Di Renato Bricchetti
1. Beni giuridici tutelati
Cass. S.U. 25 ottobre 2007, p.o. S.M.I. in proc. ignoti
Le Sezioni unite, sulla premessa che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre che il requisito dell’offesa alla fiducia collettiva in determinati atti, anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva in riguardo alla concreta incidenza nella sfera giuridica di un soggetto, hanno statuito il principio secondo cui il soggetto sulla cui posizione giuridica l’atto incide direttamente è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.
Osserva
1 – Il 26 aprile 2005 veniva depositato, nell’interesse della S.M.I. – San Marino Investimenti S.A., il cui rappresentante legale era Pasquini Enrico Maria, un esposto-denuncia contro ignoti, con richiesta di sequestro, per un’ipotesi di reato di falso relativo all’intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. Lualex (il 95%, con valore nominale pari a 490.634,05 euro), controversa tra la stessa S.A. S.M.I. e Bozzo Ferdinando.
Il P.M. presso il Tribunale di Milano non riteneva di disporre il sequestro e, all’esito delle indagini svolte, avanzava al G.I.P. richiesta di archiviazione del procedimento.
Con atto depositato il 9 febbraio 2006 il difensore del legale rappresentante della denunciante S.M.I. S.A. presentava opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 410, comma primo, del codice di procedura penale, sull’asserito rilievo della lacunosità delle indagini, rappresentando la necessità di acquisizioni documentali, assumendo in particolare che la S.M.I. nell’esposto-denuncia aveva precisato di non aver mai sottoscritto un documento per il trasferimento a chicchessia delle azione della Lualex, ad essa S.M.I. fiduciariamente intestate.
Il G.I.P. del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta formulata dal P.M., disponeva, con provvedimento “de plano” in data 22 giugno 2006, l’archiviazione del procedimento
(omissis)
3 – Il procedimento è stato assegnato alla V Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 30 maggio 2007 (depositata il 22 giugno 2007), ne ha disposto la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p..
Ha infatti rilevato la sezione remittente che in ordine al motivo di doglianza, concernente la prospettata illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo e formale atto di opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. in materia di reato di falso, si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità: ed invero, mentre alcune decisioni, muovendo dal presupposto della natura plurioffensiva del reato, hanno concluso per il riconoscimento al denunciante della veste di persona offesa – con conseguente diritto di ricevere l’avviso previsto dall’art. 408, comma secondo, del codice di rito, e proporre quindi opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. – altre si sono espresse in senso contrario.
Il Primo Presidente ha fissato l’udienza del 25 ottobre 2007 di camera di consiglio per la discussione del gravame.
La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può così sintetizzarsi: se i delitti contro la fede pubblica tutelino l’interesse pubblico e solo di riflesso l’interesse del singolo al quale, di conseguenza, non verrebbe riconosciuta la qualità di persona offesa, oppure, in quanto reati plurioffensivi, tutelino anche la sfera giuridica del soggetto (denunciante-danneggiato) nei cui confronti il documento o la falsa dichiarazione vengano fatti valere, soggetto che, in tal caso, sarebbe legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.
Su detta questione, come richiamato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, ed in particolare anche all’interno della stessa Quinta Sezione alla quale, secondo la previsione tabellare, spetta la competenza a decidere i ricorsi in materia di reati di falso.
Primo indirizzo : il bene giuridico protetto nelle falsità documentali è la fede pubblica
4.1. Un primo indirizzo interpretativo è seguìto da coloro i quali ritengono che il bene giuridico protetto nelle falsità documentali sia la fede pubblica e in essa si esaurisca: i sostenitori di tale tesi escludono, dunque, che al privato danneggiato dal reato spetti l’avviso della richiesta di archiviazione e la legittimazione a proporre opposizione.
In questi termini si esprime la decisione Della Gatta (ordinanza, Sez. V, 27 marzo 2001, p.o. in proc. Della Gatta, dep. 13 luglio 2001, n. 28608, rv. 219639), la quale – premesso che l’opposizione alla richiesta di archiviazione compete unicamente alla persona offesa, che deve essere identificata nel titolare del bene giuridico immediatamente leso dal reato – afferma quanto segue: “poiché l’elemento del danno è del tutto estraneo alla struttura dei reati di falso (la cui obbiettività giuridica consiste nella tutela della genuinità materiale e nella veridicità ideologica di determinati documenti), il privato, anche se – in concreto – risulti ingiustamente danneggiato dalla condotta dell’indagato, non è legittimato alla proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di archiviazione”.
Detto principio muove dal presupposto che “per il perfezionarsi del reato è sufficiente il mero pericolo che dalla contraffazione o dall’alterazione possa derivare alla pubblica fede, che è l’unico bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice”.
Analogamente la sentenza Saccucci (Sez. V, 18 ottobre 2002, dep. il 29 novembre 2002, rv. 222981), per la quale “il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione….in quanto si tratta di reati che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico – costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito – e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato”.
Argomentazioni che sostengono anche le conclusioni della sentenza Cucullo (Sez. V, 16 marzo 2004, dep. il 22 giugno 2004, n. 27967, rv. 228891), per la quale i delitti contro la fede pubblica offendono direttamente l’interesse pubblico costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito e solo di riflesso ledono l’interesse del singolo, il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato: ergo, il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione; dette argomentazioni sono altresì proprie della sentenza Zaccaria (Sez. V, 19 settembre 2005, p. o. in proc. Zaccaria, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233208), della sentenza Erdas (Sez. V, 17 febbraio 2005, dep. il 24 marzo 2005, n. 11669, rv. 231497), della sentenza della V Sezione n. 13 del 3 gennaio 2006 (p.o. in proc. ignoti, rv. 232614), della sentenza Scarano (Sez. V, 19 settembre 2005, p.o. in proc. Scarano, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233204).
In senso analogo si esprime anche la sentenza Reggiani (Sez. V, 15 gennaio 2007, dep. 9 febbraio 2007, rv. 235864), la quale, in tema di falso in testamento olografo, afferma che nei delitti contro la fede pubblica “deve comunque ritenersi che, solo quando si tratti di reati non perseguibili d’ufficio, il riconoscimento della legittimazione a proporre la querela possa comportare l’equiparazione del danneggiato alla persona offesa anche ai fini processuali”: conseguentemente, stante la procedibilità d’ufficio, viene esclusa la legittimazione del danneggiato, costituito parte civile, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, che la legge attribuisce solo alla persona offesa costituita parte civile.
Alla base di questo orientamento vi è, dunque, la nozione di fede pubblica come bene immateriale a carattere collettivo che fa capo all’intera collettività non personificata, a tutti i cittadini ed a ciascuno non uti singulus ma uti civis: il danno sociale del falso si concreta e si manifesta esclusivamente nella c.d. immutatio veri mentre nessun rilievo, ai fini della sua illiceità, ha l’interesse del soggetto danneggiato in concreto dal falso, il quale non essendo titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, non è, con riferimento al problema che in questa sede rileva, persona offesa dal reato e, pertanto, non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione.
Secondo indirizzo : il bene giuridico protetto nelle falsità documentali è rappresentato anche dalla concreta posizione giuridica del soggetto su cui l’atto incide direttamente
4.2- Le conclusioni appena esposte non sono condivise da un diverso indirizzo interpretativo, il quale appare orientato a recuperare le fattispecie di falso ad una dimensione di “dannosità”.
In questo filone si inserisce la sentenza Arnoldi (Sez. V, 12 marzo 2001, p.o. in proc. Arnoldi, dep. il 20 giugno 2001, rv. 219472), la quale afferma che nei delitti contro la fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione “può competere anche al denunziante”.
E ciò in quanto si tratta di reati idonei “a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere”, quindi reati aventi “carattere plurioffensivo, che li rende non assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro l’amministrazione della giustizia”, i quali integrano “fattispecie lesive dell’interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l’interesse del privato può assumere rilievo solo riflesso e mediato” (nella specie il denunciante, avendo scoperto una falsa firma recante il proprio nome e cognome su un modulo di adesione ad un partito politico, caratterizzato da una ben precisa denominazione, aveva presentato atto di denuncia-querela nei confronti dei responsabili territoriali di tale partito; la Suprema Corte ha annullato il decreto di archiviazione del G.I.P., sulla base del principio come enunciato).
Nella stessa direzione si pone anche la decisione Moscato (Sez. V, 4 luglio 2005, p.o. in proc. Moscato ed altri, dep. 29 luglio 2005, n. 28712, rv. 232205), la quale afferma che nell’ipotesi in cui il reato di falso (nella specie quello di cui all’art. 479 c.p.), leda, oltre l’interesse pubblico, anche diritti soggettivi, il titolare di tali diritti è persona offesa dal falso, con la conseguenza che gli spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale in ordine alla richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 408, commi 2 e 3 c.p.p.: nella concreta fattispecie si ipotizzava la falsità di un rapporto dei Carabinieri relativo ad un sinistro automobilistico, falsità – come poi affermato dalla Cassazione – che “si riflette sul diritto del ricorrente a non subire gli effetti (patrimoniali) di un evento asseritamente mai verificatosi”, con conseguente legittimazione del denunziante all’esercizio delle facoltà proprie della persona offesa nel procedimento archiviatorio (anche se poi il ricorso è stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, sul rilievo che i temi proposti con l’atto di opposizione erano risultati “palesemente estranei all’accertamento del reato di falso ex art. 479 c.p.” e, quindi, privi dei requisiti tassativamente previsti dall’art. 410, comma 1, c.p.p.”, con la conseguente legittimità, nella concreta fattispecie, del provvedimento di archiviazione de plano adottato dal G.I.P.).
In conformità si esprime poi la sentenza Ziino (Sez. V, 13 giugno 2006, p.o. in proc. Ziino, dep. l’11 settembre 2006, rv. 235146), la quale afferma che, nei delitti contro la fede pubblica, “la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione spetta anche al denunziante qualora, in relazione al caso concreto, si accerti che la falsità abbia leso anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, trattandosi di reati plurioffensivi”.
Più precisamente, la sentenza Ziino, premesso che l’interesse tutelato dal falso documentale è senz’altro la fede pubblica, afferma che “ciò non esclude che la falsa attestazione possa essere per sé direttamente pregiudizievole di un diritto del singolo, la qualcosa va stabilita in concreto”.
Con la conseguenza che “solo se la giustificazione del decreto de plano fosse stata espressamente e concretamente rapportata all’esclusione di qualità di parte offesa del denunciante, che aveva richiesto di essere avvisato della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, per l’assenza di incidenza diretta sul suo diritto privato del falso ipotetico, si sarebbe potuto stabilire se il giudice aveva o non violato il suo diritto al contraddittorio, unica ragione che giustifica il ricorso in questa sede”: in sostanza, il giudice ha deciso de plano senza previamente verificare se il denunciante, che aveva fatto richiesta ai sensi dell’art. 408, comma 2, c.p.p., avesse realmente diritto all’avviso della richiesta di archiviazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
Alle medesime conclusioni perviene la sentenza Consolo (Sez. V, 15 gennaio 2004, dep. il 23 febbraio 2004, rv. 227939), la quale afferma che “il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza di diritti soggettivi, oltre che l’interesse pubblico”. Ne consegue che “se l’attestazione contraria al vero concerne un fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente offesa dal reato cui spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della richiesta di archiviazione del pubblico ministero “: nel caso portato all’esame della Suprema Corte, il falso ipotizzato riguardava la dichiarazione dell’atto pubblico che indicava la data di edificazione di una unità immobiliare cui era seguita la demolizione del manufatto, con danno per i muri portanti che interessavano la proprietà del denunziante; la Cassazione ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso in quanto “nella specie il diritto del ricorrente non è oggetto dell’atto che si assume falsificato, che concerne esclusivamente la proprietà privata del denunciato e non quella del denunciante, laddove le conseguenze di danno nei confronti di quest’ultimo si dicono scaturite da un comportamento ulteriore (demolizioni che hanno pregiudicato parti comuni dell’edificio), sebbene trovi presupposto storico nel tenore dell’atto”.
Nel medesimo filone si colloca la sentenza Todesca (Sez. V, 5 novembre 2002, p.o. in proc. Todesca, dep. 10 dicembre 2002, n. 43703, rv. 223220), la quale – premesso che l’interesse giuridico protetto dai delitti di falsità in atti ha carattere plurioffensivo – afferma che “riveste la qualità di parte offesa il denunziante di un falso documentale, incidente, anche in via di pericolo, sul suo specifico diritto, con la conseguenza che anche nei suoi confronti il G.I.P. ……deve provvedere a fare notificare l’avviso dell’udienza preliminare” (nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti di un funzionario del Provveditorato agli Studi, il quale aveva omesso ogni verifica su una nota pervenuta all’Ufficio, contenente la falsa attestazione della rinunzia di una docente all’immissione in ruolo per un determinato anno scolastico; la Suprema Corte ha ritenuto che il provvedimento adottato sulla base della falsa attestazione della avvenuta rinunzia alla immissione in ruolo compromettesse anche le effettive funzioni di verità e di certezza, relative alla posizione del docente di cui era stato falsificato l’atto, che derivavano dalla falsa documentazione).
Nella stessa direzione è anche la sentenza Ongaro (Sez. V, 19 settembre p.o. in proc. Ongaro 2005, dep. il 22 novembre 2005, rv. 232442), la quale, in tema di commercio di prodotti con segni falsi, sostiene che “il titolare del marchio contraffatto è persona offesa dal reato posto che la norma di cui all’art. 474 c.p., oltre alla fede pubblica, tutela anche il diritto all’esclusiva del legittimo titolare: ne consegue che questi, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione, ha diritto a ricevere l’avviso di cui all’art. 408 c.p.p.”.
4.3- Come è agevole rilevare, i due orientamenti, appena illustrati, che hanno dato vita al contrasto che ha reso necessario l’intervento di queste Sezioni Unite, muovono dalla diversa interpretazione circa la natura dei delitti contro la fede pubblica ed il bene oggetto della tutela penale in materia:
a) il primo indirizzo tende a privilegiare in maniera assoluta la valenza pubblicistica di detta tutela, con esclusivo riferimento alla fede pubblica quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che hanno rilevanza pubblica: di talchè l’interesse del privato rileverebbe solo di riflesso, con conseguente impossibilità, per lo stesso, di assumere la veste di parte offesa pur se, in ipotesi, concretamente danneggiato dalla falsità;
b) viceversa, il secondo orientamento, pur confermando che nella fede pubblica deve individuarsi il bene primario oggetto di tutela, ritiene tuttavia che, non potendo prescindersi dalla relazione che intercorre tra l’atto non genuino ed il privato, sulla cui sfera giuridica la falsità vada in concreto ad incidere, dovrebbe riconoscersi ai delitti contro la fede pubblica natura plurioffensiva: con la conseguenza che al privato danneggiato da tale reato spetterebbero i diritti e le facoltà previsti per la parte offesa.
La fede pubblica
5 – Ritengono queste Sezioni Unite che, in presenza di un contrasto interpretativo così delineatosi, ai fini della risoluzione del contrasto stesso, pur relativo ad una questione di carattere processuale, debbano necessariamente prendersi in considerazione soprattutto profili di carattere sostanziale, con specifico riferimento alla natura dei delitti contro la fede pubblica.
Ferma restando, evidentemente, la necessità di mantenere distinte le figure della persona danneggiata e della persona offesa dal reato, posto che il legislatore, secondo i casi, ha indicato l’una o l’altra, con l’attribuzione di un ruolo diverso, anche con riferimento a poteri e facoltà: di tal che, ai fini che in questa sede rilevano, con riferimento agli artt. 408 e segg. c.p.p., lo sforzo interpretativo deve riguardare esclusivamente la figura della persona offesa (in relazione ai delitti contro la fede pubblica).
Giova ricordare che il previgente codice Zanardelli risolveva, sul piano normativo, la questione, circa la offensività dei reati di falso, condizionando espressamente la punibilità delle falsità in atti pubblici (artt. 275, 276, 279, 283) e in atti privati (art. 280) alla circostanza che dalla falsificazione potesse “derivare pubblico o privato nocumento”.
Tale formula è stata poi soppressa nel codice Rocco, che sembrerebbe aver inteso incentrare la tutela su una “fede pubblica” da salvaguardare in modo assoluto: e ciò, malgrado il forte dissenso, pressoché unanime, della dottrina e giurisprudenza dell’epoca, e sebbene nella stessa Relazione ministeriale di accompagnamento al codice è dato leggere che tale omissione “non può assolutamente apparire in contrasto con le fonti e resta perfettamente vero che falsitas non punitur quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere”.
