti giudiziari, rispetto all’irrilevanza della condotta dell’extraneus nel caso di corruzione “comune” impropria susseguente.
Appare del resto assolutamente irrazionale ed asistematico ritenere che la disciplina penalistica della “corruzione in atti giudiziari” non sarebbe rinvenibile integralmente nell’art. 319-ter c.p. (che reca tale testuale rubrica) ma sarebbe contenuta in ben tre norme: la corruzione antecedente, propria e impropria, nell’art. 319-ter c.p.; quella impropria susseguente nell’art. 318, comma 2°, c.p.; quella propria susseguente nell’art. 319 c.p.

3.5 Le valutazioni fino a questo punto svolte non trovano smentita dalla prospettazione (rinvenibile anche nella sentenza n. 33435/2006, Battistella) secondo la quale, laddove si ritenga configurabile la corruzione susseguente in atti giudiziari, stante l’unicità della pena prevista dall’art. 319-ter c.p., si determinerebbe un “appiattimento” del trattamento sanzionatorio di condotte aventi un diverso valore offensivo.
Tale considerazione, infatti, potrebbe anzitutto valere anche per la corruzione “comune” propria, atteso che l’art. 319 c.p. sancisce la stessa pena sia per la corruzione antecedente che per quella susseguente.
Le maggiori perplessità si connettono, però, alla stessa premessa dell’obiezione, allorché si consideri che la corruzione susseguente in atti giudiziari non necessariamente si presenta meno lesiva del bene tutelato rispetto a quella antecedente, comportando pur sempre una strumentalizzazione della funzione che, nei singoli casi concreti, ben può assumere connotazioni di gravità non inferiori a quella che viene realizzata con la corruzione in atti giudiziari antecedente.
Sussiste, del resto, un ampio divario tra il minimo ed il massimo edittale (reclusione da tre a otto anni) e questo consente al giudice di graduare con razionalità adeguata la pena in relazione alla concreta gravità del fatto.

3.6 Significazioni di conferma dell’opzione interpretativa condivisa da queste Sezioni Unite si rinvengono, infine, nei lavori preparatori della legge n. 86/1990 (che ha introdotto l’art. 319-ter c.p.), la quale trae origine, oltre che da alcune proposte di iniziativa parlamentare, dal d.d.l. governativo presentato alla Camera dei Deputati dal ministro Vassalli il 7 marzo 1988.
Il delitto di corruzione in atti giudiziari era contemplato dall’art. 6 di detto d.d.l., il quale, nel sostituire l’art. 319 c.p., stabiliva che “se i fatti indicati nel primo comma dell’articolo precedente sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica …”.
A sua volta il comma 1 dell’art. 318 risultava così formulato dall’art. 5 del d.d.l. in esame: “il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve …”.
Dette formulazioni palesano ad evidenza l’intenzione del ministro proponente di attribuire rilevanza penale alla corruzione propria in atti giudiziari sia antecedente sia susseguente e le modifiche intervenute poi nel corso dell’iter parlamentare (che hanno portato alla formulazione attuale dell’art. 319-ter c.p.) sono state tutte nel segno di un ampliamento della sfera di operatività del delitto, estesa, nella sua formulazione definitiva, alla corruzione impropria.

Il principio di diritto
4. Alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, va quindi affermato il principio di diritto secondo il quale “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter c.p., è configurabile anche nella forma della corruzione susseguente”.

la condotta della falsa deposizione testimoniale
5. La corruzione in atti giudiziari oggetto del presente procedimento si incentra nella condotta processuale del testimone.
Sul punto appare opportuno ricordare – anche in assenza di motivi specifici di ricorso, stante la rilevabilità d’ufficio ex art. 609, 2° comma, c.p.p., delle questioni in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto – che la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha pacificamente ricondotto all’interno dell’art. 319-ter c.p. la condotta della falsa deposizione testimoniale, ritenendo che:
– per “atto giudiziario” deve intendersi l’atto che sia funzionale ad un procedimento giudiziario e si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo [vedi Cass., Sez. VI: 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich; 28 febbraio 2005, n. 13919, Baccarini];
– al testimone deve riconoscersi la qualifica di “pubblico ufficiale” ai sensi dell’art. 357, 1° comma, c.p. [vedi Cass.: Sez. I, 23 gennaio 2003, n. 6274, P.M. in proc. Chianese; Sez. I, 13 marzo 2003, n. 17011, P.M. in proc. Cotrufo e altri; Sez. I, 26 novembre 2002, Catalano; Sez. I, 16 febbraio 2001, n. 15542, Pelini ed altri; Sez. VI, 10 maggio 1996, n. 6406, Arcuri; Sez. VI, 12 maggio 1993, n. 8245, Tedesco];
– nessun profilo di ostatività è rinvenibile con riferimento ai rapporti tra il reato di corruzione in atti giudiziari e quello di falsa testimonianza, stante la “differenza strutturale” tra tali due fattispecie [vedi le argomentazioni svolte, in tema di individuazione del rapporto di genere a specie tra norme incriminatrici, da Cass., Sez. Unite, 7 giugno 2001, n. 23427, P.G. in proc. Ndiaye].

5.1 Viene però censurata, nel ricorso, la configurabilità stessa del reato di corruzione in atti giudiziari adducendosi che l’imputato, esaminato dinanzi al Tribunale di Milano nella veste di “testimone” nei processi “Arces” e “All Iberian”, avrebbe dovuto essere invece sentito in quei processi, ai sensi dell’art. 210 c.p.p., come “imputato di reato connesso” nel c.d. processo “Agrama”, che lo vedeva imputato per reati fiscali, ricettazione e riciclaggio.
Ciò sul presupposto che, ove in tali sensi si fosse proceduto, il ricorrente, non assumendo la qualifica di pubblico ufficiale, non avrebbe potuto rientrare all’interno delle qualifiche soggettive richieste per l’integrazione del reato proprio di cui all’art. 319 ter c.p. (e neppure dell’art. 319 c.p.), non potendo, d’altra parte, farsi riferimento al delitto di cui all’art. 377 bis c.p., integrabile unicamente da chi induca e non anche da chi sia indotto a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci.

5.2 Al riguardo va rilevato che – con riferimento al reato di corruzione in atti giudiziari ove corrotto sia il testimone di un processo – manca una previsione di “non punibilità” analoga a quella contemplata, invece, per il reato di falsa testimonianza, dall’art. 384, 2° comma, c.p., riferita appunto al caso di colui che “non avrebbe dovuto…essere assunto come testimonio…ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere…”.
In detta ipotesi, secondo autorevole dottrina, piuttosto che una causa di non punibilità, sarebbe riscontrabile un difetto di tipicità del fatto, giacché “quando il dichiarante non ha legittimamente acquisito la qualifica di teste, il delitto di falsa testimonianza, che è un reato proprio, non sussiste”.
La giurisprudenza, a sua volta, pur non avendo espressamente configurato la disposizione dell’art. 384, 2° comma, c.p. come una espressione di mancanza di tipicità del fatto-reato, ha tuttavia chiaramente distinto l’ambito di operatività di tale previsione rispetto a quello regolato dal 1° comma dello stesso art. 384, sottolineando che “non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone…a nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il falso” [così Cass., Sez. Unite, 29 novembre 2007, n. 7208/08, Genovese].
Alla stregua delle considerazioni appena svolte – a fronte della mancanza di una previsione che, in analogia a quella di cui all’art. 384, 2° comma, c.p., “scrimini” il reato di corruzione in atti giudiziari sulla base della errata attribuzione al teste di tale qualità – ritiene questo Collegio che il giudice possa comunque “autonomamente” apprezzare, ora per allora (e sempre che, naturalmente, egli possa disporre di elementi di fatto idonei a consentirgli un tale giudizio) la corretta qualifica da attribuirsi al “dichiarante”, eventualmente discostandosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali dichiarazioni furono rese.

(omissis)

371 e 319-quater c.p.

4. Concussione e induzione indebita

Cass. S.U. 24 ottobre 2013, Maldera

Sussiste continuità normativa fra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p. ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater c.p., introdotto dalla l. n. 190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest’ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell’abuso induttivo, fermo restando, per i fatti pregressi, l’applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma.

Il delitto di concussione, di cui all’art. 317 c.p. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319-quater c.p. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico.
(In motivazione, la Corte ha precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta).

Il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre “l’extraneus”, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la “par condicio contractualis” ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti.

Sebbene l’art. 317-bis c.p., modificato dalla l. n. 190 del 2012, non prevede tra i reati che comportano l’interdizione dai pubblici uffici l’induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater c.p., tuttavia deve ritenersi che a tale reato consegue comunque detta pena accessoria, trattandosi di reato commesso con abuso di poteri. (In motivazione la Corte ha precisato che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici deve essere modulata nella sua durata in base alle norme generali di cui agli artt. 29, 31 e 37 c.p.)

Il tentativo di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva di cui all’art. 322, commi terzo e quarto, c.p., perché mentre quest’ultima fattispecie si inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori.

Svolgimento del processo
omissis
4. Con ordinanza del 9 maggio 2013, la Sesta Sezione penale, assegnataria dei ricorsi, ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, per risolvere il rilevato contrasto di giurisprudenza, interno alla medesima Sezione, sulla questione di diritto relativa ai presupposti di applicabilità degli artt. 317 e 319-quater c.p., come rispettivamente sostituito e inserito dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, e agli elementi che differenziano le due fattispecie incriminatrici.
La Sezione rimettente rileva che oggetto del presente procedimento sono – tra l’altro – numerosi episodi di concussione, tentata o consumata, contestati ai sensi del previgente art. 317 c.p., e che i corrispondenti capi d’imputazione, molto articolati, confondono, al di là delle formule lessicali utilizzate, elementi riferibili all’attività di induzione con altri che potrebbero apparire manifestazione di attività costrittiva, con la conseguenza che s’impone la corretta qualificazione giuridica di tali fatti, alla luce della nuova disciplina contenuta nei vigenti artt. 317 e 319-quater c.p.; richiama e analizza gli opposti orientamenti ermeneutici della giurisprudenza di legittimità, evidenzia la necessità di risolvere il contrasto, sottolineando che le differenti opzioni interpretative pongono anche la connessa questione di diritto intertemporale, se cioè, a seguito della novella del 2012, sia ipotizzabile una qualche forma di abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, ovvero un mero fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, regolato dall’art. 2 c.p., comma 4.

5. Il Primo Presidente, con decreto in data 20 maggio 2013, ha assegnato – ex art. 618 c.p.p. – i ricorsi alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: “quale sia, a seguito della L. 6 novembre 2012, n. 190, la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 c.p.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater c.p., di nuova introduzione) soprattutto riferimento al rapporto tra la condotta di costrizione e quella di induzione e alle connesse problematiche di successione di leggi penali nel tempo”.

2. Si contrappongono al riguardo, come rileva l’ordinanza di rimessione, tre diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità nell’individuazione degli elementi che differenziano la concussione per costrizione, prevista dal nuovo art. 317 c.p., dalla induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’introdotto art. 319-quater c.p.

2.1. Un primo indirizzo interpretativo, nell’affrontare la questione, dopo avere rilevato che i due delitti previsti dalle nuove norme citate sono l’effetto di una mera operazione di “sdoppiamento” dell’unica figura di concussione disciplinata dal previgente art. 317 c.p., senza l’integrazione di ulteriori elementi descrittivi, recupera gli approdi cui era pervenuta la pregressa giurisprudenza di legittimità, nel distinguere le “vecchie” ipotesi di concussione per costrizione o per induzione, ritenendoli ancora validi per individuare la linea di confine che separa le attuali ipotesi di concussione e di induzione indebita: la costrizione è ravvisabile nel comportamento del pubblico ufficiale che, ricorrendo a modalità di pressione molto intense e perentorie, ingenera nel privato una situazione di metus, derivante dall’abuso della qualità o della pubblica funzione, sì da limitare gravemente la libera determinazione del soggetto, ponendolo in una situazione di minorata difesa rispetto alla richiesta, esplicita o larvata, di denaro o di altra utilità; l’induzione, elemento oggettivo della nuova fattispecie di cui all’art. 319-quater c.p., si manifesta in un contegno del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, attraverso forme più blande di persuasione, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini il soggetto privato, consapevole dell’indebita pretesa e non indotto in errore dal pubblico agente, a dare o promettere a lui o a terzi denaro o altra utilità.
In sostanza, secondo tale orientamento esegetico, ciò che continua a distinguere la condotta induttiva da quella costrittiva è l’intensità della pressione prevaricatrice, non disgiunta dai conseguenti effetti che spiega sulla psiche del destinatario.
Nella prima, tale pressione si concretizza in una più tenue attività di suggestione, di persuasione o di pressione morale, che non condiziona gravemente la libertà di determinazione dell’indotto, il quale conserva – ed è per tale ragione punibile – un ampio margine di libertà di non accedere alla richiesta indebita proveniente dal pubblico agente; mentre, nella seconda, l’attività di pressione viene posta in essere con modalità più marcatamente intimidatorie, tali da provocare uno stato di soggezione in cui la libertà di autodeterminazione del concusso, pur non del tutto eliminata, finisce per essere notevolmente compressa, sì da rendere il destinatario dell’indebita pretesa “vittima” e, in quanto tale, non punibile.
In questa prospettiva, sia la condotta costrittiva che quella induttiva cagionano un danno al destinatario e nessun rilievo ha la circostanza che il pregiudizio negativo prospettato sia o meno conforme all’ordinamento giuridico.
Questa conclusione è ritenuta in linea con la voluntas legis, desumibile dalla utilizzazione, nelle due nuove e autonome disposizioni incriminatrici, delle identiche parole presenti nella fattispecie originaria, il che non consente di attribuire ad esse un diverso significato giuridico, dovendosi escludere che il legislatore possa avere trascurato il diritto vivente formatosi nella vigenza della fattispecie unitaria. In assenza, nelle nuove norme, di una espressa previsione circa il diverso significato da attribuire ai termini “costrizione” e “induzione”, non è consentito all’interprete discostarsi dagli approdi ermeneutici maturati al riguardo. La punizione dell’indotto, prevista dall’art. 319-quater c.p., non legittima l’abbandono della pregressa impostazione, proprio perché trova la sua ragion d’essere nel carattere più blando della pressione su di lui esercitata dall’agente pubblico, il che gli consente di resistere e, se non lo fa, è giusto che venga punito, anche se in modo più lieve rispetto all’induttore (Sez. 6, n. 28431 del 12/06/2013, Cappello, RV 255614; Sez. 6, n. 28412 dell’08/03/2013, Nogherotto, RV 255607; Sez. 6, n. 11942 del 25/02/2013, Oliverio, RV 254444; Sez. 6, n. 12373 dell’11/02/2013, Mariotti, non massimata; Sez. 6, n. 12388 dell’11/02/2013, Sarno, RV 254441; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, RV 255366; Sez. 6, n. 18968 dell’11/01/2013, Bellini, RV 255072; Sez. 6, n. 17285 dell’11/01/2013, Vaccaro, RV 254621; Sez. 6, n. 16154 dell’11/01/2013, Pierri, RV 254539; Sez. 6, n. 3093 del 18/12/2012, dep. 21/01/2013, Aurati, RV 253947; Sez. 6, n. 8695 del 04/12/2012, dep. 21/02/2013, Nardi, RV 254114).

2.2. Altra opzione ermeneutica, dando atto della difficoltà di individuare un preciso significato della parola “induzione”, sottolinea che, sotto il profilo linguistico, mentre il verbo “costringere” è descrittivo di un’azione e del suo effetto, la voce verbale “indurre” connota soltanto l’effetto e non anche la maniera, che può essere la più varia, attraverso la quale questo effetto viene raggiunto. Evidenzia poi, sotto il profilo sistematico, che il termine induzione è presente in diverse fattispecie delittuose previste dal codice penale proprio per indicare il solo risultato dell’azione, che si concretizza attraverso le più diverse modalità, alternative e a volte incompatibili tra loro, quali la violenza, la minaccia, l’offerta o la promessa di una qualche utilità (art. 377 bis c.p.) ovvero la propaganda (art. 507 c.p.) o l’inganno (art. 558 c.p.). Aggiunge che la distinzione tra la disposizione dell’attuale art. 317 c.p., e quella del nuovo art. 319-quater c.p., è data dall’uso del termine “costringe” nella prima e del termine “induce” nella seconda: tali termini, già impiegati nel previgente art. 317 c.p., non erano stati oggetto di una approfondita riflessione circa il loro significato, data la loro equipollenza ai fini del trattamento della condotta di concussione, tanto che si ricorreva spesso, nell’articolazione dei capi d’imputazione, alla formula “costringeva o comunque induceva”; oggi la scissione delle due ipotesi criminose e il loro diverso trattamento, con particolare riferimento alla punibilità dell’indotto, impongono di superare l’evasivo criterio di verifica “soggettivizzante” del diverso grado di pressione morale e di ricercare un elemento oggettivo che sia in grado di offrire ai due concetti un tasso di maggiore determinatezza.
Sulla base di tale ricostruzione esegetica, si precisa testualmente che “compie il reato di cui all’art. 317 c.p., chi costringe e cioè chi, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, prospetta un danno ingiusto per ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità. Di converso,… compie il reato di cui all’art. 319-quater c.p., chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla legge. Nella prima ipotesi il pubblico ufficiale prospetta che egli, violando la legge, recherà un detrimento, nella seconda che questo detrimento deriva o è consentito dall’applicazione della legge”. Nell’un caso, la costrizione consegue alla minaccia, intesa, secondo il linguaggio tecnico-giuridico (art. 612 c.p.), come prospettazione di un male ingiusto; nell’altro, non può parlarsi tecnicamente di minaccia, perché il danno non è iniuria datum, manca quindi la costrizione, anche se il risultato viene comunque raggiunto, in quanto il soggetto privato è indotto alla promessa o alla consegna dell’indebito.
Tale interpretazione sarebbe legittimata inoltre da “un razionale assetto dei valori in gioco che non può essere trascurato”: è ragionevole, infatti, la più severa punizione di chi prospetta un danno ingiusto rispetto a colui che prospetta un pregiudizio conseguente all’applicazione della legge; e, in questa ultima evenienza, è ragionevole la punizione anche del soggetto privato che, aderendo alla pretesa dell’indebito avanzata dal pubblico agente, persegue un proprio interesse ed orienta il suo agire nell’ottica del tornaconto personale, ponendo così in essere una condotta rimproverabile.
Conclusivamente, la linea di discrimine tra le due ipotesi delittuose risiederebbe nell’oggetto della prospettazione: danno ingiusto e cantra ius nella concussione; danno legittimo e secundum ius nella fattispecie dell’art. 319-quater c.p. (Sez. 6, n. 29338 del 23/05/2013, Pisano, RV 255616; Sez. 6, n. 26285 del 27/03/2013, A.r.p.a., RV 255371; Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013, Caboni, RV 254624; Sez. 6, n. 13047 del 25/02/2013, Piccino RV 254466; Sez. 6, n. 17943 del 15/02/2013, Sammatrice, RV 254730; Sez. 6, n. 17593 del 14/01/2013, Marino, RV 254622; Sez. 6, n. 7495 del 03/12/2012, dep. 15/02/2013, Gori, RV 254021; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, dep. 22/01/2013, Roscia, RV 253938).

2.3. Un terzo orientamento giurisprudenziale, pur condividendo in premessa il primo indirizzo interpretativo, riconosce – nella consapevolezza della varietà delle dinamiche criminologiche – che non sempre è agevole differenziare nettamente la costrizione dall’induzione sulla base della maggiore o minore pressione psicologica esercitata dal pubblico agente e del grado di condizionamento dell’interlocutore, in quanto vi sono situazioni al limite (c.d. “zona grigia”) nelle quali “non è chiaro nè è facilmente definibile se la pretesa del pubblico agente, proprio perché proposta in maniera larvata o subdolamente allusiva, ovvero in forma implicita o indiretta, abbia ridotto fino quasi ad annullarla o abbia solo attenuato la libertà di autodeterminazione del privato”.
S’impone quindi, secondo tale orientamento per così dire “intermedio” – che finisce col recepire anche il punto più qualificante del secondo indirizzo ermeneutico – la necessità di fare leva su un ulteriore elemento, che, con effetto integrativo, sia in grado di delineare una più netta linea di demarcazione tra i concetti di costrizione e di induzione. Tale indice integrativo va colto nel tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa indebita consegue nell’aderire alla stessa.
Costui è certamente persona offesa di una concussione per costrizione se il pubblico ufficiale, pur non ricorrendo a forme eclatanti di minaccia diretta, lo abbia posto di fronte all’alternativa “secca” di condividere la richiesta indebita oppure di subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto; non gli è lasciato, in concreto, alcun margine apprezzabile di scelta, è solo vittima del reato perché, senza essere motivato da un interesse al conseguimento di un qualche vantaggio, si determina alla promessa o alla dazione esclusivamente per scongiurare il pregiudizio minacciato (certat de damno vitando).
Al contrario, il privato è coautore del reato ed è punibile nel caso in cui conserva un margine apprezzabile di autodeterminazione sia perché la pressione del pubblico agente è più blanda, sia perché ha interesse a soddisfare la pretesa del pubblico funzionario per ottenere un indebito beneficio, che finisce per orientare la sua decisione (certat de lucro captando).
In sostanza, il criterio discretivo tra la fattispecie di concussione e quella di induzione indebita è da individuare nel diverso effetto che la pressione del soggetto pubblico spiega sul soggetto privato, con la precisazione che, per le situazioni dubbie, deve farsi leva, in funzione complementare, anche sul criterio del vantaggio indebito perseguito dal secondo (Sez. 6, n. 20428 dell’08/05/2013, Milanesi, RV 255076; Sez. 3, n. 26616 dell’08/05/2013, M., RV 255620; Sez. 6, n. 21975 del 05/04/2013, Viscanti, RV 255325; Sez. 6, n. 11944 del 25/02/2013, De Gregorio, RV 254446; Sez. 6, n. 11794 dell’11/02/2013, Melfi, RV 254440).
3. Le diverse e contrastanti opzioni ermeneutiche, innanzi sintetizzate, sulla questione di diritto rimessa all’esame delle Sezioni Unite impongono di fare chiarezza sul punto, seguendo un percorso metodologico che colga, nella loro essenza, le novità introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in relazione al reato di concussione.
L’attenzione va concentrata sulla ratio complessiva della riforma, per coglierne gli aspetti più rilevanti sia dal punto di vista sostanziale che da quello processuale.
E’ necessario, quindi, riflettere sulla riformulazione dell’art. 317 c.p., che ha circoscritto il reato di concussione alla sola condotta di costrizione posta in essere dal pubblico ufficiale; sulla nuova figura, scorporata dal previgente art. 317 c.p., della induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater c.p., la quale, palesandosi come fattispecie intermedia tra la concussione e la corruzione, configura il margine di confine tra condotta sopraffattrice e scambio corruttivo; sulle inevitabili conseguenze della riforma in materia di diritto intertemporale, con riferimento ai processi pendenti nei vari gradi di giudizio.
E’ in questa ottica concreta e pragmatica che va letta, per la parte che qui interessa, la novella del 2012.
Tutte le opzioni interpretative su di essa – ad oggi – maturate hanno approfondito la questione dibattuta, seguendo però percorsi argomentativi diversi nella scelta della formula delimitatrice tra costrizione ed induzione.
Ciascuno di tali orientamenti evidenzia aspetti che sono certamente condivisibili, ma non autosufficienti, se isolatamente considerati, a fornire un sicuro criterio discretivo.
Ed invero, il primo modello esegetico, pur delineando correttamente, dal punto di vista teoretico, le nozioni di “costrizione” ed “induzione”, non ne coglie i reali profili contenutistici ed affida la sua scelta ad un’indagine psicologica dagli esiti improbabili, che possono condurre ad una deriva di arbitrarietà.
Il secondo ha indubbiamente il pregio di individuare indici di valutazione oggettivi e sicuramente utilizzabili ai fini che qui interessano, ma incontra il limite della radicale nettezza argomentativa che lo contraddistingue, la quale mal si concilia con l’esigenza di apprezzare l’effettivo disvalore di quelle situazioni “ambigue”, che lo scenario della illecita locupletazione da abuso pubblicistico frequentemente evidenzia.
Il terzo, nel tentativo di ricondurre ad unità gli altri due orientamenti, mostra passaggi argomentativi che possono creare qualche equivoco, soprattutto nella parte in cui, pur sostenendo che, in situazioni “al limite”, il criterio tradizionale della intensità della pressione deve essere integrato da quello del vantaggio indebito, sembra comunque riservare, in relazione ad altre non meglio specificate situazioni, un’autonoma valenza alla verifica “soggettivizzante”, replicando così, per questa parte, i limiti del primo orientamento.
A superamento del rilevato contrasto, l’operazione ermeneutica deve essere orientata, come più diffusamente si preciserà in seguito, verso approdi più sicuri, che colgano gli aspetti maggiormente convincenti della elaborazione giurisprudenziale innanzi sintetizzata e, senza discostarsi dal significato intrinseco del dato normativo, individuino parametri di valutazione, per quanto possibile, più nitidi.

