Scelte da Renato Bricchetti
1. Criteri di identificazione delle circostanze
Cass. S.U. 10 luglio 2002, p.m. in proc. Fedi
in sintesi
Dovendo stabilire se la fattispecie delineata nell’art. 640-bis del codice penale consista in un’aggravante del delitto di truffa, o piuttosto si atteggi ad autonoma figura di reato, la Corte ha preso le mosse dal rilievo che non esiste alcuna differenziazione ontologica tra elementi costitutivi (o essenziali) ed elementi circostanziali (o accidentali) del reato (gli artt. 61, 62 e 84 c.p. sono univoci al riguardo, visto che riconoscono esplicitamente che lo stesso fatto materiale può essere considerato dalla legge ora come elemento costitutivo ora come circostanza del reato).
Dopo un’attenta disamina dei molteplici criteri adottati da dottrina e giurisprudenza per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie (criteri di natura testuale o topografica, di natura strutturale o di natura teleologica), è stato assunto come criterio ermeneutico decisivo per la soluzione della questione quello dell’analisi ‘strutturale’ della descrizione del precetto penale, assegnandosi rilievo alla identificazione tra le fattispecie poste in comparazione, per stabilirne la pertinenza ad un’unica ipotesi di reato, di “un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta” .
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 27 aprile 2001 la Corte di appello di Firenze confermava quella resa il 7 aprile 2000 dal Tribunale di Prato, che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di F. F. in ordine al delitto di cui agli artt. 81 e 640-bis C.p., commesso in Prato il 30 settembre 1992, per essere il reato estinto per prescrizione.
(omissis)
Il giudice di primo grado, aveva ritenuto il fatto contestato come ipotesi aggravata del reato di truffa (indicando peraltro erroneamente come reato semplice quello di cui all’art. 640 cpv n. 1 C.p., anziché quello di cui all’art. 640, comma 1°, C.p.), e – considerata l’incensuratezza dell’imputato – gli aveva concesso le attenuanti generiche equivalenti, sicché aveva dichiarato il reato estinto per intervenuta prescrizione.
La Corte fiorentina, investita del processo a seguito dell’impugnazione del Procuratore generale, qualificato il fatto contestato di cui all’art. 640-bis come ipotesi aggravata del delitto di truffa previsto e punito dall’art. 640, comma 1°, C.p., confermate le attenuanti generiche equivalenti alla suddetta aggravante, confermava l’estinzione del reato per prescrizione.
Secondo i giudici dell’appello, la suddetta fattispecie andava invero considerata quale ulteriore ipotesi aggravata del reato di truffa previsto dall’art. 640 C.p., e non come titolo autonomo di reato, deponendo in tal senso tanto il tenore letterale della rubrica, che definisce “aggravata” la truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, quanto la previsione espressa della sua procedibilità di ufficio, altrimenti superflua ove detta norma avesse, contemplato una fattispecie autonoma.
Inoltre, la funzione “ancillare” assegnata alla fattispecie di cui all’art. 640-bis C.p. rispetto a quella contemplata dall’art. 640 C.p. sarebbe resa evidente anche dal rinvio operato a quest’ultima per quanto attiene agli elementi costitutivi del fatto.
2 – Contro questa sentenza, con atto del 10 maggio 2001, ricorreva per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Firenze, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte per il nuovo giudizio.
(omissis)
3 – La seconda sezione della Corte, assegnataria del ricorso, rilevava che, in ordine alla prospettata questione della natura autonoma o meno della fattispecie de qua, sussistevano due contrastanti indirizzi della giurisprudenza di legittimità.
Stante l’attualità del contrasto, riteneva quindi necessario rimettere la decisione alle sezioni unite penali.
Il Primo Presidente aggiunto assegnava il ricorso alle sezioni unite penali, fissandone la trattazione alla pubblica udienza del 26 giugno 2002.
Motivi della decisione
4 – La questione posta all’esame delle sezioni unite si può quindi formulare nel modo seguente: “se l’art. 640-bis C.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) preveda una figura autonoma di reato ovvero una circostanza aggravante del reato di truffa”.
Com’è noto, l’art. 640-bis è stato introdotto nel codice penale dall’art. 22 della legge 55/1990, che reca come titolo “nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”.
Su questo tema, l’originario disegno di legge del Governo, presentato alla Camera dei Deputati il 5 novembre 1988, di fronte alla “eccezionalità e gravità del fenomeno mafioso” si proponeva di “procedere a un rapido riesame e aggiornamento degli strumenti normativi in vigore per ricalibrarne la disciplina in relazione alle mutate strategie delle organizzazioni criminali”.
A tale fine di il disegno di legge non intendeva “ricorrere a strumenti eccezionali, bensì ad un rafforzamento ed un aggiornamento di quelli ordinari già previsti dalla vigente normativa antimafia”, attraverso la tecnica novellistica (Atto Camera 3325/ter).
L’impostazione governativa fu ampiamente condivisa dal Parlamento, che approvò più penetranti misure di prevenzione e una disciplina più rigorosa delle misure atte a precludere i rapporti tra soggetti mafiosi e pubblica amministrazione.
Peraltro, l’art. 22, introduttivo della nuova fattispecie penale di cui all’art. 640-bis C.p., non era previsto nel disegno di legge governativo, ma fu introdotto, attraverso un emendamento del relatore, durante l’esame del disegno presso la Camera dei Deputati.
In conclusione, all’esito della discussione parlamentare, venne approvata la legge 55/1990 e introdotto nel codice penale l’art. 640-bis, che recita testualmente: “La pena è della reclusione da uno a sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”.
È significativo che, nello stesso tomo di tempo, con l’art. 3 della legge 86/1990 (modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) fu introdotta nel codice penale una nuova fattispecie di malversazione a danno dello Stato, secondo la quale è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico (o dalle Comunità europee -secondo un’aggiunta inserita con legge 181/92) contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità (art. 316-bis C.p.).
È evidente che il legislatore italiano del 1990 e del 1992 ha voluto in tal modo offrire una tutela penale agli interessi finanziari della Comunità europea, incriminando sia la fraudolenta captazione sia la indebita utilizzazione delle sovvenzioni e dei contributi erogati in attuazione della politica comunitaria. E ciò ha fatto per adempiere agli impegni che gli derivano dai trattati europei (art. 5 e art. 280 del Trattato di Roma, così come modificato dal Trattato di Amsterdam), e per rispondere alle pressioni dei partners comunitari, preoccupati dal dilagare delle frodi nella soggetta materia e dal coinvolgimento crescente in questa pratica della criminalità organizzata.
Giova peraltro rammentare che, prima e dopo il 1990, altre figure sono state introdotte nel sistema penale nazionale di tutela delle erogazioni comunitarie.
Già nel 1986 venne introdotto il reato di frode in danno del fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), secondo il quale è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni chiunque, mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico del predetto fondo (art. 2 della legge 23 dicembre 1986, di conversione del decreto legge 701/86).
Nel 1992, due anni dopo l’introduzione dell’art. 640-bis C.p., il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia per inserire una espressa clausola di riserva, secondo la quale la fattispecie di frode, comunitaria agraria resta integrata solo “ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640-bis C.p.” (art. 73 legge 142/92).
In tal modo veniva legislativamente recepito il carattere sussidiario della fattispecie rispetto alla truffa comunitaria codicistica, già stabilito dalla giurisprudenza di legittimità: sicché il reato speciale di frode comunitaria agricola resta configurato solo quando il soggetto attivo si limiti all’esposizione di dati e notizie falsi, e non anche quando, oltre alle false dichiarazioni, utilizzi artifici e/o raggiri di altra natura, che integrano invece il delitto codicistico di truffa comunitaria (Cassazione sezioni unite 2780/96, dep. 14 marzo 1996, Panigoni e altri, RV 203969).
Infine, il quadro normativo è stato ulteriormente complicato con la legge 300/00, che, con l’art. 4, ripetendo la consueta clausola di riserva, ha introdotto nel codice penale l’art. 316-ter (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni, “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis” l’indebita percezione di erogazioni concesse dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee “mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute”.
5 – La suddetta formulazione dell’art. 640-bis introduce chiaramente un elemento di specializzazione rispetto alla fattispecie di cui all’art. 640, laddove descrive il fatto – reato richiamando quello di cui all’art. 640 con tutti i suoi elementi costitutivi (artifici e raggiri, induzione in errore e connessa disposizione patrimoniale, ingiusto profitto dell’agente o di terzi, danno del soggetto passivo), ma prevedendo un oggetto materiale specifico della condotta fraudolenta e della disposizione patrimoniale, vale a dire contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, concessi o erogati da parte dello Stato, di enti pubblici o delle Comunità europee.
Tuttavia, bisogna osservare che l’elemento di specializzazione non offre alcuna chiave ermeneutica per la soluzione della questione sottoposta alle sezioni unite.
Infatti esso, se sovente connota una fattispecie circostanziale rispetto al reato semplice col quale intercorre il rapporto di specialità (es. lesioni gravi e gravissime di cui all’art. 583, rispetto alle lesioni semplici di cui all’art. 582), qualche volta configura sicuramente una fattispecie autonoma di reato: si pensi all’abrogato delitto di oltraggio, o al superstite delitto di oltraggio a magistrato in udienza, rispetto alla generale fattispecie dell’ingiuria; o anche alla fattispecie di cui alla lettera c), secondo periodo, dell’art. 20 legge 471/85 (interventi edilizi senza concessione in zone sottoposte a vincolo), costantemente ritenuta autonoma e non circostanziale rispetto alla fattispecie di cui alla lettera b) dello stesso art. 20 (interventi edilizi senza concessione in zone non vincolate).
Ciò si spiega con la ragione che non esiste alcuna differenziazione ontologica tra elementi costitutivi (o essenziali) e elementi circostanziali (a accidentali) del reato, atteso che questi elementi si possono distinguere solo in base alla disciplina positiva che ne stabilisce il legislatore.
Gli artt. 61, 62 e 84 C.p. sono univoci al riguardo, laddove riconoscono esplicitamente che lo stesso fatto materiale può essere considerato dalla legge ora come elemento costitutivo ora come circostanza del reato.
6 – Se quindi il legislatore è libero di assumere un dato fattuale nell’una o nell’altra categoria, per risolvere la questione bisogna necessariamente accertare quale sia esattamente la voluntas legis.
La soluzione non è però semplice, perché gli indizi positivi a disposizione dell’interprete per risalire a questa volontà sono spesso incerti ed ambigui, sicché gli approdi giurisprudenziali e dottrinali risultano travagliati e contrastanti.
In tema di truffa relativa ad erogazioni pubbliche, la giurisprudenza di legittimità è prevalentemente orientata in base a varie argomentazioni a ritenerla fattispecie autonoma di reato (sezione seconda, 3086/96, Pg in proc. Lanza, RV 206859; sezione prima, 6753/97, confl, comp. in proc. Pennetta; sezione seconda, 11582/98, De Vita, rv, 211650; sezione prima, 2286/99, confi. comp. in proc. Marrano, RV 213349; sezione prima, 4240/99, confl. comp. in proc. Campana, RV 213949; sezione seconda, 11077/00, Pm – in proc. Biffò, RV 217130).
Nettamente minoritaria è invece l’opzione giurisprudenziale che configura la nuova fattispecie come circostanza aggravante del delitto di truffa (sezione seconda, 4731/00, Volpe, rv 217105; nonché sezione prima, 4843/97, confl. comp. in proc. Lazzaro, RV 209537, che però omette qualsiasi motivazione specifica sul punto).
Di segno contrario sembra l’orientamento complessivo della dottrina, che si prevalentemente schierata per la tesi della figura circostanziale, salvo opzioni minoritarie a favore della figura autonoma di reato.
Inutile sottolineare la rilevanza pratica della questione, anche dopo la modifica intervenuta nella disciplina codicistica delle circostanze del reato in tema di imputazione soggettiva delle stesse (legge 191-1990).
Caduta con questa legge l’imputazione oggettiva delle circostanze, ricondotta nell’ambito costituzionale del principio di responsabilità colpevole, la differenza tra elemento costitutivo ed elemento circostanziale del reato continua a rilevare soprattutto in ordine al giudizio di bilanciamento, che ai sensi dell’art. 69 C.p. può essere effettuato in ogni caso di concorso tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti (e che è strutturalmente impensabile in relazione agli elementi costitutivi).
La rilevanza della distinzione si è poi acuita dopo che, col decreto legge 99/1974, convertito in legge 220/74, si è ammesso al bilanciamento ogni tipo di circostanza, comprese le circostanze c.d. autonome o indipendenti e quelle inerenti alla persona del colpevole, così attribuendo al giudice una potestà discrezionale vastissima, attraverso la quale egli può neutralizzare imponenti aumenti sanzionatori ove li riconosca connessi a una configurazione circostanziale anziché a una configurazione autonoma del reato.
Ma la distinzione ha anche rilievo, seppure meno importante, agli effetti del concorso di persone nel reato (applicandosi gli artt. 116 e 117 ovvero l’art. 118 C.p., a seconda che si adotti una o l’altra opzione), e della depenalizzazione (art. 32 legge 689/81: ma in tal caso, la qualifica, circostanziale sarebbe meno favorevole all’imputato, perché impedirebbe nei congrui casi la depenalizzazione del reato base).
Un effetto indiretto della distinzione si verifica in ordine alla prescrizione, come dimostra il caso di specie.
7 – Conviene a questo punto esaminare partitamente i criteri adottati da dottrina e giurisprudenza per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva di una fattispecie, quando – come accade purtroppo nella maggior parte dei casi essa non sia espressamente manifestata.
Essi sono criteri di natura testuale o topografica, di natura strutturale o di natura teleologica.
Criterio testuale
7.1 – Fra i primi rientra il nomen iuris adottato dal legislatore, come nel caso di specie, in cui la rubrica dell’art. 640-bis è intitolata “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”.
In questo caso il titolo della rubrica sembra indicare nettamente la volontà di configurare la fattispecie come circostanza aggravante.
Ma – come è noto – la rubrica non è mai stata ritenuta indizio univoco e assoluto della voluntas legis.
Del resto, seguendo lo stesso criterio del nomen iuris, un indizio simmetricamente contrario dovrebbe ricavarsi dalla formulazione dell’art. 7 della legge 575/65 (disposizioni contro la mafia), come modificato dal decreto legge 152/92, convertito in legge 203/91, il quale prevede un aumento di pena, se il fatto è commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, in ordine ai “delitti previsti” dall’art. 640bis, oltre che da altre numerose norme.
Altro indizio testuale contrario si potrebbe ravvisare nelle succitate clausole di riserva di cui alle leggi 142/92 e 300/00, laddove la fattispecie di cui all’art. 640bis è ancora qualificata come “reato”.
In queste disposizioni il legislatore sembra qualificare il fatto descritto nell’art. 640-bis come figura autonoma di reato e non come circostanza aggravante.
Criterio topografico
7.1.1 – Altro indizio dello stesso genere è quello che si potrebbe chiamare topografico, perché valorizza la collocazione della norma: se la norma è formulata in un art. separato, denoterebbe una fattispecie autonoma di reato; se è formulata nello stesso art. che prevede il reato semplice denoterebbe una fattispecie circostanziale.
Secondo questo indizio, dunque, il reato di cui all’art. 640-bis sarebbe autonomo rispetto a quello di truffa previsto dall’art. 640.
Ma anche questo indizio non è probante, perché vi sono fattispecie formulate in artt. separati che tuttavia sono da classificarsi come circostanze aggravanti: cosi le circostanze aggravanti previste negli artt. 292-bis e 293 C.p. rispetto ad alcuni delitti contro la personalità interna dello Stato, se compiuti da militari in congedo o dal cittadino in territorio estero.
Di contro vi sono fattispecie formulate nello stesso art. che sono sicuramente reati autonomi: per esempio forme colpose di delitti dolosi; le diverse ipotesi dì favoreggiamento personale di cui al comma primo e al comma terzo dell’art. 378 C.p.; o altri reati cosiddetti a fattispecie plurime contemplati in molte leggi speciali.
Criteri strutturali
7.2 – I criteri che si possono chiamare strutturali, perché attengono alla struttura del precetto o della sanzione, sono invece di maggior peso.
7.2.1 – Cosi, il modo in cui il legislatore descrive gli elementi costitutivi della fattispecie può essere molto indicativo della volontà di qualificarli come circostanza o come reato autonomo.
Si sostiene che quando la fattispecie è descritta attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione di legge, ci si trova in presenza di una circostanza aggravante.
Si replica in contrario che vi sono casi in cui un reato sicuramente autonomo è descritto solo per relationem.
Cosi per il reato di cui all’art. 251, comma 2°, C.p., nel quale l’inadempimento colposo di contratti di fornitura in tempo di guerra è indicato richiamando l’inadempimento doloso di cui al comma 1 dello stesso art. (“se l’inadempimento del contratto, totale o parziale, è dovuto a colpa”).