Tuttavia, nonostante questa indicativa affermazione di principio, circa l’ineludibile vaglio di idoneità offensiva cui dovrebbe essere condizionata la rilevanza penale del falso, per un verso l’assenza di un’espressa previsione sul danno, e, per altro verso, la definizione che nella succitata Relazione viene data della pubblica fede – come “fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi e documenti) ai quali l’ordinamento giuridico attribuisce un valore importante” (ulteriormente precisata da un passaggio dei lavori preparatori, in cui si afferma che “non si può concepire falsità in atto pubblico che non abbia la possibilità di ledere quell’interesse sociale che si chiama pubblica fede”: Lavori preparatori, IV, 373) – hanno forse incoraggiato, anche in sede applicativa, tendenze formalistiche.
E’ da ritenere che il contrasto di cui ci occupiamo non sarebbe mai sorto, se fosse stata adottata l’esplicita previsione sul danno contenuta nel Codice Zanardelli.
Nel vigente codice penale i delitti contro la fede pubblica trovano collocazione nel Titolo VII.
La fede pubblica – nel significato che emerge dalla Relazione al progetto definitivo del codice penale, cui si è appena fatto cenno – costituisce dunque un vero e proprio bene giuridico, ancorché di natura immateriale e collettiva, dotato di una sua autonomia, tutelato dai delitti in argomento con riferimento alla certezza ed alla speditezza del traffico economico e giuridico.
Così definita la nozione di fede pubblica, da tutti unanimemente condivisa anche in dottrina, da più parti è stato tuttavia fatto rilevare come in realtà il falso non risulti quasi mai fine a se stesso, costituendo, il più delle volte, solo il mezzo per conseguire altro obiettivo che costituisce il vero scopo rispetto alla “immutatio veri”.
Ed è stato quindi sottolineato che, se il perseguimento di tale fine si riflette in modo incisivo sulla sfera giuridica di un soggetto, non è possibile ignorare, sul piano giuridico, tale ulteriore conseguenza, e non consentire, al soggetto che quella “immutatio veri” ha concretamente subìto, di dialogare nel processo con una veste qualificata.
L’ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi concreta in presenza di determinati presupposti avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto
6 – Tutto ciò premesso, ritengono queste Sezioni Unite che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre ad un’offesa alla fiducia che la collettività ripone in determinati atti, simboli, documenti, etc. – bene oggetto, senza dubbio, di primaria tutela dei delitti in argomento – anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi concreta in presenza di determinati presupposti avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto il quale, in tal caso, è di conseguenza legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.
Molteplici sono gli argomenti che sorreggono e confortano l’individuazione del bene protetto dai delitti contro la fede pubblica – con riferimento al principio di offensività – nei termini così precisati.
le categorie del falso grossolano e del falso innocuo
6.1 – Quanto ai profili di natura sostanziale, meritano attenzione, ai fini che qui interessano, e sotto differenti aspetti, le categorie del falso grossolano e del falso innocuo.
Il falso grossolano è quello che si presenta così evidente da risultare inidoneo ad ingannare chicchessia: il che dovrebbe essere sufficiente a farlo considerare inoffensivo, a prescindere, cioè, da qualsiasi altra valutazione circa la sua eventuale idoneità a porre in pericolo anche ulteriori interessi.
Nella prassi giudiziaria, laddove la falsità risulti macroscopica, ed “ictu oculi” percepibile, il fatto viene di regola considerato penalmente irrilevante (Sez. 5, n. 11498/90, imp. Casarola, RV. 185132) proprio perché incapace di ingenerare errore nei terzi, circa l’affidabilità del documento (o del segno, ecc.): in detta ipotesi, per la valutazione di inoffensività del fatto, è evidentemente sufficiente, dunque, considerare il bene giuridico rappresentato dalla pubblica fede.
In estrema sintesi, può qualificarsi come falso grossolano il falso inoffensivo rispetto al bene “fede pubblica”, proprio per l’inidoneità dello stesso a trarre in inganno la collettività; inidoneità che, derivando dalle modalità della falsificazione – prevalentemente di natura materiale – comporta una valutazione giudiziale in punto di fatto.
Si parla, invece, di falso innocuo, per indicare – in generale – il falso che risulti “inoffensivo per la concreta inidoneità ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati” (così come precisato da autorevole esponente della dottrina): con conseguente necessità, per l’interprete, di un accertamento in concreto, in relazione alle peculiarità del singolo caso, onde verificare i possibili effetti della falsità con riferimento a quella determinata situazione giuridica interessata dalla falsità.
Un falso – pur astrattamente idoneo ad ingannare il pubblico – rivelatosi però privo di qualsiasi concreta incidenza sulla sfera giuridica di chicchessia, dovrebbe essere valutato penalmente irrilevante, così come affermato in giurisprudenza (Sez. 5, n. 7875/87, imp. Dell’Acqua, rv. 176302; Sez. 5, n. 421/07, imp. Scaricabarozzi, rv. 206630) e sostenuto in dottrina: e non mancano Autori secondo i quali il falso innocuo rappresenta una categoria più estesa del falso grossolano, in quanto comprensiva non solo di quest’ultimo, ma anche di tutte le falsità incapaci di nuocere a qualsiasi soggetto.
In sostanza, il falso innocuo può definirsi tale in due diversi significati.
In senso lato, il falso innocuo abbraccia anche il falso grossolano, non potendo certo ipotizzarsi un falso grossolano che non sia nel contempo anche innocuo.
Può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con riferimento al bene “fede pubblica”, bensì in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l’innocuità del falso, cioè, può risultare anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa – in forza di una valutazione giudiziale in punto di diritto, questa volta, e non di fatto – l’effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle fattispecie “de quibus”.
La nozione di falso innocuo, in particolare, sembra dunque confortare l’indirizzo interpretativo – che, come sopra anticipato, queste Sezioni Unite ritengono condivisibile – secondo cui ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, in primo luogo e soprattutto, un’offesa alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti e documenti di rilevanza pubblica, ma, altresì, una ulteriore, e potenziale, attitudine offensiva che può concretizzarsi nei confronti di una determinata situazione giuridica.
l’innovazione normativa costituita dall’art. 493-bis c.p.
6.2 – Un punto di rottura con una visione formalistica, ed assolutamente pubblicistica, dei delitti contro la fede pubblica, è sicuramente rappresentato dall’importante innovazione normativa costituita dall’art. 493-bis c.p. – introdotto dall’art. 89 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – che ha subordinato al regime della perseguibilità a querela della persona offesa la punibilità delle ipotesi di falso in atti privati di cui agli artt. 485, 486, 488, 489 e 490 c.p. (si procede tuttavia di ufficio se i fatti riguardano un testamento olografo).
L’introduzione della procedibilità a querela – che rappresenta la tipica espressione della disponibilità individuale delle conseguenze anche sanzionatorie della lesione dell’interesse protetto – ha fatto emergere la lesività di tipo privatistico sottostante ai reati di falso, segnando un rafforzamento della teoria della plurioffensività.
Commentando tale novella legislativa, in dottrina fu subito evidenziato che si trattava di una previsione di “notevole importanza sul piano ricostruttivo” e che ad essa andava “riconosciuto non tanto il merito di avere definitivamente sepolto l’aspirazione ad una generalizzazione pubblicistica dell’interesse tutelato, che fosse idonea a fondare l’unità delle categorie delle falsità documentali (già da tempo abbandonata assieme al concetto di pubblica fede), quanto piuttosto quello…..di avere formalizzato attraverso l’introduzione della perseguibilità a querela l’identificazione dell’offesa per questi reati con la lesione dell’interesse o degli interessi sottostanti al documento falsificato”, posto che è “la titolarità di questi ultimi a legittimare alla presentazione della querela”.
In altri termini, tale legittimazione “può essere affermata solo in virtù della titolarità da parte del soggetto dello specifico interesse a cui l’atto era chiamato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione di quell’atto era destinato”.
In questo senso, la sentenza De Simone (Sez. V, 7 febbraio 1992, dep. il 27 marzo 1992, rv. 189707) – muovendo evidentemente dal presupposto della individuazione della legittimazione alla querela solo con riferimento allo specifico interesse al quale l’atto era destinato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione dell’atto era finalizzata – afferma che “per la perseguibilità del reato di foglio firmato in bianco. ….il diritto di querela compete non soltanto al soggetto della cui firma in bianco si sia abusato, ma anche ad ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno o sia rimasto sottoposto a potenziali effetti pregiudizievoli, anche sul piano non patrimoniale, dell’atto affetto da falsità”.
Nella stessa direzione si pone la sentenza Schiavone (Sez. V, 6 giugno 1996, dep. il 20 luglio 1996, rv. 206290) la quale – premesso che il delitto di cui all’art. 485 c.p. richiede, oltre la formazione della scrittura privata, l’uso di questa – precisa che assume la veste di persona offesa in tale reato, e quindi la titolarità del diritto di querela, pure il soggetto che risenta un danno in conseguenza di tale uso”.
Princìpi ribaditi anche dalla sentenza Tomaselli (Sez. V, 24 febbraio 2003, dep. il 18 marzo 2003, rv. 224263), che, in tema di reati di falsità in titoli di credito, sostiene quanto segue: “per persona offesa dal reato deve intendersi non soltanto il soggetto al quale sia stata falsamente attribuita l’emissione dell’atto falsificato, ma anche la persona che abbia ricevuto comunque un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto del titolo” (nella specie la Suprema Corte ha riconosciuto la qualità di persona offesa, legittimata a presentare la querela, ex art. 493 bis c.p., al beneficiario che aveva presentato all’incasso un assegno falsificato).
A conclusioni analoghe perviene anche la sentenza Cali (Sez. V, 26 novembre 1997, dep. il 20 gennaio 1998, rv. 209884), in cui, in tema di falsità in scrittura privata, si afferma che persona offesa, come tale legittimata alla presentazione della querela, è non solo la persona della quale sia stata falsificata la firma, ma anche ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto della scrittura (fattispecie in tema di falso in cambiali).
Nel quadro così delineato resta difficile individuare quale sia il ruolo della fede pubblica, dato che l’area della persona offesa sembrerebbe estendersi fino a comprendere chiunque abbia ricevuto un danno.
Fatto sta che si tratta di reati aggregati e classificati sotto la categoria dei delitti contro la fede pubblica, la quale dunque, in tutta evidenza, non può considerarsi, quanto alle ipotesi di falso in atti privati, l’unico bene protetto, posto che il danno evidenziato dalle decisioni appena citate è per l’appunto un danno patrimoniale.
E, difatti, il passo immediatamente successivo a queste affermazioni lo si trova nella sentenza Di Guglielmo (Sez. V, 23 maggio 2006, p.o. in proc. Di Guglielmo, dep. il 24 luglio 2006, n. 25617, rv. 234522), la quale non solo costituisce specificazione e applicazione di questi princìpi ma anche ulteriore rafforzamento, affermando che “nei delitti contro la fede pubblica, ed in particolare in quelli a querela della persona offesa, il reato di falso, oltre l’interesse pubblico, lede anche i diritti della parte lesa, cui di conseguenza spettano le facoltà riconosciute in tema di archiviazione del procedimento alla persona offesa”.
A sostegno di questa conclusione la sentenza Di Guglielmo afferma che “dopo la introduzione dell’art. 493-bis c.p. (casi di perseguibilità a querela) per effetto della legge n. 689 del 1981, ….il pregiudizio nei delitti di falso documentale non si esaurisce nella lesione della pubblica fede, vale a dire nel danno sociale che si ricollega all’alterazione della verità e, quindi, alla stessa condotta di falso, ma comprende anche l’offesa di una specifica situazione probatoria di un soggetto determinato”; in altri termini, l’attribuzione del potere di querela comporta il riconoscimento della qualità di persona offesa al soggetto che dal reato ha ricevuto danno.
Con conseguente rilevanza dell’interesse concreto alla non falsità del documento; rilevanza resa palese, per così dire, dall’assoggettamento della falsità, sia pure in scrittura privata, al regime della punibilità a querela.
Posto che le ipotesi di reato qui in esame rimangono, comunque, apparentate alle altre ipotesi di falso riunite attorno ad un unico bene, sembra che la nuova formulazione normativa in esame costituisca comunque un rafforzamento della teoria della plurioffensività.
E, difatti, si è puntualmente rilevato in dottrina che “per chi sostiene la teoria della natura plurioffensiva di questi reati, una tale innovazione legislativa potrebbe essere letta come la conferma o la presa d’atto dell’esistenza, accanto alla fede pubblica, dell’interesse di volta in volta tutelato dal singolo documento, nella cui titolarità trova origine la legittimazione alla presentazione della querela”.
Si è, ancora, affermato che “riguardata da questo punto di vista, la differenza con i falsi in atto pubblico, stante l’identità della struttura tipica dei fatti, risiede unicamente nella diversa natura degli atti o, meglio, nella diversità delle funzioni ad essi assegnate, che comporta una collocazione dei relativi interessi in una dimensione pubblica o almeno diffusa”.
Di talchè, con specifico riferimento alla questione che in questa sede rileva, ci si può chiedere se la diversa natura degli atti – scrittura privata e atto pubblico – comporti nel secondo caso l’elusione, la fine dell’interesse privato.
Certamente, la sussistenza, con riguardo all’atto pubblico, (soprattutto) di un interesse pubblico o collettivo è tale da giustificare il differente trattamento sanzionatorio (da uno a sei anni di reclusione, mentre per la scrittura privata da sei mesi a tre anni) e il differente regime di procedibilità, previsti dalle norme incriminatrici in considerazione; ma, anche alla luce di quanto si è fin qui detto – e richiamando altresì tutte le considerazioni svolte in particolare esaminando le figure del falso grossolano e del falso innocuo – non si individua alcuna valida ragione per affermare che detto interesse pubblico sia tale da giustificare anche l’azzeramento, sempre ed in assoluto, dell’interesse privato nel caso di falso in atto pubblico.
Il principio enunciato
6.3 – Conclusivamente, deve, dunque, affermarsi, il seguente principio di diritto: “i delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione”.
(omissis)
Falsità ideologica in atto pubblico
2. Non integra il delitto di cui all’art. 479 c.p. la mancata timbratura del cartellino, da parte del pubblico dipendente, in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro
Cass. S.U. 11 aprile 2006, Sepe
Le Sezioni unite non riconoscono natura di atto pubblico al cartellino segnatempo, ed in generale ai fogli di presenza dei pubblici dipendenti, e pertanto negano che integri il delitto di cui all’art. 479 c.p. la mancata timbratura del cartellino, da parte del pubblico dipendente, in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro.
Il cartellino segnatempo ed i fogli di presenza, infatti, sono destinati ad attestare soltanto una circostanza materiale che attiene al rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione (oggi soggetto a disciplina privatistica), e le annotazioni ivi contenute non involgono affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Le Sezioni unite precisano però che, ove le attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate o recepite in atti della pubblica amministrazione, a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, si configura l’ipotesi criminosa del falso per induzione, ai sensi dell’art. 48 c.p..
Svolgimento del processo
1. Il 19 ottobre 2004 la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza in data 7 marzo 2002 del Tribunale di Agrigento, con la quale Giuseppa SEPE e Vincenzo CARUSO, riconosciute loro le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, erano stati condannati a pene ritenute di giustizia per imputazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, di cui agli artt. 61, n. 9, 81, cpv., 640, cpv. n. 1, c.p. e 61, n. 2, 81, cpv., 479, in relazione all’art. 476, c.p.
Si contestava a tali imputati, nella loro qualità di pubblici dipendenti della Soprindentenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, di avere falsamente attestato la loro presenza al lavoro nell’ufficio regionale presso il quale prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo, facendo così risultare orari di entrata e di uscita non rispondenti a quelli effettivi.
I giudici del merito ritenevano accertato che, in più occasioni, gli imputati avevano timbrato il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo all’inizio ed alla fine della giornata di lavoro, ma non avevano fatto risultare, mediante analoga marcatura, i propri allontanamenti dal luogo di lavoro, non dovuti a motivi di servizio; e che tanto integrava gli estremi dei contestati reati di truffa aggravata e di falso.
(omissis)
3.0 Il ricorso veniva assegnato alla Quinta Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza resa all’udienza del 26 gennaio 2006, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni Unite.