La concussione : analisi del reato nel tempo
4. Rileva, in via preliminare, la Corte che il delitto di concussione ha sempre rappresentato – sia storicamente che sistematicamente – una delle peculiarità della normativa del nostro ordinamento, in una prospettiva di specifica stigmatizzazione del fatto, considerata la sua plurima essenza lesiva, che incide non solo sul buon andamento e sull’imparzialità della pubblica amministrazione ma anche sulla libertà di autodeterminazione della vittima, sì da non risultare comprimibile, come accade per altri ordinamenti (quello tedesco e quello spagnolo), all’interno di un reato contro il patrimonio, qual è l’estorsione.
Ciò posto, s’impone un’analisi, sia pure sintetica, della regolamentazione normativa succedutasi nel tempo, orientata costantemente alla individuazione del disvalore tipico dell’illecito di cui si discute, che, incidendo sul modo di intendere il rapporto tra Autorità e cittadini, non poteva non risentire delle dinamiche socio-culturali connesse al passaggio da uno Stato liberale ad uno autoritario e, quindi, ad uno democratico e repubblicano, considerato quest’ultimo anche nella sua dimensione europea, a seguito del successivo processo d’integrazione in tale realtà sovranazionale.

5. Il codice Zanardelli del 1889, ispirandosi al codice toscano del 1853, disciplinava il reato di concussione agli artt. 169 e 170, prevedendo due diverse forme di tale illecito, differenziate anche sul piano sanzionatorio.
Nella prima disposizione veniva contemplata la concussione mediante costrizione, detta anche “esplicita” o “violenta”, che puniva, con pena più severa, la condotta del pubblico ufficiale che, abusando del proprio ufficio, costringeva taluno a dare o promettere indebitamente, a sè o ad un terzo, denaro o altra utilità.
La seconda disposizione, al comma primo, regolava, con sanzione meno rigorosa, la concussione per induzione, detta anche “implicita” o “fraudolenta”, il cui tratto distintivo era costituito dall’assenza di una condotta costrittiva posta in essere dal pubblico ufficiale, il quale, abusando sempre del proprio ufficio, si limitava ad indurre il privato alla dazione o alla promessa indebita.
Era prevista, inoltre, dal comma secondo dell’art. 170 una ulteriore ed ancora meno grave figura concussiva, detta “negativa”, configurabile nel caso in cui il pubblico ufficiale – senza costringere o indurre il privato alla dazione o promessa indebita – si limitava a ricevere ciò che non gli era dovuto, giovandosi dell’errore altrui.
Per tutte queste diverse ipotesi di concussione era prevista, infine, l’attenuante della lieve entità della somma o dell’utilità data o promessa.
Il reato risentiva chiaramente della impostazione liberale della società di fine Ottocento, nel senso che gli interessi dei singoli assumevano carattere centrale, pur fondendosi con essi l’interesse alla correttezza dell’azione amministrativa.
La dottrina dell’epoca, nel delineare l’oggetto giuridico del reato di concussione, sottolineava che le corrispondenti norme incriminatrici erano rivolte essenzialmente “ad evitare lo spoglio dell’altrui patrimonio mediante incussione di timore ed inganno”.
Ciò è tanto vero che il codice del Regno Unito, per i fatti di concussione, non prevedeva un trattamento sanzionatorio più rigoroso rispetto a quello contemplato per le analoghe fattispecie commesse da privati: la concussione “violenta” e quella “implicita” erano punite in modo similare rispettivamente alla estorsione e alla truffa.

6. Con il codice Rocco del 1930, la concussione veniva inserita all’interno di un’unica norma, l’art. 317 c.p., che contemplava sia la concussione per costrizione che quella per induzione: “Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa non inferiore a lire seicentomila”.
E’ agevole rilevare che la norma, a differenza di quanto previsto dal codice del 1889, non operava alcuna distinzione tra le due forme di concussione, tanto che sia la condotta costrittiva sia quella induttiva del pubblico ufficiale erano sottoposte agli stessi limiti edittali di pena, che erano ben superiori a quelli previsti per la fattispecie di concussione più grave disciplinata nel codice Zanardelli.
Veniva soppressa la circostanza attenuante della lieve entità della somma o dell’utilità data o promessa dal soggetto passivo. La così detta concussione “negativa” trasmigrava nell’autonoma fattispecie di cui all’art. 316 c.p., il peculato mediante profitto dell’errore altrui.
Con tale disciplina, mutava, in coerenza con l’ideologia del regime fascista, il modo di concepire i rapporti tra Autorità statale e cittadino.
Lo Stato assumeva un ruolo sovraordinato rispetto ai singoli cittadini, considerati non più nella loro individualità, bensì quali membri della collettività, “annullati”, per così dire, nella comunità statuale; veniva riservata ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio una posizione di privilegio, nel senso che venivano inasprite le sanzioni previste per i reati commessi in loro danno (oltraggio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale), veniva introdotta l’aggravante comune di avere commesso il fatto in danno di un soggetto rivestito di qualifica pubblicistica (art. 61 c.p., n. 10) e veniva eliminata la causa di non punibilità della reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale.
Per converso, a detti soggetti pubblici – proprio per la posizione di “privilegio” di cui godevano e perché investiti di particolari responsabilità – era riservato un trattamento sanzionatorio più rigoroso in caso di commissione di illeciti qualificati, come il peculato (rispetto all’appropriazione indebita) o la concussione (rispetto all’estorsione).
In sostanza, la condotta prevaricatrice del soggetto pubblico, ancor prima di ledere l’interesse del singolo, era l’espressione della infedeltà dell’agente ai valori e ai principi ritenuti primari dall’ordinamento dell’epoca.

7. Con la L. 26 aprile 1990, n. 86, la norma incriminatrice di cui all’art. 317 c.p., che originariamente si riferiva soltanto al pubblico ufficiale, veniva estesa anche all’incaricato di un pubblico servizio, recependo cosi, per esigenze di politica criminale, le indicazioni di una parte consistente della dottrina, che aveva ritenuto non giustificata la disciplina riservata, nell’ambito del delitto di concussione, alla posizione del solo pubblico ufficiale.
In coincidenza, infatti, del sempre più frequente sviluppo dei servizi pubblici, numerosi e diffusi erano i casi di concussione commessi da incaricati di un pubblico servizio, cioè da persone anch’esse investite di prerogative pubbliche rilevanti e, come tali, idonee ad incidere sulla libera determinazione del privato nei rapporti dal medesimo intrattenuti con la pubblica amministrazione.
Ed invero, la logica sottesa a tale estensione della soggettività attiva non può che essere ravvisata nel fatto che l’abuso, quale elemento primario caratterizzante la concussione, non rinvia necessariamente a condotte coincidenti con l’esercizio dei poteri autoritativi, propri della pubblica funzione, ma anche a comportamenti condizionanti comunque la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
La riforma del 1990 coerentemente sostituiva l’espressione “abusando (…) delle sue funzioni” con quella “abusando (…) dei suoi poteri”, considerato che gli incaricati di un pubblico servizio non possono certo abusare delle funzioni, essendo queste – come noto – riservate al solo pubblico ufficiale, ma soltanto dei “poteri” corrispondenti alle loro attribuzioni specifiche.
Il legislatore del 1990, al di là dell’ampliamento del novero dei soggetti attivi del reato, della eliminazione della pena pecuniaria e della reintroduzione della circostanza attenuante, già prevista dal codice Zanardelli, della particolare tenuità del fatto (art. 323 bis c.p.), optò per una scelta conservatrice, nel senso che, ignorando il vivace dibattito sulle diverse proposte di soluzione (progetto Azzaro n. 1780/85; progetto Vassalli n. 1250/85; progetto Martinazzoli n. 2844/85) e tradendo ogni aspettativa di effettiva innovazione, non incise sul tessuto strutturale dell’art. 317 c.p., rimasto – quanto alla definizione della condotta – invariato, e si pose, pertanto, in una logica di sostanziale continuità col codice del 1930.

8. La cosiddetta “legge anticorruzione” n. 190 del 2012, nel perseguire l’obiettivo di dare una risposta alla diffusa richiesta di un intervento riformatore, si è fatta carico non solo di introdurre all’interno della pubblica amministrazione una disciplina preventiva per scongiurare situazioni favorevoli alla consumazione di illeciti, prevedendo, in caso di violazione da parte della persona individuata come responsabile del piano di prevenzione, corrispondenti misure sanzionatorie amministrative, ma anche di innovare la normativa relativa ai reati contro la pubblica amministrazione, revisionando l’entità delle sanzioni, introducendo nuove fattispecie criminose e – per quanto qui interessa – modificando profondamente il reato di concussione.
A tale approdo il legislatore del 2012 è pervenuto sotto la spinta di due fondamentali ragioni.
L’una di carattere interno, avente connotati emergenziali e rappresentata dalla necessità di contrastare più efficacemente l’esponenziale diffusività del fenomeno della corruzione a tutti i livelli della nostra pubblica amministrazione.
L’altra di carattere internazionale, imposta dalla esigenza di adeguare la normativa interna agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese con la Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione (Convenzione di Merida), adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata in Italia con la L. 3 agosto 2009, n. 116, e con la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio di Europa del 27 gennaio 1999, ratificata in Italia con la L. 28 giugno 2012, n. 110. Non vanno – peraltro – sottaciuti i penetranti rilievi formulati sull’Italia, sin dal 2001, dal Working Group on Bribery (WGB) dell’OCSE, rilievi ripresi dal rapporto di valutazione redatto dal Group of States against corruption (GRECO) nella riunione plenaria svoltasi a Strasburgo il 20-23 marzo 2012: si osservava, in quest’ultimo rapporto, che l’allora vigente art. 317 c.p., può “portare a risultati irragionevoli, in quanto colui che offre la tangente ha il diritto insindacabile di essere esentato dalla sanzione” e si invitava il nostro legislatore ad “esaminare in modo approfondito la pratica applicazione del reato di concussione (…) al fine di accertare il suo eventuale uso improprio nelle indagini e nell’azione penale nei casi di corruzione”.
Con la L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, lett. d) ed i), il legislatore ha modificato profondamente, come si diceva, il reato di concussione disciplinato dall’art. 317 c.p., e, tornando all’antica previsione normativa contenuta nel codice Zanardelli, ha separato le condotte tipiche, che erano accomunate in via alternativa sotto la stessa rubrica, della costrizione e della induzione.
Il novellato art. 317 c.p., – la cui rubrica è rimasta inalterata – punisce con la reclusione da sei a dodici anni “il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”.
Si è proceduto, quindi, non solo alla rimozione dell’incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi, ma anche alla espunzione della condotta di “induzione”.
Quest’ultima condotta è stata fatta confluire nell’autonoma figura di reato, rubricata come “Induzione indebita a dare o promettere utilità” e disciplinata dall’art. 319-quater c.p., inserito ex novo, che testualmente recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal comma 1, chi da o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.
Tale nuova norma, pur forgiata – quanto alla descrizione della condotta – sullo stesso paradigma del previgente art. 317 c.p., sanziona, oltre il comportamento del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un pubblico servizio, anche quello dell’extraneus, aspetto quest’ultimo di significativa novità sostanziale, considerato che il privato, non essendo stato “costretto” dal pubblico funzionario alla promessa o alla dazione dell’indebito ma soltanto “indotto”, conserva pur sempre un ampio margine di libertà nell’assecondare o meno la richiesta del soggetto qualificato e non può, quindi, considerarsi “vittima” del reato ma “concorrente” nello stesso.
La nuova normativa ha inteso differenziare nettamente il comportamento, ritenuto più grave, integrato dall’atteggiamento prevaricatore dell’agente nella sua forma più aggressiva della costrizione del soggetto passivo e inquadrabile nello schema della concussione di cui al novellato art. 317 c.p., rispetto a quella forma più sfumata di condotta attuata mediante un’attività di persuasione, di suggestione o di inganno e che è ora confluita nella fattispecie della induzione indebita di cui all’introdotto art. 319-quater c.p..
Si è inteso, in sostanza, bilanciare i diversi valori tutelati dalle due norme è proporzionare le corrispondenti pene, come espressamente affermato dal Guardasigilli, in risposta alla presentazione di emendamenti, nella seduta del 10 maggio 2012 delle Commissioni riunite 1^ e 2^ della Camera dei Deputati: «… la concussione è stata circoscritta ai soli casi in cui la condotta dell’autore del reato abbia determinato una vera e propria costrizione in capo al privato, e quindi la soggettività attiva e la conseguente punibilità sono state limitate al pubblico ufficiale in quanto titolare dei poteri autoritativi atti ad incutere il metus publicae potestatis. Le condotte di induzione (…) sono state invece scorporate in un’autonoma fattispecie di reato, quella di indebita induzione a dare o promettere denaro o altra utilità, nella quale sono soggetti attivi tanto il pubblico ufficiale quanto l’incaricato di pubblico servizio e la punibilità è estesa anche al privato, in quanto questi non è costretto, ma semplicemente indotto alla promessa o dazione, cioè mantiene un margine di scelta tale da giustificare l’irrogazione di una pena nei suoi confronti, seppure in misura ridotta rispetto a quella prevista per il pubblico agente”; ed ancora, intervenendo nella seduta del 29 ottobre 2012 della Camera dei Deputati in occasione della discussione del disegno di legge, il Guardasigilli sottolineava, tra l’altro, che “…nel nostro ordinamento si può creare una certa confusione tra chi è certamente vittima del reato e chi in qualche modo ha contribuito allo stesso. E’ per questo che abbiamo introdotto la fattispecie intermedia della concussione per induzione».
La ratio della riforma sta quindi proprio nell’esigenza, ripetutamente manifestata in sede internazionale e sollecitata anche da una situazione emergenziale interna, di chiudere ogni possibile spazio d’impunità al privato che, non costretto ma semplicemente indotto da quanto prospettatogli dal pubblico funzionario disonesto, effettui in favore di costui una dazione o una promessa indebita di denaro o di altra utilità. In questo contesto ha trovato la sua genesi il reato di induzione indebita di cui all’art. 319-quater c.p., il cui inserimento nel nostro ordinamento non può prescindere dal confronto con altre contigue previsioni delittuose.

9. Ed invero, la scelta del legislatore del 2012 pone l’interprete di fronte al problema, di non agevole soluzione, di individuare affidabili criteri discretivi tra la concussione di cui al novellato art. 317 c.p., e la induzione indebita di cui all’art. 319-quater c.p., nonché tra queste due fattispecie e quelle corruttive.
Strettamente connessa è l’ulteriore questione, a cui pure si deve una risposta, perché rilevante sotto il profilo del diritto intertemporale, circa la sussistenza o meno della continuità di tipo di illecito tra la concussione così come disciplinata dal previgente art. 317 c.p., e le due nuove fattispecie enucleate, pur con le relative modifiche o integrazioni, dalla detta norma.

Criteri discretivi tra concussione (art. 317) e induzione indebita (art. 319-quater)

Elemento comune: l’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico
10. Devesi, innanzi tutto, prendere atto che la condotta di costrizione e quella di induzione richiamate rispettivamente dall’art. 317 (come sostituito) e dall’art. 319-quater c.p., sono accomunate, oltre che da uno stesso evento (dazione o promessa dell’indebito), da una medesima modalità di realizzazione: l’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico.
E’ necessario, quindi, chiarire il significato di tale locuzione, che intuitivamente si riverbera sul dato probatorio e, quindi, sul momento più delicato per l’accertamento del reato.
Non sono mancati dubbi interpretativi sul significato del verbo “abusare”, già utilizzato dalla previgente norma sulla concussione e riprodotto all’interno delle due nuove fattispecie, e sulla funzione che ad esso compete nella struttura degli illeciti in esame. E ciò perché, com’è noto, non è rinvenibile, nella parte speciale del codice penale, una definizione organica ed omogenea del concetto di abuso, essendo tale termine adoperato per descrivere situazioni profondamente diverse tra loro.
Si pensi, esemplificativamente, al reato di abusivo esercizio di una professione di cui all’art. 348 c.p., (situazione in cui difetta il diritto all’esercizio, ma questo viene comunque praticato), al reato di usurpazione di titoli o di onori di cui all’art. 498 c.p., (abusivo utilizzo da parte di un determinato soggetto di una divisa o di segni distintivi che non gli spettano), al reato di circonvenzione di incapaci di cui all’art. 643 c.p., (sfruttamento a proprio vantaggio dello stato di minorazione psichica di un determinato soggetto, abusando, nel senso di approfittare, di tale particolare situazione di fatto).
Il valore da attribuire al concetto di abuso evocato dagli artt. 317 e 319-quater c.p., non può che essere desunto dalla particolare qualifica dell’agente e dall’oggetto stesso dell’abuso, nel senso che quest’ultimo deve concretarsi, come incisivamente si è sottolineato in dottrina, nella “strumentalizzazione da parte del soggetto pubblico di una qualità effettivamente sussistente (abuso della sua qualità) o delle attribuzioni ad essa inerenti (abuso dei suoi poteri) per il perseguimento di un fine immediatamente illecito”.
In sostanza, nelle richiamate norme, l’abuso è indicativo dell’esistenza, in capo all’agente pubblico, di un diritto all’uso della qualità o dei poteri, che viene però deviato dalla sua funzione tipica e si atteggia come contrapposto logico dell’uso così come positivamente delineato e, in quanto tale, inclusivo di imprescindibili limiti.
L’abuso non è un presupposto del reato ma integra un elemento essenziale e qualificante della condotta di costrizione o di induzione, nel senso che costituisce il mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la promessa dell’indebito.
D’altra parte, l’uso del gerundio – “abusando” – conferma lo stretto nesso tra l’abuso e la condotta attraverso la quale esso si manifesta.
L’abuso, quindi, è lo strumento attraverso il quale l’agente pubblico innesca il processo causale che conduce all’evento terminale: il conseguimento dell’indebita dazione o promessa.
La condotta tipica delle due figure criminose in esame non risiede, quindi, esclusivamente nella costrizione o nella induzione bensì primariamente nell’abuso, che è legato da nesso di causalità con lo stato psichico determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la dazione o la promessa dell’indebito.
Conclusivamente, abuso, da una parte, e costrizione o induzione, dall’altra, non sono condotte distinte, quasi che il primo si contrapponga alle seconde, ma sono condotte che si integrano e si fondono tra loro, nel senso che la sola costrizione o induzione determinata dall’abuso qualifica lo specifico disvalore dei corrispondenti reati di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p., rispetto ad altre fattispecie caratterizzate anch’esse da un’attività dell’agente volta a coartare o comunque a condizionare la libera autodeterminazione di qualcuno.

10.1. L’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivo – consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute.
Ovviamente l’abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva, deve sempre concretizzarsi in un tacere (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato; costui cioè deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sè pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta.

10.2. L’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa.
Tale abuso va individuato, come incisivamente precisa la dottrina in coerenza con la posizione della giurisprudenza, in relazione al tipo di deviazione dalla causa tipica dei poteri conferiti al soggetto pubblico e deve essere ricondotto alle seguenti ipotesi:
a) esercizio dei poteri fuori dei casi previsti dalla legge;
b) mancato esercizio di tali poteri quando sarebbe doveroso esercitarli;
c) esercizio dei poteri in modo difforme da quello dovuto;
d) minaccia di una delle situazioni descritte.
Pure questa forma di abuso deve essere ovviamente caratterizzata da una effettiva idoneità a costringere o ad indurre il privato alla dazione o alla promessa dell’indebito.
E’ riconducibile all’abuso di poteri anche l’esercizio strumentale di un’attività oggettivamente lecita e doverosa per ottenere un’indebita utilità (si pensi all’agente di polizia giudiziaria che, avendo sorpreso una persona nella flagranza di uno dei reati di cui all’art. 380 c.p.p., le prospetti la possibilità di non eseguire l’arresto, peraltro obbligatorio, in cambio di una qualche prestazione indebita).
Ed invero, in tale ipotesi, non è a parlarsi di normale uso del potere, considerato che la prospettazione di esercitarlo in modo legittimo, in quanto contestualmente affiancata dalla richiesta di indebito per scongiurare le conseguenze pregiudizievoli a tale esercizio, qualifica come abusiva la condotta finalisticamente deviata, poichè la stessa tradisce la funzione tipica del potere conferito nell’esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico.
Potrà, tutt’al più, porsi il problema, del quale si tratterà in seguito, se tale tipo di abuso determini nel soggetto privato una pressione psicologica di tipo costrittivo o piuttosto sia idoneo a generare una induzione indebita ex art. 319-quater c.p.
L’abuso di poteri, a differenza dell’abuso di qualità, può realizzarsi anche in forma omissiva. Il pubblico funzionario, infatti, può deliberatamente astenersi dall’esercitarli, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo, di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.
L’abuso di poteri, infine, può profilarsi sia nell’attività vincolata che in quella discrezionale.
Nell’atto vincolato, l’abuso si concretizza nel non compiere l’atto ovvero nel compierlo in maniera difforme da quella legalmente prescritta.
Lo stato di soggezione del privato ben può essere ravvisato anche a fronte del compimento di atti discrezionali – tanto più se di mera discrezionalità tecnica – tutte le volte in cui non venga fatto un uso conforme della discrezionalità agli interessi pubblici perseguiti, con conseguente deviazione dell’atto dalla sua causa tipica.

11. Ciò posto quanto all’abuso della qualità o dei poteri, elemento che come si è precisato – accumuna le due fattispecie criminose in esame, devesi sottolineare che le stesse si differenziano per l’uso del verbo “costringe” nella norma di cui all’art. 317 c.p., rispetto al verbo “induce” utilizzato dall’art. 319-quater c.p., norma quest’ultima che introduce, quale elemento di assoluta novità rispetto al passato, la punizione anche del soggetto privato che subisce l’induzione, prestandovi acquiescenza.
Occorre quindi affrontare, nell’ottica di una corretta applicazione della nuova disciplina, il vero cuore del problema, che risiede proprio nella individuazione della linea di confine tra la costrizione e la induzione, termini questi impiegati pure nella formulazione della corrispondente normativa dei codici penali del 1889 e del 1930 e già oggetto di interventi esegetici della pregressa giurisprudenza, contraddistinti da una progressiva evoluzione dei relativi esiti interpretativi, con particolare riferimento al significato da allegare al verbo “indurre”, caratterizzato, a differenza del verbo “costringere”, da scarsa univocità semantica.

la linea di demarcazione tra costrizione e induzione
11.1. Nel vigore del Codice Zanardelli, il cui impianto era plasmato su quello del Codice penale toscano, il significato del verbo costringere designava l’abuso dei poteri del pubblico ufficiale, che faceva ricorso all’uso palese della violenza fisica o morale nei confronti del soggetto privato, per estorcergli denaro o altra utilità (art. 169).
Il verbo indurre, invece, quale espressione sempre dell’abuso dei poteri, veniva inteso nel senso di “circonvenire”, designava cioè la sola induzione in errore del privato, ingannato nel ritenere dovuta la prestazione richiestagli laddove in realtà non lo era (art. 170).
Nessuna incertezza interpretativa è rinvenibile nella giurisprudenza dell’epoca zanardelliana (soltanto qualche perplessità in dottrina) circa gli unici due modi attraverso i quali si realizzava l’iniuria insita negli illeciti considerati: aut vi aut fraude.