Così anche, prima della recente depenalizzazione della figura colposa, avveniva per il delitto di atti osceni di cui all’art. 527 C.p., dove il delitto colposo era individuato nel secondo comma attraverso il rinvio al “Tatto” descritto nel primo comma (“se il fatto avviene per colpa, la pena è della multa da lire sessantamila a lire seicentomila”).
Altro esempio si può ravvisare nei delitti colposi contro la salute pubblica di cui all’art. 452 C.p., individuati richiamando semplicemente i “fatti” preveduti dagli artt. 438 e 439 C.p…
7.2.2 – Altro criterio strutturale è dato dal modo di determinazione della pena.
In certi casi il legislatore determina la pena richiamando quella prevista in altra norma e applicando sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o in diminuzione.
Nonostante la determinazione per relationem possa far pensare alla configurazione di una circostanza, sono però frequenti i casi in cui è indubbia la previsione di uno autonomo reato: così per la corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 C.p.); per la subornazione (art. 377), la cui pena è stabilita in relazione a quelle previste per la falsa testimonianza e la falsa perizia o interpretazione; per i già citati delitti colposi contro la salute pubblica di cui al secondo comma dell’art. 452.
In altri casi invece il legislatore determina la pena modificandone la specie o mutando la cornice edittale rispetto alla pena di riferimento.
Anche in questi casi in genere l’indizio non è univoco, perché, con siffatte variazioni del trattamento sanzionatorio, talvolta il legislatore ha inteso configurare una figura nuova di reato e talaltra ha semplicemente previsto una circostanza c.d. autonoma o indipendente.
In linea generale, comunque, l’unico caso in cui il modo di determinazione della pena non lascia adito a dubbi è quello in cui la variazione in aumento o in diminuzione è lasciata indeterminata dal legislatore: così per esempio nei già menzionati artt. 292-bis e 293.
In tali casi il giudice che debba quantificare la pena deve necessariamente far ricorso ai criteri generali stabiliti negli artt. 64 e 65 C.p., che delimitano la variazione quantitativa entro una misura frazionaria (un terzo) e specificano la variazione qualitativa (reclusione fino a 24 anni invece che ergastolo).
E poiché tali variazioni sono stabilite con espresso riferimento alle circostanze del reato (come si evince dalla rubrica delle norme e del capo secondo in cui sono inserite), ne risulta obiettivamente una chiara volontà del legislatore di sussumere la fattispecie sotto la categoria del reato circostanziato.
In tal modo resta individuato un indizio univoco della voluntas legis in ordine alla qualificazione circostanziale o essenziale del fatto.
Ma questo indizio non è utilizzabile per la questione rimessa al giudizio di queste sezioni unite, atteso che l’art. 640-bis non lascia indeterminata la variazione sanzionatoria e quindi non richiede l’applicazione dell’art. 64.
Criterio teleologico (dell’oggettività giuridica)
7.3 – Resta ora da esaminare il criterio di tipo teleologico, che è in genere quello più seguito dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo questo criterio, quando la fattispecie penale tutela un bene giuridico diverso rispetto a quello tutelato dalla fattispecie penale di riferimento, siamo di fronte a un’autonoma figura di reato e non a una circostanza aggravante.
In particolare questo criterio è stato adottato in numerose decisioni di queste sezioni unite.
La sentenza Greco del 1982, trattando un caso di omessa cessione all’ufficio italiano dei cambi di valuta estera non superiore a lire cinque milioni, affermava nettamente il principio che ai fini della distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi del reato occorre tener presente il bene giuridico protetto (sezioni unite 11399/82, dep. 26 novembre 1982, Greco, RV 156405).
La sentenza Parisi del 1991, nel qualificare come circostanza attenuante l’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 73 del D.P.R. 309/90, secondo cui si applicano pene molto inferiori se i fatti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope sono di lieve entità per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, osservava che questi ultimi elementi della fattispecie non modificano né l’obiettività giuridica né la struttura essenziale del reato, ma attribuiscono al reato stesso solo minore valenza offensiva e grado di pericolosità: sicché sono elementi di carattere accidentale ed accessorio, esterni alla struttura tipica del reato, che incidono solo sulla gravità del reato e sulla quantità della pena (sezioni unite 9148/91, dep. 12 settembre 1991, Parisi, RV 187930).
Significativa è anche la sentenza Petrongari del 1994. Le Sezioni unite dovevano affrontare la questione se il superamento della soglia di lire cento milioni di proventi non dichiarati, prevista nell’art. 1, comma 1, della legge 516/82, costituisse una circostanza aggravante del reato di omessa dichiarazione fiscale, ovvero un titolo autonomo di reato.
La questione si poneva prima della modifica introdotta dalla legge 154/91, che invertendo l’ordine delle proposizioni normative e anteponendo l’ipotesi della omessa dichiarazioni di proventi per oltre cento milioni, trasformava tale ipotesi in reato base, rispetto all’ipotesi minore – posposta – della omessa dichiarazione di proventi inferiori ai cento milioni.
Orbene, la sentenza osservava che ciò che distingueva le due ipotesi era un mero dato quantitativo, che indicava il maggior pericolo cui era esposto il bene giuridico protetto, che era comune a entrambe le ipotesi contravvenzionali; sicché la diversità del dato quantitativo, restava un profilo contingente, che non intaccava l’identità del bene protetto e la struttura essenziale del reato. Per conseguenza, in base a siffatto criterio, integrato da altri criteri complementari, la fattispecie doveva qualificarsi come circostanza aggravante e non come titolo autonomo di reato.
Da ultima, utilizza – assieme ad altri – il criterio dell’oggettività giuridica la sentenza Deutsch del 1997.
Essa doveva valutare se il contrabbando di tabacco lavorato estero in quantità superiore ai 15 kg., previsto e punito dall’art. 2 della legge 50/1994, costituisse figura autonoma di reato oppure circostanza aggravante del delitto di contrabbando previsto dall’art. 282 D.P.R. 43/1973.
Al riguardo osservava anzitutto che differenti sono gli interessi tutelati dalle due disposizioni e quindi differente è l’oggettività giuridica, giacché il testo unico del 1973 tutela la potestà tributaria dello Stato e la riscossione delle imposte di confine, mentre la legge del 1994 protegge il regime di monopolio sui tabacchi.
Era questo un primo sintomo della volontà del legislatore del 1994 di configurare un reato autonomo anziché una circostanza aggravante (sezioni unite 119/97, dep. 8 gennaio 1998, Deutsch, RV 209126).
L’obiezione più seria contro il criterio dell’oggettività giuridica è quella che denuncia l’inversione logica su cui esso si fonda.
Per individuare l’interesse tutelato dalla fattispecie penale, invero, è necessario prima esaminare la struttura della stessa fattispecie, distinguendo i suoi elementi essenziali da quelli accidentali; sicché si potrà registrare un mutamento del bene tutelato solo quando e perché è stato accertato un mutamento degli essentialia delicti.
Le stesse sentenze sopra citate, in realtà, pur adottando formalmente il criterio teleologico, finiscono per optare per la qualificazione circostanziale o per la qualificazione autonoma della fattispecie non tanto perché non è cambiata o è cambiata l’oggettività giuridica, quanto piuttosto perché è rimasta o non è rimasta immutata la struttura essenziale del reato (per una formulazione esplicita in questo senso, vedi soprattutto le sentenze Parisi e Petrongari).
Solo in questo senso si può dire che la fattispecie circostanziale modifica soltanto il grado di offensività della condotta, senza sostituire il bene tutelato. Anche se si deve aggiungere che non è sempre vero il contrario, che cioè la figura autonoma di reato modifica necessariamente l’oggetto giuridico rispetto alla figura autonoma di riferimento: così per esempio l’infanticidio di cui all’art. 578 C.p. ha lo stesso oggetto giuridico dell’omicidio di cui all’art. 575 C.p.
Principio di legalità
8 – Rilevato il carattere insoddisfacente o comunque non risolutivo degli indici sopra esaminati, un’autorevole dottrina ha sostenuto che nella soggetta materia deve essere adottato come criterio preferenziale il principio di legalità canonizzato nell’art. 25, comma 2, Costituzione e nell’art. 1 C.p.
Quando si controverte intorno alla natura costitutiva o circostanziale di un determinato elemento della fattispecie, si controverte per ciò stesso circa l’esistenza nell’ordinamento di una particolare figura criminosa.
Ma per il principio di legalità questa figura esiste nell’ordinamento solo se è “espressamente” prevista, ovverosia se è contemplata in modo certo e incontrovertibile: sicché ogni dubbio ermeneutico deve essere risolto contro la qualificazione autonoma e a favore della qualificazione circostanziale della fattispecie.
Questa teoria ha carattere dichiaratamente residuale, perché dovrebbe soccorrere solo quando la voluntas legis rimanga altrimenti inaccessibile all’interprete.
Ma a parte questa considerazione, essa si espone a un’essenziale obiezione di ordine dommatico, perché il principio di legalità vale per il reato semplice come per il reato circostanziato; sicché, in mancanza di un’espressa qualificazione legislativa, l’interprete dubbioso non potrebbe optare per una configurazione circostanziale invece che autonoma senza incidere ugualmente sul principio di legalità penale.
Nello stesso ordine di idee, qualche autore ha additato come criterio sussidiario di risoluzione della questione il favor rei, sostenendo che nei casi dubbi l’interprete dovrebbe qualificare la fattispecie come circostanziale, in quanto essa è più favorevole all’imputato, che in tal modo potrebbe godere dei benefici effetti del giudizio di bilanciamento tra circostanze.
Ma nell’ordinamento penale, il favor rei è un principio di accertamento del fatto addebitato all’imputato, è cioè soltanto un principio che regola l’applicazione della legge al caso concreto, non già un canone di interpretazione della legge stessa.
E ciò senza considerare che in teoria la configurazione circostanziale non sempre è più favorevole all’imputato.
Si pensi a un dubbio ermeneutico tra un reato autonomo meno grave rispetto al reato di riferimento e una circostanza attenuante: in tal caso la qualificazione come circostanza attenuante espone l’imputato alla pena più grave prevista per il reato semplice, ove il giudice ritenga l’attenuante equivalente (o peggio subvalente) rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, speciali o comuni.
Criterio del regime di procedibilità
9 – Dopo aver saggiato in tal modo la validità generale dei criteri adottabili nella soggetta materia, è possibile affrontare più da vicino il thema decidendum.
Un criterio del tutto specifico utilizzato per risolvere il problema della qualificazione giuridica della fattispecie de qua, è quello del regime di procedibilità espressamente previsto per la stessa.
Ma anche questo criterio è stato utilizzato ed è utilizzabile con pari plausibilità razionale per conclusioni diametralmente opposte.
Come s’è già visto, l’art. 640-bis richiede che si proceda d’ufficio.
Orbene, da una parte si può sostenere che questo è indizio della configurazione circostanziale, giacché per una fattispecie autonoma di reato la procedibilità d’ufficio è la regola e quindi non aveva alcun senso richiamarla espressamente.
Ma d’altra parte si può sostenere con altrettanto fondamento logico che, siccome la procedibilità d’ufficio, ai sensi dell’art. 640, ultimo comma, è prevista come regola per la truffa aggravata da qualsiasi circostanza, speciale o comune, il richiamo alla procedibilità officiosa risulterebbe superfluo anche se si accedesse alla tesi del reato circostanziato.
S’é già visto che anche i criteri generali del nomen iuris e della collocazione topografica della norma non hanno portata univoca.
Anche il modo di determinazione della pena non ha un valore sintomatico decisivo nel caso della truffa comunitaria.
Come s’è visto, la fattispecie di cui all’art. 640-bis non lascia indeterminata la variazione della pena, sicché sia necessario fare ricorso all’art. 64 C.p.; ma stabilisce invece la pena con una variazione qualitativa (reclusione, invece che reclusione e multa) e con una variazione quantitativa ( reclusione da uno a sei anni, invece che reclusione da sei mesi a tre anni) rispetto alla pena prevista per la truffa semplice.
Peraltro questa formulazione può denotare tanto la volontà di configurare la fattispecie come reato a sé, quanto la volontà di configurare una circostanza aggravante autonoma rispetto alla truffa semplice.
Criterio strutturale della descrizione del precetto penale
Risulta invece decisivo, ad avviso di questo collegio, il criterio strutturale della descrizione del precetto penale.
Nel caso dell’art. 640-bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici).
Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa.
L’obiezione summenzionata (paragrafo 7.2.1), secondo cui vi sono casi in cui la descrizione per relationem è tuttavia compatibile con la configurazione di un autonomo reato, non regge a un’analisi critica più attenta.
A ben vedere, tutti i casi addotti a sostegno dell’obiezione, tra cui l’art. 251, comma 2°, l’art. 452 e l’art. 527, comma 2° (prima della recente depenalizzazione), configurano reati colposi, sicché la descrizione per rinvio alla corrispondente ipotesi dolosa non contrasta con la configurazione di una fattispecie autonoma di reato solo per la ragione che il modulo descrittivo adoperato, se da una parte richiama il fatto tipico del reato doloso, dall’altra introduce anche una variazione nell’elemento soggettivo, che è essenziale nella struttura del reato medesimo, trasformandolo da doloso a colposo.
In altri termini, è proprio la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640-bis, definita da un lato attraverso il richiamo degli elementi essenziali del delitto di truffa di cui all’art. 640 (artifici o raggiri, induzione in errore con conseguente disposizione patrimoniale, ingiusto profitto per l’agente o per altri, danno del soggetto passivo) e dall’altro con l’introduzione di un elemento specifico (erogazioni pubbliche) che è estraneo alla struttura essenziale della truffa, a denotare la inequivoca volontà legislativa di configurare una circostanza aggravante e non un diverso titolo di reato.
La descrizione della fattispecie, insomma, non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale — laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo.
Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali.
Per completezza, si deve rilevare come la specialità che caratterizza la fattispecie dell’art. 640-bis rispetto alla truffa semplice di cui all’art. 640 sia in realtà duplice, giacché riguarda sia l’oggetto materiale della condotta dell’agente e della disposizione patrimoniale del soggetto passivo (sovvenzioni ed erogazioni) sia la natura pubblica del soggetto passivo medesimo (Stato, Comunità europea, altri enti pubblici); mentre in rapporto alla fattispecie di truffa aggravata contro lo Stato o altri enti pubblici, di cui all’art. 640 C.p.v n. 1, quella specialità si riduca solo all’oggetto materiale, posto che i soggetti passivi appartengono nei due casi alla stessa categoria pubblicistica (gli istituti comunitari sono considerati pacificamente di diritto pubblico: cfr. per tutte Cassazione sezioni unite Panigoni, succitata, RV 203971).
A questo proposito va quindi rilevato che, una volta qualificata la fattispecie de qua come circostanza aggravante, la sua applicazione dà luogo a un concorso di circostanze aggravanti, disciplinato dall’art. 68 C.p., con l’assorbimento della circostanza generale dell’art. 640 C.p.v n. 1 nella circostanza speciale di cui all’art. 640-bis (è la circostanza c.d. complessa, che l’art. 68 disciplina facendo espressamente salva l’applicabilità del principio di specialità di cui all’art. 15 preleggi).
10 – Per le considerazioni sopra svolte, restando immutata la struttura essenziale del reato, non cambia neppure il bene giuridico tutelato, che è sempre il patrimonio del soggetto passivo.
L’unica particolarità è data dal fatto che nella truffa aggravata di cui all’art. 640-bis, come del resto in quella aggravata di cui all’art. 640 C.p. numero 1, a essere offeso è il patrimonio di un ente pubblicomma
Vero è che si possono ipotizzare casi di truffa aggravata contro enti pubblici in cui è difficile ravvisare quella effettiva deminutio patrimoni tradizionalmente ritenuta essenziale per integrare la truffa.
Quanto lo Stato o la unione europea stanzia in bilancio fondi da destinare a finanziamenti per aiutare – ad esempio – imprese aventi particolari requisiti, l’illecita captazione del finanziamento ad altre imprese in possesso dei requisiti di legge, ma non quello di provocare uscite di bilancio superiori a quelle stanziate dall’ente erogatore.
Per tali casi tuttavia la dottrina ha opportunamente precisato che la nozione di patrimonio deve essere intesa in senso dinamico o funzionale, come corretta allocazione delle risorse pubbliche, sicché il danno patrimoniale subito dall’ente pubblico si atteggia come sviamento dal vincolo di destinazione delle risorse.
Ne deriva che anche negli esempi indicati la truffa aggravata causa un danno patrimoniale all’ente erogatore.
Del resto, se si volesse sostenere che nella truffa aggravata di cui all’art. 640-bis interviene un mutamento del bene giuridico tutelato, posto che la tutela penale si sposterebbe dal patrimonio alla funzione pubblica amministrativa (nonostante la collocazione del reato sotto i delitti contro il patrimonio), per dedurne così che la fattispecie debba qualificarsi come reato autonomo anziché come circostanza aggravante, si dovrebbe escludere la qualifica circostanziale anche per la fattispecie di cui all’art. 640 cpv. numero 1.