Disattesa una eccezione di precedente giudicato proposta in udienza nell’interesse di Vincenzo CARUSO, e ritenuti infondati il primo e secondo motivo di ricorso dello stesso CARUSO ed il primo motivo di ricorso di SEPE nella parte riguardante il reato di truffa, quanto al terzo motivo di ricorso di CARUSO ed al primo motivo di ricorso di SEPE relativamente al reato di falso rilevava la sezione remittente che – premesso che i giudici del merito hanno ritenuto che la falsità addebitata agli imputati consistesse in una omissione, cioè nell’allontanarsi dall’ufficio senza marcare in uscita il cartellino marcatempo –, al riguardo si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, alcune sentenze avendo ritenuto che la mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro non costituisce il reato di falso ideologico per omissione, altre avendo concluso in senso opposto; pur mostrando i giudici remittenti di aderire al primo di tali indicati orientamenti giurisprudenziali, sull’assunto che “deve ritenersi… che la mancata attestazione dell’allontanamento, dopo aver timbrato in ingresso il cartellino segnatempo, non equivalga all’attestazione di ininterrotta presenza in ufficio..” – sicché ”la mancata timbratura del cartellino in occasione di un temporaneo allontanamento del funzionario non dà luogo alla reticente formulazione di un atto pubblico unitario, tale da tradursi in una falsa rappresentazione della realtà; ma è semplicemente l’omissione del compimento dell’atto, l’omissione di una delle molteplici autonome attestazioni che debbono essere documentate nel cartellino segnatempo” – rilevavano come “sia opportuno un intervento risolutore delle Sezioni Unite”.
3.1 Il Primo Presidente ha fissato l’odierna udienza per la trattazione dei ricorsi.
Motivi della decisione
(omissis)
Cartellino marcatempo e foglio di presenza : il concetto di atto pubblico
7.0 Per quanto riguarda le imputazioni di falso contestate ad entrambi i ricorrenti, la questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite (se, cioè, integri il reato di falso ideologico in atto pubblico la mancata timbratura, da parte del dipendente pubblico, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro), comporta l’esame e la soluzione di altra, preliminare questione, pure espressamente prospettata nel terzo motivo di ricorso di Caruso e, cioè, se il cartellino marcatempo (che meccanicamente annota gli orari di ingresso e di uscita dal luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che assolvono ad analoga funzione) dei pubblici dipendenti abbiano o meno natura di atto pubblico.
La prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte si è al riguardo positivamente orientata, sulla considerazione che tali atti svolgerebbero la loro funzione non solo in riferimento al rapporto di lavoro tra impiegati pubblici e pubblica amministrazione, ma anche in relazione alla organizzazione stessa di quest’ultima, con riflessi sulla sua funzionalità, essendo, perciò, essi “destinati a produrre effetti per la stessa pubblica amministrazione”, anche in ordine al “controllo dell’attività e regolarità dell’ufficio”; tali attestazioni, quindi, sarebbero “preordinat(e) ad attestare la certezza dello svolgimento della pubblica funzione da parte di coloro che ne sono preposti”, non rilevando al riguardo la natura privatistica del rapporto di lavoro tra pubblico dipendente e pubblica amministrazione (da ultimo Sez. V, n. 5676/2005, P.G. in proc. Santamaria ed altro; Sez. V. n. 16503/2004, Matarelli; Sez. V. n. 43844/2004, P.G. in proc. Amendola; Sez. V, n. 42245/2004, Orlando; Sez. V, n. 40848/2004, P.M. in proc. Passerella; Sez. V, n. 27509/2004, Cei; Sez. V, n. 21193/2003/2003, P.M. in proc. Giambò; ecc.).
L’opposto minoritario indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla considerazione che siffatte attestazioni rilevano “in via diretta ed immediata unicamente ai fini della retribuzione e comunque del regolare svolgimento della prestazione di lavoro e solo indirettamente, e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento del servizio” (Sez. V., n. 44689/2005, Flavio ed altro; Sez. V, n. 38770/2002, Marchese ed altri; Sez. V., n. 12789/2003, Bua ed altro; Sez. V. n. 2303/1988, Sariconi).
7.1 Queste Sezioni Unite ritengono di far proprio tale secondo orientamento giurisprudenziale.
Posto, difatti, che la condotta di falsificazione ideologica del pubblico ufficiale ipotizzata dall’art. 479 c.p. (come quella materiale di cui all’art. 476) deve sostanziarsi in una attività svolta “nell’esercizio delle sue funzioni” pubblicistiche, appare ineludibile distinguere, nell’attività del pubblico impiegato – ed in un contesto in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto connotazioni privatistiche (a seguito della disciplina introdotta con il D. Lgs.vo n. 29/1993, modificata dal D. Lgs.vo n. 80/1998, ora trasfusa nel D. Lgs.vo n. 165/2001) – “gli atti che sono espressione della pubblica funzione e/o del pubblico servizio e che tendono a conseguire gli obiettivi dell’ente pubblico” da quelli “strettamente attinenti alla prestazione” di lavoro, “ed aventi, perciò, esclusivo rilievo sul piano contrattuale e non anche su quello funzionale” (Cass., Sez. V, n. 12789/2003, cit.).
Premesso, invero, che secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte e la prevalente dottrina, “agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell’art. 2699 c.c., in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica” (così, fra altre, Cass., Sez. V. n. 8151/1976, Di Falco), rimane che – come si esprime autorevole dottrina – “la falsa rappresentazione della realtà che viene documentata deve essere rilevante in relazione alla specifica attività del pubblico ufficiale… e ciò significa che la falsità deve investire un fatto che, in relazione al concreto esercizio della funzione o attribuzione pubblica, abbia la potenzialità di produrre effetti giuridici”.
Quanto dire che – secondo altre voci della dottrina – la nozione di atto pubblico “si fonda sulla qualità del soggetto (pubblico ufficiale o impiegato dello Stato o di altro ente pubblico incaricato di un pubblico servizio art. 493) e sul piano del documento che si redige per una ragione inerente all’esercizio delle pubbliche funzioni o del pubblico servizio, o per uno scopo cui l’atto è destinato”; e nei reati di falso, in generale, “funzionali (o propri), data la posizione giuridica dell’agente (che è un pubblico ufficiale), si delinea uno stretto collegamento tra il soggetto ed il bene, in virtù del quale la cura del bene medesimo… è “affidata” al soggetto per essere quest’ultimo titolare di un potere pubblicistico ben individuato (il potere certificativo”), attributivo di “certezza pubblica”. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha, da tempo, puntualizzato che atto pubblico è “ogni scritto redatto da un pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni” (Cass., Sez. V, n. 1576/1975, Pansa).
Tale ineludibile collegamento tra esercizio di funzioni pubbliche ed attività falsificatoria dei pubblici ufficiali (che “non consente di ritenere automaticamente che tutti gli atti dagli stessi compiuti siano atti pubblici”: Cass. n. 12789/2003, cit.), non può, quindi, condurre ad annoverare nella nozione di atto pubblico, rilevante ai fini penali, attività attestative che, invece, appaiono collegate direttamente ed immediatamente ad “istituti sicuramente riconducibili alla disciplina privatistica” (per mutuare altra espressione dottrinaria) e che, soprattutto, in tale ambito esauriscono la loro funzione di rilevanza attestativa.
Deve, allora, convenirsi che, in effetti, il cartellino marcatempo ed i fogli di presenza sono destinati ad attestare solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra il pubblico dipendente e la pubblica amministrazione, ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Il pubblico dipendente, in sostanza “non agisce neppure indirettamente per conto della P.A., ma opera come mero soggetto privato, senza attestare alcunché in ordine all’attività della P.A.” (come rileva Cass., Sez. V, n. 15271/2005, Piano Del Balzo ed altro, ancorché in fattispecie concernente attestazioni relative a “missioni” fuori sede del pubblico funzionario, ma con principio valido anche nella fattispecie qui in esame).
Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto: i cartellini marcatempo ed i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la pubblica amministrazione (oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Tanto ritenuto, pure torna opportuno, da ultimo, rilevare che, ove, poi, tali attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate, recepite, in atti della pubblica amministrazione a loro volta attestativi, dichiarativi o di volontà della stessa, tanto può dar luogo ad ipotesi di falso per induzione, ai sensi dell’art. 48 c.p..
(omissis)
3. Falsità ideologica del verbale di assunzione di informazioni in sede di indagini difensive
Cass. S.U. 27 giugno 2006, Schera
Integra il reato di falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.) la condotta del difensore che documenta e poi utilizza processualmente le informazioni delle persone in grado di riferire circostanze utili alla attività investigativa, verbalizzate in modo incompleto o non fedele, in quanto l’atto ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente verbale redatto dal pubblico ministero.
…
1. La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 19.10.2004, in parziale riforma della sentenza 26.2.2003 del G.I.P. del Tribunale di quella città, pronunciata in seguito a giudizio celebrato con il rito abbreviato:
a) confermava l’affermazione della responsabilità penale di SCHERA Luca in ordine ai reati di cui:
– all’art. 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico), per avere formato, il 5 febbraio 2001, un verbale falso nell’esercizio della attività di indagine svolta quale difensore di fiducia di BOUJABALE Yussef e quindi nell’esercizio di una pubblica funzione giudiziaria.
– all’art. 378 c.p. (favoreggiamento personale), per avere aiutato il proprio assistito ad eludere le investigazioni della autorità formando il falso verbale e producendolo al Tribunale della libertà alla udienza dell’8 febbraio 2001;
e, con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, essendo stati unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. c.p., ribadiva la condanna dell’imputato alla pena principale complessiva di sei mesi di reclusione ed alle pene accessorie temporanee di legge, nonché la concessione del beneficio della sospensione condizionale;
b) sostituiva la pena detentiva con quella pecuniaria corrispondente di euro 6.840,00 di multa.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dello SCHERA, il quale ha dedotto erronea applicazione della legge penale nonché mancanza di motivazione in ordine al giudizio di sussistenza di entrambi i reati addebitatigli.
(omissis)
3. Il ricorso è stato assegnato alla V Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all’udienza del 31 gennaio 2006, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., rilevando che:
– il tema della qualificabilità come pubblico ufficiale del difensore che redige il verbale di dichiarazioni raccolte, in sede di investigazioni difensive, ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p., è al centro di un acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale, sfociato, quest’ultimo, anche nella rimessione alla Corte costituzionale di una questione di sospetta illegittimità delle norme sul presupposto che esse consentirebbero al difensore di confezionare un atto probatorio avente gli stessi effetti di quello della accusa, senza prevedere uguali obblighi di garanzia a tutela della genuinità della prova (va rilevato, al riguardo, che il Giudice delle leggi, con ordinanza n. 264 del 20.6.2002, ha dichiarato la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza);
– seppure non risulti che la questione abbia formato oggetto di decisioni difformi, la stessa potrebbe comunque dar luogo a contrasti giurisprudenziali, tenuto anche conto di una recente sentenza di questa Corte Suprema secondo la quale l’art. 359, n. 1, c.p. qualifica “come servizio di pubblica necessità la professione forense indipendentemente dalla natura degli specifici atti compiuti nell’esercizio della professione” (Cass. V 28.4.2005, n. 22496, Benvestito).
Ciò comporterebbe che, nella specie, la condotta del ricorrente dovrebbe essere inquadrata nel meno grave delitto di cui all’art. 481 c.p..
La Sezione remittente ha citato, al riguardo, più risalenti sentenze (Cass. VI 29.5.1986, n. 10973, Piersanti e Cass. I, 9.10.1964, De Angelis) che hanno fatto registrare un contrasto tra la tesi della prevalenza, nella funzione del difensore, della cura e degli interessi processuali dell’imputato e la opposta tesi della riconoscibilità, in capo allo stesso difensore, della qualità di pubblico ufficiale quando svolge la funzione certificatrice in sede di autenticazione della sottoscrizione del mandato ad litem.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione
1. La ricostruzione fattuale della vicenda.
La vicenda trae origine dall’arresto di due extra-comunitari – tali BOUJABALE Youssef e NABIL Anani – nella ritenuta flagranza del reato di illecita cessione di sostanze stupefacenti del tipo hashish, essendo stati, i due, notati nell’atto di confabulare con giovani italiani ai quali consegnavano un qualcosa in cambio di denaro.
Nell’occasione venivano bloccati anche tre di tali giovani (Luca Cottura, Gianluca Biscotti e Alessandro Balzaretti), i quali erano trovati in possesso complessivamente di poco meno di tre grammi di hashish.
Era stata altresì recuperata una bustina contenente 55 grammi di hashish che il NABIL, dopo un tentativo di fuga, aveva lasciato cadere a terra.
In sede di convalida, il NABIL ammetteva di aver effettuato le cessioni di hashish ai ragazzi fermati e di avere diviso a metà con il BOUJABALE il provento del reato: complessivamente 20.000 lire.
Il BOUJABALE negava invece ogni responsabilità, asserendo di essersi limitato a fare compagna al NABIL.
Il G.I.P. convalidava l’arresto nei confronti di entrambi, sottoponendoli a misura cautelare.
Andrea Balzaretti aveva inizialmente dichiarato alla P.G. (conformemente al Biscotti) che gli spacciatori erano due e che la droga gli era stata materialmente ceduta da BOUJABALE.
In sede di trattazione dell’istanza di riesame proposta nell’interesse del BOUJABALE, alla udienza dell’8 febbraio 2001, il difensore avv. Schera produceva un verbale, da lui redatto, delle dichiarazioni resegli dal Balzaretti.
In tale verbale, recante la data del 5 febbraio 2001, il dichiarante riferiva che gli extracomunitari erano tre, dei quali uno solo aveva agito mentre gli altri avevano assistito senza partecipare.
In particolare il BOUJABALE era da identificarsi in uno degli osservatori mentre lo spacciatore era il NABIL, cioè la persona che deteneva la bustina contenente i 55 grammi di hashish e che era fuggito alla vista dei Carabinieri venendo poi bloccato.
Il successivo 23 febbraio, sentito dal pubblico ministero, Andrea Balzaretti riferiva che gli extracomunitari erano tre ma egli si era avvicinato a quello che poi era riuscito a sfuggire alla cattura, persona che lo aveva indirizzato agli altri due.
Questi gli erano apparsi complici dal momento che erano assieme durante la trattativa e che, in seguito all’intervento della polizia giudiziaria, essendo stato ammanettato ad una panchina il BOUJABALE, questi aveva suggerito al Biscotti di far sparire la bustina di hashish lasciata cadere dall’amico datosi alla fuga.
Dichiarava che tali circostanze erano state da lui riferite all’avvocato Schera, all’atto della redazione del verbale, ma che il difensore gli aveva detto “che non vi era bisogno di verbalizzarle” e che egli avrebbe potuto riferirle direttamente al tribunale, se richiesto.
Il Tribunale del riesame aveva, nelle more, confermato l’ordinanza custodiale con provvedimento nel quale aveva dato atto che le dichiarazioni rese dal Balzaretti al legale erano diverse da quelle rese dal medesimo alla polizia giudiziaria e altresì da quelle rese da Biscotti e che comunque le aveva reputate “di dubbia utilizzabilità” per la incompleta verbalizzazione degli avvertimenti di cui all’art. 391-bis, comma 3, c.p.p..
Il Presidente di quel Collegio, poi, aveva trasmesso al Consiglio dell’Ordine, per il procedimento disciplinare previsto dal comma 6 dell’art. 391-bis c.p.p., copia del verbale redatto dallo Schera e del verbale della polizia giudiziaria, relativi alle dichiarazioni del Balzaretti, unitamente alla ordinanza del Tribunale del riesame.
Aveva informato anche, ai fini penali, la locale Procura della Repubblica.
Questa aveva proceduto, quindi, nei confronti di Balzaretti per il reato di cui all’art. 371-ter c.p. (false dichiarazioni al difensore) e 378 c.p. (favoreggiamento personale) e nei confronti dello Schera per i reati di falsità ideologica (art. 479 c.p.) e favoreggiamento personale (art. 378 c.p.).
I giudici del merito hanno ravvisato la responsabilità penale dello Schera, in ordine al reato di cui all’art. 479 c.p., riconoscendogli la qualifica di “pubblico ufficiale” nell’atto della redazione del verbale di indagini difensive, qualificato tale verbale come “atto pubblico”.
2. La questione controversa.
La questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire “se integri il delitto di falso ideologico di cui all’art. 479 c.p. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele”.
Rileva, al riguardo, questo Collegio che il legislatore, all’art. 359 del codice penale, qualifica il difensore come soggetto privato esercente un servizio di pubblica necessità.