11.2. Con l’entrata in vigore del Codice Rocco, le condotte di costrizione e di induzione venivano, come si è detto, unificate in un’unica disposizione ed equiparate quoad poenam, in coerenza con l’obiettivo di politica criminale del tempo, orientata da una rafforzata visione del prestigio della pubblica amministrazione.
Si chiariva, infatti, nella Relazione sul progetto definitivo del codice del 1930 che «… l’indurre ha una gravità non minore del costringere. La induzione deve per necessità consistere nel trarre taluno in inganno circa l’obbligo, che egli abbia, di dare o promettere, o nel condizionare la prestazione della propria attività ad una indebita remunerazione. In ogni caso, la volontà dell’offeso cede all’uso dei mezzi, che intrinsecamente sono non meno efficaci e odiosi di una costrizione morale».
Le prime applicazioni della norma (art. 317 c.p.), che unificava ed equiparava le due forme di concussione, non si discostavano dalla interpretazione già maturata in ordine alle corrispondenti previsioni del codice del Regno d’Italia.
L’equiparazione delle due condotte, però, favoriva, col trascorrere del tempo e con lo smarrirsi delle radici del concetto di induzione, una interpretazione estensiva del medesimo, riconducendolo sostanzialmente al nucleo di quello di costrizione, dal quale si differenziava soltanto per la minore quantità di pressione psicologica esercitata dal soggetto pubblico sulla vittima, comunque consapevole della prevaricazione subita ad opera del primo.
Il diritto vivente formatosi nella vigenza della “unitaria” fattispecie concussiva non aveva mancato comunque di definire, sia pure senza particolari approfondimenti, i concetti di costrizione e di induzione e di individuarne le differenze, facendo leva sulle modalità della condotta posta in essere dall’agente pubblico per il conseguimento del risultato illecito e sul conseguente grado di coartazione morale determinato nel soggetto privato, che veniva a trovarsi sempre nella posizione di vittima, tanto se costretto quanto se indotto.
Entrambe tali forme di pressione – si sottolineava – finiscono con l’incidere sul processo volitivo e, quindi, sulle conseguenti determinazioni del destinatario della richiesta indebita.
La costrizione, però, presuppone una maggiore carica intimidatoria, una più perentoria iniziativa del funzionario pubblico finalizzata alla coartazione psichica dell’altrui volontà, sì da porre l’interlocutore di fronte ad un aut-aut, da non lasciargli alcun significativo margine di scelta e dall’obbligarlo sostanzialmente alla dazione o alla promessa dell’indebito (voluit quia coactus).
L’induzione invece designa una più sfumata azione di pressione dell’agente pubblico sull’altrui volontà e si concretizza, oltre che nell’inganno, in forme di suggestione o di persuasione ovvero di più blanda pressione morale, sì da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione, un più ampio margine di scelta in ordine alla possibilità di soddisfare (coactus tamen voluit) o non la richiesta d’indebito (Sez. 6, n. 25694 dell’11/01/2011, De Laura, RV 250468; Sez. 6, n. 33843 del 19/06/2008, Lonardo, RV 240795; Sez. 6, n. 49538 dell’01/10/2003, Bertolotti, RV 228368; Sez. 6, n. 14353 del 14/11/2002, dep. 27/03/2003, De Luca, RV 226426; Sez. 6, n. 52 dell’08/11/2002, dep. 08/01/2003, D’Aveta, RV 222971; Sez. 6, n. 4073 del 16/02/1999, Novembrino, RV 214152; Sez. 6, n. 11258 del 05/10/1998, Sacco, RV 211745; Sez. 6, n. 5569 del 25/02/1998, Pera, RV 210526; Sez. 2, n. 2809 dell’01/12/1995, dep. 16/03/1996, Russo, RV 204363; Sez. 6, n. 2985 del 22/10/1993, Fedele, RV 196049; Sez. 6, n. 2972 del 10/10/1979, dep. 03/03/1980, Biagetti, RV 144524).
Tale criterio distintivo, basato sulle differenti modalità espressive della prevaricazione concussiva, appariva – da solo – certamente soddisfacente in un sistema nel quale la fattispecie unitaria di cui al previgente art. 317 c.p., si atteggiava come “mista alternativa”, nel senso che era indifferentemente integrata da condotta costrittiva o induttiva. A questa sostanziale parificazione del disvalore delle due condotte faceva da riscontro l’identico trattamento sanzionatorio edittalmente previsto.
Il criterio utilizzato aveva – peraltro – una valenza essenzialmente teorica, con scarsi riflessi pragmatici, e poteva rilevare tutt’al più ai soli fini di apprezzare e valutare in concreto la maggiore o minore gravità della condotta del soggetto pubblico, il solo punibile, e di calibrare conseguentemente la misura della pena sulla base degli elementi tipizzatori di cui all’art. 133 c.p.
Ciò è tanto vero che la prassi giudiziaria, di fronte all’equiparazione normativa delle due condotte alternative, utilizzava in modo fungibile i due termini e, nelle contestazioni del fatto illecito, si faceva frequentemente ricorso alla figura retorica dell’endiadi, secondo formulazioni del tipo: “costringeva o comunque induceva” ovvero “costringendo… induceva”.

11.3. Nel contesto del nuovo assetto normativo introdotto dalla legge n. 190 del 2012, però, gli approdi cui era pervenuta la pregressa giurisprudenza per distinguere la costrizione dalla induzione, integranti – all’epoca – la medesima fattispecie unitaria, mostrano tutti i loro limiti e non sono idonei – da soli – a tracciare, in modo chiaro ed esaustivo, la linea di confine tra gli artt. 317 e 319-quater c.p., le cui previsioni incriminatrici sono ben distinte, perché differente è il trattamento sanzionatorio riservato all’agente pubblico; perché il soggetto privato continua a rivestire il ruolo di “vittima” nella concussione, mentre assume – ed è questo l’aspetto più innovativo – quello di “concorrente” nella induzione indebita e viene quindi ritenuto meritevole di sanzione penale; perché i beni giuridici tutelati dalle due nuove norme non sono integralmente sovrapponibili, essendo la figura delittuosa di cui all’art. 317 c.p., caratterizzata da una dimensione plurioffensiva (aggressione all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione, nonché alla libertà di autodeterminazione e al patrimonio del privato), laddove il reato di cui all’art. 319-quater c.p., ha natura monoffensiva, presidia soltanto il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e si pone, pertanto, in una dimensione esclusivamente pubblicistica.

12. S’impone quindi una più attenta operazione ermeneutica, finalizzata a definire, in maniera più netta e precisa, la linea di demarcazione tra le due condotte dell’agente pubblico, comunque penalmente rilevanti sia prima che dopo l’entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, senza quindi alcun problema, come più diffusamente si preciserà in seguito, di possibile vuoto sanzionatorio.
Pur condividendosi le nozioni di base di costrizione e di induzione, elaborate dalla pregressa giurisprudenza e imperniate sulla maggiore o minore gravità della pressione psichica esercitata sul privato, è necessario ampliare l’angolo di osservazione, al fine di individuare, per quanto possibile, un più affidabile ed oggettivo criterio discretivo tra le due condotte, non trascurando di considerare che quella induttiva postula – alla luce della novella del 2012 – il concorso necessario del soggetto privato.
Tale criterio non può essere affidato esclusivamente alla ricostruzione del formale atteggiamento soggettivo delle parti, vale a dire alle modalità espressive dell’abuso esercitato dall’intraneus e ai riflessi che queste modalità, di per sè, spiegano sulla psiche dell’extraneus. Non può avallarsi, in sostanza, un’opzione interpretativa che, basata su nozioni generiche e con elevato tasso di indeterminatezza, è disattenta nel cogliere i dati di fatto oggettivi, dotati di maggiore tipicità, che attribuiscono concretezza probatoria alle medesime nozioni.
E’ necessario, invece, polarizzare l’attenzione sugli aspetti contenutistici di quanto il pubblico agente prospetta al soggetto privato e quindi sugli effetti che a quest’ultimo derivano o possono derivare in termini di danno o di vantaggio, ove non aderisca alla richiesta alternativa di dazione o promessa di denaro o di altra utilità.
La maggiore o minore gravità della pressione, quindi, deve essere apprezzata in funzione, più che della forma in cui viene espressa, del suo contenuto sostanziale, il solo idoneo ad evidenziarne oggettivamente la natura costrittiva o induttiva, a valutare la qualità della scelta davanti alla quale l’extraneus viene posto e a consentire conseguentemente il corretto inquadramento della vicenda.

13. La scelta del legislatore del 2012 di circoscrivere il delitto di concussione alla sola condotta di costrizione posta in essere, con abuso della qualità o dei poteri, dal pubblico ufficiale è derivata dall’esigenza di contenere, in linea con le sollecitazioni internazionali, l’eccessiva dilatazione che del concetto di induzione era stata fatta nella prassi applicativa, sino quasi a smarrire i confini rispetto alla corruzione, e di conferire conseguentemente piena autonomia al concetto di costrizione, non più considerato alternativo al primo.
La condotta induttiva, in quanto inserita nella struttura della nuova fattispecie, normativamente plurisoggettiva, di cui all’art. 319-quater c.p., ha assunto anch’essa una sua autonoma valenza.
Si è rimossa, in sostanza, la vecchia previsione di rimandare, per la configurabilità della concussione, a modalità comportamentali differenziate ma alternative e fungibili tra loro e, per ciò, soggette edittalmente allo stesso trattamento sanzionatorio.

La costrizione nella concussione

13.1. Il verbo “costringe” utilizzato nell’art. 317 c.p., non pone seri dubbi interpretativi e, benché indichi il risultato della condotta del pubblico ufficiale, svolge – all’evidenza – anche una funzione tipizzante della condotta medesima, in quanto evoca comunque modalità di comportamento che, pur non esplicitate, a differenza di quanto avviene – ad esempio – per i reati di violenza privata (art. 610 c.p.) o di estorsione (art. 629 c.p.), sono intuitivamente classificabili sotto il profilo criminologico.
La costrizione indica, in via generale, una “eterodeterminazione” dell’altrui volontà, nel senso che si obbliga taluno a compiere un’azione che altrimenti non sarebbe stata compiuta o ad astenersi dal compiere un’azione che altrimenti sarebbe stata compiuta.
Più in particolare, il significato che il termine “costrizione” assume nella fattispecie di cui all’art. 317 c.p., non va inteso in senso meramente naturalistico, anche se ovviamente tale aspetto conserva comunque una sua valenza, ma va ricavato, stante il silenzio della disposizione codicistica, dal sistema normativo, vale a dire dai principi fondamentali del diritto penale e dai principi e valori costituzionali (artt. 54 e 97 Cost.) che devono guidare, in uno Stato democratico, i doveri dei pubblici ufficiali ed informare i rapporti tra costoro e i cittadini.
Deve rilevarsi che la richiamata norma incriminatrice istituisce uno stretto collegamento funzionale tra l’esito della coazione e l’abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico ufficiale e denuncia correlazioni con il delitto di estorsione aggravata ex art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9, con l’effetto che la costrizione va intesa come costrizione psichica relativa (vis compulsiva), in quanto, mediante la condotta abusiva, si pone la vittima di fronte all’alternativa secca di aderire all’indebita richiesta oppure di subire le conseguenze negative di un suo rifiuto, restringendo così notevolmente, senza tuttavia annullarlo, il potere di autodeterminazione del soggetto privato.
La vis absoluta, invece, rendendo il soggetto passivo strumento nelle mani del soggetto attivo, determina il totale annullamento del potere di autodeterminazione del primo (non agit sed agitur), non può essere considerata espressione dell’abuso, al quale è collegata – al più – da un nesso di mera occasionalità, e non può integrare, pertanto, il delitto di concussione ma altra figura criminosa, quale la rapina (si pensi al poliziotto che con la pistola di ordinanza costringe la vittima a consegnargli il portafoglio).
La fattispecie di cui all’art. 317 c.p., è caratterizzata, come si è innanzi precisato, più che dalla costrizione in quanto tale, dall’abuso costrittivo, nel quale, pur mancando nella citata norma una esplicita menzione, è implicito il riferimento, quale tipico mezzo di coazione particolarmente insidioso e p carico di disvalore, alla violenza o, più frequentemente, alla minaccia, uniche modalità realmente idonee ad “obbligare” il soggetto passivo a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto.
Non può ignorarsi che speculare al delitto di concussione, con protagonisti in posizione invertita, è quello di cui all’art. 336 c.p., che punisce “Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale…, per costringerlo…”. In tale norma, come si vede, sono espressamente indicate le modalità della condotta finalizzata alla costrizione.

13.2. La violenza è concepibile come mezzo di realizzazione del reato in esame nell’ipotesi in cui il soggetto attivo disponga di poteri di contenzione o di immobilizzazione (si pensi alle forze di polizia), ipotesi questa – in verità – di rara attuazione, come dimostra la copiosa casistica giurisprudenziale relativa a fatti di concussione realizzati normalmente con minacce.
Del resto, ove, facendo ricorso alla violenza, questa cagioni l’effetto di ottenere dalla vittima quanto impostole senza annullarne del tutto la libertà di autodeterminazione (vis compulsiva), tale modalità di condotta tende, nel reato di cui all’art. 317 c.p., a confondersi per lo più con una minaccia particolarmente efficace, esercitata – per così dire – in re e non in verbis.

13.3. La minaccia è presente nel nostro ordinamento in due modelli: minaccia – fine e minaccia – mezzo.
La prima è sanzionata penalmente e civilmente dall’ordinamento per l’offesa che reca, a prescindere da un eventuale effetto di coartazione della vittima, all’integrità psichica della medesima: il riferimento è all’art. 612 c.p., e all’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c.
La seconda, detta anche minaccia condizionante, è una tipica modalità della condotta che l’ordinamento valuta negativamente non soltanto per l’offesa all’integrità psichica, ma anche e soprattutto per l’offesa alla libertà di autodeterminazione del destinatario, la cui volontà è coartata dalla intimidazione che subisce.
In questa seconda variante deve essere inquadrata quella minaccia che assume rilievo, nel settore penale, quale tipica modalità della condotta comune a diverse figure di reato (ad es., violenza privata, estorsione, violenza sessuale e, per quanto qui si sostiene, concussione) e, nel settore civile, quale vizio del consenso e causa di annullamento del contratto e dei negozi giuridici in genere.
L’autore della minaccia condizionante prospetta alla vittima un’alternativa secca:
sottomettersi alla volontà del minacciante o subire il male indicato, il che realizza la coercizione.
E’ necessario però cogliere la reale dimensione offensiva della minaccia, ritenuta da sempre, accanto alla violenza da cui trae origine, tipico strumento di coazione, vale a dire forma di sopraffazione prepotente, aggressiva ed intollerabile socialmente, la quale incide sull’altrui psiche e sull’altrui libertà di autodeterminazione (vis moralis animo illata).
S’impone quindi di definire, sulla base del diritto positivo, i contorni del concetto giuridico di minaccia, per porre un argine ad interpretazioni troppo estensive e per non correre il rischio, nella prospettiva penalistica che qui interessa, di eludere il principio di tipicità.

13.4. A differenza della violenza, che contiene già di per sé un male, l’essenza della minaccia, quale forma di violenza morale, risiede nella prospettazione ad altri di un male futuro ed ingiusto, che è nel dominio dell’agente realizzare.
La dottrina più recente, nel lodevole tentativo di individuare una nozione unitaria di minaccia, che spiega una funzione selettiva della modalità della condotta, ha evidenziato che l’art. 1435 c.c., definisce i “caratteri della violenza”, stabilendo testualmente che questa “deve essere di tal natura da fare impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sè o i suoi beni a un male ingiusto e notevole”.
Per “male” deve intendersi, argomentando a contrario dall’art. 1322 c.c., comma 2, la lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. La violenza, quale vizio del consenso che invalida il contratto, quindi, è la minaccia di un male ingiusto.
Nel codice penale, pur mancando una norma che, analogamente all’art. 1435 c.c., offra una definizione legale del concetto di minaccia, assume certamente rilievo la norma incriminatrice della minaccia-fine (art. 612 c.p.), il cui oggetto è individuato in “un ingiusto danno” e non v’è alcuna ragione giuridicamente plausibile per ritenere che questo sia estraneo alla minaccia-mezzo. La circostanza, poi, che la norma penale parli di “danno” e non di “male” non altera, in sostanza, l’identità dell’oggetto della minaccia rilevante sia ai fini della responsabilità civile che di quella penale.
Il male ingiusto evocato dall’art. 1435 c.c., determina infatti, se realizzato, un danno ingiusto rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c., e, quindi, dell’art. 612 c.p..
Il danno oggetto della minaccia, per essere ingiusto in senso giuridico, deve essere contra ius, vale a dire contrario alla norma giuridica e lesivo di un interesse personale o patrimoniale della vittima riconosciuto dall’ordinamento. Il parametro sulla base del quale deve valutarsi l’ingiustizia del danno deve essere oggettivo, così come chiaramente si evince dalle richiamate disposizioni del codice civile e del codice penale, le quali evocano l’ingiustizia come attributo del male o del danno minacciato.
Il danno ingiusto concretamente può assumere varie forme: perdita di un bene legittimamente acquisito; mancata acquisizione di un bene a cui si ha diritto; omessa adozione di un provvedimento vincolato favorevole; anche ingiusta lesione di un interesse legittimo (si pensi all’arbitraria ed ingiustificata esclusione da una gara pubblica di appalto).
Soltanto così intesa, si è osservato in dottrina, “la minaccia può reggere il parallelo con la violenza che di per sé implica un male, quale strumento alternativo di coazione”.
Il concetto giuridico di minaccia, pertanto, deve essere circoscritto all’annuncio da parte dell’agente di un male o danno ingiusto, vale a dire di un sopruso, di un illecito che abbia idoneità ad incutere timore, paura in chi lo percepisce, sì da pregiudicarne l’integrità del benessere psichico e la libertà di autodeterminazione.
E’ il caso di precisare che la minaccia non necessariamente deve concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali, ma potrà essere anche implicita (si pensi ai casi di ostruzionismo a mezzo del quale il soggetto attivo fa comprendere che solo con la dazione o con la promessa dell’indebito una richiesta legittima del privato potrà essere esaudita), velata, allusiva, più blanda ed assumere finanche la forma del consiglio, dell’esortazione, della metafora, purché tali comportamenti evidenzino, in modo chiaro, una carica intimidatoria analoga alla minaccia esplicita, vi sia cioè una “esteriorizzazione” della minaccia, pur implicita o sintomatica, come forma di condotta positiva.
E’ un dato ormai acquisito anche dagli approdi giurisprudenziali in tema di estorsione quello secondo il quale la minaccia estorsiva deve ravvisarsi anche nell’ipotesi in cui assuma toni apparentemente “morbidi” e “concilianti”, quando sia comunque idonea ad incutere timore nella persona offesa in relazione a tutte le circostanze del caso concreto e alla personalità dell’agente (Sez. 2, n. 19724 del 20/05/2010, Pistoiesi, RV 247117; Sez. 5, n. 41507 del 22/09/2009, Basile, RV 245431; Sez. 2, n. 37526 del 16/09/2004, Giorgetti, RV 229727). Ne consegue che la minaccia, anche se espressivamente meno brutale, rilevante per l’estorsione non può non esserlo anche in relazione al reato di concussione, che è una forma di estorsione qualificata.

13.5. A superamento di ogni dubbio interpretativo e semantico, la modalità costrittiva rilevante nel delitto di concussione va enucleata dalla combinazione dei comportamenti tenuti dall’intraneus, con il risultato che i medesimi producono, e trova la sua genesi nell’abuso della qualità o dei poteri.
E’ il contenuto di tale abuso, che si concretizza, al di là del dato formale, nel prospettare alla vittima un danno ingiusto contra ius), a integrare la costrizione ed a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sa non essere dovuta (certat de damno vitando).
Una simile situazione intuitivamente giustifica, in base ai valori e ai principi che ispirano l’ordinamento penale, il ruolo di vittima che la parte esterna all’amministrazione assume: in uno Stato democratico di diritto, infatti, non può pretendersi che i cittadini ingiustamente prevaricati e coartati dai detentori dei pubblici poteri sprigionino risorse inesigibili di resistenza, per scongiurare la deviazione dell’attività amministrativa dalle finalità di imparzialità e di corretto funzionamento che devono guidarla.
Deve rimanere estranea alla sfera psichica e alla spinta motivante dell’extraneus qualsiasi scopo determinante di vantaggio indebito, considerato che, in caso contrario, il predetto non può essere ritenuto vittima agli effetti dell’art. 317 c.p., perché finisce per perseguire, con la promessa o con il versamento dell’indebito, un proprio tornaconto, divenendo co-protagonista della vicenda illecita.
Antigiuridicità del danno prospettato dal pubblico ufficiale ed assenza di un movente opportunistico di vantaggio indebito per il privato sono i parametri di valutazione che denunciano lo “stato di costrizione” ex art. 317 c.p.

13.6. Va aggiunto, inoltre, che il metus publicae potestatis, da sempre ritenuto elemento trainante della concussione, malgrado non positivizzato all’interno della norma, finisce per tipizzare, sia pure indirettamente, la fattispecie concussiva.
Va tuttavia chiarito che il timore del privato verso la publica potestas a causa della posizione di supremazia dell’intraneus non integra un elemento strutturale dell’illecito, ma rappresenta la manifestazione dello stato di soggezione psicologica della vittima come l’altra faccia dell’abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico agente, il che nulla aggiunge alla struttura del reato così come innanzi delineata.
Il metus, in definitiva, è l’espressione dell’oggettivo e stringente condizionamento della libertà di determinazione del soggetto passivo, il quale, per il timore del danno ingiusto minacciato dal pubblico ufficiale, è deprivato di ogni capacità di resistenza ed è costretto a soccombere – senza alcuna sostanziale alternativa – di fronte alla indebita pretesa di quest’ultimo.

13.7. In questo contesto si giustifica il riferimento esclusivo al pubblico ufficiale, il solo rientrante, secondo la visione del legislatore del 2012, nella categoria di soggetti detentori di poteri realmente autoritativi e costrittivi.
Tale scelta limitativa dell’aspetto soggettivo rispetto alla previsione più ampia della L. n. 86 del 1990 (che prevedeva anche l’incaricato di pubblico servizio) rappresenta un ritorno alla formulazione adottata dal legislatore del 1930 e desta, invero, qualche perplessità, considerato che la concussione, vista da parte della vittima, è prevaricazione e questa ben può essere posta in essere anche dall’incaricato di un pubblico servizio, il quale, pur privo di poteri autoritativi, può comunque attuare, nell’odierna realtà variegata della pubblica amministrazione e con l’esponenziale sviluppo dei servizi pubblici, condotte costrittive tali da ingenerare uno stato di integrale soggezione del privato.
La scelta di escludere che soggetto attivo del reato in esame possa essere anche l’incaricato di pubblico servizio comporta che la costrizione da costui eventualmente realizzata non può che essere ricondotta, ove ne ricorrano i presupposti, nel paradigma della estorsione aggravata di cui all’art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9, cui si accompagnano però rilevanti effetti in tema di consumazione (la concussione si consuma anche con la sola promessa dell’utilità, l’estorsione esclusivamente con la realizzazione del profitto) e di trattamento sanzionatorio, potenzialmente più elevato rispetto a quello riservato al pubblico ufficiale concussore. L’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio, come si preciserà in seguito, può anche integrare, se difettano gli estremi del richiamato reato contro il patrimonio, altre fattispecie criminose.