Ma nessuna pronuncia giurisprudenziale e quasi nessun autore arriva a tale conclusione.
11. In realtà, la tesi che opta per la qualificazione della fattispecie come autonomo titolo di reato sottende spesso, in modo più o meno esplicito, la preoccupazione di non indebolire la repressione e la prevenzione di un fenomeno criminale – spesso organizzato – quale quello della truffa per il conseguimento di erogazione pubbliche, specialmente comunitarie, giacché la prevenzione e repressione di un simile fenomeno sarebbe inevitabilmente pregiudicata dalla frequente propensione dei giudici di considerare prevalenti o equivalenti pur gracili attenuanti a fronte di circostanze aggravanti anche di maggior peso.
Ma questa pur apprezzabile ragione di politica criminale non può essere perseguita a costo di manipolazione esegetiche, che finiscono per tradire la oggettiva volontà della legge.
A questo riguardo si può ragionevolmente ritenere che il legislatore nazionale non abbia rigorosamente adempiuto agli obblighi che gli derivano dall’appartenenza alla Unione europea.
Come già accennato, a norma dell’art. 280 del Trattato di Roma (come modificato dall’art. 209 A del Trattato di Amsterdam), gli Stati membri devono combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari della Comunità adottando misure che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace degli Stati membri (primo comma). Inoltre, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari della Comunità, devono adottare le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari (secondo comma).
Atteso che da tale norma derivano per gli Stati membri due principi vincolanti per la disciplina delle frodi comunitarie, il principio di dissuasione efficace e il principio di assimilazione, si può anche concludere – con una valutazione non priva di fondamento – che il legislatore italiano ha sicuramente rispettato il principio di assimilazione (considerata la parità di trattamento delle truffe per erogazioni comunitarie e per erogazioni statali) ma ha lasciato molto a desiderare verso il principio di dissuasione efficace (considerata la possibilità di controbilanciare l’aggravamento sanzionatorio).
Ma, ancora una volta, il principio comunitario non può diventare criterio di interpretazione della legge nazionale, al punto da capovolgerne il chiaro dettato normativo in base a una supposta e opinabile violazione del principio stesso.
Una cosa è la voluntas legis nell’ordinamento nazionale, quale si desume da una corretta esegesi, altra cosa è la valutazione degli obblighi comunitari. Superfluo aggiungere che manca qualsiasi presupposto per il ricorso alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato di Roma (già art. 177), non trattandosi di interpretazione di norme comunitarie.
12. In conclusione, la questione sottoposta a queste sezioni unite va risolta nel senso che l’art. 640-bis C.p. configura una circostanza aggravante del reato di truffa di cui all’art. 640 C.p..
Per conseguenza il ricorso del procuratore distrettuale di Firenze va rigettato.
2. Circostanza attenuante della riparazione del danno: comunicazione al concorrente
Cass. S.U. 22 gennaio 2009, Pagani
in sintesi
Con la decisione in esame, le Sezioni Unite – in una fattispecie di estorsione in concorso nella quale uno dei ricorrenti lamentava il mancato riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno, già riconosciuta al solo concorrente che aveva provveduto al risarcimento del danno alla persona offesa -, dopo aver precisato che la condotta riparatrice non si fonde nella struttura unitaria del reato di cui all’art.110 c.p. ed aver escluso l’operatività dell’art.118 c.p., diretto a dettare per i singoli compartecipi i criteri di imputazione delle conseguenze degli elementi accidentali dell’illecito concorsuale nella sua struttura monistica, hanno affermato il principio che l’estensione dell’attenuante del risarcimento del danno al colpevole non può discendere dal semplice soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria ad opera del coobbligato solidale e dalle norme che presidiano l’estinzione delle obbligazioni da illecito, ciò in quanto nei reati dolosi si richiede “una concreta, tempestiva, volontà di riparazione del danno cagionato”, in modo che, se uno dei correi ha già provveduto in via integrale, l’altro, per esempio, dovrà nei tempi utili rimborsare il complice più diligente o comunque dimostrare di aver avanzato una seria e concreta offerta di integrale risarcimento.
Ritenuto in fatto
1. Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Milano, con sentenza 21 maggio 2002, dichiarava Antonio Faraci, Pagani Andrea, Marco Zaldini e Aldo De Angelis responsabili di estorsione in danno di Pasquale Volpe e di Antonio Volpe (capo 2 dell’imputazione), il Faraci e il De Angelis di rapina aggravata in danno di Vincenzo Gerace e Pasquale Volpe (capo 1), il Faraci e il Pagani di altro episodio di rapina aggravata in danno di Mirko Sibilio (capo 3) e ancora il Faraci e il Pagani di cessione di cocaina al Sibilio (capo 4). Concedeva a tutti gli imputati le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate e, al solo Faraci, anche l’attenuante del risarcimento del danno (art. 62 c.p., n. 6).
2. L’accertamento delle vicende da parte di questa decisione può così riassumersi: Antonio Faraci e Andrea Pagani vantavano un credito verso Mirko Sibilio per la cessione di alcune dosi di cocaina. Poiché il Sibilio tardava nel pagamento, i due si facevano consegnare, minacciandolo, un cellulare e un orologio.
Si recavano poi con il Sibilio nella stanza che occupava con Gerace Vincenzo, nell’appartamento di Pasquale Volpe.
Qualche tempo dopo il Feraci, il cui credito non era stato ancora soddisfatto, tornava nell’appartamento alla ricerca del Sibilio, accompagnato da De Angelis Aldo e da un non meglio identificato Alessio. Quivi, non avendo trovato il Sibilio, con violenza e minaccia al Gerace gli sottraevano la somma di L. cinquantamila e, entrati nella stanza del Volpe, si impossessavano di una serie di oggetti. In seguito il medesimo Faraci, insieme al Pagani, al De Angelis e a Zaldini Marco che lo accompagnavano, si facevano consegnare da Volpe Pasquale e Antonio Volpe la somma di L. 530.000 per restituire parte degli oggetti provento della rapina appena ricordata.
3. Con sentenza del 12 giugno 2003 la Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, riformulato in termini di prevalenza il giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. espresso dal primo giudice, riduceva a tutti gli imputati le pene inflitte, confermando nel resto la decisione di prime cure.
(omissis)
6. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione penale di questa Corte, che, con ordinanza del 16 ottobre 2008, lo ha rimesso alle Sezioni Unite per la risoluzione del quesito, su cui ha rilevato un contrasto di giurisprudenza, “se in tema di applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6), l’avvenuto risarcimento integrale del danno da parte di uno dei coimputati, determinando la conseguente estinzione dell’obbligazione risarcitoria, giovi o meno anche agli altri coimputati”.
Considerato in diritto
(omissis)
E si giunge così all’ultima delle doglianze espresse, quella sull’applicabilità al ricorrente dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, dato che il correo Faraci aveva nei tempi prescritti provveduto all’integrale risarcimento del danno per il reato più grave di cui al capo 2, questione che ha dato luogo alla rimessione del ricorso alle Sezioni Unite.
7. A questo proposito la giurisprudenza, con indirizzo pressoché unanime, nega che il colpevole possa giovarsi del risarcimento effettuato da un terzo (Sez. 4, 3 dicembre 1965 n. 2552, Segreti, RV 101718; Sez. 5, 7 giugno 1967 n. 894, Truppa, RV 105466; Sez. 5, 8 febbraio 1968 n. 128, De Vito, RV 107577; Sez. 2, 25 marzo 1968 n. 767, Santi, RV 108933; Sez. 2, 24 gennaio 1972 n. 4021, Trivetti, RV 121265; Sez. 4, 11 aprile 1975 n. 9252, Miglio, RV 130916; Sez. 6, 17 ottobre 1978 n. 16038, Martino, RV 140728; Sez. 6, 7 aprile 1979 n. 1303, Michelazzi, RV 144151; Sez. 2, 26 giugno 1979 n. 1161, Tornatore, RV 144105; Sez. 1, 12 dicembre 1980 n. 1326, Zucchelli, RV 147707; Sez. 2, 8 giugno 1981 n. 11096, Valli, RV 151307; Sez. 2, 18 ottobre 1982 n. 3101, Gobbo, RV 158387; Sez. 1, 17 dicembre 1982 n. 3284, Ciuffreda, RV 158452; Sez. 4, 11 ottobre 1984 n. 2481, Locatelli, RV 168326; Sez. 2, 12 ottobre 1987 n. 3971, Pezzetta, RV 177977; Sez. 2, 25 agosto 1988 n. 1517, Marchini, RV 180368; Sez. 4, 11 febbraio 1988 n. 2263, Catto, RV 180487; Sez. 2, 17 marzo 1989 n. 9341, Danovara, RV 181747; Sez. 4, 13 dicembre 1989 n. 1670, Fusaro, RV 183238; Sez. 4, 11 ottobre 1990 n. 15583, Bonazzoli, RV 185862; Sez. 4, 15 gennaio 1991 n. 4441, Ciancimino ed altri, RV 187777; Sez. 4, 13 gennaio 1993 n. 2336, Di Carlo, RV 193341; Sez. 5, 10 febbraio 1993 n. 2663, Dottore Stagna, RV 194337; Sez. 6, 8 ottobre 1993 n. 596, P.G. in proc. Prini, RV 196123; Sez. 2, 23 novembre 1993 n. 2282, Perfetti ed altro, RV 196786; Sez. 6, 25 novembre 1993 n. 897, Ceglie, RV 197360; Sez. 1, 29 novembre 1995 n. 1723, Sapienza, RV 203704; Sez. 1, 17 gennaio 1997 n. 2658, Lo Nero ed altri, RV 224237; Sez. 5, 25 febbraio 2000 n. 996, P.G. in proc. Fagiuoli, RV 216459; Sez. 4, 3 giugno 2004 n. 39065, P.M. in proc. Turla, RV 229957; Sez. 6, 9 novembre 2005 n. 46329, Caputo, RV 232837) e ciò basandosi sulla natura soggettiva dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, rientrante tra quelle concernenti i rapporti tra il colpevole e l’offeso ai sensi dell’art. 70 c.p., attenuante da intendersi (con varianti lessicali, ma non sostanziali) quale segno di diminuita capacità a delinquere (S.U. 29 ottobre 1983 n. 145, Del Fa, RV 162036) o di resipiscenza (S.U. 6 dicembre 1991 n. 1048, Scala e altri, RV 189183) o di ravvedimento attivo (S.U. 12 luglio 2007 n. 35535, Ruggiero, RV 236914).
Orientamento che testimonia la fedeltà all’intento del legislatore per come rispecchiato nella Relazione ministeriale di accompagnamento al Codice, in cui si legge che “la riparazione del danno come diminuente comune ad ogni reato era auspicata da una gran parte della dottrina.
Il Progetto limita tuttavia questa circostanza entro confini ragionevoli, considerandola, non tanto dal punto di vista pratico, come causa cioè che facilita il soddisfacimento degli interessi della persona offesa dal reato, quanto dal lato psicologico e volontaristico, ossia della condotta del colpevole dopo il reato, come sintomo della sua attenuata capacità a delinquere.
È, soprattutto, per questo motivo che la riparazione deve verificarsi prima del giudizio, e che non è stata accolta la proposta di estenderne l’efficacia a momenti successivi e, secondo alcuni, fino a che non fosse intervenuta sentenza irrevocabile….” (Relazione ministeriale di accompagnamento al Libro I del Progetto, Roma, 1929, 118).
Orientamento che peraltro è stato sottoposto a riserve e a critiche in sede dottrinale in cui alcune autorevoli voci hanno preferito accogliere la tesi del carattere oggettivo della circostanza, tesi cui ha poi aderito la sentenza n. 138 del 1998 della Corte Costituzionale per argomentare la riferibilità all’assicurato contro la responsabilità civile verso terzi derivante dalla circolazione dei veicoli del risarcimento operato dall’ente assicuratore.
8. Ma accantonando, per il momento, la discussione sulla natura dell’attenuante, bisogna subito osservare che il problema qui in esame può apparire ed è stato spesso ritenuto specifico, rispetto a quello generale della comunicabilità al colpevole del risarcimento operato dal terzo.
Ciò per il fatto che nel nostro caso il terzo autore del risarcimento è un concorrente nel reato, con la conseguenza che l’art. 118 c.p., diretto a regolare l’imputazione delle circostanze ai concorrenti, potrebbe essere individuato, e sovente lo è stato, come chiave risolutiva del quesito.
9. In tale prospettiva, anteriormente alla riforma apportata a questa disposizione dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 3, l’affermata natura soggettiva dell’attenuante, ai sensi dell’art. 70 c.p., è valsa a fornire immediatamente la risposta, perché, dato il precedente tenore dell’art. oggi modificato, si doveva necessariamente concludere per la non comunicabilità al concorrente del risarcimento del danno operato da altro concorrente. Risultato, questo, cui infatti sono pervenute Sez. 2, 24 gennaio 1972 n. 4021, Trivetti, RV 121265; Sez. 6, 17 ottobre 1978 n. 16038, Martino, RV 140728; Sez. 2, 8 giugno 1981 n. 11096, Valli, RV 151307, che prende atto della natura soggettiva e della consequenziale inestensibilità agli altri compartecipi ex art. 118 c.p.. Analogamente Sez. 2, 18 ottobre 1982 n. 3101, Gobbo, RV 158387; Sez. 1, 12 dicembre 1980 n. 1326, Zucchelli, RV 147707, che richiama a sostegno dell’inapplicabilità dell’attenuante in esame il disposto dell’art. 118 c.p., affermando che proprio per la sua natura soggettiva l’attenuante “in quanto relativa ai rapporti tra il colpevole e l’offeso del reato, è applicabile soltanto a colui che, tra più colpevoli, abbia provveduto al risarcimento del danno, mostrando così quel ravvedimento attivo, in cui la circostanza trova il suo fondamento, ma non può invece essere estesaci sensi dell’art. 118 c.p., ai concorrenti nel reato che non abbiano attivamente e personalmente collaborato al risarcimento e, quindi, all’elisione degli effetti dannosi del reato”.
Nello stesso senso, Sez. 2, 12 ottobre 1987 n. 3971, Pezzotta, RV 177977, in una fattispecie relativa a ricettazione, muovendo dalla natura soggettiva in quanto “l’avvenuto ristoro del danno rappresenta una tangibile manifestazione di ravvedimento del reo e di una minore pericolosità sociale”. Sez. 4, 30 novembre 1988 n. 12179, P.G. Venezia in proc. Menoia ed altri, RV 179890 in una fattispecie di furto aggravato in concorso, in cui la restituzione delle refurtiva era avvenuta da parte di un solo dei correi, aveva escluso la concessione dell’attenuante ai concorrenti che non avevano risarcito “in ragione della sua natura soggettiva, a ciò ostando il disposto dell’art. 118 c.p., u.c.”.
Si limita, infine, a ribadire la natura soggettiva e l’inestensibilità al correo dell’attenuante, richiamando implicitamente la disciplina dettata dall’art. 118 c.p., Sez. 2, 25 agosto 1988 n. 1517, Marchini, RV 180368, affermando che la stessa “opera solo nei confronti del concorrente o dei concorrenti che abbiano provveduto a risarcire il danno prima del giudizio e non si estende agli altri concorrenti”.
Va da sé che accogliendo l’idea che la circostanza in esame abbia natura oggettiva il risultato doveva ribaltarsi, nel senso cioè che l’applicazione della norma dell’art. 118 c.p. avrebbe invece comportato l’estensione dell’attenuante a tutti i concorrenti.
10. In ogni modo, restando sempre in questa prospettiva, una volta intervenuta nel 1990 la modifica all’art. 118 c.p., sarebbe stato inevitabile che la questione dovesse rimeditarsi.
La nuova formulazione della regola di imputazione delle circostanze, per la quale le aggravanti o le attenuanti concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti la persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono, avrebbe infatti impedito di mantenere ferma la spiegazione dell’inapplicabilità, attraverso unicamente il richiamo alla natura soggettiva dell’operato risarcimento.
Simile attenuante, pur essendo in tesi soggettiva, ma rientrando nella categorie di quelle riguardanti i rapporti tra colpevole e persona offesa e non figurando dunque tra le escluse dalla comunicabilità, sembrava adesso doversi riferire a ogni concorrente nel reato.
Talché, onde persistere nel negare un tale risultato, o si sarebbe dovuta abbandonare l’idea che la riparazione riguarda i rapporti tra il colpevole e l’offeso dal reato (per rientrare piuttosto in una delle categorie non estensibili), oppure si sarebbe dovuto affermare che l’art. 118 c.p., nella sua attuale formulazione, fornisce soltanto una regola di esclusione, ma non reca a contrario una regola di inclusione, ovvero, in altri termini, non comporta che le circostanze non menzionate debbano necessariamente applicarsi a tutti gli autori del reato, in quanto fa un implicito rinvio ad altri principi per l’imputazione o meno di esse ai concorrenti. Entrambe le strade si mostravano impervie.