Deve ritenersi, tuttavia, che esso redige sicuramente un atto pubblico allorquando procede alla formazione del verbale nel quale trasfonde le informazioni ricevute ai sensi degli artt. 391-bis e ter del codice di rito.
Il falso ideologico eventualmente commesso dal difensore in tale occasione diviene perciò sanzionabile ai sensi dell’art. 479 c.p. (e non dell’art. 481 dello stesso codice).
Le indagini della difesa
2.1 La legge 7.12.2000, n. 397 ha potenziato il ruolo del difensore nel processo penale, introducendo una disciplina organica delle indagini difensive, che ha tipizzato gli atti espletabili dal difensore, ricomprendendo in essi il colloquio con persone ritenute a conoscenza dei fatti, ed ha indicato le forme per documentare ed utilizzare nel processo i risultati dell’indagine stessa.
A norma dell’art. 391-bis c.p.p., il difensore – nell’acquisire notizie da una persona a conoscenza dei fatti oggetto di un processo – può procedere in tre modi:
a) conferire con essa, senza documentare il colloquio;
b) richiedere una dichiarazione scritta;
c) procedere ad esame diretto della stessa.
La documentazione del ricevimento di una dichiarazione scritta o dello svolgimento dell’esame orale deve avvenire secondo le modalità rispettivamente previste dall’art. 391-ter c.p.p..
L’art. 391-decies c.p.p. disciplina, poi, l’utilizzazione processuale della documentazione delle indagini difensive, prevedendo che il verbale delle dichiarazioni rese dalla persona informata dei fatti può essere utilizzato per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. ed è acquisibile al dibattimento mediante lettura ai sensi degli artt. 512 e 513 c.p.p..
Quanto alla documentazione diretta, da parte del difensore, di dichiarazioni acquisite nel corso di investigazioni difensive, va premesso anzitutto che non può sussistere alcun dubbio circa la sussistenza dell’obbligo di fedeltà del difensore nella verbalizzazione e dell’obbligo di documentare le dichiarazioni in forma integrale (principi affermati anche nelle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, approvate il 14 luglio 2001 dall’Unione delle Camere penali e nel Codice deontologico, con le modifiche apportate dal Consiglio nazionale forense il 26 ottobre 2002), che costituiscono ad evidenza una garanzia pure per il soggetto chiamato dal legale a rendere le informazioni.
L’esistenza degli obblighi anzidetti si riconnette:
– alla ratio complessiva della legge n. 397/2000, che, anche con riferimento all’art. 136 c.p.p., ha introdotto una serie di regole per garantire la genuinità della dichiarazione (avvisi, avvertimenti, verbalizzazione integrale, conseguenze penali in caso di falso), al fine di attribuire alla indagine difensiva la stessa valenza probatoria dell’attività del pubblico ministero;
– alla previsione dell’art. 371-ter c.p.p., che impone un dovere di veridicità, penalmente sanzionato, alla persona informata dei fatti che viene sentita dal difensore, trattandosi di disposizione che verrebbe del tutto vanificata qualora il difensore stesso potesse non riportare compiutamente o modificare arbitrariamente le dichiarazioni ricevute;
– al disposto del comma 9 dell’art. 391-bis c.p.p., che prevede la sospensione del verbale quando la dichiarazione appaia autoindiziante e la inutilizzabilità, contro il dichiarante, delle dichiarazioni di tal genere eventualmente rese in precedenza. Ne deriva che la infedele o incompleta documentazione delle dichiarazioni acquisite a verbale dal difensore non può iscriversi nel novero delle garanzie di libertà dell’avvocato nell’espletare il proprio mandato nell’interesse del cliente.
2.2. Evidente è la differenza funzionale tra il pubblico ministero e la difesa, in quanto solo il primo è tenuto a raccogliere tutte le emergenze riguardanti l’indiziato mentre al secondo la legge riconosce poteri ampiamente dispositivi.
Per attribuire però al difensore, in fase di documentazione delle indagini, la veste pubblica non occorre passare per la dimostrazione della parità dei doveri e dei poteri rispetto al pubblico ministero.
È vero che il difensore non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità e che al professionista è riconosciuto il diritto di ricercare soltanto gli elementi utili alla tutela del proprio assistito, però sicuramente non gli è riconosciuto il diritto di manipolare le informazioni ricevute ovvero di selezionarle verbalizzando solo quelle favorevoli.
L’interesse dell’Avvocatura, del resto, non può che essere quello di rendere la prova dichiarativa assunta dal difensore affidabile al pari di quella raccolta dall’accusa, mentre la tutela difensiva resta assolutamente integra e non riceve compromissione alcuna attraverso il riconoscimento legislativo della possibilità di non fare seguire al colloquio preventivo la sua verbalizzazione, nonché di omettere di utilizzare processualmente il verbale di dichiarazioni che contenga elementi sfavorevoli (art. 391-octies c.p.p.).
Il difensore, inoltre, altrettanto liberamente può addivenire alla scelta di acquisire le informazioni mediante relazione scritta dallo stesso dichiarante.
La possibilità di non utilizzare l’atto non comporta che esso possa essere distrutto; significa solo che esso può rimanere nella disponibilità privata di colui che l’ha redatto ed il delitto di falso ideologico, pur essendo istantaneo, si ricollega comunque al momento in cui l’atto acquista giuridica rilevanza ai sensi degli artt. 391-octies e seguenti del codice di rito, non potendovi essere falsificazione ideologica punibile fino a quando l’atto rimane nell’ambito della facoltà di disposizione dell’agente (vedi Cass. V 1.2.1993, n. 834).
2.3. L’art. 327-bis c.p.p. finalizza l’attività investigativa del difensore alla ricerca di elementi favorevoli ma rinvia, quanto alle forme da seguire, al titolo VI bis del libro V, ossia agli artt. 391-bis e segg. c.p.p. e, tra l’altro, all’art. 391-ter, che onera il difensore di autenticare “la dichiarazione” e non la sola sottoscrizione del verbale, con la conseguente ravvisabilità dell’esercizio di poteri tipici del pubblico ufficiale ex art. 2703 c.c..
Inoltre il verbale che documenta le dichiarazioni sottostà, per espressa disposizione dell’art. 391-ter c.p.p., alle disposizioni del titolo III del Libro II, ossia agli artt. 134 e segg. c.p.p., in quanto applicabili.
Tra queste disposizioni va ricordato l’art. 136, che disciplina il contenuto del verbale e impone al redigente di riportare tutto quanto avvenuto in sua presenza.
2.4. Il verbale nel quale il difensore raccoglie le informazioni è destinato a provare fatti determinati e a produrre gli stessi effetti processuali (perfetta equiparazione ai fini della prova) dell’omologo verbale redatto dal pubblico ministero (vedi Cass. II 9 aprile 2002, n. 13552, Pedi) e siccome non si pone in dubbio che quest’ultimo sia atto pubblico, la stessa natura deve attribuirsi anche al verbale redatto a cura del difensore.
Ne consegue che il difensore ha gli stessi diritti e doveri del pubblico ministero per quanto riguarda le modalità di documentazione.
criteri per identificare il pubblico ufficiale
2.5. Sui criteri per identificare il pubblico ufficiale, a seguito delle modifiche apportate all’art. 357 c.p. dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992, le Sezioni Unite penali:
a) con la sentenza n. 7958 del 27 marzo 1992 (depositata l’11 luglio 1992), Delogu, hanno rilevato che:
– i criteri normativi di identificazione introdotti dall’art. 17 della legge n. 86 del 1990 non sono cumulativi, ma alternativi e, ai fini della qualificazione di pubblico ufficiale, è sufficiente, in particolare, l’esercizio disgiuntivo del potere autoritativo o certificativo;
– l’art. 357 c.p., come successivamente novellato, attribuisce nel primo comma la qualifica di pubblico ufficiale a coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
“La principale modifica rispetto al testo originario della norma è costituita dall’esclusione di ogni riferimento al rapporto di dipendenza del soggetto dallo Stato ovvero da altro ente pubblico, con la conclusiva sostituzione del criterio di distinzione funzionale-oggettivo a quello soggettivo. Per cui la qualifica di pubblico ufficiale deriva e risulta connotata esclusivamente dal concreto esercizio di una pubblica funzione”;
b) con la sentenza n. 10086 del 13 luglio 1998 (depositata il 24 settembre 1998), Citaristi, hanno affermato che:
– “Al fine di individuare se l’attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., è necessario verificare se essa sia o meno disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi – nell’ambito dell’attività definita pubblica sulla base di detto parametro oggettivo – la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza (nell’una) o la mancanza (nell’altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo comma dell’art. 357 predetto”.
Nella motivazione di questa sentenza le Sezioni Unite hanno rilevato che “è necessario ricordare che l’adozione del criterio oggettivo, realizzatosi con quell’auspicata riforma, si è tradotta in una connotazione funzionale dell’attività concretamente esercitata e che in tale prospettiva è essenziale la ricerca e l’individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore … quanto alla funzione legislativa e giudiziaria, è agevole ricordare che entrambe sono caratterizzate da connotazioni intrinseche così tipicizzate da non offrire certamente spazio a dubbi o perplessità, né in relazione alla disciplina normativa alla quale esse sono sottoposte, ne’ con riferimento alle modalità del loro esercizio”.
Le Sezioni Unite, inoltre, con la sentenza n. 15983 dell’11 aprile 2006 (depositata il 10 maggio 2006), Sepe – relativa ai criteri per individuare l’atto pubblico (in riferimento, nella specie, alla timbratura del cartellino marcatempo ad opera di un dipendente di una pubblica amministrazione) – hanno evidenziato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità e la prevalente dottrina, “agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell’art. 2699 c.c., in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati da un pubblico ufficiale o da un pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica”.
La identificazione della “funzione pubblica”, dunque, a seguito della riforma dell’art. 357 c.p., si basa sulla “concezione oggettiva”, sostituita a quella “soggettiva” che aveva trovato accoglimento nella formulazione originaria del codice e, quando si tratta di un soggetto privato, l’indice rivelatore della pubblica funzione va ricercato nella disciplina normativa dell’attività da esso svolta, disciplina che deve evidenziare finalità di interesse pubblico.
Né può utilizzarsi, per l’attività di documentazione del difensore, l’argomento – richiamato dalla giurisprudenza più recente formatasi con riferimento all’esercizio del potere di autenticazione della autografia delle sottoscrizioni apposte dalle parti nelle procure speciali rilasciate allo stesso difensore – secondo cui l’autentica di firma non è atto pubblico perché non comprende dichiarazioni delle parti o attestazione di fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale (vedi, ad esempio, Cass. II 22.1.2003, n. 3135, p.m. in c. Quattrone): tali dichiarazioni e fatti ricorrono, invece, nell’attività di documentazione del difensore qui esaminata.
La giurisprudenza civile di questa Corte, del resto, con orientamento costante, evidenzia che “la funzione del difensore di certificare l’autografia della sottoscrizione della parte, ai sensi degli artt. 83 e 125 c.p.c., pur trovando la sua base in un negozio giuridico di diritto privato (mandato), ha natura essenzialmente pubblicistica, atteso che la dichiarazione della parte, con la quale questa assume su di sé gli effetti degli atti processuali che il difensore è legittimato a compiere, è destinata a dispiegare i suoi effetti nell’ambito del processo.
Ne consegue che il difensore, con la sottoscrizione dell’atto processuale e con l’autentica della procura riferita allo stesso, compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualità di pubblico ufficiale, la cui sottoscrizione può essere disconosciuta soltanto con la querela di falso” (così Cass. lav. 16 aprile 2003, n. 6047, Mastronicola c/ Battista; 20 giugno 1996, n. 5711, Artar Cicli c/ Rigon).
2.6. Irrilevante è la circostanza che, per la violazione del dovere di completezza della verbalizzazione, sia stata espressamente prevista (art. 391-bis, comma 6, c.p.p.) una sanzione disciplinare, perché ciò non significa che il legislatore abbia intenzionalmente stabilito di sanzionare solo in via disciplinare la violazione del dovere di fedele documentazione del difensore.
La previsione del rilievo disciplinare di un fatto non ne esclude la rilevanza anche sotto i profili penali e nel sistema processuale si rinvengono norme (quali gli artt. 115 c.p.p., 25 disp. att. c.p.p., 124 c.p.p.) che prevedono illeciti disciplinari per condotte che pacificamente sono perseguite pure penalmente quando integrino estremi di reato.
simmetria legislativa fra la falsità nelle dichiarazioni verbalizzate dal difensore (art. 371-ter c.p.) e quella riguardante le dichiarazioni verbalizzate dal P.M. (art. 371-bis c.p.)
2.7. Esiste un’evidente simmetria legislativa fra la falsità nelle dichiarazioni verbalizzate dal difensore (art. 371-ter c.p.) e quella riguardante le dichiarazioni verbalizzate dal P.M. (art. 371-bis c.p.), entrambe di rilevanza penale.
È vero che l’art. 371-ter c.p. punisce le false dichiarazioni ma, riconoscendo il diritto della persona informata ad avvalersi della facoltà di non rispondere al difensore, non ne punisce la reticenza.
Il difensore, però, può fare ricorso alle particolari procedure previste dai commi 10 e 11 dell’art. 391-bis c.p.p., per ottenere le dichiarazioni della stessa persona dinanzi al pubblico ministero o con incidente probatorio e, nella audizione ottenuta dinanzi al pubblico ministero su richiesta del difensore (art. 391-bis, comma 10, c.p.p.), si applica la disposizione generale dell’art. 362 c.p.p., che disciplina le modalità di assunzione delle informazioni da parte del pubblico ministero, a sua volta contenente il rinvio all’art. 198 c.p.p., che sancisce l’obbligo del testimone di rispondere secondo verità.
Neanche la reticenza, dunque, nella complessiva articolazione del sistema, rimane priva di sanzione.
2.8. L’esonero del difensore e collaboratori dall’obbligo di denuncia, stabilito dall’art. 334-bis c.p.p., non risolve la questione della loro configurabilità come pubblici ufficiali, ben potendosi ritenere delineata una figura di pubblico ufficiale eccezionalmente dispensato dall’obbligo di denuncia.
2.9. Correttamente i giudici del merito hanno ritenuto, infine, che nella specie non si tratta di falso innocuo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di falsità di atti pubblici, la legge penale tutela il documento non per il suo contenuto e la sua validità intrinseca ma per la sua funzione attestativa e per la sua attitudine probatoria, sicché la invalidità del rapporto giuridico rappresentato dal documento non esclude il delitto di falso previsto dall’art. 476 c.p. (Cass. V 16.12.1997, n. 11714, Lipizer e 12.2.1992, n. 1474, Goio).
Perché il documento sia insuscettibile di protezione penale deve essere privo dei requisiti formali che ne consentono la riconoscibilità sì da potersi considerare “inesistente” e, d’altro canto, per la configurazione del reato, non occorre che l’atto, al momento della sua falsificazione, possa ritenersi valido per istituire o provare un rapporto, bensì che mercè la falsificazione risulti idoneo a provare la sussistenza sia pure apparente, nei confronti dei terzi, della situazione documentata. Il verbale in questione, pur dichiarato dal Tribunale del riesame “inutilizzabile”, non era privo di qualsivoglia rilevanza probatoria, ossia inesistente (qualità sulle quali, come si è detto, la giurisprudenza ha costruito la tesi del falso innocuo): esso, infatti, aveva comunque dato origine al procedimento penale a carico del Balzaretti e avrebbe potuto dare origine ad indagini contro il terzo complice rimasto ignoto.
Il principio affermato
3. Ritengono, in conclusione, queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale integra il delitto di falso ideologico di cui all’art. 479 c.p. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele.
Il favoreggiamento personale
4. Anche i motivi di gravame riferiti al delitto di cui all’art. 378 c.p. sono infondati.
Va ribadita, al riguardo, la consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo la quale, per la sussistenza del delitto di favoreggiamento personale, è sufficiente il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di prestare, con una condotta a forma libera, aiuto ad una persona in relazione ad un reato commesso, per eludere le investigazioni o per sottrarsi alle ricerche (Cass. I 8.7.1999, n. 8786; Cass. I 23.10.1995, n. 10544; Cass. VI 20.9.1991, n. 9819).
Anche il difensore dell’imputato può rendersi responsabile del delitto di favoreggiamento personale allorquando presti un consapevole aiuto diretto, oltre i limiti dell’attività difensiva, anche solo ad intralciare l’opera di investigazione o di ricerca dell’autorità (Cass. I 26.6.1986, n. 6204): la difesa, infatti, quale diritto inviolabile, non ha nulla a che vedere con attività sleali o delittuose.