13.8. In sintesi: la costrizione evoca una condotta di violenza o di minaccia.
La minaccia, in particolare, quale vis compulsiva, ingenera ab extrinseco il timore di un male contra ius, per scongiurare il quale il destinatario finisce con l’aderire alla richiesta dell’indebita dazione o promessa.
E’ in tal senso che deve essere intesa la nozione di minaccia, tendenzialmente unitaria all’interno dell’intero ordinamento giuridico, considerato che la stessa per definizione, sia sotto il profilo civilistico (art. 1435 c.c.) che sotto quello penalistico (art. 612 c.p.), aggredisce la persona e ne offende l’interesse all’integrità psichica e alla libertà di autodeterminazione.
La minaccia, quindi, quale modalità dell’abuso costrittivo di cui all’art. 317 c.p., presuppone sempre un autore e una vittima, il che spiega il ruolo di vittima che assume il concusso.

L’induzione nel reato di cui all’art. 319-quater

14. Quanto al reato di cui all’art. 319-quater c.p., si pone il problema di chiarire il significato del termine “induce” in esso presente, sì da tracciare la linea di confine tra tale fattispecie e il delitto di concussione.

14.1. Il concetto di induzione, per la sua polivalenza semantica e per la sua connotazione eclettica, è spendibile certamente come “condotta-evento”, in quanto idoneo a descrivere sia comportamenti profondamente diversi tra loro, la cui specificazione non sempre è contenuta nelle singole fattispecie, sia il risultato dei medesimi comportamenti.
Deve rilevarsi, infatti, che il nostro codice prevede fattispecie di reato che disciplinano casi di induzione “semplice”, in cui cioè il termine compare in modo esclusivo (art. 600 bis c.p., comma 1, n. 1, art. 600 ter c.p., comma 1, n. 2), e casi di induzione “combinata”, nei quali si descrivono determinate modalità di comportamento che caratterizzano l’induzione in vario modo: quella “abusiva”, in quanto espressione dell’abuso di poteri o qualità (art. 319-quater c.p.) ovvero dell’abuso delle altrui condizioni di inferiorità fisica o psichica (art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1); quella “fraudolenta”, incentrata sull’inganno e sull’effetto di errore (artt. 494, 558, 601 e 640 c.p., art. 609 bis c.p., comma 2, n. 2); quella “corruttiva”, attuata mediante offerta o promessa di denaro o di altra utilità (art. 322 c.p., comma 2, artt. 377 e 377 bis c.p.); quella “violenta”, che si realizza con violenza o minaccia (art. 377 bis c.p.).
E’ agevole constatare che il termine “induzione” connota, all’interno delle varie disposizioni incriminatrici, condotte profondamente diverse tra loro, le cui modalità sono specificate, nella maggior parte dei casi, a livello di singola fattispecie, anche se non sempre sono coerenti con il significato comunemente attribuito al termine: si pensi alla c.d. induzione “violenta”, che più propriamente va ricondotta nell’alveo della costrizione.
Le diverse ipotesi tracciate dal legislatore sono, tuttavia, accomunate, ove si eccettui la induzione “impropria” (recte costrizione), da uno stesso risultato: quello induttivo, che, secondo il linguaggio comune, si differenzia da quello costrittivo per il diverso e più tenue valore condizionante che spiega, in termini di comunicazione non solo espressiva ma contenutistica, sull’altrui sfera psichica.

14.2. Ma al di là di tale affermazione generica e scarsamente designante, la nozione di induzione, alla quale il legislatore fa ampio ricorso come modello di condizionamento psichico, rimane contrassegnata, se isolatamente considerata, da margini di incertezza sul versante epistemologico prima ancora che su quello giuridico. Non può essere sottaciuto però che le disposizioni innanzi richiamate contemplano una condotta a forma non completamente libera, in quanto prevedono, in particolare nella induzione c.d. “combinata”, elementi di tipicità aggiuntivi che concorrono a chiarirne il significato e che non possono essere sottovalutati.
E’ necessario, pertanto, in aderenza al principio irrinunciabile di legalità e di certezza del diritto, individuare il significato preciso che la nozione assume all’interno della singola fattispecie incriminatrice, tenendo conto che comunque viene in rilievo una relazione intersoggettiva con connesso problema di causalità psichica.
La prospettiva è quella di pervenire ad un esito interpretativo che, a superamento della scarsa selezione tipizzatrice evincibile apparentemente dal dato normativo e senza provocare una tensione di questo sino al punto di rottura, garantisca il principio di determinatezza, considerato che, in caso i contrario, l’incriminazione affidata esclusivamente al concetto vago di induzione si esporrebbe ad evidenti censure di illegittimità costituzionale.

14.3. Con specifico riferimento al reato di cui all’art. 319-quater c.p., il verbo “indurre” spiega una funzione di selettività residuale rispetto al verbo “costringere” presente nell’art. 317 c.p., nel senso che copre quegli spazi non riferibili alla costrizione, vale a dire quei comportamenti del pubblico agente, pur sempre abusivi e penalmente rilevanti, che non si materializzano però nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il destinatario di essa di fronte alla scelta ineluttabile ed obbligata tra due mali parimenti ingiusti. Ciò trova riscontro nella clausola di riserva contenuta nell’art. 319-quater c.p., comma 1, il cui incipit testualmente recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”.
La funzione di questa clausola di progressività di disvalore, anche se di non agevole intelligibilità, non può che essere quella di fare riferimento – per il pubblico ufficiale – al reato di concussione e – per l’incaricato di pubblico servizio – eventualmente a quello di estorsione aggravata.
Il legislatore, infatti, seguendo una tecnica di codificazione alquanto approssimata, sembra essere stato ancora condizionato – nonostante la piena autonomia conferita, per i tratti peculiari che la caratterizzano, alla fattispecie delineata – dalla polivalenza semantica che la nozione di induzione, intesa in senso generico, assume, ricomprendendovi impropriamente sia condotte che determinano una costrizione, sia condotte che tale effetto non producono; ha inteso quindi, con la clausola di riserva, tracciare il confine che separa la condotta di induzione in senso proprio da quella di costrizione, sottolineando che la prima deve concretizzarsi in atteggiamenti non inquadrabili nella seconda.

14.4. La nozione di induzione, al pari di quella di costrizione, non va intesa in senso meramente naturalistico, ma ne va apprezzato il significato, senza porsi al di fuori del perimetro tracciato dal segno linguistico, anche e soprattutto sul versante normativo, utilizzando i parametri dell’abuso di qualità o di poteri da parte del pubblico funzionario e della prevista punibilità del soggetto privato.
E’ in base a tali coefficienti normativi che si deve cogliere, sul piano assiologico e su quello politico-criminale, la ratio della norma incriminatrice ed allegare conseguentemente al termine “induzione” il preciso significato di alterazione del processo volitivo altrui, che, pur condizionato da un rapporto comunicativo non paritario, conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l’ordinamento impone di attivare per resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere con costui nella conseguente lesione di interessi di importanza primaria, quali l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.
La previsione della punibilità del privato è il vero indice rivelatore del significato dell’induzione.
L’indotto è complice dell’induttore, il che non può non incidere, come è stato osservato in dottrina, “sulla dimensione teleologica della fattispecie, confinandone il raggio in ambito strettamente pubblicistico”.
Occorre orientare il fascio di luce, oltre che sulla condotta del pubblico agente, anche sugli effetti che si riverberano sulla volontà del privato e verificare se quest’ultima, nel suo processo formativo ed attuativo, sia stata “piegata” dall’altrui sopraffazione ovvero semplicemente “condizionata” od “orientata” da pressioni psichiche di vario genere, diverse però dalla violenza o dalla minaccia e prive del relativo carattere aggressivo e coartante: nel primo caso, è integrato il paradigma della concussione; nel secondo, quello della induzione indebita.
La minaccia (o la violenza nei limiti più sopra precisati) evocata dal concetto di costrizione è modalità della condotta tipica della concussione ed è estranea alla induzione indebita.
Il concetto di minaccia, come già precisato, presuppone un autore e una vittima e mai nell’ordinamento penale – rilievo che, di per sè, ha carattere dirimente – il destinatario di una minaccia, intesa in senso tecnico-giuridico, è considerato un correo. L’ordinamento anzi, con la disposizione di cui all’art. 54 c.p., comma 3, che qui si richiama solo per assimilazione alla coazione morale, esclude che colui che commette un reato nello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia possa rivestire il ruolo di concorrente nell’illecito. Argomentando a contrario, dove non vi è vittima non può esservi per definizione minaccia.
Ed allora, il criterio discretivo tra il concetto di costrizione e quello di induzione, più che essere affidato alla dicotomia male ingiusto-male giusto (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, dep. 2013, Roscia, cit.), la quale può creare, come si preciserà in seguito, qualche equivoco interpretativo, deve essere ricercato nella dicotomia minaccia-non minaccia, che è l’altro lato della medaglia rispetto alla dicotomia costrizione-induzione, evincibile dal dato normativo.

14.5. Le modalità della condotta induttiva, pertanto, non possono che concretizzarsi nella persuasione, nella suggestione, nell’allusione, nel silenzio, nell’inganno (sempre che quest’ultimo non verta sulla doverosità della dazione o della promessa, del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio;
diversamente, si configurerebbe il reato di truffa), anche variamente e opportunamente collegati e combinati tra di loro, purché tali atteggiamenti non si risolvano nella minaccia implicita, da parte del pubblico agente, di un danno antigiuridico, senza alcun vantaggio indebito per l’extraneus.
E’ proprio il vantaggio indebito che, al pari della minaccia tipizzante la concussione, assurge al rango di “criterio di essenza” della fattispecie induttiva, il che giustifica, in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e con i valori costituzionali (colpevolezza, pretesa punitiva dello Stato, proporzione e ragionevolezza), la punibilità dell’indotto.
Da costui, non vittima di costrizione, è certamente esigibile il dovere di resistere alla pressione induttiva dell’intraneus, considerato che l’obiettivo primario perseguito dalla norma in esame, come si è sottolineato in dottrina, è quello di “disincentivare forme di sfruttamento opportunistico della relazione viziata dall’abuso della controparte pubblica” e di lanciare, quindi, un chiaro messaggio sull’illiceità del pagare pubblici funzionari, salvo il caso di costrizione scriminante.
L’extraneus riceve una spinta motivante di natura utilitaristica e, ponendosi nella prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, si determina coscientemente e volontariamente alla promessa o alla dazione dell’indebito.
In sostanza, nel percorrere una linea ermeneutica costituzionalmente orientata, è necessario farsi guidare dall’esigenza, imposta dall’art. 27 Cost., comma 1, di giustificare la punibilità del privato per il disvalore insito nella condotta posta in essere, disvalore ravvisabile, più che nella mancata resistenza all’abuso esercitato dal pubblico agente (aspetto, questo, “derivato”), soprattutto nel fatto di avere approfittato di tale abuso per perseguire un proprio vantaggio ingiusto.
A questo criterio designante fa riferimento, in tema di corruzione internazionale, anche l’art. 322 bis c.p., comma 2, n. 2, che, richiamando espressamente l’art. 319-quater c.p., comma 2, prevede la punibilità del privato che da o promette denaro o altra utilità a pubblici ufficiali o a incaricati di pubblico servizio stranieri o appartenenti a organizzazioni internazionali, sempre che il fatto sia commesso “per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali ovvero al fine di ottenere o di mantenere un’attività economica o finanziaria”.
La tipicità della fattispecie induttiva è quindi integrata dai seguenti elementi:
1) l’abuso prevaricatore del pubblico agente;
2) il fine determinante di vantaggio indebito dell’extraneus.

14.6. Conclusivamente, il funzionario pubblico, ponendo in essere l’abuso induttivo, opera comunque da una posizione di forza e sfrutta la situazione di debolezza psicologica del privato, il quale presta acquiescenza alla richiesta non certo per evitare un danno contra ius, ma con l’evidente finalità di conseguire un vantaggio indebito (certat de lucro captando).
Mutuando una felice espressione di autorevole dottrina, può affermarsi che l’induzione “non costringe ma convince”.
Il soggetto privato cede alla richiesta del pubblico agente non perché coartato e vittima del metus nella sua espressione più forte, ma nell’ottica di trarre un indebito vantaggio per sé (scongiurare una denuncia, un sequestro, un arresto legittimi; assicurarsi comunque un trattamento di favore), attivando così una dinamica completamente diversa da quella che contraddistingue il rapporto tra concussore e concusso e ponendosi, pur nell’ambito di un rapporto intersoggettivo asimmetrico, in una logica negoziale, che è assimilabile a quella corruttiva – sintomatica la collocazione topografica dell’art. 319-quater c.p., in calce ai delitti di corruzione – e conduce, se non ad escludere, quanto meno ad attenuare notevolmente anche il metus publicae potestatis, concettualmente poco conciliabile con la scelta opportunistica ed avvertito solo come oggettiva “soggezione” alla posizione di preminenza del funzionario pubblico.
L’induzione indebita a dare o promettere utilità si colloca figurativamente in una posizione intermedia tra la condotta sopraffattrice, propria della concussione, e lo scambio corruttivo, quasi a superamento del cosiddetto canone della mutua esclusività di questi due illeciti. La fattispecie di cui all’art. 319-quater c.p., infatti, sembrerebbe configurarsi, con riferimento al soggetto pubblico, come una “concussione attenuata” e, con riferimento al soggetto privato, come una “corruzione mitigata dall’induzione”, ma, in realtà, non tradisce la sua peculiare specificità unitaria di reato plurisoggettivo a concorso necessario, stante la previsione, per l’integrazione dello stesso, della combinazione sinergica delle condotte delle due parti protagoniste.
Il legislatore del 2012 ha inteso soltanto dare autonomo rilievo a situazioni che si pongono a metà strada tra i due estremi e di calibrarne il regime sanzionatorio, anche se, in relazione a quest’ultimo aspetto, si colgono una qualche approssimazione ed una conseguente scarsa coerenza della riforma, aspetti questi ai quali è auspicabile che lo stesso legislatore ponga rimedio, prevenendo l’eventuale intervento sussidiario del Giudice delle leggi.

Il “danno ingiusto” è elemento costitutivo implicito della condotta costrittiva di cui all’art. 317 c.p. – il “vantaggio indebito” + elemento costitutivo implicito della condotta induttiva di cui all’art. 319-quater
15. Il “danno ingiusto” e il “vantaggio indebito”, quali elementi costitutivi impliciti rispettivamente della condotta costrittiva di cui all’art. 317 c.p., e di quella induttiva di cui all’art. 319-quater c.p., devono essere apprezzati con approccio oggettivistico, il quale, però, deve necessariamente coniugarsi con la valutazione della proiezione di tali elementi nella sfera conoscitiva e volitiva delle parti. L’accertamento cioè non può prescindere dalla verifica del necessario intreccio tra gli elementi oggettivi di prospettazione e quelli soggettivi di percezione, per evitare che la prova si fondi su meri dati presuntivi.
Ed invero, la netta differenza, normativamente delineata, tra la posizione del concusso, che è vittima del reato, e quella dell’indotto, che concorre nel reato, impone l’indagine sulle spinte motivanti che hanno sorretto, in particolare, la condotta di tali soggetti. Proprio da tale condotta è agevole partire, per stabilire sussistenza e natura del condizionamento psichico subito e ricostruire, sulla base dell’elemento oggettivo del danno ingiusto o del vantaggio indebito, il rapporto intersoggettivo tra i protagonisti.
Si consideri che destinatario dell’abuso costrittivo o di quello induttivo può essere, oltre al soggetto privato, anche un soggetto titolare di una qualifica di natura pubblicistica, con l’effetto che l’intrinseca potenzialità coattiva o persuasiva della condotta abusiva non può che essere apprezzata in correlazione con la peculiare posizione rivestita da quest’ultimo.

Casi ambigui in cui il criterio del danno-vantaggio non consente, se isolatamente considerato, di individuare il reale disvalore di vicende
16. Devesi, tuttavia, rilevare che il percorso argomentativo sin qui sviluppato nel tracciare il discrimen tra i concetti di costrizione e di induzione è certamente fruibile, senza alcuna difficoltà, in quei casi in cui la situazione di fatto non evidenzia incertezze di sorta, nel senso che appare chiaro, sul piano probatorio, l’effetto perentoriamente coartante ovvero quello persuasivo che l’abuso del pubblico agente cagiona sulla libertà di autodeterminazione della controparte.
Non possono però sottovalutarsi casi più ambigui, border line, che si collocano al confine tra concussione e induzione indebita, per i quali non sempre è agevole affidarsi, quasi in automatico, al modello interpretativo qui privilegiato.
Nel settore in esame, la realtà empirica è molto variegata, in quanto caratterizzata da situazioni relazionali che, proprio perché maturano in contesti tendenzialmente propensi all’illegalità, presentano aspetti di ambiguità e di opacità.
In tali casi, il giudice dovrà procedere, innanzi tutto, alla esatta ricostruzione in fatto della vicenda portata alla sua cognizione, cogliendone gli aspetti più qualificanti, e quindi al corretto inquadramento nella norma incriminatrice di riferimento, lasciandosi guidare, alla luce comunque dei parametri rivelatori dell’abuso costrittivo o di quello induttivo, verso la soluzione applicativa più giusta.
Tali parametri (danno contra ius e vantaggio indebito) possono trovare entrambi riscontro in una determinata situazione fattuale o evidenziare, se isolatamente considerati, una scarsa valenza interpretativa, sicché, onde evitare soluzioni confuse, devono essere apprezzati, come si è sottolineato in dottrina, non nella loro staticità, ma nella loro operatività dinamica, enucleando, sulla base di una valutazione approfondita ed equilibrata del fatto, il dato di maggiore significatività.
A maggior chiarimento di quanto affermato, s’impone una riflessione sui casi più problematici, qui di seguito esemplificati.

17. Si pensi all’abuso di qualità, in cui il pubblico funzionario fa pesare, per conseguire la dazione o la promessa dell’indebito, tutto il peso della sua posizione soggettiva, senza alcun riferimento al compimento di uno specifico atto del proprio ufficio o servizio.
L’abuso soggettivo, evidenziando indici di equivocità, si presta ad una duplice plausibile lettura, in quanto può porre il privato in una condizione di pressoché totale soggezione, determinata dal timore di possibili ritorsioni antigiuridiche, per evitare le quali finisce con l’assecondare la richiesta; ovvero può indurre il privato a dare o promettere l’indebito, per acquisire la benevolenza del pubblico agente, foriera potenzialmente di futuri favori, posto che il vantaggio indebito, sotto il profilo contenutistico, può consistere, oltre che in un beneficio determinato e specificamente individuato, anche in una generica “disponibilità clientelare” del pubblico agente.
Un esempio tratto dalla realtà è quello di un appartenente a una forza di polizia che, dopo avere consumato un pranzo con amici in un ristorante, facendo valere il suo status, pretenda di non pagare il conto o di saldarlo in maniera quasi simbolica.
In tal caso, è necessario contestualizzare la complessiva vicenda, apprezzare e valutare ogni particolare delle modalità comportamentali del pubblico ufficiale e del ristoratore, per stabilire se il primo abbia veicolato un univoco messaggio di sopraffazione verso il secondo, sì da porre quest’ultimo in una condizione di vera e propria coercizione (concussione), ovvero se tra i due interlocutori, nonostante la posizione di preminenza dell’uno sull’altro, si sia comunque instaurata una dialettica utilitaristica, eziologicamente rilevante sotto il profilo motivazionale (induzione indebita).

18. Problematica è anche la situazione che si verifica con la prospettazione implicita da parte del pubblico agente di un danno generico, messaggio che il destinatario, per autosuggestione o per metus ab intrinseco, può caricare di significati negativi, paventando di potere subire un’oggettiva ingiustizia.
Anche in questo caso non si può prescindere da una approfondita valutazione del concreto atteggiarsi dei ruoli delle parti nel contesto considerato, per inferirne la ricorrenza o meno di una effettiva prevaricazione costrittiva.
Il percorso valutativo, per ritenere la sussistenza di questa, deve tenere presente, in particolare, che quanto più il supposto danno è indeterminato tanto più l’intento intimidatorio del pubblico agente e i riflessi gravemente condizionanti – per metus ab extrinseco – l’autodeterminazione della controparte devono emergere in modo lampante, per potere pervenire ad un giudizio di responsabilità per concussione.

19. Vi sono poi situazioni, per così dire, “miste” o “ambivalenti”, di minaccia-offerta o minaccia-promessa.
Può accadere, infatti, che il pubblico agente non si sia limitato a minacciare un danno ingiusto (ad esempio, l’illegittima ed arbitraria esclusione da una gara d’appalto), ma abbia allettato contestualmente il suo interlocutore con la promessa di un vantaggio indebito (aggiudicazione certa dell’appalto pubblico a scapito dei concorrenti).
In questo caso, minaccia ed offerta si fondono in un’unica realtà inscindibile, che può essere fonte di una qualche difficoltà ermeneutica nell’inquadrare la vicenda nel paradigma dell’art. 317 c.p., o in quello dell’art. 319-quater c.p.
E’ necessario, nell’ipotesi data, accertare se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull’aspetto intimidatorio, sino al punto da vanificarne l’efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico. Ove la verifica dia esito positivo, è evidente che deve privilegiarsi la logica interpretativa del comune coinvolgimento dei protagonisti nell’illecito di cui all’art. 319-quater c.p.. In caso contrario, la marginalizzazione del vantaggio indebito rispetto al danno ingiusto minacciato, che finisce col sovrastare il primo, deve fare propendere per l’abuso concussivo.

19.1. Si immagini anche il caso in cui il funzionario pubblico subordini la tempestiva evasione di una legittima richiesta del cittadino al pagamento dell’indebito, lasciando implicitamente intendere che, in difetto, potrebbe sorgere qualche difficoltà. Il fatto, così schematizzato, apparirebbe inquadrabile nella coercizione psichica che designa la concussione.
Può anche accadere, però, che la valutazione complessiva ed approfondita della dinamica relazionale intersoggettiva denunci l’assenza di una effettiva coazione della parte privata, la quale, mostrando disponibilità all’interlocuzione con la controparte pubblica, per averne colto i significati sottintesi, decide di privilegiare la via breve del pagamento illecito non soltanto per superare la difficoltà contingente, ma soprattutto per ingraziarsi la benevolenza del funzionario e assicurarsi prò futuro la trattazione preferenziale delle proprie pratiche, finendo così con l’inserirsi in quella logica negoziale asimmetrica che connota l’induzione indebita.

19.2. A margine, è il caso di evidenziare che, proprio in situazioni come quelle testé esaminate, la dicotomia male ingiusto – male giusto, su cui fa leva il secondo indirizzo esegetico maturato dopo la riforma del 2012, mostra il suo limite.
Ed invero, nella minaccia-promessa viene in rilievo soltanto l’alternativa tra minaccia di un male ingiusto ed offerta di un vantaggio indebito; quest’ultimo però non fa da contraltare alla mancata adozione di un atto legittimo della pubblica amministrazione e pregiudizievole per il privato. E’ evidente l’equivoco che può derivare, nella valutazione di una tale situazione, dalla utilizzazione del parametro interpretativo privilegiato dal detto indirizzo.
Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento al secondo caso ipotizzato, in cui il danno contra ius prospettato risulta, per così dire, sfumato nella sua portata intimidatoria e sovrastato dalla “soggezione compiacente” manifestata opportunisticamente dal soggetto privato.