In primo luogo si sarebbe dovuta misconoscere la riconduzione della circostanza in esame ai rapporti tra colpevole e offeso, per oltre settanta anni pacificamente accettata da quanti, in giurisprudenza e in dottrina, ne affermavano la natura soggettiva e ciò per suggerirne una collocazione ben più problematica (intensità del dolo ex post? inerenza alla persona del colpevole, oltre l’imputabilità e la recidiva?).
D’altro canto, non ammettendo il valore di regola positiva alla non menzione dell’art. 118 c.p., era ben difficile uscire dalla vaghezza e dal soggettivismo del giudice nella ricerca dei principi (unici o plurimi?) regolatori l’imputazione ai concorrenti, mentre, sotto un profilo dogmatico, si sarebbe dovuto negare che le circostanze, quali esse siano, in armonia con la struttura unitaria del reato concorsuale, si comunicano naturaliter a tutti i concorrenti, salvo le eccezioni espressamente poste dal legislatore e fermi i requisiti di attribuzione al soggetto di cui all’art. 59 c.p..
11. Fatta questa premessa, bisogna però immediatamente dire che, ai fini della risoluzione del quesito, non è proficuo addentrarsi nella problematica appena indicata, in quanto, a monte, le Sezioni Unite ritengono che, ai fini della riferibilità al colpevole, non sussista uno speciale regime del risarcimento operato dal correo rispetto a quello eseguito da un qualsiasi terzo e cioè affermano che una corretta esegesi del dato normativo comporta l’inapplicabilità alla specie dell’art. 118 c.p..
È a tal fine opportuno ricordare che la circostanza del risarcimento del danno, in questo senso sola tra le attenuanti comuni, suppone necessariamente che il reato a cui si riferisce sia stato già consumato.
Cosa che si palesa con evidenza osservando la struttura dell’art. 62 c.p., n. 6, il quale, nel richiedere che sia stato riparato interamente il danno, esclude che un’azione riparatrice utile possa intervenire quando il reato non si sia ancora perfezionato e continui così a provocare danni materiali e morali.
L’attenuante, per esprimersi con S.U. 23 novembre 1988, n. 5909, Presicci, RV 181084: “contempla unicamente un comportamento…. successivo all’esaurimento del reato”, con il corollario che un tale comportamento, ove il reato sia stato commesso da una pluralità di soggetti, è fuori dal concorso di persone, dissoltosi con il perfezionamento della fattispecie criminosa.
Tanto in altre parole sta a significare che la condotta riparatrice non si fonde nella struttura unitaria del reato di cui all’art. 110 c.p. e che l’art. 118 c.p., diretto a dettare per i singoli compartecipi i criteri di imputazione delle conseguenze degli elementi accidentali dell’illecito concorsuale nella sua struttura monistica, non è perciò operativo.
12. Sotto un profilo positivo l’applicabilità al soggetto dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, anche quando nel risarcimento sia intervenuto un terzo, sia pure questi un correo, discende allora soltanto dal disposto di questa norma e cioè dal senso che si intende attribuire all’espressione “l’avere… riparato interamente il danno mediante il risarcimento… e le restituzioni” ivi impiegata e dalla possibilità di ricondurre a simile formula lo specifico risarcimento o la specifica restituzione nella specie avvenuti.
Ora è canone interpretativo comune delle norme penali che le condotte in esse previste, salvo le eccezioni espressamente indicate, debbano essere connotate da volontarietà e che vada osservato e conservato nel concreto, nel suo profilo assiomatico, il valore della locuzione impiegata dal legislatore.
E quindi “l’aver riparato”, per integrarsi, non può consistere solo nella sussistenza dell’evento, ma deve comprendere una volontà di riparazione.
Tanto più che riparazione non è locuzione neutra, quale ad esempio estinzione del debito o soddisfacimento dello stesso, ma è voce di segno positivo in funzione del grado di disvalore di cui lo specifico reato costituisce espressione.
13. A ben vedere queste affermazioni rendono piuttosto nominalistica e si può dire “di coda” la disputa sulla natura soggettiva o oggettiva dell’attenuante, in quanto basandosi soltanto sul dato letterale, prescindono da considerazioni circa la ridotta capacità a delinquere, il ravvedimento o la resipiscenza del colpevole.
E del resto la stessa Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 138 del 1998, fondandosi sull’evento richiesto e sull’interesse dell’offeso, ha preso una decisa posizione per la natura oggettiva della circostanza, precisa che è pur sempre necessario che l’intervento risarcitorio sia “comunque riferibile all’imputato”.
Riserva indotta dalla necessità di preservare la condotta volontaristica che la norma in esame indica nell'”aver riparato” e, con essa, il quid di merito della riparazione.
14. Quid che, nei reati colposi, il criterio di ragionevolezza impone di rilevare, per una visione socialmente adeguata del fenomeno, anche nell’aver stipulato un’assicurazione o nell’aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall’attività pericolosa.
Ma che nei reati dolosi richiede invece “una concreta, tempestiva, volontà di riparazione del danno cagionato”, in modo che, se uno dei correi ha già provveduto in via integrale, l’altro, per esempio, dovrà nei tempi utili rimborsare il complice più diligente (Sez. 1, 27 ottobre 2003, n. 4177, P.G. nei confronti di Balsano e altri, RV 227102) o comunque dimostrare di aver avanzato una seria e concreta offerta di integrale risarcimento.
Ne deriva che in ogni caso l’estensione dell’attenuante al colpevole non può discendere dal semplice soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria ad opera del coobbligato solidale e dalle norme che presidiano l’estinzione delle obbligazioni da illecito, come invece vorrebbe il ricorrente Pagani, con riguardo a quanto è avvenuto nella specie.
3. Circostanza aggravante della clandestinità: illegittimità costituzionale
C. Cost. 8 luglio 2010, n. 119
Considerato in diritto
1. – I Tribunali di Livorno e di Ferrara, entrambi in composizione monocratica, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, che prevede una circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole «mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale».
La disposizione censurata è stata introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 luglio 2008, n. 125.
1.1. – I rimettenti prospettano anzitutto, e per molteplici aspetti, una violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Secondo il Tribunale di Livorno, la nuova previsione aggravante istituirebbe una indebita assimilazione fra il trattamento di soggetti responsabili d’una mera infrazione amministrativa (tale essendo ancora considerata la violazione delle norme in materia di immigrazione all’epoca dell’ordinanza di rimessione) ed il trattamento di soggetti che abbiano abusato della propria funzione o qualità personale (art. 61, numeri 9 e 11, c.p.), o abbiano già commesso reati in precedenza (art. 99 c.p.), o siano già stati individuati come pericolosi mediante un provvedimento giudiziale (art. 61, numero 6, c.p.).
Anche secondo il Tribunale di Ferrara la condotta prevista dalla norma censurata sarebbe parificata, senza giustificazione, a fattispecie del tutto differenti, come quella della latitanza (fondata sulla sottrazione volontaria ad un provvedimento restrittivo) e quella della recidiva, ove l’aggravamento di pena è generalmente non automatico, si connette alla commissione di un delitto non colposo, e consegue solo ad una sentenza irrevocabile di condanna per l’episodio criminoso antecedente.
Entrambi i rimettenti, inoltre, prospettano la intrinseca irragionevolezza di una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera carenza di un titolo per il soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie possibili violazioni della legge sull’immigrazione, e senza alcuna rilevanza per il caso che ricorra un «giustificato motivo».
Il Tribunale di Ferrara osserva, in particolare, che non sarebbe giustificabile l’applicazione di una maggior pena in assenza di qualsiasi necessaria correlazione tra la condizione del reo e la gravità del reato commesso.
Neppure troverebbe giustificazione, sempre secondo il Tribunale di Ferrara, la differenza di trattamento istituita, riguardo a fatti di identica natura, tra persone che si trovino o non regolarmente nel territorio dello Stato, e finanche tra persone che vi si trovino tutte irregolarmente, a seconda che si tratti di cittadini comunitari o di persone prive di cittadinanza o con cittadinanza extracomunitaria.
1.2. – Il solo rimettente ferrarese prospetta una violazione congiunta degli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost., per il difetto di pertinenza del maggior trattamento punitivo al fatto di reato, e per la sua esclusiva inerenza ad uno «status personale del reo», così da conformarsi ai canoni del «diritto penale d’autore».
1.3. – Il Tribunale di Livorno, dal canto proprio, evoca quale parametro di legittimità l’art. 27, primo comma, Cost., posto che la disposizione censurata minerebbe il rapporto di proporzionalità tra la pena inflitta ed il grado della responsabilità personalmente riferibile al reo, ed opererebbe un trasferimento della logica punitiva dal piano della colpevolezza al «tipo d’autore».
1.4. – Entrambi i rimettenti, infine, denunciano l’asserita violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la sproporzione per eccesso della sanzione rispetto al fatto, sul piano obiettivo e nella stessa percezione soggettiva da parte del condannato, priverebbe la corrispondente porzione della pena della necessaria finalizzazione rieducativa.
1.5. – Quale portato della richiesta pronuncia a carattere ablatorio, in ordine alla previsione di cui all’art. 61, numero 11-bis, c.p., il Tribunale di Ferrara prospetta una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale relativamente a due norme la cui efficacia regolatrice si riferisce, per l’intero, alla norma censurata. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), che contiene una disposizione interpretativa della nuova previsione circostanziale. Illegittimo dovrebbe dichiararsi, inoltre, l’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, che preclude la sospensione degli adempimenti esecutivi concernenti le pene detentive (relativamente) brevi, limitatamente all’inciso «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 11-bis».
(omissis)
3. – La questione sollevata dal Tribunale di Livorno deve essere dichiarata inammissibile.
(omissis)
4. – La questione sollevata dal Tribunale di Ferrara è fondata.
4.1. – Questa Corte, in tema di diritti inviolabili, ha dichiarato, in via generale, che essi spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» (sentenza n. 105 del 2001).
La condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato.
Il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato», introducendo così una responsabilità penale d’autore «in aperta violazione del principio di offensività […]» (sentenza n. 354 del 2002).
D’altra parte «il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero» (sentenza n. 62 del 1994).
Ogni limitazione di diritti fondamentali deve partire dall’assunto che, in presenza di un diritto inviolabile, «il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (sentenze n. 366 del 1991 e n. 63 del 1994).
La necessità di individuare il rango costituzionale dell’interesse in comparazione, e di constatare altresì l’ineluttabilità della limitazione di un diritto fondamentale, porta alla conseguenza che la norma limitativa deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo sufficiente, ai fini del controllo sul rispetto dell’art. 3 Cost., l’accertamento della sua non manifesta irragionevolezza (sentenza n. 393 del 2006).
4.2. – Con riferimento al caso specifico, si deve ricordare che le «condizioni personali e sociali» fanno parte dei sette parametri esplicitamente menzionati dal primo comma dell’art. 3 Cost., quali divieti direttamente espressi dalla Carta costituzionale, che rendono indispensabile uno scrutinio stretto delle fattispecie sospettate di violare o derogare all’assoluta irrilevanza delle “qualità” elencate dalla norma costituzionale ai fini della diversificazione delle discipline.
Questa Corte ha più volte applicato tale metodo nel campo del diritto penale, dichiarando costituzionalmente illegittime norme che avevano costruito una fattispecie incriminatrice su presunzioni assolute di pericolosità, con l’effetto di istituire discriminazioni irragionevoli.
Si è già fatto cenno, in proposito, alla riconosciuta illegittimità della previsione che puniva l’ubriachezza (art. 688 c.p.) solo per coloro che avessero già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità delle persone (sentenza n. 354 del 2002).
In analoga prospettiva è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 708 c.p. (Possesso ingiustificato di valori), posto che la suddetta norma sanciva una «discriminazione nei confronti di una categoria di soggetti composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio», senza una corrispondenza effettiva ed attuale tra la condizione in discorso e la funzione di tutela dell’incriminazione (sentenza n. 370 del 1996).
Comportamenti pregressi dei soggetti non possono giustificare normative penali che attribuiscano rilevanza – indipendentemente dalla necessità di salvaguardare altri interessi di rilievo costituzionale – ad una qualità personale e la trasformino, con la norma considerata discriminatoria, in un vero “segno distintivo” delle persone rientranti in una data categoria, da trattare in modo speciale e differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini.
5. – Sulla scorta dei principi sinora ricordati, si deve riconoscere che l’aggravante di cui alla disposizione censurata non rientra nella logica del maggior danno o del maggior pericolo per il bene giuridico tutelato dalle norme penali che prevedono e puniscono i singoli reati.
Non potrebbe essere ritenuta ragionevole e sufficiente, d’altra parte, la finalità di contrastare l’immigrazione illegale, giacché questo scopo non potrebbe essere perseguito in modo indiretto, ritenendo più gravi i comportamenti degli stranieri irregolari rispetto ad identiche condotte poste in essere da cittadini italiani o comunitari.
Si finirebbe infatti per distaccare totalmente la previsione punitiva dall’azione criminosa contemplata nella norma penale e dalla natura dei beni cui la stessa si riferisce, specificamente ritenuti dal legislatore meritevoli della tutela rafforzata costituita dalla sanzione penale.
La contraddizione appena rilevata assume particolare evidenza dopo la recente modifica introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 94 del 2009, che ha escluso l’applicabilità dell’aggravante de qua ai cittadini di Paesi appartenenti all’Unione europea.
È noto infatti che esistono ipotesi di soggiorno irregolare del cittadino comunitario, come, ad esempio, nel caso di inottemperanza ad un provvedimento di allontanamento, punita dall’art. 21, comma 4, del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), con l’arresto da uno a sei mesi e con l’ammenda da 200 a 2.000 euro.
Anche sotto tale profilo, risulta che la particolare disciplina dell’aggravante censurata nel presente giudizio fa leva prevalentemente sullo status soggettivo del reo, giacché la circostanza non si applica ai cittadini di Stati dell’Unione europea neppure nella più grave ipotesi dell’inottemperanza ad un provvedimento di allontanamento, vale a dire quando l’irregolarità del soggiorno è stata riscontrata ed ha formato oggetto di valutazione da parte della competente autorità di sicurezza, che ha emesso un ordine trasgredito dal soggetto interessato, il quale ha assunto, per tale condotta, una specifica responsabilità penale.
È evidente, in altre parole, che la giustificazione della fattispecie censurata non può fondarsi su una presunzione correlata alla violazione delle norme sull’ingresso e sulla permanenza nello Stato di soggetti privi della cittadinanza italiana.
E ciò si nota a prescindere dalla relazione tra lo status dell’immigrato in condizione irregolare e l’offesa tipica del reato che di volta in volta venga in considerazione.
6. – Le recenti modifiche legislative hanno messo in luce con nettezza ancora maggiore la natura discriminatoria dell’aggravante oggetto della presente questione.
Difatti, l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio nazionale erano considerati dalla legge – all’epoca dei fatti che hanno dato origine al processo pendente davanti al Tribunale di Ferrara – alla stregua di illeciti amministrativi, mentre attualmente, cioè dopo l’introduzione di un autonomo reato di immigrazione irregolare, gli stessi comportamenti sono divenuti causa di responsabilità penale. L’illegittimità del soggiorno viene dunque in rilievo in una duplice prospettiva, producendo una intensificazione del trattamento sanzionatorio che deve essere considerata in questa sede, giacché fa parte integrante della valutazione complessiva sulla compatibilità costituzionale della norma censurata.
Questa Corte non può ignorare il contesto normativo esistente al momento della sua pronuncia e rispetto ad esso, preso nel suo insieme, deve orientare il proprio giudizio.
Veniva già prima in risalto uno squilibrio fra il trattamento giuridico dell’atto trasgressivo precedente (ingresso o soggiorno irregolare nel territorio dello Stato), allora non penalmente rilevante, e la previsione di un incremento della sanzione, a carattere penale, prevista per il reato “comune” commesso dallo straniero.
Emergeva anche, e soprattutto, l’assenza di un qualsiasi legame tra la violazione delle leggi sull’immigrazione e le condotte singolarmente poste a base delle più diverse norme penali incriminatrici.
L’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato non solo non ha fatto venir meno la contraddizione derivante dalla eterogeneità della natura della condotta antecedente rispetto a quella dei comportamenti successivi, ma ha esasperato la contraddizione medesima, in quanto ha posto le premesse per possibili duplicazioni o moltiplicazioni sanzionatorie, tutte originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato.
Lo straniero extracomunitario viene punito una prima volta all’atto della rilevazione del suo ingresso o soggiorno illegale nel territorio nazionale, ma subisce una o più punizioni ulteriori determinate dalla perdurante esistenza della sua qualità di straniero irregolare, in rapporto a violazioni, in numero indefinito, che pregiudicano interessi e valori che nulla hanno a che fare con la problematica del controllo dei flussi migratori.