Per la configurazione dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., l’esercizio di un diritto scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, essendo necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione.
Nella vicenda in esame precise disposizioni legislative e deontologiche imponevano all’imputato la fedeltà nella verbalizzazione e non può costituire scriminante, neppure nella forma putativa, la convinzione dell’esistenza di un diritto in realtà inesistente che si è tradotta in un esercizio del diritto di difesa al di fuori dei suoi limiti legali e naturali, non integrante errore relativo al fatto.
È fuorviante discettare, infine, della astratta possibilità di configurare un favoreggiamento personale del difensore in forma omissiva, perché nella specie l’omessa verbalizzazione è soltanto un presupposto della condotta commissiva di produzione di un verbale contraffatto.
(omissis)
Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico
4. Falsa dichiarazione al pubblico ufficiale dello smarrimento di un libretto di assegni
Cass. S.U. 15 novembre 1999, Gabrielli
…
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 5 marzo 1999, ha confermato quella del Pretore di Viareggio che aveva dichiarano FRANCO GABRIELLI colpevole del reato di cui all’art. 483 c.p. per avere attestato falsamente, in una denuncia presentata ai Carabinieri di Lido di CAMAIORE il 31 marzo 1992, di aver smarrito quattro assegni del suo conto corrente bancario acceso presso la Cassa Rurale di PIETRASANTA.
Col ricorso avverso la sentenza di appello la difesa deduce l’erronea applicazione della legge penale censurando la decisione dei giudici del merito che si sono discostati dall’orientamento giurisprudenziale accolto dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 17-2-1999 Lucarotti) che, giudicando un caso identico, hanno ritenuto insussistente il reato in questione, poiché la falsa dichiarazione del privato al pubblico ufficiale, relativa a fatti trasfusi in un atto pubblico destinato a provarne la verità, costituisce falsità ideologica soltanto se una norma imponga di dichiarare il vero, collegando l’obbligo giuridico all’efficacia probatoria dell’atto che l’attestazione contiene, in quanto l’ordinamento non prevede un generale dovere di veridicità del privato.
La V Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, ha rilevato che, dopo la decisione delle Sezioni Unite, si è rinnovato il contrasto con la sentenza emessa dalla stessa Sezione in data 16 giugno 1999 n. 1323 Monti, con la quale in un caso identico si è ritenuto che la falsa attestazione di smarrimento di un assegno bancario resa ai Carabinieri è idonea a configurare il reato previsto dall’art. 483 cit., poiché il documento redatto dal pubblico ufficiale in cui sono trasfuse le attestazioni del privato acquista rilevanza probatoria “de veritate” a causa della destinazione data dal dichiarante, sicché il mendacio costituisce lesione del bene della fede pubblica, stante la generale aspettativa di conformità del contenuto dell’atto medesime al vero.
Essendosi delineato, dunque, un nuovo contrasto, la Sezione suindicata, con ordinanza del 28 settembre 1999, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite criticando l’argomento posto a fondamento della sentenza Lucarotti, vale a dire la necessità che vi sia una norma di legge che imponga al privato di dire il vero al pubblico ufficiale che trasfonde la dichiarazione in un atto pubblico destinato a provare la verità dei fatti attestati, escludendolo la lettera dell’art. 483 c.p..
Sostengono, invece, i rimettenti la possibilità della destinazione soggettiva del documento, valorizzando la denuncia come atto diretto a provare la verità del fatto attestato, per la sua concreta utilizzabilità probatoria ai fini del “fermo” dell’assegno e delle garanzie offerte al cittadino in direzione dell’impulso delle ricerche e del blocco della somma rappresentata dal titolo.
Viene così esaltata la funzione probatoria che l’atto svolge per sua natura e per la rilevanza “inter homines” sicché il mendacio, costituendo lesione della fede pubblica per la generale aspettativa di conformità del contenuto dell’atto medesimo al vero, è idoneo a configurare il reato di cui all’art. 483 c.p..
Senza che possa aver rilievo l’elemento negativo e pregiuridico, del tutto estraneo alla fattispecie, dell’omessa denuncia del privato alla banca trattaria prevista dalla speciale procedura di ammortamento (art. 69 R.D. n. 1736/33).
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la discussione l’odierna pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. – I termini del contrasto risultano dalla stessa ordinanza di rimessione e dalla sentenza di queste Sezioni Unite del 17 febbraio 1999, Lucarotti.
In esso, in buona sostanza, si contrappongono, rispettivamente, gli assunti della teoria “sostanzialistica”, recepita nei termini anzidetti dall’ordinanza di rimessione e dalla sentenza della quinta sezioni Monti, che ha riproposto il contrasto, e di quella più restrittiva o “formale”, accolta dalla sentenza delle Sezioni Unite Lucarotti, secondo cui la destinazione dell’atto a provare la verità dei fatti attestati dal privato deve risultare, esplicitamente o implicitamente, da una specifica previsione normativa.
2. – Le Sezioni Unite ritengono di dover ribadire l’indirizzo accolto nella sentenza Lucarotti.
Questa, pur nella essenzialità della sua argomentazione ha il pregio di aver rispettato il testo legislativo valorizzandone innanzitutto la sua portata di linguaggio tecnico e ha dato al termine “provare” (o “prova”) cui la norma fa riferimento il suo corretto significato, presumendolo usato dal legislatore in maniera appropriata e non già in conformità del linguaggio parlato o del valore che esso assume nella prassi o nel variegato contesto delle relazioni umane.
Ma la essenzialità del percorso argomentativo della cennata sentenza non intacca la correttezza della conclusione raggiunta né dà (nuovo) vigore all’opzione esegetica contraria, delle cui principali obiezioni converrà, in questa sede, farsi carico.
indagine esegetica sull’art. 483 c.p.
3. – L’indagine esegetica sul testo normativo richiederà che si dia innanzitutto senso ai termini usati dal legislatore utilizzando, ove occorra, le indicazioni provenienti da altri rami dell’ordinamento e dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato per approdare, così, alla ricostruzione di un modello legale il più possibile preciso e non variabile ad arbitrio dell’interprete, nel rispetto dei principi costituzionali di legalità (cfr. infra sub 7) e di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali (Corte Cost. sent. n. 34 del 6-13 febbraio 1995).
L’art. 483 c.p. punisce la falsa attestazione di un fatto “di cui l’atto è destinato a provare la verità”.
Non può, dunque, prescindersi dal significato dei termini “prova” e “documento – prova del fatto documentato” e dal collegamento che la norma stessa pone tra il falso e la prova.
Il concetto di prova che deve accogliersi è quello di fatto, segno o mezzo rappresentativo, veicolo di conoscenza della proposizione fattuale da sottoporre a controllo giudiziale (il “quid probandum”, ignoto).
E sulla base di questa funzione della prova non vi è dubbio che il verbale di denuncia di smarrimento, poiché non documenta il fatto dello smarrimento, designa unicamente – e prova – la dichiarazione con cui il denunciante rende noto al verbalizzante il verificarsi di quel fatto.
Il documento enuncia e rappresenta il racconto del dichiarante senza rapportarsi al fatto dichiarato, rispetto al quale costituisce una rappresentazione, per così dire, di secondo grado e, quindi, non la prova di esso, qualunque sia il valore che poi la prassi burocratica o contrattuale assegna alla denuncia, come presupposto per “mettere in moto” attività successive (Cass. Sez. V n. 1323/99, Monti).
Ed, invero, né la prassi successiva alla denuncia né la potenzialità di “messa in moto” hanno a che vedere con il concetto di prova del fatto (smarrimento) atteso che, dal punto di vista strettamente tecnico – giuridico, non esiste differenza (di efficacia probatoria) tra la denunzia di smarrimento e la dichiarazione di smarrimento altrimenti resa, nel caso di assegni, alla banca o a quant’altri (con una lettera raccomandata, un fax o anche soltanto oralmente).
Il fatto dichiarato dal portatore del titolo non diventa più o meno vero – o storicamente certo, nel senso di “adprobatum” – a seconda che sia stato denunciato alla P.G. ovvero altrimenti rappresentato: il valore probatorio sarà sempre e solo quello assegnato alla dichiarazione proveniente dall’interessato, anch’essa intesa – se si vuole – come dato rappresentativo il cui valore, però, non sarà tecnicamente accresciuto dalla circostanza che essa è stata ricevuta da un Pubblico Ufficiale al cui atto verrà attribuita fede (privilegiata) solo in relazione alle circostanze che la dichiarazione è stata resa con quelle forme, in quei tempi e con quelle modalità e che essa proviene dal soggetto denunciante.
la locuzione “fatto di cui l’atto è destinato a provare la verità”
4. – L’art. 483 c.p. esige, invece, una relazione di attitudine probatoria non tra il documento ed il soggetto né tra il documento e l’attività dichiarativa del soggetto bensì tra il documento ed il fatto (dichiarato).
Con la locuzione “fatto di cui l’atto è destinato a provare la verità” la norma incriminatrice stabilisce proprio questo legame tra l’efficacia probatoria del documento e l’accadimento (fatto) attestato dal dichiarante e richiede che il giudizio di verità – falsità si incentri sulla rappresentazione (prova) che del fatto (non della sua esternazione) dovrà fornire il documento.
Ciò che conta, insomma, è la qualità impressa all’atto dalla sua destinazione probatoria (mezzo di prova) rispetto al fatto attestato (oggetto di prova), il che implica che il documento deve assumere valore dimostrativo diretto ed immediato del fatto attestato attribuendogli il crisma di realtà storicamente certa.
L’efficacia probatoria dell’atto pubblico
5. – L’efficacia probatoria dell’atto pubblico è stabilita dalla legge che, nell’art. 2700 c.c., ne definisce anche gli ambiti: esso fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato nonché delle dichiarazioni delle parti e “degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.
Se, dunque, l’atto pubblico non fa prova dei fatti meramente dichiarati al pubblico ufficiale, non può diversamente sostenersi per la dichiarazione (attestazione) di smarrimento contenuta nelle denuncia alla P.G..
E se, ancora, l’atto pubblico fa, di norma, prova delle dichiarazioni delle parti e non della verità delle stesse, è anche chiaro che, quando questa destinazione probatoria esiste, essa non può essere impressa dalla parte ma deve esserlo dalla legge, unica fonte da cui può derivare l’ampliamento dell’efficacia fidefaciente dell’atto, già stabilita in via generale nell’art. 2700 c.c., con la estensione a fatti ulteriori rispetto a quelli ivi previsti.
In definitiva, può ben dirsi che l’attitudine probatoria dei documenti, come oggetti rappresentativi, è stabilita dalla legge e non può l’interprete assegnare allo scritto proveniente dal pubblico ufficiale una efficacia e destinazione probatoria diversa e più ampia di quella che la legge gli assegna ed affermare che esso è destinato a provare – se non ne ha normativamente l’attitudine – il (la verità del) fatto attestato dal dichiarante.
Nell’ipotesi dell’art. 483 l’uso del participio passato “destinato” non può significare una designazione generica o una designabilità (destinabilità) eventuale e futura ma implica, chiaramente, una designazione specifica ed originaria dell’atto come prova della verità del fatto dichiarato: non, quindi, dell’enunciato rappresentativo di esso, che è sempre vero, ma del fatto che ne è oggetto, che può anche essere falso, senza che ciò intacchi l’autonoma genuinità del documento.
La destinazione probatoria è cosa diversa dalla destinabilità o utilizzabilità probatoria poiché ogni oggetto naturale o artificiale, ogni entità – non solo ogni documento – ha una sua destinabilità alla prova purché designi e ricostruisca come conforme al vero (provato) il fatto che rappresenta.
Ma si tratta di una destinazione probatoria che non può essere materia del falso ideologico previsto dall’art. 483 c.p. poiché detta norma, letteralmente, attiene alla rappresentazione di un fatto per mezzo dell’atto pubblico in cui esso è (falsamente) enunciato.
Insomma, la denuncia di smarrimento dell’assegno non prova né può provare (e, quindi, non può essere destinata a provare) il (la verità del) fatto (smarrimento) e, per conseguenza, la preesistenza del documento asseritamente smarrito.
6. – Diventa, così, chiara la ragione per la quale l’art. 483 è stato collocato tra le falsità documentali anziché tra le falsità personali: l’ordinamento considera il valore di prova e la destinazione probatoria del documento rispetto al fatto attestato e rafforza la tutela del documento – prova del fatto.
Il falso ideologico commesso dal privato è punito eccezionalmente e solo in virtù di una specifica disposizione di legge, anche quando l’attestazione sia inserita in un atto pubblico in cui il pubblico ufficiale riporta quanto riferito dal dichiarante.
La denuncia orale raccolta in un processo verbale redatto dalla Polizia Giudiziaria non si differenzia, quanto all’efficacia probatoria, neppure dalla denuncia scritta presentata dal privato alla stessa autorità.
Detto verbale, in quanto assertivo di fatti rilevanti idonei a produrre determinati effetti, non può ritenersi destinato a provare la verità per il solo fatto che il dichiarante, pur non essendogli riconosciuta alcuna facoltà di operare in tal senso, intenda a ciò destinare l’atto in cui le attestazioni sono trasfuse dal Pubblico Ufficiale redigente che, a sua volta, attesta che quelle dichiarazioni sono state fatte davanti a lui, non che le stesse corrispondono al vero.
Il principio di legalità: non ogni attestazione fatta dal privato al pubblico ufficiale richiama la pubblica fede ma ciò avviene solo quando una norma specifica, ricollegando determinati effetti al documento che l’attestazione contiene, lo stabilisca, precostituendo quel determinato atto pubblico a provare la verità.
7. – Non è, dunque, possibile ritenere che può essere anche il soggetto dichiarante ad imprimere all’atto la destinazione probatoria “per l’uso che intende farne”.
Dal principio di stretta legalità (art. 25 Cost., 1 c.p. e 14 Preleggi) deriva l’inesistenza di una autonomia normativa del privato, neppure inserita con efficacia secondaria nella gerarchia delle fonti del diritto penale.
La riserva di legge da parte dello Stato, connessa al suindicato principio, è tendenzialmente assoluta a tutela della funzione garantiste, tesa, nei moderni ordinamenti democratici, a stabilire, con rigorosa predeterminazione non suscettibile di interpretazione estensiva ed analogica, le condotte penalmente sanzionate.
Elementi “estranei” possono caratterizzare una norma incriminatrice temperando l’assolutezza della riserva statuale, con la previsione del completamento con elementi oggetto di norme di altri rami del diritto o d’integrazioni sub-legislative dei precetti operate dall’Autorità amministrativa (ordinanze, decreti) che qualificano la fattispecie concorrendo a determinarne contenuti e condizioni (“norme dal precetto incompleto”).
Ancor più marcato è nella previsione di “norme penali in bianco” il rinvio operato dal legislatore ad atti normativi di grado inferiore per contrassegnare un fatto che la legge considera penalmente illecito.
Non vanno trascurate le decisioni della Corte Costituzionale c.d. “manipolative” o “additive” dei contenuti normativi, ammissibili, secondo la dottrina e la giurisprudenza in larga parte concordi, in aree coperte da riserve alla condizione che l’intervento corrisponda all’unica soluzione imposta dalla Costituzione.
Ed anche le norme comunitarie possono avere effetti mediati per una loro indiretta rilevanza su norme penali incriminatrici.
Dunque, mentre è previsto il rinvio, espresso o tacito, operato da una norma penale ad altre regole per connotare il fatto tipico, non è previsto nell’ordinamento il concorso del privato nella definizione legale della fattispecie criminosa a protezione di beni giuridici la cui tutela derivi la sua fonte dalla libera scelta del medesimo soggetto che verrebbe, così, a sostituire la propria valutazione, circa l’offensività delle condotte individuali, a quella riservata al legislatore cui è demandato, in via esclusiva, il potere di determinare la soglia di punibilità ed i confini della norma penale, tipizzando il perimetro dell’attacco al bene giuridico protetto e le relative difese (arg. anche da Corte Cost. sent. n. 26/66).
La tesi contraria, che si rivela errata alla luce del principio di legalità, è tale anche in base ai principi che reggono il sistema probatorio vigente.
Questo, infatti, non consente la precostituzione di prove (documentali) favorevoli da parte dello stesso soggetto che dovrà avvalersene ed ove eccezionalmente lo ammette lo dice espressamente ed assegna al documento una precisa e limitata efficacia probatoria, in genere contraria allo stesso dichiarante (ad esempio i documenti di cui agli artt. 2162, 2709 e 2710 c.c.; le dichiarazioni confessorie di cui agli artt. 2730, 2733 e 2735 c.c.; la fattura e gli altri documenti previsti nell’art. 634 c.p.c. fanno prova a favore dell’imprenditore commerciale ai soli fini della pronuncia del decreto di ingiunzione e, quindi, in via eccezionale e provvisoria).