20. Profili particolarmente delicati evidenziano le contingenze relazionali connesse all’esercizio del potere discrezionale del pubblico agente.
Il prospettare costui, in maniera del tutto estemporanea e pretestuosa, l’esercizio sfavorevole del proprio potere discrezionale, al solo fine di costringere il privato alla prestazione indebita, integra certamente la minaccia di un danno ingiusto, in quanto non funzionale al perseguimento del pubblico interesse, ma chiaro indice di sviamento dell’attività amministrativa dalla causa tipica. In questa ipotesi, il privato è certamente vittima di concussione, in quanto si “piega” all’abuso, proprio per scongiurarne gli effetti per lui ingiustamente dannosi (si pensi al preannuncio di una verifica fiscale in carenza dei presupposti di legge ed a fini meramente persecutori ed illeciti).
Diversamente, se l’atto discrezionale, pregiudizievole per il privato, è prospettato nell’ambito di una legittima attività amministrativa e si fa comprendere che, cedendo alla pressione abusiva, può conseguirsi un trattamento indebitamente favorevole, obiettivo questo condiviso e fatto proprio dal soggetto privato, è evidente che viene ad integrarsi il reato di induzione indebita.

21. Non mancano casi in cui, per assicurare la corretta qualificazione giuridica del fatto come concussione piuttosto che come induzione indebita, non si può prescindere dal confronto e dal bilanciamento tra i beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale: quello oggetto del male prospettato e quello la cui lesione consegue alla condotta determinata dall’altrui pressione.
Può accadere, infatti, che il privato, nonostante abbia conseguito, prestando acquiescenza all’indebita richiesta del pubblico agente, un trattamento preferenziale, si sia venuto sostanzialmente a trovare in uno stato psicologico di vera e propria costrizione, assimilabile alla coazione morale di cui all’art. 54 c.p., comma 3, con conseguente decisiva incidenza negativa sulla sua libertà di autodeterminazione.
Il riferimento è a quelle situazioni in cui l’extraneus, attraverso la prestazione indebita, intende soprattutto preservare un proprio interesse di rango particolarmente elevato (si pensi al bene vita, posto in pericolo da una grave patologia); oppure, di fronte ad un messaggio comunque per lui pregiudizievole e al di là del danno ingiusto o giusto preannunciato, sacrifica, con la prestazione indebita, un bene strettamente personale di particolare valore (libertà sessuale), e ciò in spregio a qualsiasi criterio di proporzionalità, il che finisce con l’escludere lo stesso concetto di vantaggio indebito.
A maggior chiarimento, si pensi – per esempio – al caso, già esaminato in giurisprudenza, del primario dell’unità operativa di cardiochirurgia di una struttura pubblica, il quale, per operare personalmente e con precedenza su altri un paziente, pretenda dal medesimo, allarmandolo circa l’urgenza dell’intervento “salvavita”, una certa somma di denaro. E’ indubbio che il paziente, accondiscendendo alla richiesta del medico, si assicura un trattamento di favore rispetto ad altri pazienti non disposti a cedere all’abuso. In realtà, però, non è questa finalità a guidare il suo processo volitivo, che rimane invece gravemente condizionato dalla componente coercitiva evincibile dall’intero contesto: intervento al cuore potenzialmente salvifico, condizionato al pagamento indebito, omettendo il quale, il paziente avverte di esporre a grave rischio la propria vita.
Tale ipotesi non può che essere ricondotta nel paradigma della concussione.
Altro caso sintomatico è quello del poliziotto che avvicina una prostituta extracomunitaria, che, priva di permesso di soggiorno, esercita per strada il meretricio, e, dopo averle chiesto i documenti, la invita perentoriamente a seguirlo per consumare un rapporto sessuale gratuito. In tale situazione, l’esercizio dei poteri di polizia si appalesa deviato dal fisiologico schema funzionale ed assume evidenti connotati di prevaricazione costrittiva per il coinvolgimento nella pretesa indebita di un bene fondamentale della persona (libertà sessuale) ed in assenza di sintomi di adesione, sia pure “indotta”, della donna, e ciò a prescindere dalla natura ingiusta o giusta del danno oggetto del messaggio veicolato dal poliziotto.

22. I casi testé esaminati in via esemplificativa evidenziano che il criterio del danno-vantaggio non sempre consente, se isolatamente considerato nella sua nettezza e nella sua staticità, di individuare il reale disvalore di vicende che occupano la c.d. “zona grigia”.
Il detto parametro, pertanto, deve essere opportunamente calibrato, all’esito di una puntuale ed approfondita valutazione in fatto, sulla specificità della vicenda concreta, tenendo conto di tutti i dati circostanziali, del complesso dei beni giuridici in gioco, dei principi e dei valori che governano lo specifico settore di disciplina.
Tanto è imposto dalla natura proteiforme di particolari situazioni, nelle quali l’extraneus, per effetto dell’abuso posto in essere dal pubblico agente, può contestualmente evitare un danno ingiusto ed acquisire un indebito vantaggio ovvero, pur di fronte ad un apparente vantaggio, subisce comunque una coartazione, sicché, per scongiurare mere presunzioni o inaffidabili automatismi, occorre apprezzare il registro comunicativo nei suoi contenuti sostanziali, rapportati logicamente all’insieme dei dati di fatto disponibili.

Il problema della continuità normativa

23. La ulteriore riflessione deve mirare a stabilire se vi sia o no continuità di tipo di illecito tra la fattispecie legale astratta delineata dal previgente art. 317 c.p., e il nuovo assetto normativo venutosi a cristallizzare, in relazione agli aspetti penali che qui rilevano, con la novella legislativa n. 190 del 2012.
E’ necessario cioè chiarire se l’avvicendarsi nel tempo delle norme penali regolanti lo specifico settore renda operativa la disposizione di cui all’art. 2 c.p., comma 4, con conseguente applicazione della disciplina più favorevole, ovvero se ricorra eventualmente una qualche ipotesi di abolitici criminis, soggetta alla previsione del secondo comma del citato articolo.

23.1. Le Sezioni Unite hanno già avuto modo di puntualizzare che il legislatore individua, attraverso la fattispecie legale astratta, i fatti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge precedente. La fattispecie legale è strumento di “selezione” o di “de-selezione” dei fatti penalmente rilevanti.
L’interprete, nel condurre l’operazione di verifica circa la sussistenza o no di continuità normativa tra leggi penali succedutesi nel tempo, deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte, quelle precedenti e quelle successive, al fine di stabilire se vi sia o no uno spazio comune alle dette fattispecie, senza la necessità di ricercare conferme o smentite al riguardo nei criteri valutativi del bene giuridico tutelato e delle modalità di offesa, inidonei ad assicurare approdi interpretativi sicuri. E’ il solo confronto strutturale a consentire, in via autonoma, l’individuazione della continuità o della portata demolitoria che l’intervento legislativo posteriore ha eventualmente spiegato sugli elementi costitutivi del fatto tipico previsto dalla normativa precedente (Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, RV 243585; Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, RV 224607).
Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che ne sopprime un elemento strutturale, si versa nella ipotesi della abolitio criminis; il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante proprio per la soppressione di quell’elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale.
Diversamente, se la fisionomia della fattispecie, nella sua struttura, non viene alterata, ma il novum incide soltanto sulla sua regolamentazione, si è in presenza di successione di norme meramente modificative della disciplina della fattispecie, con la conseguenza che deve essere applicata la norma nel complesso più favorevole al reo.
Può accadere anche che il sistema giuridico risultante dopo l’abrogazione di una norma incriminatrice (nella specie, la concussione per costrizione commessa dall’incaricato di pubblico servizio) continua ad allegare rilevanza penale al fatto in essa descritto, in quanto inquadrabile in altra fattispecie che, già prevista dall’ordinamento giuridico, diviene applicabile, nel caso considerato, solo dopo la modifica legislativa. In tale evenienza, si parla comunemente di abrogatio sine abolitione, fenomeno che si verifica quando ad essere abrogata è una norma incriminatrice in rapporto di specialità con altra norma avente regolare efficacia operativa, perché preesistente a quella abrogata.

continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, tra fatti riconducibili all’art. 317
23.2. Ciò posto, ritiene la Corte che, ai fini delle implicazioni di carattere intertemporale, v’è totale continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto qualificato, chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente art. 317 c.p..
La previsione della punibilità, ex art. 319-quater c.p., comma 2, del soggetto indotto, in precedenza considerato vittima, sarà operativa, ovviamente, solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della detta norma, in applicazione dell’art. 2 c.p., comma 1.
23.3. Con riferimento, in particolare, alla concussione per costrizione di cui al novellato art. 317 c.p., nulla è mutato quanto alla posizione del pubblico ufficiale. I “vecchi” fatti di abuso costrittivo da costui commessi continuano a dover essere puniti, sia pure con il più favorevole corredo sanzionatorio previgente. La formulazione testuale del nuovo art. 317 c.p., infatti, è assolutamente sovrapponibile, nella indicazione degli elementi strutturali della fattispecie, al testo della norma ante riforma.
Da questa è stata espunta la categoria soggettiva dell’incaricato di pubblico servizio, il quale, però, ove abbia posto in essere una condotta costrittiva, qualificata dall’abuso di poteri, continua a dover essere punito, considerato che tale condotta, nella sua struttura, rimane comunque inquadrabile in altre fattispecie incriminatrici di “diritto comune”.
L’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio certamente sfugge allo statuto penale della pubblica amministrazione, ma non v’è dubbio che può integrare il reato di estorsione aggravata (art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9) in presenza di deminutio patrimoni ovvero, difettando questa, il reato di violenza privata aggravata (art. 610 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9) od ancora, se la vittima è stata costretta a prestazioni sessuali, il reato di cui all’art. 609 bis c.p., illeciti – questi – che strutturalmente condividono la stessa fisionomia della vecchia fattispecie di concussione per costrizione. Ovviamente, in sede di diritto intertemporale, deve essere individuato e applicato il regime sanzionatorio più favorevole.
Rimane il fatto che il quadro sanzionatorio, una volta “a regime”, presenta, come già rilevato, aspetti paradossali ed irragionevoli per le sproporzioni in eccesso o in difetto che lo attraversano a seconda che il fatto incriminato sia commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, tra concussione per induzione e induzione indebita a dare o promettere utilità
23.4. Sussiste continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, anche tra la previgente concussione per induzione e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità.
Una parte della giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 17285 dell’11/01/2013, Vaccaro, RV 254620) e della dottrina ha risolto positivamente il problema della continuità, facendo leva sul rilievo che l’art. 319-quater c.p., integrerebbe una “norma a più fattispecie”, nel senso che prevedrebbe due autonome figure di reato monosoggettivo: l’induzione qualificata dell’intraneus, in tutto identica, nella sua formulazione testuale, alla corrispondente parte del previgente art. 317 c.p.; la promessa o la dazione indotta di utilità da parte dell’extraneus.
Tale orientamento, apprezzabile per la sua chiarezza intuitiva, non si concilia però con il dato normativo, che postula, per l’esistenza del reato, la necessaria convergenza, sia pure nell’ambito di un rapporto “squilibrato”, dei processi volitivi di più soggetti attivi e la punibilità dei medesimi.
Trattasi quindi di reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo.
Né vale a contestare tale conclusione la diversità di pena prevista per il pubblico agente (reclusione da tre a otto anni) e per il privato (reclusione fino a tre anni), considerato che tale previsione, di per sè, non esclude l’unitarietà della fattispecie:
lo dimostra il fatto che, anche per i reati di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., (pacificamente a concorso necessario), il legislatore differenzia le pene per le diverse figure di capo, promotore, dirigente, organizzatore o mero partecipe.
La correità necessaria insita nell’illecito di cui all’art. 319-quater c.p., ha certamente innovato, sotto il profilo normativo, lo schema della vecchia concussione per induzione, che tuttavia, con riferimento alla posizione del pubblico agente, trova continuità nel novum, venendo così scongiurata l’operatività della regola di cui all’art. 2 c.p., comma 2.
Molteplici ragioni militano per tale continuità:
a) il volto strutturale dell’abuso induttivo è rimasto immutato;
b) la prevista punibilità dell’indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato, ma interviene, per così dire, solo “al suo esterno”;
c) la vecchia descrizione tipica già contemplava, infatti, la dazione/promessa del privato e delineava un reato plurisoggettivo improprio o naturalisticamente plurisoggettivo, inquadramento dogmatico quest’ultimo che non incide sulla ricognizione logico- strutturale;
d) finanche sotto il profilo assiologico, la nuova incriminazione è in linea con quella previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione pubblicistica del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.
Ritenuto il rapporto di piena continuità normativa, compito del giudice intertemporale, per la valutazione dei fatti pregressi, deve essere solo quello di applicare, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4, la lex mitior, che va individuata nella norma sopravvenuta, perché più favorevole in ragione dell’abbassamento di entrambi i limiti edittali di pena.
24. Le argomentazioni sin qui sviluppate chiariscono il rapporto che intercorre tra il delitto di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità e ne individuano il discrimen, oltre che nella diversa soggettività attiva, nelle modalità sostanziali di perseguimento del risultato o della promessa di utilità, sia con riferimento all’azione dell’intraneus che all’intensità dell’effetto di condizionamento psicologico, nel senso diffusamente chiarito, che la stessa azione determina sull’extraneus.

Distinzione tra concussione e fattispecie corruttive

24.1. La riforma del 2012 ha reso più netta e chiara la distinzione tra il reato di concussione e le fattispecie corruttive.
Il novellato art. 317 c.p., infatti, delineando un’unica fattispecie delittuosa modulata esclusivamente sulla condotta di costrizione, ha conferito maggiore determinatezza all’illecito, nel senso che i suoi connotati – l’abuso e la violenza/minaccia da parte del pubblico ufficiale – lo differenziano univocamente dalla corruzione: si configurerà quest’ultimo illecito in presenza di una libera contrattazione, di un accordo delle volontà liberamente e consapevolmente concluso su un piano di parità sinallagmatica; si profilerà, invece, il primo illecito quando la volontà dell’extraneus è causalmente coartata dalla condotta abusiva del pubblico ufficiale, attuata con le citate modalità.

Distinzione tra induzione indebita e fattispecie corruttive

24.2. Più delicata appare la distinzione tra il delitto di induzione indebita e le fattispecie corruttive, in considerazione del rilievo che il primo occupa una posizione intermedia tra la concussione e l’accordo corruttivo vero e proprio.
Per una corretta soluzione del problema, l’elemento differenziatore tra i due illeciti deve essere apprezzato cogliendo le connotazioni del rapporto intersoggettivo tra il funzionario pubblico e l’extraneus e, segnatamente, la presenza o meno di una soggezione psicologica del secondo nei confronti del primo.
Ciò che rileva è il diverso modo con cui l’intraneus, nei due delitti, riesce a realizzare l’illecita utilità: la corruzione è caratterizzata, come si è detto, da un accordo liberamente e consapevolmente concluso, su un piano di sostanziale parità sinallagmatica, tra i due soggetti, che mirano ad un comune obietti illecito; l’induzione indebita, invece, è designata da uno stato di soggezione del privato, il cui processo volitivo non è spontaneo ma è innescato, in sequenza causale, dall’abuso del funzionario pubblico, che volge a suo favore la posizione di debolezza psicologica del primo.
Indice sintomatico dell’induzione è certamente quello dell’iniziativa assunta dal pubblico agente. Il requisito che contraddistingue, nel suo peculiare dinamismo, la induzione indebita e la differenzia dalle fattispecie corruttive è la condotta comunque prevaricatrice dell’intraneus, il quale, con l’abuso della sua qualità o dei suoi poteri, convince l’extraneus alla indebita dazione o promessa.
E’ vero che anche le condotte corruttive non sono svincolate dall’abuso della veste pubblica, ma tale abuso si atteggia come connotazione (di risultato) delle medesime e non svolge il ruolo, come accade nei reati di concussione e di induzione indebita, di strumento indefettibile per ottenere, con efficienza causale, la prestazione indebita.

Distinzione tra istigazione alla corruzione attiva e induzione indebita
24.3. Ancora più difficoltoso è distinguere la istigazione alla corruzione attiva (art. 322 c.p., commi 3 e 4) dalla induzione indebita nella forma tentata, posto che entrambe tali fattispecie implicano forme di interazione psichica, nel senso che sia l’una che l’altra si configurano attraverso comportamenti di “interferenza motivazionale sull’altrui condotta”.
Sotto il profilo linguistico, il concetto di “induzione” presuppone un quid pluris rispetto al concetto di “sollecitazione” di cui all’art. 322 c.p., commi 3 e 4, e deve essere colto nel carattere perentorio ed ultimativo della richiesta e nella natura reiterata ed insistente della medesima.
Sul piano strutturale, la condotta induttiva, diversamente dalla sollecitazione, deve coniugarsi dinamicamente con l’abuso, sì da esercitare sull’extraneus una pressione superiore rispetto a quella conseguente alla mera sollecitazione.
Rimane integrata quest’ultima, invece, nell’ipotesi in cui il pubblico agente propone al privato un semplice scambio di favori, senza fare ricorso ad alcun tipo di prevaricazione, sicché il rapporto tra i due soggetti si colloca in una dimensione paritetica.

Principi di diritto
25. Le argomentazioni sin qui sviluppate impongono, a norma dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3, l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
– “il reato di cui all’art. 317 c.p., come novellato dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o – più di frequente – mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione, senza tuttavia annullarla del tutto, della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio indebito per sé, è posto di fronte all’alternativa secca di subire il mah prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito”;
– “il reato di cui all’art. 319-quater c.p., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall’abuso induttivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, vale a dire da una condotta di persuasione, di suggestione, di inganno (purché quest’ultimo non si risolva in induzione in errore sulla doverosità della dazione), di pressione morale, con più tenue valore condizionante la libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, il che lo pone in una posizione di complicità col pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione”;
– “nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l’induzione indebita (la c.d. zona grigia dell’abuso della qualità, della prospettazione di un male indeterminato, della minaccia-offerta, dell’esercizio del potere discrezionale, del bilanciamento tra beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale), i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica all’interno della vicenda concreta, individuando, all’esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti”;
– “v’è continuità normativa, quanto al pubblico ufficiale, tra la previgente concussione per costrizione e il novellato art. 317 c.p., la cui formulazione è del tutto sovrapponibile, sotto il profilo strutturale, alla prima, con l’effetto che, in relazione ai fatti pregressi, va applicato il più favorevole trattamento sanzionatorio previsto dalla vecchia norma”;
– “l’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio, illecito attualmente estraneo allo statuto dei reati contro pubblica amministrazione, è in continuità normativa, sotto il profilo strutturale, con altre fattispecie incriminatrici di diritto comune, quali, a seconda dei casi concreti, l’estorsione, la violenza privata, la violenza sessuale (artt. 629, 610 e 609 bis, con l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 9);
– “sussiste continuità normativa, quanto alla posizione del pubblico agente, tra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p., e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater c.p., considerato che la pur prevista punibilità, in quest’ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell’abuso induttivo, ferma restando, per i fatti pregressi, l’applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma”;
– “il reato di concussione e quello di induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti”;
– “Il tentativo di induzione indebita, in particolare, si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva di cui all’art. 322 c.p., commi 3 e 4, perché, mentre quest’ultima fattispecie s’inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori”.
… omissis

322 c.p.

5. Istigazione alla corruzione (art. 322) e intralcio alla giustizia (art. 377)

Cass. S.U. 25 settembre 2014, Guidi

E’ configurabile l’ipotesi di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. (e non l’istigazione alla corruzione) nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza.

1. L’oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico del Pubblico Ministero una somma di denaro (da quello simulatamente accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa.
In particolare, la vicenda processuale in esame trae origine da un incidente aereo, avvenuto il (omissis), nello spazio sovrastante l’aeroporto di (omissis), che causò la caduta di un aeromobile della compagnia Eurojet su un capannone industriale e la morte del pilota e del copilota.
Durante le indagini preliminari che seguirono, il Pubblico Ministero nominò un consulente tecnico, ex art. 359 c.p.p., nella persona del signor C., funzionario Enac.
Nel corso degli accertamenti tecnici, il consulente citato fu avvicinato da un suo conoscente e collega, tale S.C., ispettore Enac a (omissis) ed addetto al controllo operativo di Eurojet, il quale gli prospettò la possibilità di ottenere una grossa somma di denaro in cambio di un elaborato tecnico favorevole alla compagnia aerea.
Il C. finse di accettare ma avvisò immediatamente il Pubblico Ministero, che predispose attività investigativa che consentisse la prosecuzione della trattativa corruttiva, sia pure sotto il controllo della polizia giudiziaria, in modo che venissero individuate tutte le possibili responsabilità.
All’esito dell’Indagine, emersero profili di responsabilità nei confronti del citato S. e di G.G.A. ed R. E. (soci della compagnia aerea ed il secondo anche legale rappresentante) nonché dell’avv. Angelo Palermo, difensore di questi ultimi, il quale, secondo quanto emerso, avrebbe avuto il compito di indicare quale avrebbe dovuto essere il contenuto della consulenza tecnica per risultare favorevole ai suoi assistiti.
Il Pubblico Ministero, con gli elementi acquisiti a carico dei citati indagati, chiese ed ottenne dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ordinanza cautelare per il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319-ter c.p.
Già in sede di interrogatori di garanzia gli indagati ammisero la materialità dei fatti storici, seppure cercando di giustificare l’offerta corruttiva con la finalità di evitare una consulenza sfavorevole da parte del tecnico nominato dal Pubblico Ministero, ritenuto in qualche modo prevenuto nei confronti della società e dei suoi amministratori.
L’ordinanza venne annullata dal Tribunale del riesame per erronea qualificazione del fatto: non essendosi conclusa la trattativa, il reato prospettabile era quello di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322 c.p..

Avverso il provvedimento del controllo cautelare propose ricorso per cassazione il Pubblico Ministero milanese.
La Corte di cassazione rigettò il ricorso, confermando che la corruzione in atti giudiziali non si era consumata. In motivazione ritenne di poter sussumere il fatto storico nell’Ipotesi delittuosa di tentativo di corruzione in atti giudiziali.
A ciò giunse sul presupposto che, in base alla lettera dell’art. 322 c.p., l’istigazione non era assolutamente configurabile quando il reato corruttivo finale preordinato era quello di cui all’art. 319- ter c.p..
In sede di indagini venne successivamente sollevata questione sulla competenza territoriale, rimessa al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ex art. 54-quater c.p.p..
L’incidente venne risolto attribuendo la competenza alla Procura della Repubblica di Roma, sul presupposto che, qualificato come istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p..
Il reato si era consumato in (omissis).

Il Pubblico Ministero a cui venne trasmesso il fascicolo, all’esito delle indagini, non ritenne però di contestare la fattispecie delittuosa individuata dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed esercitò l’azione penale nei confronti del quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 c.p., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006.
Avendo gli imputati G. e R. optato per il rito abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza del 26 novembre 2008, concordando sulla qualificazione giuridica proposta dal Pubblico Ministero, condannò gli imputati alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale.

Con successiva ordinanza, emessa il 23 gennaio 2009, stesso giorno in cui venne depositata la motivazione, il Giudice dell’udienza preliminare operò una correzione del dispositivo, irrogando la pena accessoria dell’interdizione dal pubblici uffici per la stessa durata della pena principale, anch’essa sospesa.
In motivazione, il Giudice evidenziò come la fattispecie di cui all’art. 377 c.p. era da considerarsi speciale rispetto a quella dell’art. 322 c.p. e che essa andava ritenuta sussistente, nel caso in contestazione, in quanto l’attività allevatrice, svolta nei confronti del collaboratore del Pubblico Ministero, era finalizzata ad ottenere una testimonianza favorevole nel futuro dibattimento; il consulente tecnico, infatti, avrebbe dovuto essere considerato, nella prospettiva del processo, un testimone, giusta il disposto dell’art. 501 c.p.p..