L’irragionevolezza della conseguenza si coglie pienamente ove si consideri che da una contravvenzione punita con la sola pena pecuniaria può scaturire una serie di pene aggiuntive, anche a carattere detentivo, che il criterio di computo su base percentuale può condurre a valori elevatissimi, dando luogo a prolungate privazioni di libertà.
Non solo lo straniero in condizione di soggiorno irregolare, a parità di comportamenti penalmente rilevanti, è punito più gravemente del cittadino italiano o dell’Unione europea, ma lo stesso rimane esposto per tutto il tempo della sua successiva permanenza nel territorio nazionale, e per tutti i reati previsti dalle leggi italiane (tranne quelli aventi ad oggetto condotte illecite strettamente legate all’immigrazione irregolare), ad un trattamento penale più severo.
Tutto ciò si pone in contrasto con il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., che non tollera irragionevoli diversità di trattamento.
7. – È vero che, per evitare il verificarsi di bis in idem sostanziali, il sistema penale italiano prevede tecniche di considerazione unitaria delle specifiche condotte, sia nel caso che una circostanza aggravante comune rappresenti un elemento essenziale del reato o ne costituisca una circostanza aggravante speciale (art. 61, prima parte, c.p.) – su questa base è stata dichiarata inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Livorno, come illustrato al par. 3 –, sia nell’ipotesi di reato complesso, che sussiste quando «la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato» (art. 84, primo comma, c.p.).
Quest’ultima norma, mirata ad escludere il concorso di reati, non è tuttavia applicabile al caso di specie, che riguarda una circostanza aggravante comune.
L’ingresso e il soggiorno illegale sul territorio dello Stato non sono previsti dalla legge come elementi costitutivi della generalità dei reati, ma solo di quelli che attengono alla violazione delle norme in materia di immigrazione, di talché il reato comune commesso dallo straniero in condizione irregolare non potrebbe considerarsi complesso, e come tale capace di “assorbire” la violazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998.
D’altra parte l’irregolarità del soggiorno non concorre a delineare un reato aggravato tipico, come avviene ad esempio nell’ipotesi – prevista dall’art. 625, primo comma, numero 2, c.p. – di furto aggravato dalla violenza sulle cose, che può integrare di per sé un fatto di danneggiamento.
La figura del reato complesso, che preclude un fenomeno di bis in idem sostanziale, consiste invece in un fatto tipicamente inclusivo, sul piano circostanziale, della condotta altrimenti considerata quale reato a sé stante.
La costruzione di un reato complesso deve essere opera del legislatore, e non può quindi risultare dalla combinazione, in sede di applicazione giurisprudenziale, tra le singole figure criminose e le circostanze aggravanti comuni.
Si deve, in definitiva, escludere che la contraddizione prima evidenziata possa essere risolta in via interpretativa o mediante l’utilizzazione di strumenti sistematici già disponibili nell’ordinamento positivo.
8. – La stessa impossibilità di una interpretazione conforme si deve riconoscere a proposito dell’ambito di applicazione della norma censurata.
La formulazione testuale della disposizione che la contiene esclude infatti che l’aggravante de qua debba applicarsi soltanto nei casi in cui la condotta criminosa sia stata agevolata dalla presenza illegale del reo sul territorio nazionale o il reato sia stato commesso per consentire l’ingresso o la permanenza illegale.
La previsione legislativa non contiene espressioni che possano autorizzare in alcun modo siffatte interpretazioni restrittive, le quali contrastano con la portata generale e indifferenziata della circostanza aggravante prevista.
In tal senso si è già orientata la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. III pen., 26 novembre 2009, n. 4406).
Il principio secondo cui un soggetto deve essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato
9. – Alla luce di quanto detto, si deve concludere che la ratio sostanziale posta a base della norma censurata è una presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere.
Questa Corte ha già affermato che la stessa fattispecie di indebito trattenimento nel territorio nazionale, che pur implica la specifica inosservanza di un provvedimento espulsivo individualizzato, si limita a sanzionare una condotta illecita e «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili» (sentenza n. 22 del 2007).
La violazione delle norme sul controllo dei flussi migratori può essere penalmente sanzionata, per effetto di una scelta politica del legislatore non censurabile in sede di controllo di legittimità costituzionale, ma non può introdurre automaticamente e preventivamente un giudizio di pericolosità del soggetto responsabile, che deve essere frutto di un accertamento particolare, da effettuarsi caso per caso, con riguardo alle concrete circostanze oggettive ed alle personali caratteristiche soggettive.
In coerenza a tale orientamento, questa Corte ha avuto modo di affermare che «il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato […] non è univocamente sintomatico […] di una particolare pericolosità sociale» (sentenza n. 78 del 2007).
In definitiva, la qualità di immigrato «irregolare» – che si acquista con l’ingresso illegale nel territorio italiano o con il trattenimento dopo la scadenza del titolo per il soggiorno, dovuta anche a colposa mancata rinnovazione dello stesso entro i termini stabiliti – diventa uno “stigma”, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, i cui comportamenti appaiono, in generale e senza riserve o distinzioni, caratterizzati da un accentuato antagonismo verso la legalità.
Le qualità della singola persona da giudicare rifluiscono nella qualità generale preventivamente stabilita dalla legge, in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.
Ciò determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato.
La previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore.
Né si potrebbe obiettare che la qualità di immigrato in condizione irregolare deriva pur sempre da un originario comportamento trasgressivo, utile a legittimare una presunzione legislativa a carattere assoluto circa la dimensione soggettiva dell’illecito o la capacità a delinquere del reo.
Si è già visto infatti come tale condotta – sanzionata dal legislatore prima soltanto sul piano amministrativo, oggi anche su quello penale – non possa ripercuotersi su tutti i comportamenti successivi del soggetto, anche in assenza di ogni legame con la trasgressione originaria, differenziando in peius il trattamento del reo rispetto a quello previsto dalla legge per la generalità dei consociati.
10. – Non assumono rilievo, in senso contrario alle conclusioni fin qui esposte, le considerazioni relative alla presenza, nel sistema penale italiano, delle circostanze aggravanti relative allo stato di latitanza del reo (art. 61, numero 6, c.p.) ed alla recidiva (art. 99 c.p.).
La circostanza aggravante della latitanza
Nel caso della latitanza – la previsione relativa alla quale non è stata mai sottoposta alla valutazione di questa Corte – il soggetto che commette il reato non è genericamente caratterizzato da una qualità derivante da comportamenti pregressi, ma si trova in una situazione originata da un provvedimento restrittivo dell’autorità giudiziaria che lo riguarda individualmente.
All’esecuzione di tale provvedimento il latitante si sottrae con scelta deliberata, tanto che non risponderebbe dell’aggravante se avesse pur colpevolmente ignorato l’esistenza del provvedimento in suo danno.
Si discute insomma, ed in ogni caso, di una situazione non assimilabile a quella dell’immigrato in condizione di soggiorno irregolare, ove può mancare qualsiasi «individualizzazione» del precetto penale trasgredito.
Nella previsione aggravante, infatti, vengono in astratto ed in modo generalizzato accomunate ipotesi molto diverse tra loro, fino a comprendere la situazione di soggetti in condizione di mera «irregolarità», anche per effetto di negligenza, e non attinti da alcun provvedimento che individualmente li riguardi.
V’è da aggiungere che il latitante si sottrae all’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, che presuppone un reato punito con la reclusione o con l’arresto (e connotato da sicura gravità, visto che conduce ad una pena detentiva eseguibile, o implica un trattamento cautelare), mentre l’immigrazione irregolare era prima soltanto un illecito amministrativo ed attualmente è punita dalla legge con una mera sanzione pecuniaria.
D’altra parte, nel sistema penale vigente la latitanza non è configurata come reato, con la conseguenza che non è ipotizzabile, a proposito dell’aggravante che vi si riferisce, la possibilità di un bis in idem sanzionatorio.
L’’aggravante della recidiva
Parimenti inconferente sarebbe il richiamo all’aggravante della recidiva.
L’art. 99 c.p. prevede infatti che l’applicazione della suddetta circostanza è subordinata ad una sentenza definitiva di condanna per un delitto non colposo, intervenuta prima del fatto per il quale la pena deve essere aumentata.
Inoltre, la recidiva aggrava unicamente la pena per i delitti non colposi.
Sono pertanto esclusi dall’area di operatività della citata norma codicistica sia i reati contravvenzionali che quelli colposi, mentre, come s’è visto prima, il reato di immigrazione clandestina è una contravvenzione, punita, oltretutto, con una pena pecuniaria.
Il recidivo è dunque un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale.
Cionondimeno, con la sola eccezione dei reati di maggior gravità, l’applicazione della circostanza è subordinata all’accertamento in concreto, da parte del giudice, di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato da questi commesso, che deve risultare sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei fatti pregressi – sul piano della colpevolezza e della pericolosità sociale (da ultimo, ordinanza n. 171 del 2009).
Ben diversa è la disciplina per l’aggravante oggetto di censura, che può attivarsi finanche quando lo straniero ignori (per colpa) la propria condizione di irregolarità nel soggiorno (art. 59, secondo comma, c.p.), che prescinde da ogni collegamento funzionale con il reato cui accede, e che il giudice di tale reato deve accertare in via incidentale (senza attendere, per inciso, neppure l’esito di eventuali ricorsi amministrativi dell’interessato).
Si deve notare, a tale ultimo proposito, che il presupposto di una sentenza definitiva di condanna rende impossibile, nel caso della recidiva, quella formazione di giudicati ingiusti e contraddittori che potrebbe invece derivare, nella materia in esame, dalla accertata non irregolarità della presenza del soggetto nel territorio dello Stato, quando lo stesso sia già stato condannato per un altro reato, con l’applicazione dell’aggravante oggetto dell’odierna censura.
Tale eventualità acquista speciale rilievo nell’ipotesi dello straniero che chieda il riconoscimento dello status di rifugiato e, nelle more della relativa procedura, si veda contestata la circostanza in un giudizio che, a differenza di quello concernente il reato di ingresso o soggiorno irregolare, non può essere sospeso (si veda, a tale ultimo proposito, il comma 6 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998).
Tali paradossi sono preclusi dal legislatore nel caso della recidiva, in coerenza peraltro con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost., che non consente che si produca un effetto sanzionatorio ulteriore causato da un comportamento la cui illiceità penale deve essere ancora accertata in via definitiva.
11. – In considerazione di tutte le ragioni indicate, la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, primo comma, e 25, secondo comma, Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure proposte con riguardo al primo ed al terzo comma dell’art. 27 Cost.
una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale
12. – Il Tribunale di Ferrara assume che, a seguito dell’eliminazione dall’ordinamento della previsione circostanziale censurata, alcune norme ulteriori, introdotte contestualmente o successivamente, dovrebbero essere oggetto d’una dichiarazione consequenziale di illegittimità costituzionale.
In effetti, l’odierna pronuncia rende completamente priva di oggetto una disposizione che è nata al solo scopo di introdurre una norma interpretativa dell’art. 61, numero 11-bis, c.p., stabilendo che la relativa aggravante dovesse intendersi riferita unicamente agli apolidi ed ai cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea.
Si tratta del già citato comma 1 dell’art. 1 della legge n. 94 del 2009.
Si riscontra dunque, tra la norma considerata e quella oggetto della decisione caducatoria, quel rapporto di inscindibile connessione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, comporta una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (da ultimo, tra le molte, sentenza n. 186 del 2010).
A conclusione analoga deve pervenirsi rispetto ad una norma di diritto processuale che riguarda direttamente, ed in questa parte esclusivamente, le sentenze di condanna per reati in ordine ai quali ricorra l’aggravante di cui all’art. 61, numero 11-bis, c.p.
All’art. 656 c.p.p. è disciplinata l’esecuzione delle sanzioni detentive, prevedendosi tra l’altro la sospensione degli adempimenti esecutivi nel caso di pene (relativamente) brevi, in vista dell’eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione.
Il comma 9 dell’art. citato, alla lettera a), identifica i reati per i quali la sospensione non può essere disposta.
L’elenco è stato integrato, anzitutto, con il d.l. n. 92 del 2008. Il riferimento ai reati aggravati dalla condizione di soggiorno irregolare del colpevole è stato poi introdotto, in sede di conversione, dalla legge n. 125 del 2008, la quale, dopo la citazione di alcuni delitti previsti dal codice penale, ha inserito l’inciso «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice».
La norma citata da ultimo – cioè quella specificamente dettata, in un più ampio contesto, con l’inciso che si è trascritto – si trova in rapporto di inscindibile connessione con la disposizione che, in questa sede, viene dichiarata illegittima: rimossa quest’ultima, infatti, la norma processuale resta completamente priva di oggetto.
Si deve pertanto dichiarare, anche per tale norma, la illegittimità costituzionale in via consequenziale.
4. Recidiva
C. Cost. 14 giugno 2007, n. 192
(omissis)
3. – Le questioni sono inammissibili.
(omissis)
Le censure formulate dai giudici a quibus trovano, in ogni caso, la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato.
Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a fronte dei caratteri di “perpetuità” e “genericità” propri della recidiva, la quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 99, secondo comma, c.p. (recidiva specifica e infraquinquennale) – si configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi.
Ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano – farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’art. 69, quarto comma, c.p.: con l’effetto di “neutralizzare” – anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime.
Siffatto assunto poggia peraltro, a sua volta, sul presupposto – implicito e non motivato – che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti concorrenti.
3.2. – Quella che i rimettenti danno per scontata non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo.
A sostegno della tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal quarto comma dell’art. 99 c.p. (nel nuovo testo introdotto dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo art. – parrebbe militare, in effetti, prima facie, l’argomento letterale.
L’avvenuta utilizzazione, in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso art. 99 c.p., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220.
Nondimeno – secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 c.p., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso.
A tale conclusione indurrebbe, segnatamente, la considerazione che la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata rappresentano mere “species” della figura generale delineata dal primo comma dell’art. 99 c.p.: il che implicherebbe che la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata, limitandosi i commi successivi a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena.
La soluzione interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’art. 99 c.p., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto».
Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale.
Avendo omesso di verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso rilevante, in rapporto al thema decidendum – della corretta esegesi della previsione del quinto comma dell’art. 99 c.p., dianzi riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco dei gravi reati, di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi; soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della norma, a fronte del suo dettato letterale.
3.3. – Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è d’altro canto possibile ritenere – come rilevato, nella sostanza, anche dall’Avvocatura dello Stato – che venga meno, eo ipso, anche l’«automatismo» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, c.p. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.
I giudici a quibus non indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione.
In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza;
o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al momento commisurativo della pena.
In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato “in mitius”.
In altre parole, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi.
3.4. – In tale ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle questioni, formulate dai rimettenti.
Sotto il primo profilo, vale infatti osservare che, alla stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna, in rapporto all’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 – procedono per delitti non compresi nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p. I delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi a quibus in rapporto a tredici delle quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 80, comma 2, e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990; mentre il delitto di estorsione (cui ha riguardo l’ordinanza r.o. n. 102 del 2006) vi figura solo se aggravato ai sensi dell’art. 629, secondo comma, c.p. (numeri 2 e 6 dell’art. 407, comma 2, lettera a, c.p.p.).
I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono, peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti.
D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione – senza alcuna eccezione – o non indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero (come la citata ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006) fanno riferimento a condanne relative a delitti non compresi nell’elencazione dell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p..
Sotto il secondo profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura dei reati di cui si discute.
La stessa ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006 – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti inclusi nella lista dell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p. (in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e 7-bis della citata disposizione) – afferma, del resto, expressis verbis, che la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi reiterati «condannati per reati di una certa gravità»; e ciò analogamente a quanto la medesima legge n. 251 del 2005 ha previsto con riguardo alla neointrodotta limitazione alla concessione delle attenuanti generiche, di cui all’art. 62-bis, secondo comma, c.p. (limitazione, peraltro, parimenti connessa al fatto che si discuta di uno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a, c.p.p., sia pure con l’ulteriore condizione che la relativa pena minima risulti non inferiore a cinque anni di reclusione).
4. – L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia.
Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n. 32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate.
C. Cost. 4 aprile 2008, n. 182
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzione dell’art. 99, quarto comma, c.p., come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost., nella parte in cui stabilisce che la pena possa essere aumentata nella misura fissa indicata in relazione a detta ipotesi, anziché «fino alla» misura stessa.
La scelta legislativa di prevedere per talune forme di recidiva un aumento di pena fisso e per altre (la sola recidiva aggravata) un aumento variabile, non comporta – di per sé – una violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, fino a quando non consti che la soluzione normativa adottata è atta a produrre sperequazioni prive di qualsiasi ratio giustificativa, nel trattamento sanzionatorio di situazioni omogenee.