La precostituzione soggettiva del documento quale atto pubblico diretto a provare il fatto rappresentato appare come una opzione contraddittoria ed estranea al sistema atteso che la efficacia probatoria dell’atto non può fondarsi sulla volontà della parte dichiarante che intende precostituirsi la prova di verità sui fatti dichiarati.
L’intero ordinamento delle prove – e soprattutto delle prove scritte – resterebbe, invero, vulnerato e sconvolto se si ritenesse che il fatto dichiarato da una parte è provato
probatoriamente certo) solo perché la dichiarazione è stata versata in un atto pubblico.
Diventa, perciò, perfettamente comprensibile (contrariamente a quanto si ritiene dai fautori della tesi sostanzialistica) e tutt’altro che incoerente col sistema probatorio vigente la esclusione dei privati cittadini dal novero dei soggetti abilitati a destinare una loro personale dichiarazione, sia pure fatta ad un pubblico ufficiale, alla prova di fatti (costitutivi di situazioni o rapporti) per essi stessi favorevoli.
La premessa argomentativa basata sulla possibilità di destinazione soggettiva alla prova, è, quindi, discutibile, se non errata.
Ma anche a voler accettare, per mera ipotesi dialettica, la possibilità della destinazione soggettiva dell’atto alla prova, non se ne potrebbero comunque accogliere le conclusioni, e precisamente:
a) quella che fa derivare da essa un obbligo di verità (che giustifica l’incriminazione);
b) la non derivazione di tale obbligo da alcuna disposizione di legge “poiché esso discende dalle norme incriminatrici del falso”.
La prima conclusione (obbligo di verità) non ha nessun legame logico con l’antecedente premessa (destinazione soggettiva dell’atto alla prova) ed, in ogni caso, si tratterrebbe di un obbligo non oggettivo ma autofondato, nel senso che colui che destina il documento alla prova si impone anche l’obbligo di verità.
La seconda deriva da un ragionamento palesemente illogico che procede sostenendo che il falso (l’incriminazione di falso) si ravvisa poiché vi è l’obbligo di dire la verità e che l’obbligo di dire la verità sussiste perché vi è la incriminazione di falso: si tratta di uno schema che contravviene alla linearità dell’argomentazione logica ed integra il classico esempio del circolo vizioso (Zirkelbeweis).
L’obbligo di verità non può farsi neppure discendere da non meglio precisati principi generali poiché la genericità e l’indistinta ampiezza della fonte non la rendono idonea alla dimostrazione di un qualsivoglia diverso assunto che sia doverosamente coerente col principio di tassatività del modello legale.
E, del resto, l’ordinamento non prevede un generale obbligo del privato di dire la verità.
Non ogni attestazione fatta dal privato al pubblico ufficiale richiama la pubblica fede ma ciò avviene solo quando una norma specifica, ricollegando determinati effetti al documento che l’attestazione contiene, lo stabilisca, precostituendo quel determinato atto pubblico a provare la verità.
Il delitto di cui all’art. 483 è un reato di pericolo ed è in potere del solo legislatore selezionare, con specifiche previsioni, i limiti di offensività di una condotta ritenendola idonea a ledere un determinato bene giuridico e non va sottaciuto che, in materia di falso ideologico commesso dal privato, la punibilità della condotta rappresenta l’eccezione, non la regola.
Né l’art. 483 può essere considerato norma residuale applicabile in mancanza di altra norma che imponga al privato di dire la verità.
Se questa fosse stata l’intenzione del legislatore, sarebbe stata prevista la punizione della falsa attestazione di fatti resa al pubblico ufficiale, senza la delimitazione dell’area della fattispecie incriminatrice con la previsione del requisito della destinazione del documento a provare la verità del fatto attestato dal soggetto dichiarante.
Se il legislatore ha menzionato la finalità dell’atto ciò significa che non ha dato rilevanza alla sola verità (o non verità) del fatto (smarrimento) dichiarato ma ha dato valore all’aggressione patita dal mezzo di prova (documento) e non ha inteso identificare la lesione semplicemente e direttamente nel falso come, ad esempio, è avvenuto nell’art. 495 c.p., norma in cui, pur non potendosi ipotizzare una scelta di parte ed a prescindere dalla destinazione dell’atto (peraltro non idoneo a provare la identità, lo stato e le altre qualità del soggetto), si è ravvisata, comunque, la lesione dell’obbligo di verità e della aspettativa di verità.
Vero è, allora, che nel caso dell’art. 483 c.p. l’obbligo di verità nasce dalla qualità (destinazione) di “strumento istruttorio” che al documento viene oggettivamente e concretamente impressa da una qualsiasi regola ordinamentale (penale, civile, amministrativa o processuale civile, come è affermato nella sentenza Lucarotti) che gli assegna la detta specifica destinazione.
Si tratta, al fondo, di un obbligo strumentale finalisticamente inteso, cioè qualificato dal fine ordinamentale – e, perciò, oggettivo – dell’atto.
7. – Il legislatore, dunque, non ha inteso punire qualsiasi dichiarazione o falsa attestazione del privato ancorandosi al concetto di lesione di un qualsiasi bene vago ed indeterminato ma si è attenuto al valore tipico (di prova) assegnato al documento dall’ordinamento giuridico in relazione al fatto attestato dal privato.
Non ha considerato né ha protetto un qualsivoglia valore etico di verità o un interesse sociale genericamente inteso e, di fatto, consegnato alla determinazione dell’interprete, ma, più chiaramente, ha disegnato un interesse connesso alla funzione probatoria specifica che al documento viene assegnata dalle norme giuridiche di qualsiasi natura a prescindere dall’uso concreto dall’atto, uso che non fa parte della struttura normativa né è richiesto per la incriminazione.
In definitiva, il legislatore ha collegato l’interesse protetto alla destinazione probatoria dell’atto ed ha inteso punire la condotta di chi, attestando falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, attenta allo specifico interesse probatorio documentale.
Con la previsione penale è stata rafforzata la tutela probatoria accordata all’atto di natura pubblica dall’art. 2700 c.c. e si è voluto garantire “il bene giuridico della pubblica fede documentale riconosciuta agli atti pubblici” (così SS.UU., Lucarotti).
La individuazione di questa “ratio specifica” della norma consente di circoscrivere in termini precisi la fattispecie nelle sue componenti di condotta, di evento e di bene giuridico protetto dall’aggressione della condotta incriminata e rafforza l’opzione esegetica qui accolta che ritiene più congruo rinvenire nella legge la fonte della destinazione dell’atto a provare la verità piuttosto che basarla sulla prassi o anche su improbabili obblighi genericamente etici, su “aspettative sociali di conformità dei fatti alle attestazioni” ovvero sulla “libera scelta del cittadino” …
Soltanto la destinazione a provare il fatto attestato è un dato sicuro nella previsione normativa, mentre gli altri valori non sono neppure lontanamente menzionati o presupposti.
8. – L’opposta tesi trae anche argomento dalla mancata previsione della destinazione normativa dell’atto nella lettera della legge: si afferma che “in materia così specifica e rilevante, analiticamente disciplinata, il legislatore non avrebbe potuto non menzionare, se questa fosse stata la voluntas legis, quale elemento di rilevanza penale del falso ideologico, la destinazione ex lege dell’atto a provare la verità del fatto attestato” (cfr. ord. di rimessione).
Ebbene gli stessi sostenitori della avversa tesi, che ritengono estranea alla fattispecie legale la destinazione normativa dell’atto a provare la verità del fatto attestato, vi includono, poi, contraddittoriamente, l’obbligo di verità nascente dalle fonti più svariate (scelta della parte, sistema, destinazione soggettiva dell’atto alla prova, aspettative sociali, responsabilizzazione dei cittadini ecc…).
In proposito viene fatto di osservare come, al contrario, ciò che esplicitamente e sicuramente è incluso tra gli elementi caratterizzanti della fattispecie è proprio la descrizione dell’atto come documento probatorio o avente efficacia probatoria, cui si ricollega l’aspettativa di verità che giustifica la tutela penale.
Ma in ogni caso, ed a tutto concedere, se il legislatore non ha menzionato la necessità di una destinazione “ex lege” dell’atto a provare la verità non ha neppure menzionato la destinazione “ex homine” sicché l’argomento sotteso dell”‘ubi lex non dixit, noluit” non è utilizzabile a dimostrazione dell’assunto contrario a quello recepito nella sentenza Lucarotti che in questa sede si intende ribadire.
Se così è, conviene allora ritenere che è più consono al testo ed alla “ratio” della legge riaffermare il carattere oggettivo ed ordinamentale della destinazione probatoria dell’atto e ricercare, quindi, nella legge la fonte dell’obbligo di verità piuttosto che ancorarlo a fonti soggettive o, in ogni caso, imprecise, mutevoli e vaghe, di volta in volta – ed “a posteriori” – individuate dall’interprete.
9. – Dai sostenitori della tesi contraria si ritiene anche che nella “nozione penalistica” degli atti pubblici rientrano anche “quelli redatti per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede”.
Ebbene, se così fosse, occorrerebbe innanzitutto individuare questa diversa (e, per la verità, oscura) categoria di atti (pubblici) per poi, necessariamente, convenire che l’esistenza di essa sarebbe la prova “a contrario” dell’esistenza dell’altra categoria: gli atti, cioè, destinati a provare la verità dei fatti e che sono proprio quelli cui letteralmente si riferisce l’art. 483 c.p., individuandoli come gli atti pubblici che il legislatore considera mezzi di prova (destinati a provare) di fatti determinati.
Ed, ancora, per riaffermare la possibilità della c.d. prospettazione soggettiva di destinazione alla prova si parte anche dalla premessa che “non si richiede che l’atto sia previsto da una determinata norma né che determinati effetti siano normativamente ricollegati alla dichiarazione di verità, essendo sufficiente da tutte le regole ricavate dall’organico sistema di norme incriminatrici del falso una qualsiasi rilevanza fattuale e giuridica dell’atto nella sua realtà fenomenica dei rapporti inter homines”.
Ebbene, in questo caso la premessa non è tale da giustificare la conclusione poiché essa stessa costituisce il “quid demonstrandum”.
Essa sposta il problema sugli effetti dell’atto in cui è trasfusa la dichiarazione del privato, connaturata alla dinamica dello sviluppo successivo, senza soffermarsi adeguatamente sulla sua rilevanza penale ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 483 c.p. e tralasciando di considerare come, secondo il dettato normativo, non basta che l’atto (o, addirittura, il fatto dichiarato dal privato: Cass. Sez. V, Monti) abbia una rilevanza qualsiasi – dal momento che la norma incriminatrice assegna all’atto una rilevanza probatoria – e, così, trascurando, ancora una volta i principi cardine della riserva di legge e di stretta legalità e quelli connessi di tipicità e determinatezza della fattispecie penale.
Ogni fatto umano e naturale (la nascita, la morte, l’accessio, l’avulsio, l’insula in flumine nata) può avere rilevanza giuridica o … fattuale e, quindi, anche la dichiarazione resa al P.U. dal privato e la stessa attività materiale di formazione dell’atto che la contiene hanno rilevanza giuridica, ma ciò non basta ad integrare l’ipotesi tipica del reato che ne occupa nella quale si prevede espressamente la destinazione probatoria dell’atto, non tanto in generale quanto in relazione al fatto attestato dal privato.
Ed, allora, quando si assume la sufficienza di una qualsiasi rilevanza del fatto (come l’utilizzazione della denuncia per impedire il pagamento dell’assegno), non solo si dice cosa giuridicamente inesatta ma, come ha sottolineato anche la sentenza Lucarotti, si finisce anche per confondere le conseguenze effettuali (confuse, in fondo, nel concetto di rilevanza) della enunciazione del fatto (nella specie: l’asserito smarrimento dell’assegno) con la prova del fatto (rilevante), prova che potrà dirsi sussistente non in base alla mera affermazione di esso contenuta nella denuncia ma quando la res scripta in cui esso è descritto ed enunciato “è coessenziale all’esistenza giuridica del fatto” stesso, siccome predicato dal documento in termini di esistenza e di conformità al vero, nella misura voluta dal legislatore.
la denuncia di smarrimento non può provare lo smarrimento, vale a dire il fatto attestato; non è fonte dell’obbligo di verità, la cui violazione giustifica l’incriminazione ex art. 483 c.p.
10. – La denuncia, non obbligatoria, dello smarrimento di un assegno bancario fatta alla Polizia Giudiziaria non produce particolari effetti – come meglio si vedrà in seguito – nella procedura di ammortamento ma non vanifica neppure l’effetto liberatorio del pagamento fatto dal debitore al detentore del titolo prima della notifica del decreto di ammortamento atteso che essa, come avvertenza della possibilità di una circolazione irregolare del titolo, comporta solo l’uso da parte della banca trattaria di maggiori cautele suggerite dalla normale prudenza (Cass. Civ. Sez. I 15.7.1965 n. 1549; sull’onere di richiedere l’ammortamento del titolo, unico strumento che garantisce il traente dall’esposizione alla richiesta di pagamento: Cass. Civ. Sez. III 15.3.1995 n. 3027).
E, se, allora, è da escludersi che la denuncia di smarrimento possa provare lo smarrimento (e, quindi, la preesistenza e la titolarità della cosa smarrita che dovrebbero a rigore abilitare alle azioni cambiarie) non potrà “a fortiori” neppure sostenersi una (possibile e da chiunque proveniente) destinazione della denuncia a provare il fatto attestato e non sarà, quindi, alla luce del dettato normativo, ipotizzabile la falsità prevista dall’art. 483 c.p..
Le stesse osservazioni possono farsi allorché i sostenitori della opposta tesi fanno ricorso al concetto di prova precostituita al fine di garantirsi dalle conseguenze negative (eventuali) dello smarrimento.
Al di là della generica e mera affermazione di principio racchiusa nell’enunciato, non si riesce ad intravedere quale diritto, azione od eccezione possano fondarsi (che è questa la finalità propria della prova) sulla semplice denunzia di smarrimento, se il denunciante non sarà in grado di provare (per rimanere nell’ambito dei titoli di credito) non solo la titolarità del diritto incorporato nel titolo smarrito ma anche il legittimo possesso di esso, essendo noto che, neppure dopo aver ottenuto l’ammortamento del titolo ed anche se elasso il termine per l’opposizione al relativo decreto, egli potrà sottrarsi alle azioni dell’effettivo titolare e possessore in buona fede.
Parlare, poi, di “destinabilità probatoria anche solo potenziale secondo la funzione propria del documento” che è mezzo di prova “pregiuridico nell’ambito dei rapporti economici e sociali” significa non solo svincolarsi dal dato testuale riesumando, per sostituirlo a quello di “destinazione”, l’estraneo concetto di “destinabilità” (soggettiva) ma anche affidarsi, nell’attività di interpretazione, ad espressioni semanticamente labili ed assolutamente vaghe che finiscono per assumere a valore protetto dall’ordinamento un generico e diffuso danno sociale (proprio di qualunque tipo di reato) oppure un concetto di lesione e di danno indeterminati e meramente potenziali per approdare, così, ad una tipologia sanzionatoria ricollegata al c.d. diritto vivente e giustificata dalla “lesione e dalla messa in pericolo” di “rapporti di aspettativa e fiducia” del tutto evanescenti.
In tal guisa si finisce ancora una volta per vanificare il principio di legalità teorizzando un vuoto normativo che, in realtà, non esiste in quanto il dato testuale non si arresta alla parola “fatti” ma aggiunge i termini “dei quali l’atto è destinato a provare la verità” così attribuendo all’atto non una rilevanza pratica qualsiasi ma una specifica rilevanza giuridica che risiede nella sua destinazione “ab initio” a provare la verità del fatto attestato e, quindi, nella sua natura di prova: il fatto (falsamente) denunciato non ha rilevanza giuridica in quanto tale ma in quanto oggetto di prova precostituita a mezzo dell’atto pubblico.
11. – La tesi contraria ritiene di poter rinvenire la fonte dell’obbligo anche nella “comune aspettativa di verità” e fa ricorso al concetto poco chiaro di mezzo di prova “pregiuridico” oppure al “contesto che, definendo la rilevanza giuridica di alcuni fatti, li individua come quelli rispetto ai quali si determina una aspettativa di verità”.