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 2 maggio 2012 pronunciata a seguito di impugnazione degli imputati, in riforma della sentenza del primo giudice, riqualificata la condotta contestata ai sensi degli artt. 110 e 322 c.p., determinò la pena, tenuto conto della diminuente del rito, in anni uno di reclusione ciascuno e revocò la pena accessoria.
Secondo la Corte di appello non era possibile qualificare il fatto in termini di intralcio alla giustizia, essendo questo delitto prospettabile solo nel caso in cui il soggetto avvicinato rivesta già la qualifica di teste, per essere stato citato con questo ruolo a partecipare al giudizio.
Pur condividendo l’Impostazione del primo giudice sul carattere speciale della fattispecie di cui all’art. 377 c.p. rispetto a quella punita nel capo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la Corte di appello di Roma ritenne, però, per la ragione da ultimo indicata, inapplicabile la norma speciale.
Confermò quindi la declaratoria di responsabilità, previa modificazione del titolo del reato.
A sostegno della propria tesi, la Corte distrettuale richiamò anche l’unico arresto edito della Suprema Corte, che aveva qualificato la proposta corruttiva avanzata ad un consulente tecnico di un pubblico ministero proprio come istigazione alla corruzione.

2. Contro la decisione della Corte di appello gli imputati hanno presentato, a mezzo del medesimo difensore, ricorso per cassazione, articolato in un unico motivo, con cui denunciano sia la violazione dell’art. 322 c.p. sia il vizio di motivazione.
omissis

3. Con ordinanza n. 12901 del 14 marzo 2013 la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite, sul presupposto di un potenziale contrasto di giurisprudenza, la questione così di seguito riassumibile: “se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza”.
omissis

4. Con decreto in data 25 marzo 2013 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’udienza pubblica del 27 giugno 2013.

omissis

6. Con ordinanza n. 43384 del 27 giugno 2013 le Sezioni Unite hanno sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 322 c.p., comma 2, “nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377 c.p., comma 1, in relazione all’art. 373 c.p.”.
Le Sezioni Unite hanno escluso anzitutto che nella fattispecie in esame potesse ravvisarsi una ipotesi di tentativo di corruzione in atti giudiziari (artt. 56 e 319-ter c.p.), come ritenuto dalla stessa Sesta Sezione in sede di valutazione cautelare della posizione di uno degli imputati. In mancanza di un accordo corruttivo, Infatti, l’istigazione non accolta alla corruzione poteva essere ricondotta solo alla previsione punitiva dell’art. 322 c.p. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 c.p., si attagliava anche a quella di cui all’art. 319-ter c.p., posto che quest’ultimo richiamava “i fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p.”), ovvero, quando si trattasse di proposta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, alle figure criminose delineate dagli artt. 377 o 377-bis c.p..
Il fatto per cui si procede non poteva essere neppure qualificato, contrariamente a quanto sostenuto dagli imputati ricorrenti, come istigazione non accolta a commettere una consulenza infedele (art. 380 c.p.), con conseguente sua irrilevanza penale (art. 115 c.p.). L’attività svolta dal consulente tecnico del pubblico ministero non poteva essere, infatti, definita come attività di parte, alla quale soltanto si riferiva il citato art. 380 c.p., discutendosi di soggetto che esercitava una funzione pubblica e che contribuiva non già a tutelare gli interessi di una parte processuale, “ma ad accertare la verità”.
Il problema ermeneutico si concentrava, di conseguenza, sull’applicabilità di una delle due ipotesi delittuose, dianzi indicate, dell’istigazione alla corruzione o dell’Intralcio alla giustizia.
Quanto a quest’ultima, si è preliminarmente ricordato che l’art. 377 c.p., nel testo attualmente in vigore, frutto di una serie di modifiche legislative, stabilisce, al primo comma, che “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli artt. medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi”.
Per quel che concerne, in particolare, il riferimento al “consulente tecnico”, introdotto nel testo della norma dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, le Sezioni Unite hanno osservato come, nel caso del consulente tecnico del pubblico ministero, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità non poteva essere finalizzata alla commissione del delitto di falsa perizia, di cui al richiamato art. 373 c.p., in quanto l’ausiliario tecnico dell’accusa non era un perito (nominato invece dal giudice). Pur essendo verosimile che la discrasia dipendesse da un difetto di coordinamento, non era, d’altra parte, possibile estendere in via interpretativa il concetto di “perizia” alla “consulenza tecnica” senza violare il principio di tassatività del precetto penale.
Conformemente a quanto ritenuto dalla Sesta Sezione nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero poteva, nondimeno, egualmente configurare il reato di intralcio alla giustizia, in quanto finalizzata alla commissione del delitti di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.) e di falsa testimonianza (art. 372 c.p.).
La parificazione del consulente tecnico al testimone trovava, in effetti, un solido appiglio ermeneutico nell’art. 501 c.p.p., che estende al consulente tecnico le disposizioni sull’esame dibattimentale dei testimoni. Pur non essendo un testimone in senso proprio, in quanto non chiamato a riferire su “fatti”, ma ad esprimere valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze, il consulente tecnico ben poteva, d’altra parte, “affermare il falso o negare il vero”, conformemente alla previsione dell’art. 372 c.p., o “rendere dichiarazioni false”, secondo quella dell’art. 371-bis c.p., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, ferma restando l’esclusione di “ogni sindacato sugli aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti”.
La conseguente configurabilità, sotto questo profilo, del delitto di intralcio alla giustizia, risultava confermata anche dalla lettera della norma incriminatrice, posto che il riferimento al “consulente tecnico”, contenuto nell’art. 377 c.p., si prestava senz’altro a ricomprendere anche l’ausiliario tecnico dell’organo dell’accusa. Non poteva, infatti, essere condivisa la tesi, espressa In dottrina, secondo la quale la predetta formula riguardava il solo consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice civile: tesi che rendeva superfluo il riferimento in questione, posto che l’estensione al consulente tecnico nominato in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discendeva già dall’espressa previsione dell’art. 64 c.p.c., comma 1.
La configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia non era, per altro verso, preclusa dalla circostanza che, nel caso oggetto di giudizio, il consulente tecnico del pubblico ministero non era stato ancora citato come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell’offerta di denaro.
Era ben vero che, secondo l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, perchè possa configurarsi il delitto di cui all’art. 377 c.p. è necessario che i destinatari della condotta subornatrice abbiano già formalmente assunto, nel momento in cui la condotta stessa è posta in essere, le qualifiche processuali indicate dalla norma: il che si verifica, nel caso del testimone, solo allorchè il giudice abbia autorizzato la citazione del soggetto in tale veste, ai sensi dell’art. 468 c.p.p., comma 2.
Ad avviso delle Sezioni Unite, tuttavia, le peculiarità della figura del consulente tecnico dei pubblico ministero faceva propendere per una diversa soluzione.
A differenza dei consulenti tecnici nominati dalle parti private, chiamati a svolgere un ruolo di ausilio alla difesa, donde la loro equiparazione al difensore, quanto a funzioni e garanzie, il consulente tecnico dei pubblico ministero ripete, infatti, “dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuvava i relativi connotati”.
Nel compimento delle sue attività, egli assume, dunque, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, “il dovere … di obiettività e imparzialità”; non può, altresì, esimersi dal dire la verità. Si doveva, di conseguenza, ritenere che il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, rivesta già “una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a refluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-bis o 372 c.p.”:
qualità che, dunque, anche se non ancora formalmente assunta, è “immanente” alla figura, “in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata”.
In concreto, tuttavia, alla configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia ostava la natura dell’indagine affidata nel caso di specie al consulente.
Il consulente tecnico del pubblico ministero è, infatti, equiparabile al testimone solo in rapporto alle dichiarazioni che investono gli esiti obiettivi degli accertamenti espletati; non, invece, in relazione alle valutazioni tecnico-scientifiche, le quali, in quanto espressive di personali opinioni, non sono qualificabili in termini di verità o di falsità: sicchè, con riguardo ad esse, il consulente non può rispondere del reato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero.
Nella specie, al consulente era stata affidata una indagine “di tipo squisitamente valutativo”, essendogli stato chiesto di riferire se l’addestramento del copilota, deceduto insieme al pilota nell’incidente aereo, potesse considerarsi idoneo.
Esclusa, di conseguenza, la possibilità di ricondurre il fatto al paradigma dell’intralcio alla giustizia, l’unica disposizione applicabile nel caso in esame era quella dell’art. 322 c.p., comma 2, che punisce l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio a compiere un atto contrario ai suoi doveri. Tra il reato di intralcio alla giustizia e quello di Istigazione alla corruzione propria intercorre un rapporto di species a genus: la prima figura criminosa è, infatti, speciale rispetto alla seconda, in ragione della specificità sia del soggetto destinatario dell’offerta o della promessa, sia dell’atto contrario ai doveri di ufficio cui essa è preordinata. Mancando i presupposti di operatività della previsione punitiva speciale, altrimenti applicabile in via esclusiva, diviene quindi operante la norma generale.
La conclusione raggiunta faceva emergere, tuttavia, “innegabili profili di incostituzionalità”.
Alla luce di essa, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza risulta punita più gravemente dell’analoga offerta o promessa rivolta ad un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell’ambito applicativo dell’art. 377 c.p., comma 1. Nella prima ipotesi, infatti, in base alla disposizione combinata degli artt. 319 e 322 c.p., nella formulazione vigente all’epoca del fatto, antecedente alla riforma operata dalla L. 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), è irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per la disposizione combinata degli artt. 372, 373 e 377 c.p., la reclusione da otto mesi a tre anni.
Inoltre, la medesima offerta corruttiva fatta al consulente tecnico del pubblico ministero nell’ambito di un procedimento penale è punita più gravemente dell’analoga offerta rivolta al consulente tecnico del giudice civile, parimenti inquadrabile nel paradigma dell’intralcio alla giustizia.
Irragionevole era anche la sperequazione sanzionatoria riscontrabile a seconda che il consulente tecnico del pubblico ministero, destinatario dell’offerta corruttiva, sia chiamato ad esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (con conseguente configurabilità dell’istigazione alla corruzione) o semplicemente a descrivere i fatti accertati (donde la configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia, meno gravemente punito).
Si trattava, sotto ognuno degli evidenziati profili, di conseguenze lesive del principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe venivano disciplinate in termini differenti sul piano della risposta punitiva. In aggiunta a ciò, vi era il “paradosso” per cui solo la particolare e neppure giù grave forma di intralcio alla giustizia oggetto del giudizio a quo rimaneva estranea alla specifica partizione del codice penale dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, restando “confinata” tra i delitti contro la pubblica amministrazione.
Sulla base di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto, quindi, che l’art. 322 c.p., comma 2, fosse in contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui assoggetta ta subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero ad una pena superiore a quella prevista dall’art. 377, comma 1, in relazione all’art. 373 c.p., per la subornazione del perito.

7. Con sentenza n. 163 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322 c.p., comma 2, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, con l’ordinanza sopra indicata.
Il Giudice delle Leggi, dopo avere ricordato che il problema traeva origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988, e dopo avere illustrato la “soluzione innovativa” adottata nell’ordinanza di rimessione, ha ritenuto di non poter condividere le conclusioni delle Sezioni Unite, là dove non si è ritenuto applicabile nel caso in esame l’art. 377 c.p. con riferimento all’art. 372 c.p. per essere il contenuto degli accertamenti eseguiti nel caso di specie dal consulente del pubblico ministero di natura valutativa. Infatti tali accertamenti riguardavano nella specie l’idoneità dell’addestramento del pilota dell’aereo schiantatosi nell’aeroporto di (OMISSIS), e una simile indagine, secondo la Corte costituzionale, non poteva prescindere da un’analisi di natura oggettiva, relativa al tipo di addestramento ricevuto dal pilota ovvero dei complesso di attività di apprendimento, teoriche e pratiche, da lui realizzate.
Trattandosi dunque di un accertamento di carattere oggettivo e non valutativo, non vi erano ragioni per non applicare l’art. 377 c.p. con riferimento all’art. 372 c.p. o, eventualmente, all’art. 371-bis c.p..
Per altro, la Corte costituzionale ha osservato come la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 322 c.p., comma 2, non avrebbe comunque garantito il ripristino del principio di eguaglianza richiesto dalle Sezioni Unite. Infatti bisognava ricordare come le pene previste per il delitto di false informazioni al pubblico ministero (reclusione fino a quattro anni) sono sensibilmente inferiori a quelle previste per la falsa testimonianza (reclusione da due a sei anni): tale divario sanzionatorio si ripercuote inevitabilmente anche sull’art. 377 c.p., che prevede, nel caso di subornazione, la riduzione di entrambe le pena dalla metà ai due terzi. Il legislatore, dunque, coerentemente con l’impianto accusatolo in vigore, ha considerato meno grave la mendacità di una dichiarazione resa all’organo dell’accusa rispetto a quella resa al giudice del dibattimento e ciò perché il pubblico ministero è una parte del processo e, di regola, gli elementi dallo stesso raccolti fuori dal contraddittorio non hanno dignità di prova nel processo.
La stessa logica imponeva, allora, che le pene previste per subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero, in ipotesi punita dall’art. 322 c.p., comma 2, fossero sensibilmente inferiori rispetto a quelle stabilite per la medesima condotta posta in essere nei confronti del perito e punita a norma degli artt. 377 e 373 c.p., posto che il perito è un ausiliario del giudice e pertanto portatore di un sapere tecnico acquisito dal giudice in dibattimento. In caso contrario si sarebbe ritornati ad un modello inquisitorio, nel quale gli elementi raccolti in fase di indagine e quelli raccolti nel dibattimento avevano il medesimo valore.
Inoltre la Corte costituzionale ha rilevato come nel caso in cui il consulente tecnico ponga in essere una attività di accertamento che postuli sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi, il soggetto che offra o prometta denaro al consulente dovrebbe essere chiamato a rispondere di due reati In concorso formale: del delitto di cui all’art. 377 c.p., per la parte che ha ad oggetto elementi oggetti vi, e del delitto di cui all’art. 322 c.p., comma 2, per la parte che ha ad oggetto elementi valutativi; un esito questo che, oltre ad apparire incongruo, non poteva essere rimosso dall’ipotetico accoglimento della questione di costituzionalità, che mirava ad incidere unicamente sul trattamento sanzionatorio dell’art. 322 c.p., comma 2, e non già sulla duplicazione della risposta punitiva per il medesimo fatto.

8. A seguito della sentenza della Corte costituzionale, il Primo Presidente, con decreto in data 30 giugno 2014, ha fissato per la trattazione del ricorso l’odierna udienza pubblica, nella quale il Procuratore generale ed i difensori degli Imputati hanno concluso come indicato in intestazione.

Motivi della decisione

1. La questione devoluta alle Sezioni Unite può essere cosi enunciata: “Se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza”.

Il quadro normativo
2. E’ utile preliminarmente ricordare che il delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa rubrica, nel nostro ordinamento dal marzo del 2006.
Tale reato, infatti, è stato introdotto dalla L. 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’ONU contro il crimine organizzato transnazionale (cd. Convenzione di Palermo o Toc Convention), che, all’art. 23, invita gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la cd. obstruction of justice, e cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione, ovvero consistenti nell’uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l’esercizio di doveri d’ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi reati.
Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva già una norma, l’art. 377 c.p., che puniva l’offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del testimone e che era rubricata come “subornazione”, con la citata L. n. 146, art. 14 è intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già esistente delitto, appellandolo con il termine richiesto dalla convenzione internazionale (e cioè come “intralcio alla giustizia”) e aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le condotte di violenza e minaccia.
I primi due commi della nuova disposizione, quindi, continuano a punire le medesime condotte del delitto di subornazione secondo il testo che, rispetto alla stesura originaria del codice, era già stato due volte interpolato; una prima volta con il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356; una seconda con la L. 7 dicembre 2000, n. 397, art. 22.
In particolare nel 1992 era stato completamente riscritto dell’art. 377 c.p., il comma 1; il testo licenziato dal codice del 1930 stabiliva “chiunque offre o promette denaro o altra utilità a un testimone, perito o interprete, per indurlo ad una falsa testimonianza perizia o interpretazione, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata alle pene stabilite negli artt. 372 e 373 ridotte dalla metà a due terzi”; quello modificato, invece, stabilisce che “chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli artt. 371-bis, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta e la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli artt. medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi”.
L’innovazione, introdotta in un decreto-legge destinato al contrasto della criminalità mafiosa, aveva l’obiettivo di adeguare la precedente norma della subornazione all’Introduzione, ad opera del medesimo provvedimento d’urgenza, di una nuova fattispecie di parte speciale, quale il delitto di false informazioni ai pubblico ministero, di cui all’art. 371-bis c.p.. Vi era cioè l’esigenza di inglobare nella fattispecie delittuosa il riferimento al nuovo delitto da ultimo indicato, e ciò avvenne sostituendo la indicazione della figura del testimone – soggetto che, con il nuovo codice di rito, assumeva questo ruolo solo in dibattimento o nell’incidente probatorio – con la più elastica dizione di persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria. Si è inoltre aggiunto, senza che i lavori preparatori ne spiegassero la ragione, nel novero dei possibili soggetti passivi la figura del consulente tecnico.
Con la successiva L. n. 397 del 2000, recante la disciplina delle cd. indagini difensive, ci si è limitati, invece, ad una mera interpolazione raccordata alla introduzione nel codice penale dell’art. 371-ter c.p., relativo alle false informazioni al difensore.
Per completezza, è opportuno ricordare che con la L. 20 dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale permanente competente a conoscere del crimine di genocidio, cd. dell’Aja) si è ulteriormente interpolato l’art. 377: con l’art. 10, comma 8, della novella si è estesa la portata della fattispecie penale in commento all’ipotesi in cui l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta a persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell’Aja.
Nessuna modifica è stata, invece, apportata dal legislatore all’art. 373 c.p., che, sotto la rubrica “Falsa perizia o interpretazione”, punisce unicamente il perito o l’interprete che, nominato dall’autorità giudiziaria, da parere o interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero.

difetto di coordinamento tra norme incriminatrici dei delitti contro l’amministrazione della giustizia e nuovo assetto processuale
3. Così ricostruito il quadro normativo, deve ribadirsi la validità del percorso argomentativo seguito nell’ordinanza di queste Sezioni Unite in data 27 giugno 2013 e sostanzialmente condiviso, quanto meno nei suoi iniziali sviluppi, anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 163 del 2014.
Come ben osservato dal Giudice delle Leggi, la problematica in esame trae origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative al delitti contro l’amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988.
Le disposizioni del codice penale, in linea con l’impianto inquisitorio delineato dal codice di rito abrogato, presupponevano, infatti, una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte in contraddittorio e i risultati delle indagini dell’accusa. Il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio operato con il nuovo codice, in assenza di opportuni interventi di adeguamento, ha inevitabilmente messo in crisi il sistema, generando vuoti di tutela.
Risultava evidente, ad esempio, l’impossibilità di applicare la norma incriminatrice della falsa testimonianza (art. 372 c.p.) anche alle “persone Informate sui fatti” che rendessero dichiarazioni mendaci al pubblico ministero, non essendo queste ultime qualificabili, diversamente che in passato, come “testimoni”.
Solo l’introduzione, nel 1992, del delitto di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p., aggiunto dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 1, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356) è valso a colmare la lacuna.
Un ulteriore intervento novellistico è stato, altresì, necessario per evitare che rimanessero esenti da pena le false dichiarazioni al difensore nel corso delle indagini difensive (art. 371-ter c.p., aggiunto dalla L. 7 dicembre 2000, n. 397, art. 20, recante “Disposizioni in materia di indagini difensive”).
All’opera di riallineamento dei delitti contro l’amministrazione della giustizia al mutato panorama processuale è rimasta, peraltro, estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 359 c.p.p..
Come già rilevato da queste Sezioni Unite nell’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità devoluta alla Corte costituzionale, la falsa consulenza redatta dall’ausiliario dell’organo dell’accusa non integra il delitto di falsa perizia (art. 373 c.p.), per la dirimente ragione che detto soggetto non è equiparabile, nell’attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell’istruzione sommaria, ai sensi dell’art. 391 c.p.p. 1930, comma 2).
In questo caso, tuttavia, il legislatore non si è premurato di introdurre una nuova norma incriminatrice ad hoc che colmasse la lacuna, tanto è vero che, fin dai primi anni ’90, il Progetto “(omissis)” di riforma del codice penale elaborato dalla apposita Commissione ministeriale nella parte relativa ai delitti contro l’amministrazione della giustizia ha previsto espressamente il reato di “falsa perizia, interpretazione o consulenza”, includendo tra i soggetti attivi di tale reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

trattamento riservato alle condotte subornatrici
La rilevata discrasia si riflette anche sul trattamento riservato alle condotte subornatrici. Sotto la rubrica di “intralcio alla giustizia”” l’art. 377 c.p. configura, al comma 1, come reato l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l’amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l’istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 c.p.).
Nell’attuale versione della norma (frutto degli interventi di adeguamento indicati al punto che precede), si tratta, in specie, dei delitti di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o Interpretazione (artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p.).
Tra i possibili destinatari dell’offerta o della promessa penalmente repressa figura, in verità, grazie alla già menzionata interpolazione operata dal D.L. n. 306 del 1992, art. 11, anche la persona chiamata a svolgere attività di “consulente tecnico”: formula che, nella sua genericità, si presterebbe a ricomprendere il consulente tecnico del pubblico ministero. La rilevata circostanza che quest’ultimo non possa rendersi responsabile del delitto di cui al richiamato art. 373 c.p. impedisce, tuttavia, di ritenere che l’offerta o la promessa a lui indirizzata, allo scopo di orientare gli esiti della consulenza, configuri il delitto di intralcio alla giustizia In quanto finalizzata alla commissione del reato di falsa perizia.

A che titolo è punibile la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero?