Avuto riguardo agli esempi addotti nell’ordinanza di rimessione a dimostrazione dell’asserita irrazionalità, con i quali si prospetta l’eventualità che, nel caso di recidiva reiterata, le precedenti condanne concernano reati non gravi, eterogenei rispetto a quello per cui si procede e risalenti nel tempo, deve considerarsi che, anche dopo le modifiche operate dalla legge n. 251 del 2005, la recidiva è rimasta facoltativa in tutte le sue forme, salvo che nei casi di cui al quinto comma dell’art. 99 c.p. (e, cioè, quando si tratti dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p.), con la conseguenza che il giudice potrebbe comunque tenere conto della natura delle precedenti condanne per escludere in radice l’applicazione dell’aumento di pena.
Quanto all’asserita violazione degli artt. 25 e 27 Cost., l’affermazione (C. Cost. n. 50 del 1980) circa la tendenziale contrarietà delle pene fisse al «volto costituzionale» dell’illecito penale, deve intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso, non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete.
In tal ottica, i parametri costituzionali che esigono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio non possono considerarsi lesi nell’ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena pecuniaria fissa, congiunta ad una pena detentiva dotata di una forbice edittale; in una simile evenienza, il giudice conserva, agendo anche solo sulla pena detentiva, la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso (C. Cost. n. 472 del 2002; n. 188 del 1982).
Nell’ipotesi in esame, ove il giudice opti per l’applicazione dell’aumento di pena, quest’ultimo risulta fisso nella misura frazionaria; la quale, tuttavia, si correla ad un dato variabile, qual è la pena base, che il giudice può discrezionalmente determinare, tra il minimo e il massimo edittale, alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 133 c.p., incidendo di riflesso anche sull’incremento connesso alla recidiva.
Considerato
che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dell’art. 99, primo, terzo e quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabilisce che – nei casi di recidiva semplice, di recidiva pluriaggravata e di recidiva reiterata – la pena possa essere aumentata nella misura fissa indicata in relazione a ciascuna di dette ipotesi, anziché «fino alla» misura stessa;
che – come eccepito anche dall’Avvocatura dello Stato – la questione risulta palesemente irrilevante in rapporto alle disposizioni del primo e del terzo comma dell’art. 99 c.p., che prevedono gli aumenti di pena, rispettivamente, per la recidiva semplice e la recidiva pluriaggravata; l’unica disposizione che viene in rilievo, nel caso di specie, è quella del quarto comma del citato art. 99 c.p., poiché – secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione – all’imputato nel giudizio a quo è stata contestata la recidiva reiterata (e, più in particolare, la recidiva reiterata aggravata);
che – quanto alle censure che investono tale ultima disposizione, e con particolare riguardo alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost. – la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la scelta e la quantificazione delle sanzioni per i singoli fatti punibili rientra nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è censurabile solo nel caso di manifesta irragionevolezza, in sede di sindacato di costituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2007, n. 394 del 2006 e n. 144 del 2005): principio, questo, riferibile evidentemente anche alla determinazione degli aumenti di pena per le circostanze aggravanti;
che, nella specie, il rimettente desume l’asserita irrazionalità del regime sanzionatorio della recidiva dal fatto che, nel caso di recidiva reiterata, non sia consentito al giudice graduare il corrispondente aumento di pena in rapporto alle peculiarità del caso concreto, come invece gli è permesso, in base al secondo comma dell’art. 99 c.p., nel caso di recidiva aggravata;
che, tuttavia, la scelta legislativa di prevedere per talune forme di recidiva un aumento di pena fisso e per altre (la sola recidiva aggravata) un aumento variabile, non comporta – di per sé – una violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, fino a quando non consti che la soluzione normativa adottata è atta a produrre sperequazioni prive di qualsiasi ratio giustificativa, nel trattamento sanzionatorio di situazioni omogenee;
che, per questo verso, i profili di irrazionalità che il rimettente denuncia – nel passaggio dal trattamento sanzionatorio della recidiva aggravata (e, in particolare, della recidiva specifica) a quello della recidiva reiterata (rimanendo irrilevante, per quanto detto, il confronto tra il regime della recidiva semplice e quello della recidiva aggravata) – vengono a risolversi in censure di merito alle scelte discrezionali del legislatore, in punto di determinazione della pena, basate su personali apprezzamenti dello stesso rimettente;
che, d’altra parte – avuto riguardo agli esempi addotti nell’ordinanza di rimessione a dimostrazione dell’asserita irrazionalità, con i quali si prospetta l’eventualità che, nel caso di recidiva reiterata, le precedenti condanne concernano reati non gravi, eterogenei rispetto a quello per cui si procede e risalenti nel tempo – il giudice a quo riconosce che, anche dopo le modifiche operate dalla legge n. 251 del 2005, la recidiva è rimasta facoltativa in tutte le sue forme, salvo che nei casi di cui al quinto comma dell’art. 99 c.p. (e, cioè, quando si tratti dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale): con la conseguenza che, nella stessa prospettiva del rimettente, il giudice potrebbe comunque tenere conto della natura delle precedenti condanne per escludere in radice l’applicazione dell’aumento di pena;
che quanto, all’asserita violazione degli artt. 25 e 27 Cost., va osservato come l’affermazione di questa Corte – evocata dal giudice a quo – circa la tendenziale contrarietà delle pene fisse al «volto costituzionale» dell’illecito penale (si veda, in particolare, la sentenza n. 50 del 1980), debba intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso: non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete;
che questa Corte ha escluso, in tal ottica, che i parametri costituzionali che esigono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio possano considerarsi lesi nell’ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena pecuniaria fissa, congiunta ad una pena detentiva dotata di una forbice edittale; infatti, in una simile evenienza, il giudice conserva, agendo anche solo sulla pena detentiva, la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso (con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., sentenza n. 472 del 2002; si veda, altresì, la sentenza n. 188 del 1982);
che, nell’ipotesi in esame – come lo stesso rimettente riconosce – il giudice può, “a monte”, decidere discrezionalmente se applicare o meno l’aumento di pena per l’aggravante in questione; e ciò – alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa – in esito alla valutazione della concreta significatività del nuovo delitto, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo;
che, d’altra parte, ove il giudice opti per l’applicazione dell’aumento di pena, quest’ultimo risulta fisso nella misura frazionaria; la quale, tuttavia, si correla ad un dato variabile, qual è la pena base, che il giudice può discrezionalmente determinare, tra il minimo e il massimo edittale, alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 133 c.p., incidendo di riflesso anche sull’incremento connesso alla recidiva;
che, in conclusione – pur costituendo, quello scrutinato, un assetto che si discosta per più versi dalle linee generali del sistema – deve comunque escludersi che il giudice, per effetto di esso, resti privo di sufficienti margini di adattamento del trattamento sanzionatorio alle peculiarità della singola ipotesi concreta;
che la questione deve essere dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile, in rapporto al primo ed al terzo comma dell’art. 99 c.p., e manifestamente infondata, in rapporto al quarto comma del medesimo articolo.
C. Cost. 23 luglio 2015, n. 185
omissis
1.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione).
La Corte rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 192 del 2007) e di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738), l’art. 99, quinto comma, c.p., prevede un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che si affianca alle diverse forme di recidiva facoltativa disciplinate dai primi quattro commi del medesimo articolo (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798), e ritiene che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, c.p., con riferimento all’art. 3 Cost., non sia manifestamente infondata.
Infatti, a suo avviso, l’applicazione obbligatoria della recidiva, «svincolata dall’accertamento in concreto sulla base dei criteri applicativi indicati [dalla giurisprudenza] e affidata alla sola indicazione del titolo del nuovo delitto», viene privata di una base empirica adeguata a preservare il fondamento della circostanza aggravante (ossia l’attitudine della ricaduta nel delitto ad esprimere una più accentuata colpevolezza e una maggiore pericolosità del reo), risolvendosi in una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza o di maggiore pericolosità, del tutto irragionevole.
La manifesta irragionevolezza della norma impugnata, peraltro, troverebbe ulteriore conferma nel criterio legislativo di individuazione dei reati che comportano la recidiva obbligatoria – «criterio incentrato sul catalogo di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., che contiene “un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale” (Corte cost., sentenza n. 192 del 2007)» – che è privo di correlazione con l’accertamento della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni della recidiva e, in particolare, è inidoneo ad esprimere una «relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo delitto» in grado di offrire un congruo fondamento giustificativo al giudizio di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità, da cui deve essere sorretta l’applicazione della recidiva.
La norma censurata violerebbe, in secondo luogo, il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost., in quanto darebbe luogo ad un’illegittima uguaglianza di trattamento di situazioni diverse, precludendo l’accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Infine, la questione sarebbe non manifestamente infondata in relazione al principio di proporzionalità della pena, riconducibile all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la preclusione dell’accertamento giurisdizionale della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni “sostanziali” legittimanti l’applicazione della recidiva renderebbe la pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanificandone, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa.
2.– La Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, sempre con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., muove analoghe censure all’art. 99, quinto comma, c.p., richiamando «interamente il contenuto della ordinanza emessa dalla V sezione della S.C.C. in data 3 luglio 2014, dep. 10 settembre 2014», con cui è stata sollevata la medesima questione di legittimità costituzionale.
… omissis
6.– Nel merito la questione sollevata dalla Corte di cassazione è fondata.
7.– L’art. 4 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito l’art. 99 c.p., introducendo nel quinto comma un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che ricorre «Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale».
Nel ricostruire i lineamenti della recidiva dopo l’avvenuta sostituzione dell’art. 99 c.p., effettuata con l’art. 4 della legge n. 251 del 2005, la giurisprudenza costituzionale ha messo a fuoco l’istituto, individuando il suo fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo, e ha prospettato la facoltatività di tutte le ipotesi di recidiva diverse da quella del quinto comma dell’art. 99 c.p., e quindi anche la facoltatività della recidiva reiterata, prevista dal quarto comma (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 171 del 2009, n. 257, n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).
In particolare è stato chiarito che nel caso di recidiva facoltativa l’aumento di pena può essere disposto «solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (ordinanza n. 409 del 2007; conformi, ex plurimis, ordinanze n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).
8.– L’orientamento prospettato da questa Corte è stato recepito dalla giurisprudenza di legittimità, che ha riconosciuto la natura facoltativa di tutte le ipotesi di recidiva, ad eccezione di quella rappresentata dal quinto comma dell’art. 99 c.p., e ha ritenuto che quando la contestazione concerne una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. è compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito è effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistenti fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante, significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero riscontro formale dei precedenti penali.
All’esito di tale verifica si ritiene che al giudice sia consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738. In senso conforme, Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).
automatismo sanzionatorio, basato sul titolo del nuovo reato
9.– Nel caso della recidiva prevista dall’art. 99, quinto comma, c.p., questa verifica è preclusa; l’aumento della pena consegue automaticamente al mero riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., senza che il giudice sia tenuto ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.
La norma censurata, quindi, introduce un vero e proprio automatismo sanzionatorio, basato sul titolo del nuovo reato, e più precisamente sulla sua appartenenza al catalogo dell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p..
Ad avviso del giudice rimettente, è questo automatismo che, per la sua irragionevolezza, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
9.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità legislativa, il cui esercizio non può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, salvo che si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).
Nel caso di specie, il rigido automatismo sanzionatorio cui dà luogo la norma censurata – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso – è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.
L’obbligatorietà stabilita dal quinto comma dell’art. 99 c.p. impone l’aumento della pena anche nell’ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva.
È da notare che «la funzione del quinto comma è quella di prefigurare, in rapporto a ciascuna delle forme di recidiva facoltativa in precedenza disciplinate, altrettante ipotesi di recidiva obbligatoria» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798). Ciò significa che mentre nei primi quattro commi dell’art. 99 c.p. sono previste ipotesi di diversa gravità della recidiva, con il passaggio da quella semplice (primo comma) a quella aggravata (secondo comma), a quella pluriaggravata (terzo comma) e a quella reiterata (quarto comma), che possono avere un significato assai diverso ai fini della valutazione della colpevolezza e della pericolosità del reo, nel quinto comma tutte queste diverse ipotesi vengono irragionevolmente parificate in una previsione di obbligatorietà, che comporta un aumento di pena solo in ragione del titolo del reato che è stato commesso. Ne deriva che il giudice nell’applicare la pena prevista per questo reato deve aumentarla, anche se l’aumento è privo di una reale giustificazione, oggettiva o soggettiva.
L’irragionevolezza della norma impugnata è ancor più manifesta se si considera che l’elenco dei delitti che comportano l’obbligatorietà, contenuto nell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., concerne reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva.
9.2.– L’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata non potrebbe giustificarsi neppure ritenendo che esso si fondi su una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In particolare, «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (ex multis, sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
Nel caso di specie, la presunzione in questione, relativa alla colpevolezza e alla pericolosità del reo, sarebbe giustificata unicamente dall’appartenenza del nuovo episodio delittuoso al catalogo dei reati indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., ma non potrebbe trovare fondamento in un dato di esperienza generalizzato.
Un dato del genere infatti non esiste, posto che per le ragioni indicate ben possono ipotizzarsi accadimenti reali contrari alla generalizzazione presunta.
In conclusione, l’art. 99, quinto comma, c.p., nel prevedere che nei casi di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., la recidiva è obbligatoria, contrasta con il principio di ragionevolezza e parifica nel trattamento obbligatorio situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost.
9.3.– La previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun «accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. – “sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” (sentenza n. 192 del 2007)» (sentenza n. 183 del 2011), viola anche l’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «“un costante ‘principio di proporzione’ tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994)» (sentenza n. 251 del 2012). La preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.
10.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, c.p., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «è obbligatorio e,».
Cass. S.U. 3 maggio 2010, P.G., Calibé e altro
in sintesi
La recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può non essere ritenuta configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quinto, c.p., nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata
Nell’enunciare tale principio, la Corte ha precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Una volta contestata la recidiva nel reato, anche reiterata, purché non ai sensi dell’art. 99, comma quinto, c.p., qualora essa sia stata esclusa dal giudice, non solo non ha luogo l’aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all’art. 69, comma quarto, c.p., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’art. 81, comma quarto, stesso codice, dall’inibizione all’accesso al cosiddetto “patteggiamento allargato” e alla relativa riduzione premiale di cui all’art. 444, comma 1-bis, c.p.p.; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva stessa non sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità.
Fattispecie relativa ad istanza di cosiddetto “patteggiamento allargato”
Ai fini dell’interdizione al cosiddetto “patteggiamento allargato” nei confronti di coloro che siano stati dichiarati recidivi ai sensi dell’art. 99, comma quarto, c.p., non occorre una pregressa dichiarazione giudiziale della recidiva che, al pari di ogni altra circostanza aggravante, non viene “dichiarata”, ma può solo essere ritenuta e applicata ai reati in relazione ai quali è contestata.
In motivazione, la Corte ha chiarito che la testuale disposizione dall’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., la quale fa riferimento a “coloro che siano stati dichiarati recidivi”, è tecnicamente imprecisa ed è stata utilizzata dal legislatore per motivi di uniformità lessicale, in quanto riferita anche ad altre situazioni soggettive che, attributive di specifici “status”, come quelli di delinquente abituale, professionale e per tendenza, richiedono un’apposita dichiarazione espressamente prevista e disciplinata dalla legge.
Motivi della decisione
1. Con sentenza in data 27 aprile 2009 il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Genova applicava ai sensi dell’art. 444 c.p.p. a CALIBÈ Giovanni ed ESPOSITO Paolo la pena da loro richiesta, con il consenso del pubblico ministero, in relazione alle imputazioni rispettivamente ascritte.
2. In particolare:
– al primo era contestato il delitto di cui agli artt. 81 cpv. c.p., 73, comma 1 bis, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, per avere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, detenuto e ceduto a diverse persone quantitativi vari di sostanza stupefacente (eroina), con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale;
– al secondo il delitto di cui all’art. 73, comma 1 bis, per avere detenuto alcuni quantitativi di sostanze stupefacenti di tipo diverso (eroina e metadone) destinate alla cessione a terzi, con la recidiva reiterata.