Può obiettarsi che, non solo nei rapporti sociali ma anche secondo le regole della buona fede, che sono parte notevole del sistema positivo vigente, vi è aspettativa di conformità al vero di attestazioni, dichiarazioni, manifestazioni ma non sempre, però, la delusione di questa aspettativa assume rilevanza penale poiché “i valori non sono per sé stessi norme né principi di deduzione delle norme”, mentre parlare di “contesto”, di generica “rilevanza giuridica” o di “incidenza della denunzia” significa non uscire dal vago o dal circolo vizioso e riconoscere, ancora una volta, valore normativo ai fatti confondendo gli effetti della denuncia, come mezzo di segnalazione del fatto, con la prova del fatto.
Certamente anche l’elemento della fiducia è presente nella mens legis ma, nel caso di specie, esso è correlato alla particolare qualità (atto pubblico) del mezzo probatorio, se ed in quanto esso attribuisca valore di verità al fatto rappresentato dal dichiarante.
Nessun “salto logico” né arbitraria integrazione sono, perciò, ravvisabili (al contrario di quel che sostiene la sezione rimettente) allorché si ritiene che la destinazione a provare la verità debba trovare la sua fonte necessariamente in una disposizione normativa.
12. – Neppure il richiamo all’art. 367 c.p. conforta l’assunto secondo cui la libera scelta della denuncia è fonte dell’obbligo di verità, la cui violazione giustifica l’incriminazione ex art. 483 c.p.
Ed, invero, nel caso dell’art. 367 c.p. l’obbligo di denunciare il vero è sancito dalla stessa norma incriminatrice che punisce la falsa denuncia di reato (che è già cosa ben diversa dalla denuncia di smarrimento) prescindendo totalmente dal valore probatorio del documento che la contiene e prescindendo persino – nella simulazione c.d. reale – dalla stessa esistenza di una denuncia documentata.
La diversità degli scopi, dell’interesse protetto e delle forme della condotta non autorizza a trarre dall’art. 367 c.p. argomenti a favore del c.d. obbligo di verità nascente dalla libera scelta di denunciare (il reato) da parte di chi ne è facultato.
Né è possibile trarre valido argomento dalla “impossibilità per la Polizia Giudiziaria di rifiutare la denuncia”.
A parte il rilievo che tale impossibilità, piuttosto che dimostrata, viene data semplicemente per scontata – sì che essa più che funzionare da premessa logica innesta un tipico paralogismo – non si riesce a scorgere quale sia il canone di inferenza che consenta di giungere dall’assunta premessa (obbligo del P.U. di raccogliere la denuncia) alla conclusione (dovere del dichiarante di attestare la verità sui fatti narrati).
Infatti, non ogni volta che un pubblico ufficiale è tenuto a riceversi un atto, l’atto stesso prova (o è destinato a provare) la verità dei fatti dichiarati e non ogni volta vi è obbligo di chi é parte nell’atto di dichiarare fatti veri.
13. – A fronte della varietà delle ragioni, dei valori non sistematicamente ordinati e della sostanziale incoerenza degli argomenti che sostengono la posizione contraria, l’interpretazione accolta dalla sentenza Lucarotti – che ora si conferma – ha il pregio della linearità e della chiarezza.
La destinazione probatoria dell’atto va rinvenuta principalmente nelle norme del codice civile (artt. 2699 e 2700) ovvero in altre norme che assegnano all’atto pubblico funzione probatoria del fatto attestato dal privato, facendo nascere dalla combinazione tra atto e fatto in esso attestato situazioni giuridiche di vantaggio o di svantaggio suscettibili di accertamento e/o di tutela.
Occorre in buona sostanza, ad avviso delle Sezioni Unite, rifiutare come dirimente della “quaestio iuris” il concetto di rilevanza – tanto più se fattuale – attribuita al documento – denunzia dai singoli o dalla prassi, non potendosi accogliere una interpretazione pragmatica che travalica i limiti del testo normativo mentre si deve, al contrario, privilegiare, nell’ambito di un discorso di certezza delle fattispecie giuridiche, il concetto di fiducia nei mezzi di prova che trova la sua ragione giustificativa e la sua garanzia nell’ordinamento giuridico positivo poiché legato al processo e, prima ancora, alla certezza dei rapporti giuridici sia pubblici che privati.
La consumazione del reato richiede, dunque, la concreta aggressione dell’interesse probatorio connesso al documento quando questo sia destinato, preventivamente, a far prova (della certezza storica) del fatto manifestato dal privato e quando dal fatto, provato in forza del documento, derivino non mere conseguenze pratiche ma il sorgere e il possibile esplicarsi di poteri, di potestà, di status, di diritti assoluti, di situazioni e di rapporti suscettibili di accertamento e di tutela sia erga omnes che tra (e nei confronti di) singoli soggetti pubblici o privati.
E deve trattarsi di situazioni tipiche cioè “conformi alle previsioni dell’ordinamento ed alle regole in esso stabilite” non di mere situazioni di fatto, sia pure produttive di taluni effetti, che si configurano nella prassi e che comunque non si generano né dipendono dalla prova del fatto attestato.
14. – Neppure nell’unico caso in cui lo smarrimento assume rilievo di elemento tipico che legittima il ricorso al giudice (l’ammortamento), la denuncia fatta alla Polizia Giudiziaria ha valore di prova del fatto costituente il presupposto per la emissione del provvedimento richiesto: il Giudice competente è, infatti, tenuto ad accertare la verità del fatto (smarrimento) ed il diritto del portatore.
Ed, inoltre, anche il complesso delle disposizioni legislative e regolamentari, che concernono l’ammortamento dei titoli rappresentativi di depositi bancari o buoni fruttiferi (L. 30.7.1951 n. 948) e lo smarrimento di titoli del debito pubblico al portatore e dei B.O.T. (D.P.R. 14.2.1963 n. 1343 e succ. modif. e D.M. 16.2.1996 n. 312) prevede, per la salvaguardia del diritto vantato, unicamente la denuncia (senza forme) dello smarrimento del titolo da farsi all’Istituto emittente o al Ministero del Tesoro.
Ciò dimostra non solo la perfetta equiparazione di questa alla denunzia fatta alla Polizia Giudiziaria ma, addirittura, la assoluta irrilevanza (o inefficacia o inopponibilità) di quest’ultima sul piano del diritto sostanziale.
15. – Ed è, alla fine, la stessa giurisprudenza di avviso contrario ad assegnare alla denuncia di smarrimento il valore di una dichiarazione ricettizia (si afferma che “la denuncia si concreta in un ordine di non pagare”: Cass. 1263/73, Morandi: che “la denuncia aveva unicamente lo scopo di togliere efficacia al titolo”: Cass. n. 1217/95, Pellecchia; che con la denuncia si intende “avvisare la banca di non aver dato alcun ordine di pagamento”: Cass. Morandi cit.).
Se, quindi, la denuncia altro non vuol essere che una dichiarazione a carattere negoziale occorre trarre da questa corretta premessa la necessaria conclusione della impossibilità di configurare il reato di cui all’art. 483 c.p. nel caso di false dichiarazioni negoziali alle quali non si attaglia il termine di “attestazione” (dottrina uniforme e giurisprudenza costante. – Cfr., per tutte, Cass. Sez. V 12.2.1976, De Riccardis e, sia pure in obiter, Cass. Sez. V 16.6.1999, Monti).
Conclusioni
16. – In conclusione, solo una specifica norma giuridica può predestinare l’atto pubblico alla prova di fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale che li inserisce nell’atto pubblico, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto stesso al dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne sono esempi l’art. 3 L. 15.5. 1997 n. 127 e l’art. 21 L. 7.8.1990 n. 241, in materia di dichiarazioni sostitutive e di semplificazione dell’azione amministrativa; gli artt. 2 e 4 L. 4.1.1968 n. 15 e gli artt. 1 e 2 D.P.R. 20.10.1998 n. 403, in materia di documentazione amministrativa e di dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà; e, in riferimento all’ipotesi aggravata di cui al secondo comma dell’art. 483 c.p., l’art. 451 c. 2° c.c..
Tutti casi in cui, al di là dei generici doveri di correttezza e di collaborazione che tendenzialmente caratterizzano lo Stato moderno e gli enti pubblici, da un lato, e i cittadini, dall’altro, si responsabilizza il privato sanzionando penalmente il dovere impostogli di dichiarare il vero al fine di concorrere a snellire il procedimento amministrativo in vista dell’atto finale della pubblica amministrazione.
17. – Allo scopo di prevenire future obiezioni è bene precisare che i termini “destinato a provare” consentono di ritenere che il reato si configura anche senza l’utilizzazione del documento ed a prescindere dall’ingresso del documento nella sede processuale (o in una fase procedimentale) in cui può avere rilevanza decisiva il “factum probandum”.
Ma ciò non cambia il significato della locuzione poiché, come è stato autorevolmente affermato, le prove – tanto più se trattasi di prove scritte – non servono solo nel processo per la formazione del convincimento del giudice ma anche “per rendere inutile il processo” e per disciplinare, al di fuori e prima di esso, i rapporti giuridici rendendoli certi in base alle risultanze documentali.
(omissis)
5. Falsità ideologica per induzione in errore e sussistenza del reato di falsa attestazione del privato ex art. 483 c.p.
Cass. S.U. 28 giugno 2007, Scelsi
in sintesi
Tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.
Il delitto di falsa attestazione del privato (di cui all’art. 483 c.p.) può concorrere – quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e 479 c.p.), sempre che la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 27.1.2006, confermava la sentenza 3.12.2002 del Tribunale di Foggia, che aveva affermato la responsabilità penale di Scelsi Domenico e Liso Beatrice in ordine ai delitti di cui:
a) agli artt. 110 e 483 c.p., in relazione all’art. 26 della legge n. 15/1968, perché, in concorso tra loro, nelle qualità di legali rappresentanti, rispettivamente, della s.p.a. ICOP e della s.r.l. ELCA, società facenti parte del consorzio SIERP – avendo inviato all’Amministrazione provinciale di Foggia, nella richiesta di partecipazione alla procedura di licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione della nuova sede dell’Istituto polivalente di Manfredonia, due distinte dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali falsamente affermavano che le società anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999 (mentre, in realtà, detta iscrizione era stata conseguita dalla s.p.a. ICOP il 30.11.1999 e dalla s.r.l. ELCA il 14.12.1999) – attestavano falsamente fatti dei quali le rispettive dichiarazioni sostitutive erano destinate a provare la verità – in Foggia, l’1.12.1999
b) agli artt. 110, 48 e 479 c.p., perché, in concorso tra loro, con le condotte dianzi descritte, inducevano in errore, sull’effettiva esistenza di un requisito indispensabile di partecipazione alla licitazione privata, il dirigente dei servizi tecnici ed i componenti della Giunta provinciale, i quali, sulla base delle dette false dichiarazioni, attestavano falsamente negli atti pubblici rispettivamente adottati (verbali del 2.12.1999 e del 9.2.2000 e proposta di aggiudicazione dell’appalto del 26.1.2000) che le due imprese anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999
e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, ritenuto il concorso formale dei reati, aveva condannato ciascuno alla pena complessiva di anni uno di reclusione, concedendo ad entrambi i doppi benefici di legge.
La Corte territoriale rigettava le impugnazioni degli imputati volte a contestare la sussistenza delle figure criminose e poneva in rilievo, innanzitutto, la situazione di fatto accertata, non contestata dagli stessi appellanti.
Essi avevano partecipato alla licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione sopra specificati e, come richiesto dal bando, avevano allegato le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali avevano attestato che la società da ciascuno rappresentata era iscritta all’Albo nazionale costruttori sin da data anteriore al 24 novembre 1999, requisito indispensabile per la partecipazione alla gara in quanto ad essa la detta iscrizione doveva preesistere.
Per le caratteristiche di convenienza della proposta di tali società, la aggiudicazione dell’appalto era avvenuta in loro favore ed i conseguenti atti deliberativi e dispositivi della procedura erano stati redatti sul presupposto – attestato dai pubblici ufficiali redigenti sulla base delle anzidette dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, facenti fede di quanto dichiarato – che le imprese aggiudicatarie presentavano il requisito della iscrizione all’ANC alla data della presentazione della offerta.
La Corte di merito osservava che:
– la presentazione delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà con contenuto ideologicamente falso integra il reato previsto dall’art. 483 c.p., posto che del falso deve rispondere il dichiarante in relazione ad un preesistente obbligo di attestare il vero (art. 26 della legge n. 15 del 1968), senza che occorra la prova del dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico per la configurazione del reato;
– la condotta in esame ha poi dato luogo, nella specie, ad un ulteriore reato continuato di falso ideologico, questa volta per induzione in errore dei pubblici ufficiali, posto che nei tre diversi atti specificati nel capo di imputazione, e precisamente nella parte dei provvedimenti destinata a far constare pubblicamente l’esistenza dei requisiti di legge, essi hanno dato atto del requisito della anteriorità della iscrizione delle imprese all’Albo.
I giudici di appello argomentavano sulla esistenza del concorso tra i due reati, citando la giurisprudenza di questa Corte che lo sostiene quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, si pone anche in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale ha posto in essere (Cass., Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto).
(omissis)
Il ricorso è stato assegnato alla quinta Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all’udienza dell’11 aprile 2007, ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla materia e (con ordinanza depositata il successivo 20 aprile) ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.
Nell’ordinanza di rimessione è stato posto in rilievo come il tema effettivo del contrasto non sia tanto quello del concorso fra il reato di cui all’art. 483 c.p. e quello di falso ideologico per induzione (ex artt. 48 e 479 c.p.), quanto quello degli esatti termini per la configurazione di questo secondo reato, pure in presenza (o meno) del primo.
Il reato in questione si struttura per l’esistenza di una falsità del privato (quella del decipiens) che determina un’altra falsità – ideologica in atto pubblico – posta in essere dal deceptus (il pubblico ufficiale), che però non risponde di essa per mancanza di dolo.
La questione da risolvere, dunque, è se, nella specie, oltre al falso ideologico del privato ex art. 483 c.p., la condotta dei pubblici ufficiali abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui all’art. 479 c.p., tenendo conto, in punto di fatto, che, secondo l’accusa, nella specie i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto della attestazione dei privati sulla data della iscrizione all’Albo.
Il panorama giurisprudenziale che è sullo sfondo della vicenda processuale vede, da un lato, la presa di posizione delle Sezioni Unite con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, nella cui motivazione si legge che l’atto pubblico, nel quale sia richiamato altro atto ideologicamente falso, è anch’esso falso, quantomeno perché certifica l’esistenza di attestazioni presumendole “vere”, con la conseguenza che se, invece, le attestazioni richiamate sono false, è falso pure l’atto pubblico che le pone a premessa.
L’opposto orientamento è quello secondo cui la falsità ideologica del privato non concorre con il delitto di falso per induzione in errore del pubblico ufficiale quando l’atto pubblico da questi adottato, a seguito della presentazione dell’atto falso del privato, non è inteso ad accertare proprio “il fatto” oggetto della attestazione falsa del privato ma, più semplicemente, l’esistenza dell’“atto” del privato in cui, questi, ha trasfuso l’attestazione di un certo fatto (così Sez. V: 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini; 20 giugno 2006, n. 21209, Bartolazzi).
Ancora, la sentenza della Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, afferma che solo quando il pubblico ufficiale, inconsapevolmente, raccolga dal privato una falsa attestazione relativa a fatti dei quali essa è destinata a provare la verità e quando detta attestazione venga poi utilizzata dal soggetto ingannato per descrivere od attestare una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore, resta integrata la fattispecie del falso ideologico per induzione (artt. 48-479, 48-480, 48-481 c.p.), la quale può concorrere con il delitto di cui all’art. 483 c.p., quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, è in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale, in quanto autore mediato, ha posto in essere.
Dunque, secondo quest’ultimo orientamento, il pubblico ufficiale, quando si limita a riportare la esistenza della attestazione del privato (poi risultata falsa), non realizza una attestazione falsa ma svolge una argomentazione errata (consistente nel presupporre come vero il fatto attestato dal privato) che dà luogo ad una conclusione falsa. Tale distinzione non è ritenuta rilevante, invece, nell’anzidetta sentenza delle Sezioni unite.
Il Primo Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione
Il ricorso deve essere rigettato perché infondato.
il reato di cui all’art. 483 c.p.