Si è posto, quindi, il problema di verificare se la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero sia punibile a diverso titolo.
All’interrogativo, come si è visto, queste Sezioni Unite hanno offerto una soluzione, definita dalla Corte costituzionale “innovativa” rispetto al panorama ermeneutico pregresso, che, come pure osservato dalla Consulta, coniuga, nella sostanza, due delle tesi In precedenza prospettate.
Secondo queste Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero è, in realtà, idonea ad integrare il delitto di intralcio alla giustizia.
Giova, a tal fine, non già il richiamo, contenuto nell’art. 377 c.p., comma 1, alla falsa perizia, che si è visto non utile, ma quello alla falsa testimonianza e alle false informazioni al pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis c.p.).
Il consulente è sentito, infatti, in dibattimento sul contenuto della consulenza nelle forme dell’esame testimoniale (art. 501 c.p.p.); prima ancora, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che l’ha nominato.
Di conseguenza, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità per influire sui risultati della consulenza è destinata ad incidere anche sulle dichiarazioni rese dal consulente come teste o come persona informata sui fatti. In definitiva, anche se il consulente non riferisce su fatti, ma esprime valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze tecniche, egli può in ogni caso “affermare il falso e negare il vero”.
D’altra parte è pur vero che il consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata, è tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore.
Anche il Giudice delle Leggi non ha mancato di ricordare (sentenza n. 33 del 1999) come la stretta correlazione tra le funzioni del consulente tecnico e il diritto di difesa dell’Imputato sia stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 345 del 1987 e n. 199 del 1974) nel contesto dell’abrogato codice del 1930, che dava ingresso al consulente tecnico della parte solo in occasione di incarico peritale disposto dal giudice e negava autonomo rilievo alla figura del consulente extraperitale, considerato semplice ausilio del difensore, incapace di compiere valutazioni tecniche dotate di un intrinseco valore probatorio, sicché le sue indicazioni si riducevano a mere sollecitazioni defensionali e non avevano la forza di penetrare nel processo se non attraverso la mediazione del giudice, a sua volta ritenuto peritus peritorum. E ha poi rimarcato come nell’attuale sistema quella correlazione si è vieppiù inverata. Il codice vigente, infatti, prevede la possibilità per le parti del processo penale di nominare consulenti tecnici anche nel caso in cui non sia stata disposta alcuna perizia (art. 233). E si tratta di previsione che, essendo consentito al giudice, come riconosce la giurisprudenza di legittimità, trarre elementi di prova dall’esame dei consulenti tecnici, la cui posizione viene assimilata a quella dei testimoni, vale a qualificare in modo ancor più evidente la loro attività come aspetto essenziale dell’esercizio del diritto di difesa in relazione alle ipotesi in cui la decisione sulla responsabilità penale dell’imputato comporti lo svolgimento di indagini o l’acquisizione di dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, secondo la formulazione dell’art. 220 c.p.p..
Del resto il compiuto processo di assimilazione della figura del consulente tecnico extraperitale a quella del difensore si delinea in maniera ancor più nitida alla luce di ulteriori elementi normativi, anche se in parte preesistenti: oltre agli artt. 380 e 381 c.p., che puniscono, insieme al patrocinio, la consulenza infedele, l’art. 103 c.p.p., che, sotto la significativa rubrica “Garanzie di libertà del difensore”, vieta, al comma 2, il sequestro presso il consulente di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa e, al comma 5, l’intercettazione relativa a conversazioni del consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, nonché l’art. 200 c.p.p., comma 1, lett. b), che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale. Un unitario e sistematico insieme di disposizioni conduce insomma a riconoscere che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 Cost. e che le prestazioni del consulente della parte privata ineriscono all’esercizio del diritto di difesa, tanto che la Consulta, con la citata sentenza n. 33 del 1999, ha riconosciuto ai non abbienti la facoltà di farsi assistere a spese dello Stato da un consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario.
Ma è altrettanto vero che, nel nostro sistema processuale, il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un’attività di ausilio a una “parte” del processo, si staglia dalla figura generale e presenta specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati.
Egli acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 c.p. (Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, Tauzilli, RV 204516; Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, RV 214142; e, argomentando a contrario, Sez. 6, n. 5901 del 22/01/2013, Anello, RV 254308), concorre oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e “imparzialità”, nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 c.p.p.).
Il ruolo e la funzione rivestiti gli impongono dunque il dovere di verità.
Egli inoltre non può rifiutare la sua opera (come testualmente recita l’art. 359 c.p.p., comma 1, u.p.) ed è tra i soggetti destinatari dell’art. 384 c.p., che, al suo comma 2, così recita: “Nei casi previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni al fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere Informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione”. E’ chiaro che questa norma, nel dettare i casi di non punibilità e nel prevedere anche la figura del consulente tecnico, non potendo questi commettere, per i motivi già esposti, il reato di cui all’art. 373 c.p., riferisce al consulente proprio i residui reati di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p. (essendo ad esso inapplicabile l’art. 371-ter c.p., che riguarda le false dichiarazioni al difensore).
Per le argomentazioni sopra svolte deve concludersi che appare del tutto razionale che al consulente tecnico del pubblico ministero siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall’art. 372 c.p. (a, in sede di indagini, dall’art. 371-bis c.p.).
A riprova di ciò sta, del resto, anche il dato letterale della norma: il riferimento al “consulente tecnico”, inserito nel testo dell’art. 377 c.p., senza ulteriori specificazioni, ad opera del D.L. n. 306 del 1992, si presta senz’altro a essere rapportato anche alla figura di cui ci si occupa. L’opinione contraria, espressa, come si è visto, in dottrina, e prospettata inizialmente pure dai ricorrenti, secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal citato D.L. n. 306 riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile, si scontra sia con un’obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia, soprattutto, con una insuperabile considerazione sistematica (l’estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende positivamente dalla espressa previsione dell’art. 64 c.p.c., comma 1, dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento al “perito”, contenuto nell’art. 373 c.p., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.).
Le conclusioni alle quali si è pervenuti, contrariamente a quanto sostenuto nella memoria difensiva depositata nell’interesse dei ricorrenti, tengono adeguatamente conto del fatto che l’art. 501 c.p.p. estende ai consulenti tecnici le regole per l’esame testimoniale “in quanto applicabili” e non ignorano le precise differenze che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. Del resto, come pure la difesa del ricorrenti ammette, anche il consulente deve rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone).

nel caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico ministero non si era ancora “trasformato” in testimone
4. Il Collegio ritiene di confermare altresì l’impostazione adottata dalle Sezioni Unite nell’incidente di costituzionalità promosso con l’ordinanza in data 27 giugno 2013
In riferimento alla problematica posta dal fatto che, nel caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico ministero non si era ancora, per così dire, “trasformato” in testimone, non essendo ancora stato citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice.
Come si è visto, la più volte citata sentenza Pizzicaroli del 1999, pur ritenendo configurabile in una fattispecie simile il reato di cui all’art. 377 c.p., ne aveva escluso la sussistenza nel caso concreto, in quanto il consulente tecnico del Pubblico ministero, nel momento in cui era stata realizzata la condotta illecita, non aveva già assunto “la veste di testimone per effetto di citazione a comparire”.
In base all’indirizzo prevalente di dottrina e giurisprudenza (Sez. 3, n. 2055 del 13/12/1996, Elmir, RV 207282; Sez. 6, n. 2713 del 11/12/1996, Samperi, RV 207166; Sez. 6, n. 35837 del 23/05/2001, Russo, RV 220593; Sez. 6, n. 35150 del 26/06/2009, Manto, RV 244699; Sez. 6, n. 45626 del 25/11/2010, Z., RV 249321; e soprattutto Sez. U, n. 37503 del 30/10/2002, Vanone, RV 222347), perchè si possa configurare il delitto di cui all’art. 377 c.p. è necessario che i destinatari della condotta abbiano già assunto, formalmente, nel momento in cui la condotta stessa viene posta in essere, la qualifica processuale. E la qualità di testimone, nel reato di cui all’art. 377 c.p., viene considerata assunta nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell’art. 468 c.p.p., comma 2, (v. in particolare: Sez. U, n. 37503 del 2002, Vanone, cit., e, con riguardo al simile reato di cui all’art. 377-bis c.p., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z., cit.).
Tuttavia, ad avviso del Collegio, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero fanno propendere, nell’ipotesi in cui sia questo il soggetto su cui si esercita l’attività induttiva o violenta, verso una diversa soluzione.
In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione, come si è già osservato, riveste la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, il dovere di obiettività ed imparzialità; e non può esimersi dal dire la verità.
Proprio per queste sue caratteristiche, il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-bis o 372 c.p..
Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata ai consulente tecnico nominato dalla parte pubblica.
In questa prospettiva e in sostanziale accordo con le conclusioni dell’ordinanza di rimessione, deve concludersi che il reato di cui all’art. 377 c.p. è configurabile nella fattispecie in esame, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.) o successivamente al giudice (art. 372 c.p.).
D’altra parte anche nella giurisprudenza di legittimità in materia non sono mancati recentemente segni di revisione e approcci più “sostanzialistici”, essendosi ritenuto “configurabile il delitto di subornazione anche con riferimento alle pressioni e alle minacce esercitate su colui che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione in vista dell’acquisizione, da parte sua, della qualità di testimone nel celebrando dibattimento” (Sez. 1, n. 6297 del 10/12/2009, Pesacane, RV 246107).

5. Secondo la ricostruzione operata da queste Sezioni Unite nell’ordinanza in data 27 giugno 2013, tuttavia, il consulente potrebbe rendersi responsabile del delitto di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero solo allorché riferisca su dati oggettivi: non quando sia chiamato a formulare valutazioni tecnico-scientifiche, ossia giudizi, i quali, in quanto espressivi di opinioni personali, non potrebbero essere qualificati in termini di verità o di falsità.
Si era osservato che, in siffatta evenienza, l’unico reato configurabile, nell’ipotesi di subornazione del consulente del pubblico ministero, sarebbe quello di istigazione alla corruzione propria, di cui al censurato art. 322 c.p., comma 1: figura criminosa rispetto alla quale il delitto di intralcio alla giustizia si porrebbe in rapporto di specialità. Il consulente tecnico del pubblico ministero assumerebbe, infatti, nell’espletamento dei suoi compiti, la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, richiesta dalla norma denunciata, la quale dovrebbe ritenersi, d’altra parte, applicabile anche in rapporto alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.).
Emergerebbero, peraltro, in questo modo, i profili di illegittimità costituzionale denunciati, poi ritenuti, come si è visto, infondati dal Giudice delle Leggi nella citata sentenza n. 163 del 2014.

anche in relazione ai giudizi di natura tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità
6. Ritiene il Collegio che queste ultime conclusioni vadano ripensate, anche alla luce dei rilievi operati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 163 del 2014.
Va in primo luogo evidenziato che, in base ad un orientamento giurisprudenziale significativamente esteso, “quando intervengano in contesti che implicano l’accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi” (così Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Andronico, RV 213366; per l’affermazione dello stesso principio, cfr in special modo: Sez. 6, n. 8588 del 06/12/2000, dep. 2001, Ciarletta, RV 219039; Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, RV 236550; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, RV 257895).
In particolare, movendo dall’interpretazione dell’art. 373 c.p. (falsa perizia o interpretazione), si è constatato che le norme positive ammettono talora la configurabilità del falso ideologico anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene, ad esempio, nell’art. 2629 cod. civ. (valutazione esagerata del conferimenti e degli acquisiti della società).
Si è precisato che quando fa riferimento a criteri predeterminati, la valutazione è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, sebbene l’ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di specificità e di elasticità del criteri di riferimento.
Si è evidenziato che la falsità della conclusione può dipendere anche dalla “falsità di una delle premesse”.
Si è concluso che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili ovvero che sia posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni (v. Sez. 5, Andronico, cit.).
Dette conclusioni sono state ribadite anche in altra vicenda in cui all’imputato era contestato il concorso in falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 c.p. con un consulente tecnico del pubblico ministero in relazione alle valutazioni da questo esposte nel suo elaborato redatto su incarico del magistrato inquirente (v. Sez. 1, Capogrosso, cit.).
D’altra parte, in materia di reato di falsa perizia, nei pochissimi precedenti reperibili, l’applicazione delle categorie “vero-falso” sembra essere avvenuta in linea con i principi da ultimo esposti (Sez. 5, n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo, RV 249836; Sez. 6, n. 45633 del 24/10/2013, Piazza, non mass.).
In applicazione di questi principi deve concludersi che anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità.

il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici
Ne discende che il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici, sicché il caso in esame (in cui il consulente del Pubblico ministero era chiamato ad accertamenti che postulavano sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi) deve essere inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l’offerta (rifiutata), nel combinato disposto di cui agli artt. 377 e 371-bis c.p. (intralcio alla giustizia per far rendere false dichiarazioni al pubblico ministero) o in quello di cui agli artt. 377 e 372 c.p. (intralcio alla giustizia per far rendere una falsa testimonianza).

7. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:
“L’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata a influire sul contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 c.p..
8. Conseguentemente, riqualificata l’imputazione ai sensi dell’art. 377 c.p., la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
A norma dell’art. 624 c.p.p., comma 2, la sentenza impugnata va dichiarata irrevocabile in punto di affermazione della responsabilità dei ricorrenti per il fatto loro ascritto come riqualificato in questa sede.

334 c.p.

6. Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro

Cass. S.U. 28 ottobre 2010, p.g. in proc. Di Lorenzo

Non è configurabile il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro (art. 334 c.p.) nella condotta del custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo, ai sensi dell’art. 213, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, che si ponga alla guida dello stesso

Ritenuto in fatto

1. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Napoli ha proposto ricorso avverso la sentenza 14 ottobre 2009 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che ha dichiarato non doversi procedere, nei confronti di Pasquale Di Lorenzo, in ordine al delitto di cui all’art. 334 c.p. con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Il giudice, con la sentenza indicata, aveva ritenuto che la condotta dell’imputato (avere circolato abusivamente alla guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo ai sensi dell’art. 213 cod. strada) integrasse esclusivamente l’illecito amministrativo previsto dal comma 4 del medesimo art. 213 e non anche l’indicata ipotesi di reato (art. 334) prevista dal codice penale.
Il ricorrente contesta la correttezza della tesi accolta dalla sentenza e – deducendo il vizio di inosservanza ed erronea applicazione della legge penale – richiama la prevalente giurisprudenza di legittimità che esclude che possa ravvisarsi un concorso apparente di norme tra l’art. 334 c.p. e l’art. 213 del codice della strada.
Questa costruzione del quadro normativo risulterebbe confermata sia dalla diversità dei soggetti attivi che possono commettere il reato sia dalla diversità delle condotte descritte nelle norme indicate.

2. La Sesta sezione di questa Corte, con ordinanza del 23 settembre 2010, ha trasmesso il ricorso a queste Sezioni unite.
Nell’ordinanza di rimessione si riassumono i due orientamenti che si sono formati nella giurisprudenza di legittimità. Uno, minoritario, secondo cui la condotta del soggetto sorpreso alla guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo risponde soltanto dell’ipotesi di violazione amministrativa prevista dal quarto comma dell’art. 213 cod. strada; l’altro, maggioritario, che ritiene che questa condotta realizzi anche l’ipotesi di reato prevista dall’art. 334 c.p.
Si sottolinea come l’orientamento prevalente – che esclude ci si trovi in presenza di concorso apparente e quindi ammette il concorso tra le due ipotesi di illecito – abbia in realtà dato luogo a pronunce non sempre uniformi rilevando come, in alcuni casi, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto sufficiente, ad integrare la sottrazione del veicolo, la semplice amotio del medesimo mentre, in altre decisioni, si è sottolineata l’esigenza di verificare l’effettiva offensività della condotta accertando se la condotta posta in essere sia idonea ad eludere il vincolo di indisponibilità del bene.
Ancora, con riferimento all’ipotesi del deterioramento (prevista dal medesimo art. 334), si è escluso che il semplice uso del veicolo sia sufficiente ad integrare tale condotta dovendosi verificare in concreto se tale deterioramento sia avvenuto. In queste ipotesi sarebbe da escludere il concorso apparente purché la messa in circolazione sia sintomatica della volontà di sottrarre il bene al fine di eludere il vincolo di indisponibilità.

Considerato in diritto

1. La questione sottoposta all’esame delle sezioni unite riguarda la soluzione del quesito se sia configurabile – nella condotta del custode del veicolo oggetto di sequestro amministrativo, ai sensi dell’art. 213 cod. strada, che circoli abusivamente con lo stesso – oltre alla violazione amministrativa prevista dal comma 4 del medesimo art. 213, anche il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro (art. 334 c.p.).
Con l’avvertenza preliminare che il problema si pone esclusivamente quando l’agente sia anche proprietario o custode (o abbia entrambe le qualità) del veicolo; diversamente il problema del concorso non si pone perche le ipotesi disciplinate dal codice penale si riferiscono solo a chi riveste queste qualità (reato proprio).
brevi considerazioni riguardanti il principio di specialità
All’esame del tema proposto vanno premesse alcune brevi considerazioni riguardanti il principio di specialità: sia in generale per quanto riguarda le fattispecie penali sia con riferimento al concorso tra norme penali e violazioni di natura amministrativa. Questo tema, sotto il primo profilo, si inserisce nel problema più generale del concorso di reati – che può essere materiale (pluralità di condotte) o formale (unicità della condotta) – ipotizzabile quando una persona è chiamata a rispondere di più reati. In entrambe le ipotesi il concorso può essere omogeneo o eterogeneo a seconda che vengano violate una sola o più norme incriminatici.
Se questi reati sono disciplinati – come nel caso in esame – da una o più leggi che regolano la stessa materia si pone il problema se ci si trovi in presenza di concorso di reati ovvero se il concorso sia soltanto apparente nel senso che solo una delle ipotesi di reato può essere ritenuta esistente evitandosi il rischio di incorrere nel c.d. ne bis in idem sostanziale. Questo tema – per quanto riguarda il concorso tra norme penali – è disciplinato dall’art. 15 c.p. (principio di specialità) secondo cui, in queste ipotesi, la legge o la disposizione di legge speciale deroga a quella generale salvo che sia altrimenti stabilito.
Trattasi di una definizione assai generica che dottrina e giurisprudenza hanno cercato di rendere più determinata anzitutto con una serie di distinzioni che consentono un inquadramento più preciso del principio e una sua più agevole applicazione ai casi concreti.

1.1. La specialità può anzitutto riguardare una soltanto delle fattispecie penalmente sanzionate; si parla in questo caso di specialità unilaterale che può assumere carattere di specificazione o di aggiunta; queste ipotesi si realizzano:
– con la specificazione dei requisiti dell’altra fattispecie (specialità per specificazione); per es. violenza sessuale e violenza privata;
– con l’aggiunta di elementi rispetto all’altra fattispecie (specialità per aggiunta); per es. sequestro di persona e sequestro di persona a scopo di estorsione.
La specialità unilaterale si caratterizza perché – se si elimina la specificazione o l’aggiunta – si ricade nell’ipotesi generale. In questi casi la soluzione dei casi specifici è agevole e l’applicazione del principio di specialità non trova ostacoli; nella specialità per specificazione l’ipotesi speciale è addirittura già ricompresa in quella generale per cui sarebbe comunque punibile in base all’ipotesi generale; ma anche nell’ipotesi per aggiunta (nella quale l’ipotesi speciale non era già prevista dall’ipotesi generale) la condotta posta in essere ricade comunque in quella generale perché sono presenti tutti gli elementi della fattispecie tipica generale.
Nel caso di specialità unilaterale non sorgono dunque problemi per l’applicazione del principio di specialità od ostacoli per ritenere apparente il concorso di reati.

1.2. La specialità può essere invece bilaterale o reciproca e ciò si verifica quando l’aggiunta o la specificazione si verificano con riferimento sia all’ipotesi generale che a quella specifica (per es. rapporto tra 610 e 611 c.p.: la prima norma prevede anche il tollerare o l’omettere che non sono previsti dalla seconda che, a sua volta, ha in più che la violenza o la minaccia devono essere dirette a far commettere un fatto costituente reato).
E’ evidente, nel caso di specialità bilaterale, la maggior difficoltà di applicare il principio di specialità perché non esistono criteri, se non di ordine logico, idonei a spiegare in modo inequivoco che cosa si intenda per norma speciale.
Su questo punto è da osservare che, per rendere concretamente applicabile il principio di specialità in questi casi più complessi, sono stati proposti il criterio di sussidiarietà e quello di consunzione (detto anche di assorbimento).
Il criterio di sussidiarietà (è sussidiaria la norma che tutela un grado inferiore dello stesso bene tutelato dalla norma generale in grado inferiore: per. es. atti contrari alla pubblica decenza e atti osceni) può peraltro essere agevolmente riportato al principio di specialità (per rimanere all’esempio fatto: l’atto osceno ha, in aggiunta, il riferimento alla sessualità).
E alla medesima conclusione è pervenuta parte della dottrina per quanto riguarda il criterio di consunzione o assorbimento (si è affermato che è <<consumante la norma, il cui fatto comprende in sé il fatto previsto dalla norma consumata, e che perciò esaurisce l’intero disvalore del fatto concreto>>).
E’ comunque da rilevare che entrambi questi criteri – sussidiarietà e consunzione (o assorbimento) – sono stati ritenuti, dalle Sezioni unite di questa Corte, tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità (v. sentenza 20 dicembre 2005 n. 47164, Marino, RV 232302-4) perché, così si esprimono le sezioni unite, <<i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale>>.
Resta dunque fermo che l’unico criterio normativamente certo è quello di specialità.
Ma questa conclusione non basta a risolvere i problemi perché la norma non chiarisce se la specialità debba intendersi in concreto (applicando il trattamento più grave) o in astratto anche se dottrina e giurisprudenza propendono per questa seconda ipotesi perché, si è osservato, <<non ha senso fare dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra norme. La specialità o esiste già in astratto o non esiste neppure in concreto>>”.

1.3. L’art. 15 c.p. fa riferimento alla “stessa materia” ma non chiarisce che cosa si intenda con l’uso di questa locuzione. Inutile dire che, anche su questo aspetto, si sono creati contrasti in dottrina: c’è chi la intende nel senso di stesso fatto “materiale” ma altra parte della dottrina ha messo in evidenza come esistano ipotesi certamente riconducibili al concorso di reati in cui il fatto è unico (per es. violenza sessuale e incesto); c’è invece chi fa riferimento all’identità del bene protetto.
Ma nei confronti di quest’ultima ricostruzione – l’identità del bene protetto – è stato obiettato che ciò condurrebbe a ritenere il concorso di reati anche nel caso di specialità unilaterale (per es. sequestro di persona e sequestro di persona a scopo di estorsione perché, in questo secondo caso, bene protetto è anche il patrimonio; e così variano i beni protetti nel caso di ingiuria e oltraggio a magistrato in udienza e in quello di violenza privata e violenza a p.u.; tutti casi per i quali per i quali non sono mai sorti dubbi sulla natura apparente del concorso).
E’ dunque da ritenere che per “stessa materia” debba intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico di reato nel quale si realizza l’ipotesi di reato.
Tesi confermata dalle sezioni unite di questa Corte che hanno ritenuto (v. sentenza 19 aprile 2007 n. 16568, Carchivi, RV 235962) che <<il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia>>.
E’ da rilevare che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; ciò si verifica anche nel caso di specialità reciproca per specificazione (si veda per es. il rapporto tra 581 e 572 c.p.) ed è compatibile anche con la specialità unilaterale per aggiunta (per es. 605 e 630) e con la specialità reciproca parte per specificazione e parte per aggiunta (641 c.p. e 218 legge fall.).
L’identità di materia è invece da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta nei casi in cui ciascuna delle fattispecie presenti, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo (per es. violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso; rapporto di parentela o affinità nel secondo).