3. Nell’accogliere le domande degli imputati il G.u.p. osservava:
– quanto al CALIBÈ
che potevano essere riconosciute in suo favore le circostanze attenuanti generiche in ragione della giovane età, delle condizioni personali e sociali e del buon comportamento processuale; che la contestata recidiva, la cui applicazione è facoltativa, doveva essere esclusa in considerazione delle condizioni socio-economiche dell’imputato, del meritevole comportamento processuale, della risalenza del precedente e della diversità dei fatti criminosi;
che la pena definitiva, partendo dalla base di otto anni di reclusione e venticinquemila euro di multa, ridotta ex art. 62 bis c.p. a cinque anni e quattro mesi di reclusione e diciassettemila euro di multa, aumentata per la continuazione fino a sei anni di reclusione e diciottomila euro di multa (dunque di sei mesi di reclusione e mille euro di multa), all’esito della riduzione premiale doveva fissarsi in quattro anni di reclusione e dodicimila euro di multa;
– quanto all’ESPOSITO
che, ritenuta l’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90 (“stante le non eccessive quantità di sostanza detenute, anche in relazione alla percentuale di prodotto puro”), valutata detta circostanza attenuante prevalente sulla recidiva, poteva essere applicata la pena finale di un anno e otto mesi di reclusione e tremila euro di multa così come richiesta dall’imputato (il quale aveva tuttavia compreso nel calcolo anche l’aumento per la continuazione, che in realtà non risultava contestata nell’imputazione) secondo il seguente computo: pena base ex art. 73, comma 5, di due anni, tre mesi di reclusione e quattromila euro di multa, aumentata per la continuazione a due anni, sei mesi di reclusione e quattromilacinquecento euro di multa (dunque di tre mesi di reclusione e cinquecento euro di multa), ridotta quindi per il rito nella misura più su indicata.
4. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati ed il Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova.
(omissis)
8. La Sezione terza penale, assegnataria dell’affare, ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine all’interpretazione dell’art. 444, comma 1 bis, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che sono esclusi dal “patteggiamento” (tra gli altri) i procedimenti “contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.
Ha osservato in proposito (richiamando Cass. VI 16.9.2004, p.m. in proc. Bonfanti, rv 230378 e Cass. I 13.11.2008, p.m. in proc. Manfredi, rv 242509) come alcune pronunce di legittimità abbiano affermato il principio secondo cui <<per l’esclusione dal patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, non è sufficiente che dal certificato penale dell’imputato emerga una situazione di recidiva qualificata, ma occorre che la stessa sia stata espressamente riconosciuta e dichiarata dal giudice>>, mentre altre (Cass. II, 4.12.2006, p.m. in proc. Cicchetti, rv 235620 e Cass. VI 9.12.2008, p.m. in proc. Ogana, rv 242148) hanno diversamente ritenuto che <<ai fini dell’operatività della recidiva qualificata come causa di esclusione del patteggiamento ai sensi dell’art. 444, comma 1 bis, c.p.p., è sufficiente che essa sia stata contestata, in tal senso dovendosi intendere, trattandosi di una circostanza, il concetto di “dichiarazione” al quale si richiama la predetta disposizione per ricomprendere anche le altre situazioni soggettive quali condizione di delinquente abituale, professionale o per tendenza>>.
Ha pertanto rimesso i ricorsi ex art. 618 c.p.p. alle Sezioni Unite penali, cui essi sono stati assegnati dal Presidente Aggiunto il quale, con decreto del 10.3.2010, ha fissato l’udienza odierna per la relativa trattazione.
9. Le doglianze formulate dagli imputati, meramente assertive del vizio denunciato, sono all’evidenza prive del necessario contenuto di specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dagli artt. 581 e 591 c.p.p.; ed invero da tempo queste Sezioni unite hanno precisato come, nell’ipotesi di impugnazione di una decisione assunta in conformità alla richiesta formulata dalla parte secondo lo schema procedimentale previsto dall’art. 444 c.p.p., l’esigenza di specificità delle censure deve ritenersi addirittura “rafforzata” rispetto ad ipotesi di diversa conclusione del giudizio, dato che la critica al provvedimento che abbia accolto la domanda dell’imputato deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio quanto dalla stessa parte richiesto (Cass. S.U. 24.6.1998, Verga, rv 211468).
(omissis)
12. Il secondo, articolato motivo del ricorso della parte pubblica è parzialmente fondato, per le ragioni che saranno di seguito indicate.
13. Si deve rilevare, innanzi tutto, come in realtà sulla questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite (“se sia sufficiente, perché la recidiva qualificata costituisca ostacolo al patteggiamento a pena superiore a due anni, la sola contestazione ovvero occorra necessariamente il suo riconoscimento da parte del giudice”) non sussista un reale conflitto interpretativo.
Ed invero l’affermazione che sia sufficiente la mera contestazione della recidiva reiterata per l’operatività della clausola di esclusione dal patteggiamento “allargato” posta dall’art. 444, comma 1 bis, c.p.p., si contrappone, nelle decisioni citate nell’ordinanza di rimessione e più su indicate, non all’affermazione della necessità che l’aggravante, oltre che ritualmente contestata, debba essere effettivamente ritenuta ed applicata dal giudice, quanto a quell’altra – che peraltro non risulta essere stata mai prospettata nella giurisprudenza di legittimità – secondo cui sarebbe richiesto dalla norma che gli imputati cui è inibito l’accesso al rito semplificato siano stati già <<dichiarati>> recidivi ai sensi dell’art. 99, comma quarto, c.p. con una sentenza precedentemente emessa.
Nei casi oggetto degli arresti giurisprudenziali predetti, infatti, il giudice di merito aveva applicato ex art. 444 c.p.p. una pena concordata superiore ai due anni di reclusione ad imputati, cui pure era contestata la recidiva qualificata, ritenendo che il patteggiamento fosse consentito in quanto non risultava che la recidiva medesima fosse stata già oggetto di una precedente dichiarazione giudiziale sostanzialmente attributiva di uno status soggettivo.
La Corte, in entrambe le occasioni, ha annullato i provvedimenti di merito affermando la non necessità, perché sia inibito il procedimento speciale, di una preventiva dichiarazione formale della recidiva e ritenendo viceversa sufficiente – ma solo in contrapposizione a tale non condivisa premessa – la sua semplice contestazione: ciò, tuttavia, senza affrontare l’ulteriore e logicamente successiva questione concernente la possibilità per il giudice di escludere o meno l’aggravante, una volta che questa sia stata ritualmente contestata.
Si legge anzi nel testo di Cass. II, 4.12.2006, p.m. in proc. Cicchetti, che la contestazione è <<condizione necessaria e sufficiente al fine di qualificare il reato e determinare la pronuncia del giudice sull’esistenza e sugli effetti di tale circostanza>>: così non escludendosi affatto, dunque, da parte della Corte, la sussistenza di uno spazio valutativo del giudice in ordine al riconoscimento ed alla concreta applicazione della recidiva.
14. Il ricorso del pubblico ministero pone piuttosto ulteriori questioni a proposito degli effetti della contestazione della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p., come modificato dalla legge 5.12.2005, n. 251, e precisamente quella, principale, dell’obbligatorietà o meno dell’aumento di pena ivi previsto e l’altra, conseguente, dell’eventuale persistenza, anche qualora detto aumento sia stato escluso dal giudice, degli ulteriori effetti ricollegati dalla legge alla recidiva qualificata e consistenti nell’operatività dei limiti al giudizio di comparazione fra circostanze di segno opposto fissati dall’art. 69, quarto comma, c.p.; dei limiti minimi all’aumento della quantità di pena a titolo di continuazione stabiliti dall’art. 81, quarto comma, c.p.; dei limiti all’accesso al c.d. “patteggiamento allargato” (ed alla relativa riduzione premiale della sanzione) di cui all’art. 444, comma 1 bis, c.p.p., di cui si è in precedenza detto.
15. Il quesito interpretativo nasce intorno al testo dell’art. 99 c.p., come introdotto dalla legge n. 251 del 2005, il quale – nella sua emendata formulazione lessicale – prima facie inclina suggestivamente l’interprete a ritenere attuato una sorta di ripristino del regime di obbligatorietà della recidiva come preesistente alla riforma del 1974 (d.l. 11.4.1974, n. 99, convertito dalla legge 7.6.1974, n. 220), nell’ambito di una novella tesa, nelle enunciate intenzioni del legislatore, ad accentuare l’incidenza sul trattamento sanzionatorio globalmente inteso delle caratteristiche soggettive dell’autore del reato con relativa riduzione dell’ambito di discrezionalità del giudice; in particolare viene in rilievo l’utilizzo, nei commi terzo e quarto dell’art. 99 c.p. e con riferimento al previsto aumento della pena per la recidiva pluriaggravata e per quella reiterata, dell’indicativo presente del verbo essere (<<l’aumento della pena … è>>) in luogo della voce verbale <<può>>, che compariva nel testo precedente e figura tuttora nei primi due commi riguardanti la recidiva semplice e quella aggravata.
16. La praticabilità di un’opzione ermeneutica nel senso dell’avvenuta reintroduzione legislativa di rigidi meccanismi presuntivi (con ricadute, come si è detto, non solo sull’aumento della pena ma su vari altri effetti commisurativi riconnessi alla recidiva), con la conseguente elisione del potere discrezionale del giudice di apprezzare, in termini di riprovevolezza della condotta e pericolosità del suo autore, il reale significato del dato meramente oggettivo costituito dalla ripetizione dei delitti, è stata esclusa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità fin dalle prime pronunce in argomento (Cass. IV 11.4.2007, P.M. in proc. Serra, rv 236412; Cass. IV 19.4.2007, P.M. in proc. Meradi, rv 235835; Cass. IV 28.6.2007, P.M. in proc. Mazzitta, rv 237271; Cass. IV 2.7.2007, P.M. in proc. Farris, rv 236910) nonché dalle decisioni della Corte costituzionale, davanti alla quale la normativa in questione era stata denunciata per la violazione degli artt. 3, 25 e 27 della Carta (sentenza 14 giugno 2007, n. 192 e ordinanze nn. 198 e 409 del 2007; 33, 90, 91, 193 e 257 del 2008; 171 del 2009, dichiarative la prima dell’inammissibilità e le altre della manifesta inammissibilità delle questioni).
16. Le Sezioni unite condividono tali conclusioni e le argomentazioni poste a loro sostegno.
17. Si deve rilevare innanzi tutto, sotto l’aspetto lessicale, come nel testo dei commi terzo e quarto dell’art. 99 c.p. il verbo essere sia utilizzato con evidente riferimento al quantum dell’aumento (<<l’aumento di pena è …>>) della sanzione discendente dal riconoscimento della recidiva ivi contemplata (pluriaggravata e reiterata), ma non coinvolga l’an dell’aumento medesimo, che rimane affidato alla valutazione del giudice secondo la costruzione dell’ipotesi base di cui al primo comma.
Le figure di recidiva de quibus non costituiscono invero autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, esclusivamente per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano, le quali sono state previste con la riforma, diversamente dal precedente regime, in misura fissa anziché variabile fra un minimo ed un massimo.
18. La necessità di una lettura omogenea dei primi quattro commi dell’art. 99 c.p. è peraltro confermata dalla constatazione che ove il legislatore ha inteso elidere gli spazi di discrezionalità giudiziale a favore di un vero e proprio ritorno all’inderogabilità della recidiva, ha reso palese la sua intenzione prevedendo al quinto comma un regime vincolato per una serie di delitti, evidentemente valutati di particolare gravità, in relazione ai quali l’aumento della pena per la recidiva è espressamente definito <<obbligatorio>>.
19. Tale soluzione interpretativa, oltre che maggiormente aderente al testo della legge, appare altresì quella più conforme ai principi costituzionali in tema di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria.
Ed invero l’interpretazione che ritiene l’obbligatorietà della recidiva qualificata e degli effetti commisurativi della sanzione ad essa riconnessi finisce per configurare una sorta di presunzione assoluta di pericolosità sociale del recidivo reiterato ed un conseguente duplice automatismo punitivo indiscriminato – dunque foriero di possibili diseguaglianze – nell’an e nel quantum (previsto in misura fissa), operante sia nei casi in cui la ricaduta nel reato si manifesti quale indice di particolare disvalore della condotta, di indifferenza del suo autore alla memoria delle precedenti condanne e in definitiva verso l’ordinamento, di specifica inclinazione a delinquere dell’agente, sia nei casi in cui, al di là del dato meramente oggettivo della ripetizione del delitto, il nuovo episodio non appaia <<concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo>> (Corte cost., n. 192/2007).
20. E’ dunque compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. e quindi anche nei casi di recidiva reiterata (rimane esclusa, come premesso, l’ipotesi “obbligatoria” del quinto comma), quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla indicata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
21. All’esito di tale verifica al giudice è consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione: la recidiva opera infatti nell’ordinamento quale circostanza aggravante (inerente alla persona del colpevole: art. 70 c.p.), che come tale deve essere obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero in ossequio al principio del contraddittorio (Cass. S.U. 27.5.1961, P.M. in proc. Papò, rv 98479; Cass. S.U. 23.1.1971, Piano) ma di cui è facoltativa (tranne l’eccezione espressa) l’applicazione, secondo l’unica interpretazione compatibile con i principi costituzionali in materia di pena.
22. Qualora la verifica effettuata dal giudice si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una <<più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo>>, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi e dunque, nell’ipotesi di recidiva reiterata e per quanto qui rileva in relazione all’oggetto del ricorso in esame, l’aumento della pena base nella misura fissa indicata dal quarto comma dell’art. 99 c.p., il divieto imposto dall’art. 69, quarto comma, c.p., di prevalenza delle circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento fra gli elementi accidentali eterogenei eventualmente presenti, il limite minimo di aumento per la continuazione stabilito dall’art. 81, comma quarto, c.p., l’inibizione dell’accesso al c.d. “patteggiamento allargato” di cui all’art. 444, comma 1 bis, c.p.p.
In tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante (Cass. S.U. 18.6.1991, Grassi, rv 187856).
23. Qualora viceversa la verifica si concluda nel senso della non significanza della ricaduta nei termini più su precisati e il giudice escluda la recidiva (dunque non la ritenga rilevante e conseguentemente non la applichi), rimangono esclusi altresì l’aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante.
La “facoltatività” della recidiva, invero, non può atteggiarsi come parziale o “bifasica” (così Cass. IV 11.4.2007, P.M. in proc. Serra), nel senso che, consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena, l’ordinamento renda viceversa obbligatori – ripristinando in tal modo l’indiscriminato e “sospetto” automatismo sanzionatorio di cui si è detto – gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.
Anche sul punto la giurisprudenza di legittimità formatasi sulla nuova disciplina si è radicata nella condivisa affermazione che gli effetti commisurativi della recidiva non siano svincolati dalle determinazioni assunte dal giudice in relazione al riconoscimento dell’aggravante ma siano bensì a questo strettamente collegati, nel senso che anch’essi vengono meno quando la circostanza non concorra, sulla base della valutazione del giudice effettuata ai fini e secondo i parametri di cui si è detto, a determinare l’aumento di pena (Cass. V 15.5.2009, Held, rv 244209; Cass. V 30.1.2009, P.M. in proc. Maggiani, rv 243600; Cass. IV 29.1.2009, P.M. in proc. Rami, rv 243441; Cass. IV 28.1.2009, Fallarino, non massimata; Cass. V 9.12.2008, P.M. in proc. De Rosa, rv 242946; Cass. III 25.9.2008, P.M. in proc. Pellegrino, rv 241779; Cass. VI 17.9.2008, P.M. in proc. Orlando, rv 241192; Cass. II 19.3.2008, Buccheri, rv 240404; Cass. VI 7.2.2008, P.M. in proc. Goumri, rv 239018; Cass. II 5.12.2007, Cavazza, rv 238521; Cass. V 25.9.2007, P.M. in proc. Mura, rv 237273; Cass. II 4.7.2007, P.M. in proc. Doro, rv 237144; Cass. VI 3.7.2007, P.M. in proc. Saponaro, rv 237272; Cass. IV 2.7.2007, P.M. in proc. Farris, cit.; Cass. IV 28.6.2007, P.M. in proc. Mazzitta, cit.; Cass. IV 11.4.2007, P.M. in proc. Serra, cit.; Cass. IV 19.4.2007, P.M. in proc. Meradi, cit., tutte nel senso dell’esclusione della recidiva reiterata anche dal giudizio di comparazione ex art. 69 c.p., una volta ritenuta dal giudice irrilevante ai fini dell’aggravamento della sanzione).
Alle medesime conclusioni è pervenuto altresì il Giudice delle leggi che, nelle pronunce di inammissibilità più su citate (una delle quali sollecitata anche da questa Corte con ordinanza di Cass. IV 9.5.2007, Contu), ha delineato con chiarezza l’interpretazione conforme al dettato costituzionale ponendo in evidenza l’irrazionalità di una conclusione che ammetta, da un lato, il carattere facoltativo della recidiva reiterata e dunque la possibilità che la circostanza, ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità, nell’ipotesi di reato non ulteriormente circostanziato abbia effetto neutro sulla determinazione della pena e tuttavia, da un altro, eserciti in contrario una sostanziale funzione aggravatrice inibendo un favorevole giudizio di comparazione nell’ipotesi di reato circostanziato in mitius; ovvero che, nel caso di più reati unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., consenta che la circostanza sia discrezionalmente esclusa in relazione a ciascuno di essi, ma determini comunque, con l’imposizione dell’aumento minimo per il cumulo formale, un sostanziale aggravamento della risposta punitiva proprio in sede di applicazione di istituti volti all’opposto al fine di mitigare la pena rispetto alle regole generali sul cumulo materiale.