1. Sussiste anzitutto, nella fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 483 c.p., considerato che nelle due distinte dichiarazioni sostitutive di certificazione (destinate a provare la verità dei fatti dichiarati) gli imputati hanno falsamente attestato il possesso, da parte delle imprese societarie da loro rappresentate, di un requisito indispensabile per la partecipazione all’appalto e, a maggior ragione, per la relativa aggiudicazione.
Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero [vedi Cass. S.U. 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e 9.3.2000, n. 28, Gabrielli].
Per l’individuazione delle norme giuridiche che, nella specie, istituiscono l’efficacia probante della dichiarazione sostitutiva, equiparandola anche alla dichiarazione fatta a pubblico ufficiale ai fini e per gli effetti dell’applicazione delle sanzioni del codice penale, va ricordato che la “dichiarazione sostitutiva di certificazione” è stata inizialmente regolata dall’art. 2 della legge 4.1.1968, n. 15 (Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme) – abrogata dall’art. 77 del D.P.R. n. 445/2000 – ed essa è destinata, tra l’altro, a comprovare “le iscrizioni in albi o elenchi tenuti dalla pubblica amministrazione” (tale deve intendersi l’Albo nazionale costruttori).
La stessa legge n. 15/1968 richiedeva che la dichiarazione sostitutiva di certificazione fosse sottoscritta dall’interessato e autenticata, stabilendo che le dichiarazioni autenticate “sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.
All’epoca dei fatti per i quali si procede vigeva la legge 15.5.1997, n. 127 (c.d. Bassanini bis), come modificata dalla legge 16.6.1998, n. 191 (c.d. Bassanini ter), ed era stata eliminata la necessità di autenticazione della firma, sostituita dalla produzione, in una con la dichiarazione, della fotocopia non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore (modalità attuata in concreto nella vicenda che ci occupa).
La materia ha trovato poi sistemazione organica nel D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa), che ha stabilito la non necessità di autentica di firma per le dichiarazioni sostitutive di certificazione, ribadendo, ai fini penali, che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 … sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.
Ciò non significa, però, che soltanto a fare data dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 445/2000 le dichiarazioni sostitutive di certificazione non richiedenti autentica di firma (come quelle rese nel procedimento in esame) possano considerarsi, ai fini penali, come fatte a pubblico ufficiale e, quindi, presentino uno dei requisiti rilevanti per la configurazione del delitto di cui all’art. 483 c.p.
E’ vero che nella legge n. 15/1968 la parificazione della presentazione della dichiarazione sostitutiva alle dichiarazioni direttamente fatte a pubblico ufficiale riguardava le dichiarazioni ritualmente autenticate; deve però ritenersi che, caduta la obbligatorietà dell’autenticazione, era venuta meno la necessità della sussistenza di tale condizione ma non anche la doverosità dell’equiparazione già operata dall’art. 26 della stessa legge n. 15/1968 e ribadita dal legislatore del 2000, che, con il Testo unico (in conformità ai principi fissati dalla legge-delega 8.3.1999, n. 50), non ha innovato ma ha recepito e riorganizzato le precedenti normazioni.
Nella fattispecie in esame, in conclusione, il reato di cui all’art. 483 c.p. non può ritenersi escluso dalla circostanza che le attestazioni dei ricorrenti (concernenti l’iscrizione delle società da loro rappresentate all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999) sono contenute in autocertificazioni recanti sottoscrizioni non autenticate ma ritualmente prodotte, a corredo della istanza principale, unitamente alla fotocopia di un documento di identificazione (secondo le modalità all’epoca previste dalla legge).
condizioni di configurabilità anche del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p.
2. Tanto premesso, va rilevato che la questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato (del quale, nella specie, è ravvisata la sussistenza) concorra con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto pubblico al quale l’attestazione inerisca e quali siano le condizioni per la configurazione di questo secondo reato, in presenza (o meno) del primo.
3. In relazione alla individuazione delle condizioni di configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p. esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte Suprema.
3.1 Le Sezioni Unite – con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti – hanno avuto modo di pronunciarsi sulla portata del falso ideologico in atto pubblico mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, in una fattispecie, però, nella quale non risultava valorizzata la presenza di condotte presupposte rilevanti ai sensi dell’art. 483 c.p..
La vicenda che aveva dato luogo alla questione era quella del rilascio di un diploma di laurea, previa redazione del verbale della relativa seduta, atto, quest’ultimo, nel quale si era attestato il superamento, da parte del laureando, degli esami del corso, mentre tale superamento non era mai avvenuto, essendo stato documentato dall’interessato, con la complicità di un dipendente della università, mediante falsi statini di esame e falsi verbali delle sedute di esame.
Il giudice del merito era pervenuto ad una pronuncia assolutoria, avendo escluso la configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p. sul presupposto che il verbale dell’esame di laurea e il relativo diploma non attesterebbero e non proverebbero la verità del fatto presupposto (superamento degli esami del corso) in quanto la Commissione ne prenderebbe atto senza effettuare alcun accertamento.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto tale ragionamento non condivisibile ed hanno affermato che tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.
Il provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.
Le Sezioni Unite hanno argomentato, al riguardo, che “Il procedimento di formazione di qualsiasi atto amministrativo prevede come primo momento l’accertamento dei presupposti, accertamento che viene compiuto dalla stessa autorità che deve porre in essere l’atto o direttamente o, più frequentemente, sulla base di documenti che possono consistere anche in atti pubblici e certificati rilasciati da altre autorità; e l’accertamento trova poi la sua attestazione nel preambolo dell’atto, quali che siano le espressioni usate, usualmente concise tipo “Visti gli atti relativi a …” “Visti gli attestati ….”, peraltro da intendere nel senso che con le stesse viene attestato, sulla base dei documenti, dei certificati etc. forniti dal richiedente all’ufficio, la sussistenza dei presupposti dell’atto. E quindi, se detti documenti, certificati etc. sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva che anche la conseguente attestazione circa l’esistenza dei presupposti è falsa”.
A tale orientamento si sono conformate alcune successive decisioni delle Sezioni semplici di questa Corte Suprema (vedi Cass. VI, 19 gennaio 1996, n. 607 Ceccarello; Cass. V, 5 marzo 1997, n. 2043, Bornigia; Cass. V, 28 gennaio 2005, n. 2703, Foffi, quest’ultima in una fattispecie di falsa attestazione dell’iscrizione negli elenchi degli invalidi civili, utilizzata per ottenere un posto di lavoro con preferenza rispetto agli altri aspiranti).
3.2 Altro orientamento giurisprudenziale si pone in termini riduttivi rispetto all’anzidetta interpretazione “totalizzante” delle Sezioni Unite ed afferma la configurabilità di fattispecie nelle quali il falso per induzione non sussiste nei suoi elementi costitutivi, perché il tipo di attestazione che il pubblico ufficiale redige non è falso: ciò si verifica quando la attestazione ha ad oggetto non il fatto attestato (falsamente) dal privato ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa attestazione, cioè l’esistenza dell’atto (contenente la falsa attestazione) proveniente dal privato.
In tali ipotesi non si può parlare di falsità ideologica commessa, sia pure senza dolo, dal pubblico ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta corrisponde a quanto realmente esistente, anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque, un’attestazione falsa, ma la mera espressione di un’argomentazione errata. Può ravvisarsi, invece, il reato di cui all’art. 483 c.p. (o 495 a seconda dell’oggetto delle dichiarazioni) quando la attestazione del privato al pubblico ufficiale in atto pubblico abbia avuto ad oggetto fatti dei quali l’atto era destinato a provare la verità.
In questo senso si è espressa la V Sezione, con la sentenza 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, che riprende integralmente la diffusa motivazione della sentenza 4 gennaio 1995, n. 1408, Scarvaci.
Secondo queste sentenze, in particolare:
“Perché si renda applicabile l’art. 48 c.p. ai reati di falso è necessario che l’autore immediato (il soggetto ingannato) non si limiti ad esprimere una argomentazione errata ma compia una attestazione falsa.
Le ipotesi possibili sono cinque:
a) il soggetto ingannato si limita a riprodurre la dichiarazione del mentitore, documentandola;
b) ovvero, pur ponendola espressamente a premessa di una propria argomentazione, non giunge a conclusioni errate;
c) il soggetto ingannato non solo riproduce la dichiarazione del mentitore ma la utilizza anche come premessa di una argomentazione che sbocchi in una conclusione errata;
d) il soggetto ingannato descrive e attesta lo stesso fatto rappresentato nella dichiarazione del mentitore, ma senza far cenno di tale dichiarazione;
e) il soggetto ingannato descrive o attesta una situazione più ampia di quella rappresentata dal mentitore”.
Soltanto l’ultima fattispecie integra la ipotesi del falso per induzione in errore del pubblico ufficiale.
“Nelle prime due ipotesi non può trovare applicazione l’art. 48 c.p., in quanto l’attestazione del soggetto destinatario dell’inganno non è falsa: non è falsa nel caso a), perchè essa rappresenta un fatto effettivamente verificatosi, vale a dire la dichiarazione del mentitore; non lo è nel caso b), perché la falsità della dichiarazione del mentitore non si estende alla conclusione del ragionamento in cui funge da premessa.
L’art. 48 non può trovare applicazione neppure nel caso sub c), perché sebbene siano false sia le dichiarazioni del mentitore sia la conclusione del soggetto ingannato, costui commette un errore non un falso.
La proposizione che viene assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato, infatti, non è immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì della intervenuta dichiarazione di costui: è una attestazione della attestazione ed è vera.
La falsità della conclusione dell’argomento, quindi, non dipende dalla falsità della premessa (che è vera), bensì dalla invalidità dell’argomento nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria della attestazione del mentitore senza considerare la possibilità che questa sia falsa.
In altri termini, si assume come premessa il fatto che è intervenuta l’attestazione del mentitore e si trae la conclusione come se la premessa fosse direttamente il fatto rappresentato in quella attestazione.
In tutte queste ipotesi è invece configurabile il reato previsto dall’art. 483 c.p. o quelli previsti dagli artt. 495, 496, 567 comma 2, ove ne ricorrano i presupposti specifici.
Si tratta infatti di fattispecie nelle quali si richiede la falsità di una dichiarazione proveniente da un privato che viene recepita come tale nella attestazione di un pubblico ufficiale, il quale non commette neppure oggettivamente alcuna falsità.
Nell’ipotesi d) il soggetto ingannato descrive come se fosse stato sa lui direttamente constatato il medesimo fatto che invece appreso dalla dichiarazione mendace del mentitore: non pare possa dubitarsi che in questo caso non si rende applicabile l’art. 48 c.p. perché è lo stesso soggetto ingannato a commettere una falsità ideologica, nel momento in cui fa apparire come da lui percepiti i fatti che gli sono stati riferiti.
Risulta invece applicabile l’art. 48 c.p. nella ipotesi e), perché in essa la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi dell’inganno che determina nel soggetto ingannato una conoscenza errata, e di conseguenza una falsa attestazione da lui proveniente anche se solo oggettivamente”.
Con la sentenza Cass. V, 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini è stato poi affermato, pur sulla base di principi omogenei a quelli enunciati nella sentenza Perfetto, che si può configurare il falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ingannato, del quale deve rispondere colui che ha reso la dichiarazione mendace, ove sia riscontrabile nell’atto stesso un quid pluris (cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto all’attestazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, sicché (come rilevato da Cass. V, con la sentenza 12 gennaio 2007, n. 545, Cogoni) “la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi che determina la falsa attestazione del soggetto ingannato”.
Altre pronunzie, infine, hanno escluso ogni responsabilità del privato autore della falsa attestazione nel caso in cui sussista un obbligo, non adempiuto, del pubblico ufficiale di accertare la veridicità della dichiarazione (così Cass. V, 25 gennaio 2005, n. 2253, Lorenzetto).
Si è espressa, invece, per l’irrilevanza della possibilità di controllo da parte del pubblico ufficiale sempre la V Sezione, con la sentenza 14 febbraio 2003, n. 7390, Porcaro.
4. Nel quadro giurisprudenziale dianzi delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite, con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, secondo il quale tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.
Va riconfermato, al riguardo, che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479, ultima parte, c.p.).
5. L’opposto orientamento non può essere condiviso.
Il pubblico ufficiale, invero – allorquando nell’atto da lui formato fa riferimento ad atti o a “dichiarazioni sostitutive” (non veri) provenienti dal privato e riferiti a presupposti richiesti per la legittima emanazione dello stesso atto pubblico – non si limita ad “attestare l’attestazione del mentitore” né a “supporre che quella attestazione sia veridica”, ma compie, sia pure implicitamente, una attestazione falsa circa la sussistenza effettiva di quei presupposti indefettibili: attestazione di rispondenza a verità che si connette alla funzione fidefaciente che la legge assegna alle dichiarazioni sostitutive dei privati.
La premessa, contenuta nella parte descrittiva dell’atto, non è la mera circostanza che sia intervenuta un’attestazione del mentitore o che questi abbia prodotto un atto determinato, bensì che il fatto rappresentato in quell’atto o in quella “dichiarazione sostitutiva” sia certo, effettivamente accaduto ed integri l’esistenza di un elemento necessario per l’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale.
Quest’ultimo perviene ad una conclusione errata ma l’errore non si connette alla interpretazione e/o alla valutazione soggettiva di ciò che è ontologicamente esistente, costituendo invece il frutto di un falso determinato dalla falsità oggettiva dei presupposti attestati nella premessa, sicché viene esternata una non veridica rappresentazione della realtà e ad essa viene conferita pubblica fede.
Stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno e l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità.
Si configurano perciò, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una seconda concretatasi nell’induzione in errore del pubblico ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini dell’integrazione di un presupposto dell’atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica.
Nell’atto del pubblico ufficiale non deve necessariamente riscontrarsi un “quid pluris” (cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto alla dichiarazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, poiché il reato previsto e sanzionato dell’art. 479 c.p. può essere commesso con modalità molteplici (come risulta evidente dalla stessa formulazione della norma incriminatrice) ed in particolare attraverso la falsa attestazione non soltanto di vicende che hanno comportato la partecipazione attiva e diretta del pubblico ufficiale, bensì anche e comunque, indipendentemente da ciò che questi ha compiuto, di “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479, ultima parte, c.p.), fatti suscettibili di prova storica attraverso la loro attestazione.
La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale “immutatio veri” circa l’esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.
Restano escluse le ipotesi in cui il pubblico ufficiale al quale l’inganno era rivolto sia caduto in errore “per causa propria”, e l’art. 48 c.p., per il richiamo al precedente art. 47, ammette pure la possibilità che l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa rappresentazione e che, di conseguenza, quest’ultimo debba eventualmente rispondere a titolo di colpa del fatto commesso.
Il principio enunciato
6. Ne consegue l’affermazione del principio secondo il quale il delitto di falsa attestazione del privato (di cui all’art. 483 c.p.) può concorrere – quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e 479 c.p.), sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.
7. Sussiste pertanto, nella specie, anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p., poiché le false dichiarazioni degli imputati, già costituenti di per sé reato, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti da pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche, tenuto conto che:
– nel verbale del 2 dicembre 1999, la competente Commissione ha ammesso alla gara le società rappresentate dai ricorrenti, attestando la regolarità delle loro domande di partecipazione e la rituale produzione dei documenti richiesti nel relativo invito (ove veniva indicata, quale condizione indefettibile, la necessità della iscrizione all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999);
– nel verbale del 26 gennaio 2000, la Giunta provinciale ha ribadito la regolarità della documentazione presentata dalle imprese partecipanti alla gara, con ciò attestando l’esistenza di tutti i presupposti per l’assegnazione dell’appalto.
Detti atti della P.A. erano destinati a provare la verità dell’esistenza degli enunciati presupposti nell’ambito di un determinato procedimento di licitazione privata ed erano produttivi di effetti, anzitutto nei confronti degli altri partecipanti alla gara, proprio in virtù di detta esistenza. Un asserito presupposto essenziale, invece, non esisteva in concreto e la falsa configurazione dello stesso ha consentito l’aggiudicazione dell’appalto con preferenza rispetto alle altre imprese concorrenti.
Incongruo sarebbe il riferimento ad un obbligo, non adempiuto, dei pubblici ufficiali di accertare la veridicità della dichiarazione: il meccanismo di semplificazione amministrativa, introdotto dalle c.d. leggi Bassanini e culminato nel T.U. n. 445 del 2000, assegna infatti una funzione fidefaciente alle attestazioni dei privati, che si riflette automaticamente sugli elementi attestativi della P.A., senza che questa abbia il dovere di effettuare controlli o di acquisire conoscenze dirette.
(omissis)