1.4. Precisato che cosa si intende per “stessa materia” occorre stabilire che cosa sia speciale.
Come si è già accennato la soluzione è agevole nel caso di specialità unilaterale.
E’ il caso più semplice perché caratterizzato dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori. In questo caso ci troviamo certamente nell’ipotesi del “concorso apparente” per cui deve ritenersi applicabile soltanto la fattispecie speciale.
Ma perché possa ritenersi applicabile l’art. 15 ricordato è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare tutti la medesima materia ed avere identità di struttura.
Tale è, per es., il rapporto tra le fattispecie criminose previste dagli artt. 610 e 611 c.p. o tra quelle previste dagli artt. 624 e 626 c.p.
Si è già visto invece che, nel caso di specialità bilaterale o reciproca, il problema è di meno agevole soluzione proprio perché entrambe le fattispecie (ma potrebbero essere anche più di due) presentano, rispetto all’altra, elementi di specialità.
Giurisprudenza e dottrina si rifanno a indici diversi che possono così indicativamente riassumersi:
– i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es. cod. civ. e legge fall.);
– specialità tra soggetti (per es. 616 e 619 c.p.);
– la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti.
Nei casi di specialità reciproca spesso è la stessa legge a indicare quale sia la norma prevalente con una clausola di riserva che può essere:
– determinata (al di fuori delle ipotesi previste dall’art……);
– relativamente determinata (si individua una categoria: per es.: se il fatto non costituisce un più grave reato);
– indeterminata (quando il rinvio è del tipo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge).

concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative
2. Il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative (e quello tra norme che prevedono violazioni amministrative) è invece disciplinato dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa si applica la disposizione speciale. Si tratta di una norma innovativa perché, in precedenza, il principio generalmente accolto era quello del normale concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa.
Per ovvie ragioni il concorso tra disposizione penale e violazione amministrativa ha natura di concorso “eterogeneo” di norme.
La prima considerazione da fare, su questa norma, è che la stessa non prevede la “clausola di riserva”. La diversa formulazione, rispetto all’art. 15 c.p., non preclude comunque al legislatore di prevedere espressamente la clausola nei singoli casi: v., per es., l’art. 214, comma 8, cod. strada) ma vale sicuramente a dettare un criterio interpretativo restrittivo in quelli che potrebbero essere considerati casi di riserva implicita ampliando inevitabilmente l’area del concorso apparente in un percorso di valorizzazione di questo principio che certamente il legislatore ha voluto perseguire con l’eliminazione del riferimento alla clausola di riserva.
Anche se non può condividersi l’orientamento (di cui è espressione Cass., sez. III, 4 aprile 2008 n. 19124, Palmieri e altro, n.m.) secondo le norme del codice della strada sono sempre speciali rispetto a quelle del codice penale nulla vietando che una specificazione o aggiunta sia prevista solo dal secondo.
Altrettanto rilevante è, nel testo dell’art. 9, la differenza rispetto all’art. 15 c.p. laddove, invece di parlare di “stessa materia”, si fa riferimento allo “stesso fatto”.
Non è però da ritenere che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto dovendosi al contrario ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione evitando quella genericità che caratterizza l’art. 15 c.p. con il riferimento alla materia.
Valgono infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, le medesime considerazioni in precedenza espresse sulla necessità che il confronto avvenga tra le fattispecie tipiche astratte e non tra le fattispecie concrete.
Il che, del resto, è confermato dal tenore dell’art. 9 che, facendo riferimento al “fatto punito”, non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso.
Orientamento condiviso anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza 3 aprile 1987, n. 97 – pronunziata proprio sul tema del concorso tra fattispecie di reato e violazione di natura amministrativa e con riferimento alla disciplina prevista dall’art. 9, comma primo legge n. 689 del 1981 – ebbe ad osservare che per risolvere il problema del concorso apparente <<vanno confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso>>.

la struttura del reato e della violazione amministrativa del cui concorso si discute
3. Fatte queste premesse si osserva che, per risolvere il caso proposto alle sezioni unite, occorre preliminarmente esaminare la struttura del reato e della violazione amministrativa del cui concorso si discute.
Il problema del concorso apparente richiede infatti la previa verifica dell’esistenza di un’area, comune e sovrapponibile, tra le condotte descritte nelle norme concorrenti; diversamente, se le condotte tipiche fossero diverse, neppure si porrebbe il problema di cui ci stiamo occupando perché si tratterebbe di una mera “interferenza” che può verificarsi, per esempio, nei casi in cui non si è in presenza di un medesimo fatto ma soltanto di una comune condotta.
L’art. 334 c.p. disciplina diverse ipotesi.
Quella prevista dal primo comma può essere commessa solo da chi ha in custodia la cosa e si realizza con condotte alternative analiticamente indicate (sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione, deterioramento); si tratta di un’ipotesi che richiede in capo all’agente l’esistenza del dolo specifico (lo scopo di favorire il proprietario della cosa).
L’ipotesi che viene maggiormente in considerazione è quella prevista dal secondo comma dell’art. 334 nella quale le condotte tipiche già descritte sono realizzate dal proprietario che sia anche custode.
Entrambe le ipotesi previste dall’art. 334 (ma anche l’ipotesi colposa disciplinata nell’art. 335 c.p.) sono caratterizzate, rispetto all’ipotesi prevista dal codice della strada, dalla circostanza che si tratta di reati “propri” che possono essere commessi esclusivamente dal custode (comma primo; ma anche l’ipotesi colposa prevista dall’art. 335) o dal proprietario custode (comma secondo); questa è una prima rilevante differenza con l’illecito di carattere amministrativo perché la condotta prevista dal comma 4 dell’art. 213 cod. strada può essere realizzata da “chiunque”.
A loro volta gli elementi specializzanti contenuti nell’art. 213 sono costituiti dalle circostanze che la norma si riferisce al solo sequestro amministrativo previsto dal medesimo art. e che non ogni condotta prevista dall’art. 334 integra l’ipotesi di illecito amministrativo ma esclusivamente la condotta di chi “circola abusivamente”.
La verifica che va compiuta è dunque quella rivolta ad accertare se una delle condotte descritte dalla norma del codice penale sia sovrapponibile alla condotta di chi circola abusivamente.; se cioè la circolazione abusiva realizzi anche uno dei fatti tipici descritti nell’art. 334.
Questa verifica consente di affermare che, tra le condotte descritte nell’art. 334 c.p., l’unica per la quale può affermarsi una corrispondenza e sovrapposizione tra i fatti descritti nelle due norme è la sottrazione.
Il problema del concorso apparente neppure si pone quindi per quanto riguarda le altre condotte previste dalla norma codicistica: soppressione, distruzione e dispersione nulla hanno a che vedere con la circolazione del veicolo.

3.1. Ritengono le Sezioni unite che il problema non si ponga neppure per l’ipotesi del deterioramento che alcune decisioni di legittimità hanno invece preso in considerazione.
Circolare abusivamente costituisce un fatto tipico ben distinto dal deteriorare che può costituire una conseguenza indiretta della condotta illecita ma non realizza la condotta descritta anche perché l’usura che può conseguire alla circolazione non è equiparabile al deterioramento e la circolazione può addirittura servire ad evitare il deterioramento del motore del veicolo.
Si aggiunga che, nell’ipotesi del deterioramento la condotta dell’agente deve essere caratterizzata, sotto il profilo soggettivo, dal dolo (l’ipotesi colposa prevista dall’art. 335 c.p. non prevede il deterioramento) che appare difficilmente ipotizzabile nel caso della abusiva circolazione.

3.2. Si può invece convenire con la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui anche la sola amotio del veicolo può realizzare la sottrazione.
La condotta di sottrazione non implica l’impossessamento della cosa e può realizzarsi con la semplice elusione del vincolo cui il bene è sottoposto.
Si è infatti condivisibilmente osservato (da parte di Cass., sez. VI, 28 novembre 2007 n. 2163, Ferreri, RV 238477) che <<lo spostamento non più controllabile dal luogo di custodia, integra la condotta di “sottrazione”, perché il bene esce dalla sfera giuridica propria della procedura ablatoria ed entra in quella di fatto e privatistica dell’utilizzatore, sia esso il proprietario o il custode, con conseguente incidenza negativa sulla regolarità della procedura>>.
Va però precisato che deve trattarsi di una condotta effettivamente caratterizzata da offensività che valga a far ritenere esistente una reale sottrazione, eventualmente anche temporanea, non soltanto alla disponibilità del bene ma altresì all’esercizio dei poteri di controllo esercitati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità amministrativa (non deve dunque trattarsi del semplice spostamento del veicolo da un luogo ad un altro senza che lo stesso venga sottratto alla possibilità di esercizio di questi poteri ma si deve trattare di un uso incompatibile con le finalità del sequestro).

3.3. Fatte queste considerazioni ritengono le Sezioni unite che nel caso proposto vada ritenuta l’esistenza della sola violazione amministrativa prevista dall’art. 213 cod. strada.
Va premesso, da un punto di vista logico, che il già ricordato percorso normativo – espresso dal più volte menzionato art. 9 – diretto a privilegiare la specialità (e quindi l’apparenza del concorso) costituisce un’importante chiave di lettura in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga (soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all’entrata in vigore della prima norma) una disciplina normativa che la preveda anche come violazione di natura amministrativa.
A meno che non risulti (da una previsione espressa o da ragioni logiche implicite o da altre considerazioni) che il legislatore abbia inteso affiancare la sanzione amministrativa a quella penale l’interprete deve privilegiare l’interpretazione che valorizza la specialità ritenendo la depenalizzazione della condotta in precedenza costituente reato che sia presa in considerazione dalla nuova normativa e, nel caso inverso, optando per la sola ipotesi penalmente sanzionata.
A maggior ragione si impone l’applicazione del principio di specialità quando la violazione amministrativa, come nel caso in esame, costituiva precedentemente reato (la depenalizzazione è avvenuta in forza dell’art. 19, comma 5, d. lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) perché, in questo caso, è ancor più evidente l’intenzione del legislatore di affidare la disciplina del caso alle sole norme che disciplinano l’illecito amministrativo.

3.4. Fatta questa premessa di ordine logico l’esame della struttura delle due ipotesi di illecito in considerazione conferma l’ipotesi della sola apparenza del concorso; in particolare questo esame consente di escludere che il concorso di norma possa essere inquadrato nella fattispecie della specialità bilaterale o reciproca.
Infatti tutti gli elementi specializzanti qualificanti l’illecito sono contenuti nell’art. 213: la circolazione abusiva e la natura amministrativa del sequestro.
Si tratta di elementi specializzanti per specificazione perché entrambi sono già ricompresi nella fattispecie tipica dell’art. 334 c.p. e non si aggiungono al fatto descritto nella norma codicistica. Se la sottrazione si realizza anche con la sola amotio del veicolo questa condotta è prevista dalla norma del codice penale che, sotto il diverso profilo indicato, prevede espressamente anche il sequestro disposto dall’autorità amministrativa.
C’è però, nell’art. 213, un ulteriore elemento specializzante: la circostanza che la violazione amministrativa possa essere commessa da “chiunque” e questo elemento può essere ritenuto specializzante “per aggiunta” (l’illecito può essere commesso – in aggiunta ai soggetti indicati nell’art. 334 c.p. – anche da persone che non hanno quelle qualità).
Se così è la soluzione del quesito proposto è obbligata: gli elementi specializzanti sono tutti contenuti nell’art. 213, comma 4, cod. strada e dunque questa norma deve essere ritenuta speciale ai sensi dell’art. 9, comma primo, legge 24 novembre 1981, n. 689 (ma lo sarebbe anche con l’applicazione dell’art. 15 c.p.) con la conseguenza che il concorso con l’art. 334 c.p. – limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in base alla medesima norma – deve essere ritenuto apparente.
Né l’identità del fatto può essere negata in considerazione della (peraltro parziale) diversità dell’oggetto giuridico della tutela nel caso in esame per le considerazioni già svolte sull’irrilevanza di questo criterio che porterebbe ad escludere la specialità nei casi già indicati per i quali è pacificamente da sempre riconosciuta l’apparenza del concorso.

4. Deve dunque concludersi che nel caso esaminato il concorso tra le norme ricordate sia solo apparente e che sia applicabile all’ipotesi in esame soltanto la violazione amministrativa prevista dall’art. 213, comma quarto, cod. strada.
(omissis)

349

6. Violazione di sigilli

Cass. S.U. 26 novembre 2009, D’Agostino

Il reato di violazione di sigilli è configurabile anche nel caso in cui i sigilli siano stati apposti esclusivamente per impedire l’uso illegittimo della cosa, perché questa finalità deve ritenersi compresa in quella, menzionata nell’art. 349 c.p., di assicurare la conservazione o la identità della cosa. (Nella specie, i sigilli erano stati apposti dalla Polizia municipale ad una macchinetta da caffè e ad una scaffalatura in cui erano esposte bevande, all’interno di un pubblico esercizio nel quale si effettuava attività di somministrazione di alimenti e bevande senza autorizzazione).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 31/1/05 il Tribunale monocratico di Messina ha dichiarato Emma D’Agostino colpevole del reato di cui all’art. 349 cpv. c.p. per avere il 26/2/03 violato, nella qualità di custode, i sigilli apposti il 13/8/02 per ordine dell’autorità amministrativa (la Sezione annona e polizia amministrativa della locale Polizia municipale) alla macchina del caffè e ad una scaffalatura di esposizione di bevande in un esercizio di ritrovo, sito in Ganzirri, nel quale si effettuava attività di somministrazione di alimenti e bevande senza la prescritta autorizzazione; e l’ha condannata alla pena ritenuta di giustizia.
La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Messina con sentenza in data 14/3/08.
Contro quest’ultima pronuncia la D’Agostino ha proposto ricorso per cassazione con il quale deduce erronea applicazione dell’art. 349 c.p., sull’assunto che non sarebbe configurabile il reato di violazione di sigilli quando questi sono apposti non per assicurare la conservazione o l’identità della cosa, come enunciato dalla norma incriminatrice, bensì per impedire la prosecuzione di un’attività illegittima.
La Sezione 3^, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza in data 23/6/09 lo ha rimesso alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza di due contrapposte letture interpretative della norma. Secondo l’orientamento, largamente prevalente, cui i giudici del merito si sono uniformati (Sez. 6^ 11/12/69 n. 2401, Del Giudice, RV 114.231; Sez. 6^ 22/2/84 n. 4943, Cioce, RV 164.495; Sez. 6^ 16/4/86 n. 10666, Ventimiglia, RV 173.903; Sez. 6^ 28/4/93 n. 7961, Di Filippo, RV 194.900; Sez. 3^ 10/7/01 n. 36210, Arcieri, RV 220.345; Sez. 3^ 28/1/03 n. 10267, Buonfiglio Tanzarella, RV 224.348; Sez. 3^ 26/11/03 n. 2600/04, Biondo, RV227.398; Sez. 3^ 12/1/07 n. 6417, Battello, RV 236.178; Sez. 3^ 5/7/07 n. 34151, Ascolese, RV 237.370; Sez. 3^ 3/4/08 n. 19722, Palomba, RV 240.037) l’oggetto giuridico del delitto di violazione di sigilli va individuato nella tutela della intangibilità della cosa rispetto ad ogni atto di disposizione o di manomissione, dovendosi ricondurre alla finalità di assicurarne la conservazione anche la interdizione dell’uso di essa disposta dall’autorità, senza che rilevino le finalità o le ragioni del provvedimento limitativo.
Secondo un altro orientamento invece (Sez. 6^ 9/7/82 n. 7934, Villanis, RV 155.056; Sez. 6^ 24/11/87 n.5248, Clemente, RV 178.261; Sez. 3^ 14/10/99 n. 13710, Gallo, RV 214.819; Sez. 2^ 12/12/03 n. 3416/04, Minopoli, RV 227.865) le finalità indicate nella norma incriminatrice sono tassative e quindi il reato non sarebbe configurabile quando i sigilli non sono apposti per assicurare la conservazione o la identità di una cosa ma per la finalità, considerata diversa e tipicamente sanzionatoria, di impedirne l’uso.
Con decreto del 17/7/09 il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’udienza pubblica del 26 novembre 2009.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il contrasto per cui il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è molto netto, avendo dato luogo a decisioni opposte in situazioni quasi identiche, e si è radicalizzato senza che le due diverse tesi siano state fatte oggetto di particolari approfondimenti, stante l’essenzialità dell’apparato argomentativo delle varie pronunce.
L’area in cui vi è stata difformità rispetto all’orientamento nettamente maggioritario è però piuttosto limitata, riguardando in tutto solo quattro casi di violazione di sigilli apposti per impedire la prosecuzione di attività commerciali o artigianali esercitate in assenza delle necessarie autorizzazioni.
Per la stessa finalità, quella di impedire il protrarsi di attività svolte senza il rispetto della normativa che le disciplina, i sigilli violati risultano essere stati apposti in casi del tutto analoghi in cui è stata adottata la soluzione contraria.
Nessun contrasto rispetto all’orientamento prevalente si è invece mai verificato nelle fattispecie, le più numerose tra quelle che hanno dato luogo a pronunce di questa Corte, in cui i sigilli violati risultano essere stati apposti per impedire la prosecuzione di costruzioni abusive o altre attività in campo edilizio. 2. L’orientamento minoritario si è attestato su una interpretazione strettamente letterale della norma incriminatrice e ha quindi senz’altro ritenuto, senza indagare quelle che potrebbero essere state le ragioni di una simile scelta, che il legislatore abbia voluto attribuire rilevanza penale alla sola violazione dei sigilli apposti per evitare manomissioni dirette ad alterare l’oggettiva consistenza della cosa.
L’orientamento prevalente ha ritenuto invece, sin dalla pronuncia più risalente nel tempo (Sez. 6^ 11/12/69 n. 2401), che la lettera dell’art. 349 c.p., se non ci si ferma alla più comune accezione delle espressioni usate, non delinea affatto in modo insuperabile un perimetro così limitato.
Ciò sul rilievo che “conservare una cosa” letteralmente significa mantenerla nello stato in cui attualmente si trova e quindi, poiché anche il non uso è uno stato, tra i significati che tale espressione è suscettibile di esprimere vi è anche quello di sottrarre la cosa “all’esercizio di ogni facoltà altrui compresa quella di farne uso”. Ritenuto quindi che vi fosse spazio agevolmente percorribile per una interpretazione estensiva della norma incriminatrice di cui si tratta, che non contrasta con il principio di stretta legalità vigente in materia penale non risolvendosi in applicazione analogica in malam partem, l’orientamento prevalente è approdato alla conclusione che il fine di conservazione della cosa, che deve connotare l’apposizione del sigillo perché la sua violazione abbia rilevanza, comprende anche il fine di impedirne l’uso, non solo quello di preservarne la materialità.

3. Le Sezioni Unite ritengono di aderire alla soluzione data alla dall’orientamento prevalente, sul rilievo che ad essa conducono i criteri propri della interpretazione logica cui, ai sensi dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, il giudice deve fare ricorso, con il solo limite rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione, per stabilire quale sia la reale intenzione del legislatore.
Intenzione che, secondo un canone ermeneutico ormai generalmente recepito e costantemente adottato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. 3^ 13/5/08 n. 36845 con riferimento al reato di cui all’art. 674 c.p.) va considerata non in senso soggettivo ma in senso oggettivo, come voluntas legis, sicché non è importante tanto stabilire (soprattutto se, come nel caso di specie, l’origine della norma è lontana nel tempo) quale fosse lo scopo perseguito da chi l’ha redatta, quanto piuttosto individuare quale è la funzione cui essa risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita; e ciò al di là delle parole usate che, nella loro accezione più comune, possono non essere, per le più svariate ragioni, le più idonee a compiutamente rivelare la ratio della disposizione.

4. Posta questa premessa, va anzitutto rilevato, sotto il profilo storico, che il testo dell’art. 349 del vigente codice penale, collocato nel capo riguardante i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, riproduce, senza rilevanti variazioni ai fini che qui interessano, quello del precedente art. 201 c.p. del 1889, e che quest’ultima disposizione era stata mutuata dai codici preunitari (il codice sardo del 1859, che ha imitato la comune casistica del codice francese del 1810, e il codice toscano). Si tratta dunque di una norma elaborata secondo tecniche e con riferimento a realtà molto lontane nel tempo, sicché più che all’aspetto descrittivo è all’esigenza da cui è ispirata che occorre avere riguardo.
Tale esigenza è stata sempre individuata dalla più autorevole dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. 6^ 10/12/85 n. 2109, Manone, RV 172.144; Sez. 6^ 15/4/88 n. 926, Tranchino, RV 180.266; Sez. 3^ 28/9/04 n. 42900, Giuliani, RV 230.307) nell’interesse di assicurare il normale funzionamento della pubblica amministrazione in senso lato garantendo il rispetto dovuto a quelle custodie materiali – meramente simboliche, in quanto costituiscono non tanto un mezzo di impedimento fisico all’attività interdetta, quanto piuttosto un segno di avvertimento delle conseguenze giuridiche di tale attività – mediante le quali si manifesta la volontà dello Stato diretta a preservare determinate cose da ogni atto di disposizione o di manomissione da parte di persone non autorizzate.
E poiché questo interesse dello Stato si presenta in moltissimi campi – e all’apposizione di sigilli sono legittimate a fare ricorso, per manifestare erga omnes la presenza di un siffatto vincolo giuridico su determinati beni, sia l’autorità giudiziaria e quella di polizia, nei procedimenti penali e in quelli civili, sia, come è avvenuto nel caso di specie, l’autorità amministrativa ai sensi del D.P.R. 29 luglio 1982, n. 571, art. 5 recante norme di attuazione della L. 24 novembre 1981, n. 689 – l’ambito di possibile applicazione dell’art. 349 c.p. risulta molto ampio.

5. Proseguendo nell’indagine diretta a verificare – al di là del dato letterale su cui si fonda l’orientamento giurisprudenziale restrittivo – se esista qualche pregnante ragione per ritenere che la voluntas legis sia di escludere dalla tutela penale dei sigilli i casi, molto numerosi, in cui la loro apposizione è precipuamente finalizzata a impedire l’uso della cosa assicurata con questo mezzo piuttosto che a preservarne l’integrità, è utile ancora ricordare, sotto il profilo sistematico, che la protezione delle cose sottoposte a vincolo è demandata anche ad altre norme incriminatrici come l’art. 334 c.p. (che punisce la sottrazione o il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa), l’art. 351 c.p. (che punisce la sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento di corpi di reato, atti, documenti, ovvero un’altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio) e l’art. 388 c.p., comma 3 (che punisce la sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o il deterioramento di cose, di proprietà dell’agente, sottoposte a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo).
Rispetto a queste norme – che sono tutte di portata generale, prescindendo dalla specifica finalità per cui il vincolo sulla cosa è stato posto – quella sulla violazione dei sigilli chiaramente rappresenta, come è stato rilevato in dottrina, una forma di tutela “prodromica”, in quanto non diretta immediatamente sulla materialità dei beni custoditi ma incentrata sulla repressione dei comportamenti che incidono sui segni esteriori della custodia.

6. Il profilo funzionale che emerge da quanto sinora evidenziato è dunque decisivo, insieme a quello sistematico, per la risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite.
Ed invero, poiché il sigillo si configura come un mezzo di portata generale destinato a rafforzare la protezione delle cose che l’autorità giudiziaria o amministrativa è autorizzata dalla legge a rendere indisponibili per il perseguimento dei suoi compiti istituzionali, appare del tutto coerente ritenere che la effettiva voluntas legis sia di attribuire la stessa ampiezza anche alla tutela penale che a tale strumento si è inteso riconoscere.
È significativo, infatti, che in dottrina sia pervenuto a questa stessa conclusione – sul rilievo che le finalità indicate dall’art. 349 c.p. non sono di per sè escluse dalla eventuale compresenza di fini ed obiettivi ulteriori rispetto alla conservazione o alla identità della cosa, che si vogliono strumentalmente garantire – anche chi ritiene che le espressioni usate nella norma facciano riferimento alla cosa nella sua materialità.
Come è stato rilevato nella sentenza 12/1/07 n. 6417 della Sezione 3^, contrasterebbe d’altra parte in modo evidente con la ratio della incriminazione che venissero sottratte alla tutela penale apprestata dall’art. 349 c.p. molte e importanti ipotesi di sequestro cautelare disposto dall’autorità giudiziaria; conseguenza questa cui si perverrebbe alla stregua dell’orientamento, formatosi sui ricordati casi di sequestro amministrativo, che privilegia una interpretazione strettamente letterale della norma.
Ciò in particolare accadrebbe per il sequestro preventivo penale (art. 321 c.p.p.) – in relazione al quale l’applicabilità dell’art. 349 c.p. è stata invece specificamente ritenuta (cfr. Sez. 3^ 24/1/06 n. 6446, Ornano e altri, RV 233.312) – che è preordinato proprio ad impedire la disponibilità della cosa pertinente al reato, per evitare che dall’uso di essa possa derivare l’aggravamento o la protrazione delle conseguenze o l’agevolazione della commissione di altri reati.

7. Va quindi affermato il principio di diritto che il reato di cui all’art. 349 c.p. è configurabile anche quando la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti per impedire l’uso illegittimo della cosa.
Pertanto il ricorso dell’imputata va rigettato con le conseguenze in ordine alle spese processuali previste dall’art. 616 c.p.p..