Ed analoghe considerazioni possono qui svolgersi a proposito del patteggiamento “allargato”, il quale potrebbe essere impedito, con rilevanti conseguenze sulla pena finale, dalla contestazione dell’aggravante che, attesa la sua natura facoltativa, nel giudizio ordinario potrebbe essere ritenuta priva di ogni valenza rivelatrice di disvalore della condotta.
24. Con ciò si palesano le ragioni dell’infondatezza della tesi affermata da una pronuncia (Cass. VI 27.2.2007, P.M. in proc. Ben Hadhria, rv 236426) – intervenuta peraltro nel momento delle primissime applicazioni della nuova disciplina e quando la Corte costituzionale ancora non si era espressa circa la possibile interpretazione compatibile – motivatamente distonica da tale, consolidato orientamento, ad avviso della quale la semplice esistenza dei precedenti penali reiterati configurerebbe insieme una circostanza aggravante ed una sorta di status soggettivo del reo, con la conseguenza che, pur essendo al giudice consentito di escludere il relativo aumento di pena, sarebbe comunque indefettibile sottoporre la recidiva reiterata al giudizio di comparazione fra circostanze di segno opposto con i limiti indicati dal quarto comma dell’art. 69 c.p.: dunque con il conseguente sostanziale, indiscriminato ed automatico aggravamento della sanzione che si reputa non conforme ai principi di rango costituzionale che informano il sistema punitivo.
25. Occorre dunque qui ribadire che la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 c.p. opera nella disciplina codicistica, come risultante dalle interpolazioni di cui alla legge n. 251/05, quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa, nel senso che è consentito al giudice, all’esito delle valutazioni di cui si è detto, motivatamente escluderla e considerarla tamquam non esset ai fini sanzionatori, non potendo dirsi sufficiente che dal certificato penale emerga una pluralità di condanne (Cass. I 8.10.2009, Costagliola, rv 245521).
Qualora la recidiva reiterata sia esclusa, essa non è più ricompresa nell’oggetto della valutazione del giudice ai fini della determinazione della pena e dunque, non essendo stata “ritenuta”, neppure entra a comporre la materia del giudizio di comparazione di cui all’art. 69 c.p., di talché resta inoperante, proprio per la mancanza dell’oggetto, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti imposto dal quarto comma del medesimo articolo.
Qualora, viceversa, la recidiva reiterata non sia esclusa dal giudice ma considerata concreto sintomo di maggior colpevolezza e pericolosità, essa svolge necessariamente nel suo complesso la funzione aggravatrice e determina pertanto anche l’effetto, incidente sulla sanzione, consistente nell’operatività dell’inibizione di cui si è detto, con la conseguenza che non è consentito al giudice, il quale non abbia escluso ex ante la recidiva, di apprezzarla come subvalente rispetto a eventuali circostanze attenuanti.
26. Analoghe conseguenze si verificano in relazione agli altri effetti commisurativi della sanzione ricollegati dalla legge alla recidiva reiterata.
27. Ne discende – come ha già avuto modo di precisare questa Corte (Cass. III 7.10.2009, P.M. in proc. Serafi, rv 245609) – che il limite all’aumento ex art. 81 c.p. <<non … inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave>>, previsto dalla legge nei confronti dei soggetti <<ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma>>, è pure inoperante quando il giudice non abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, ed in relazione ad essi l’abbia pertanto esclusa così non “applicandola”, secondo l’accezione del termine già accolta da queste Sezioni Unite nella sentenza del 28.6.1991 in proc. Grassi, più su citata.
28. Allo stesso modo l’esclusione ex ante della recidiva reiterata ad opera del giudice del “patteggiamento allargato” consente l’accesso al rito speciale dell’imputato al quale la circostanza aggravante sia stata contestata, poiché dalla ritenuta inidoneità della ricaduta nel delitto a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede discende, altresì, l’inoperatività della clausola di esclusione contenuta nel comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p. che inibisce, ove efficace, non solo il percorso processuale semplificato ma, per quanto qui interessa, la fruizione di una rilevante riduzione premiale della sanzione (Cass. I 13.11.2008, P.M. in proc. Manfredi, rv 242509).
In proposito si deve solo ulteriormente precisare, per completezza, che la formula lessicale contenuta nella disposizione in esame (<<coloro che siano stati dichiarati … recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice penale>>) non può essere interpretata nel senso che indichi la necessità di una pregressa “dichiarazione” giudiziale della recidiva; la circostanza aggravante, invero, può solo essere “ritenuta” ed “applicata” per i reati in relazione ai reati è contestata, ed in questo modo deve essere intesa detta espressione la quale, imprecisa sotto il profilo tecnico, è stata evidentemente utilizzata dal legislatore per ragioni di semplificazione semantica essendo essa riferita anche ad altre situazioni soggettive che, attributive di uno specifico status (delinquente abituale, professionale e per tendenza), abbisognano di un’apposita dichiarazione che la legge espressamente prevede e disciplina agli artt. 102, 105, 108, 109 c.p. (Cass. II 4.12.2006, Cicchetti; Cass. V 25.9.2008, Moccia, rv 241598; Cass. II 22.12.2009, Stracuzzi).
29. Si deve pertanto conclusivamente affermare, ai sensi dell’art. 173, comma 3, disp. att. c.p.p., che la recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, c.p., opera quale circostanza aggravante facoltativa, nel senso che è consentito al giudice escluderla ove non la ritenga in concreto espressione di maggior colpevolezza o pericolosità sociale del reo; e che, dall’esclusione deriva la sua ininfluenza non solo sulla determinazione della pena ma anche sugli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti di cui all’art. 69, quarto comma, c.p., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’art. 81, quarto comma, c.p., dall’inibizione all’accesso al “patteggiamento allargato” ed alla relativa riduzione premiale di cui all’art. 444, comma 1 bis, c.p.p.
(omissis)
5. Pluralità dei fatti di bancarotta: circostanza aggravante nella forma; concorso di reati nella sostanza
Cass. s.u. 27 gennaio 2011, p.m. in proc. Loy
In sintesi
Più condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell’ambito di uno stesso fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico.
La disposizione di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. non integra, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta una peculiare disciplina della continuazione, in deroga a quella ordinaria di cui all’art. 81 c.p., in tema di reati fallimentari.
Deve escludersi, con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, la preclusione dell’eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale.
… omissis
1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste, con sentenza del 9 gennaio 2009, dichiarava, ex art 425 c.p.p., non luogo a procedere nei confronti di Stefano Loy in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non potendo l’azione penale essere proseguita – secondo la previsione dell’art. 649 c.p.p. – per precedente giudicato.
Più specificamente, il reato contestato all’imputato è quello di cui all’art. 216, comma primo, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (così detta legge fallimentare), per avere, nella qualità di legale rappresentante e socio accomandatario della società All You Need di Stefano Loy & C. s.a.s., dichiarata fallita – unitamente allo stesso accomandatario – con sentenza 23 giugno 2005 del Tribunale di Trieste, dissipato, distratto, occultato, dissimulato attività della società, prelevando, in più occasioni, somme di denaro di vario importo dai conti correnti di cui aveva la disponibilità, con le aggravanti di cui all’art. 219, commi primo e secondo, n. 1, l.f. e la recidiva semplice.
Il Giudice dell’udienza preliminare, prescindendo da qualsiasi valutazione di merito e facendo leva sulla mera comparazione formale tra i fatti sottoposti al suo esame e quelli di bancarotta preferenziale (art. 216, comma terzo, l.f.) e semplice nell’ipotesi di cui all’art. 217, comma primo, n. 4, l.f., relativi al medesimo fallimento ed oggetto della sentenza 14 marzo 2006 (irrevocabile il 18 luglio 2006) dello stesso G.u.p, con la quale al Loy era stata applicata la pena concordata ex art. 444 c.p.p., riteneva che, dato il carattere unitario del reato di bancarotta, non era consentito, in presenza di un giudicato su tale illecito, l’inizio di un nuovo e differente processo per ulteriori e diversi fatti di bancarotta accertati successivamente, ostandovi il divieto del bis in idem, in quanto questi ultimi fatti, pur non sovrapponibili naturalisticamente ai primi, erano comunque assorbiti nel disvalore dell’unico reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale già giudicato e non davano luogo a una pluralità di reati.
omissis
3. Con ordinanza del 7 ottobre 2010, la Quinta Sezione penale, alla quale il ricorso era stato assegnato ratione materiae, ne ha rimesso – ex art. 618 c.p.p. – la decisione a queste Sezioni Unite, rilevando un contrasto giurisprudenziale sulla natura giuridica del reato di bancarotta.
Da un lato, la tesi della concezione unitaria del reato, che ravvisa nella pluralità di fatti tipici, commessi nell’ambito della stessa procedura concorsuale, una circostanza aggravante e considera le diverse violazioni – in deroga alle norme sul concorso materiale di reati e sulla continuazione – come un solo reato, con l’effetto della operatività della preclusione di un secondo giudizio.
Dall’altro, la concezione pluralistica del reato, che ravvisa nei più fatti tipici descritti dalla norma incriminatrice fattispecie di reato autonome e ontologicamente diverse, le quali concorrono tra loro e sono unificate solo quoad poenam.
L’ordinanza di rimessione sottolinea che importanza centrale assume, nel rilevato contrasto di giurisprudenza, la disposizione dell’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f., a seconda che si ravvisi in essa la previsione di una vera e propria circostanza aggravante, sia sotto il profilo funzionale che sotto quello strutturale, o piuttosto una peculiare regolamentazione del concorso di reati e dell’istituto della continuazione, nella prospettiva di contenere entro limiti di ragionevolezza la pretesa punitiva dello Stato.
Segnala ancora che, se è razionale la scelta di politica criminale finalizzata a disciplinare in maniera peculiare il concorso di reati e a contenere il potere sanzionatorio del giudice in relazione a plurime e autonome fattispecie incriminatrici in materia di bancarotta patrimoniale, non è altrettanto razionale una interpretazione della disciplina speciale che, riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne precluda il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi in definitiva in contrasto con la logica del sistema penale e con gli art. 3 e 112 della Costituzione.
Sottolinea, infine, che la preclusione connessa al divieto del bis in idem opera soltanto in relazione allo “stesso fatto”, che ricorre quando v’è corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
4. Il Primo presidente, con decreto del 18 novembre 2010, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.
… omissis
2. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: se il delitto di bancarotta, nel caso in cui siano poste in essere più condotte tipiche nell’ambito di uno stesso fallimento, sia un unico reato, con l’effetto di un aumento di pena in funzione di circostanza aggravatrice, o se – invece – la pluralità di condotte di bancarotta dia luogo ad un concorso di reati, con conseguente esclusione del divieto di bis in idem per l’eventuale giudicato intervenuto su alcune delle indicate condotte.
I orientamento: le diverse violazioni come unico reato aggravato
3. La prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, nell’affrontare varie problematiche, sostanziali e processuali, con approcci interpretativi – in verità – non sempre omogenei e di corto respiro, perché incentrati su tematiche specifiche e comunque condizionati dalla lettera della disposizione di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f., privilegia la concezione unitaria del reato di bancarotta.
Tale orientamento evidenzia che il legislatore, collocando la pluralità dei fatti nell’ambito della tecnica sanzionatoria e qualificandola formalmente, con la richiamata norma, come circostanza aggravante, considera le diverse violazioni – in deroga alle norme sul concorso materiale dei reati e sulla continuazione – come un unico reato, posto che una circostanza non può che aggravare un solo fatto di reato, nel quale essa si innesta (Sez. 3, n. 2492 del 26/5/1959, imp. Jerussi; Sez. 5, n. 314 del 24/3/1972, dep. 15/6/1972, imp. Draghi; Sez. 5, n. 1431 del 20/11/1981, imp. Borselli; Sez. 5, n. 4403 del 14/1/1980, dep. 1/4/1980, imp. Testa; Sez. 5, n. 8390 del 4/6/1981, dep. 28/9/1981, imp. Picardi; Sez. 5, n. 9266 del 24/6/1988, dep. 15/9/1988, imp. Ricelli; Sez. 5, n. 10260 del 5/10/1981, dep. 13/11/1981, imp. Brandinelli; Sez. 5, n. 43 del 25/11/1983, dep. 4/1/1984, imp. Giovannoni; Sez. 5, n. 8988 del 1/6/1988, dep. 23/8/1988, imp. Termini; Sez. 5, n. 4431 del 14/3/1998, dep. 15/4/1998, imp. Calabro; Sez. 5, n. 9047 del 15/6/1999, dep. 15/7/1999, imp. Larini; Sez. 5, n. 10423 del 22/5/2000, dep. 2/10/2000, imp. Piana; Sez. 5, n. 4901 del 16/12/2002, dep. 3/2/2003, imp. Gazzani; Sez. 5, n. 38810 del 4/7/2006, dep. 22/11/2006, imp. Vassallo).
II orientamento: l’unificazione quoad poenam di fatti che conservano la loro autronomia ontologica
Secondo altro indirizzo interpretativo, l’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. prevede l’unificazione solo quoad poenam della pluralità dei fatti di bancarotta posti in essere nell’ambito della stessa procedura concorsuale, ma non esclude l’autonomia ontologica dei singoli episodi delittuosi; tale unificazione, pur esplicitamente qualificata come aggravante, costituisce in realtà un’ipotesi particolare di continuazione derogativa di quella ordinaria, consistendo la deroga nella determinazione dell’aumento di pena fino a un terzo (e non fino al triplo ex art. 81 c.p.) e nell’assoggettabilità al giudizio di comparazione di cui all’art. 69 c.p. (Sez. 5, n. 2588 del 16/10/1980, dep. 21/11/1980, imp. Caltagirone; Sez. 5, n. 2547 del 8/10/1981, dep. 16/2/1982, imp. Murgia; Sez. 5, n. 4913 del 21/11/1994, dep. 29/12/1994, imp. Migliavacca; Sez. 5, n. 32254 del 4/6/2003, dep. 31/7/2003, imp. Pazienza; Sez. 5, n. 26794 del 17/5/2008, dep. 3/7/2008, imp. Schiavone).
4. Entrambi gli orientamenti sono intrinsecamente connessi alla interpretazione della struttura del reato di bancarotta e, più esattamente, all’individuazione della relazione che intercorre tra la dichiarazione di fallimento e la molteplicità delle azioni tipiche poste in essere dal fallito.
principio della c.d. unitarietà della bancarotta
Il principio della c.d. unitarietà della bancarotta, secondo il quale il reato resta unico anche se realizzato attraverso una molteplicità di fatti, trova la sua genesi nell’antica concezione del fallimento come evento del reato, al quale si accompagnerebbero, in secondo piano e quasi in ombra, i fatti di bancarotta.
Alla luce di ciò, nella vigenza del codice di commercio del 1882, si sosteneva che il reato è sempre uno solo, anche nel concorso di più fatti; si ha sempre una sola e medesima lesione giuridica, epperò sarebbe un errore ravvisare in questi altrettanti reati distinti, che sono – invece – aspetti di un unico evento che la legge vuole punito.
Il codice di commercio francese del 1807, dal quale aveva tratto origine quello unitario, d’altra parte, non dava adito a perplessità: era previsto esplicitamente che si dichiarava colpevole di bancarotta il commerciante fallito che si trovasse in uno o più dei casi seguenti (artt. 533 e 593).
la c.d. teoria pluralista della bancarotta
Con l’entrata in vigore della legge 16 marzo 1942, n. 267, le critiche mosse alla concezione tradizionale del fallimento come evento del reato di bancarotta e il paritario rilievo dato ai singoli fatti tipici, espressione concreta della violazione degli interessi protetti, hanno determinato, per un verso, l’insorgere della c.d. teoria pluralista della bancarotta e, per altro verso, la necessità, anche per i sostenitori della contrapposta teoria, d’individuare la ragione del principio unitario nell’identità in concreto del bene leso da ogni fatto di bancarotta e nella conseguente identità dell’evento giuridico, che rimane unico a prescindere dalla molteplicità di quegli stessi fatti.
In sostanza, oggetto della punizione non è il fallimento, ma i singoli fatti di bancarotta, che ledono o pongono comunque in pericolo gli interessi dei creditori, sempre che l’imprenditore sia o sia stato dichiarato fallito, rappresentando tale dichiarazione una condizione di esistenza del reato (Sez. U del 25/01/1958, imp. Mezzo).
Il fallimento, infatti, non integra – di per sé – l’illecito penale della bancarotta, non fosse altro perché può trovare origine in cause non attribuibili in alcun modo all’imprenditore di riferimento (si pensi ad una grave crisi economica generale, al dissesto finanziario di una banca con la quale l’imprenditore opera, ad una guerra).
Può esservi fallimento senza che vi sia, quasi per automatismo, bancarotta. Ad integrare tale illecito concorrono, con pari incidenza, i fatti tipici previsti dalle corrispondenti norme incriminatici e la dichiarazione di fallimento, elemento quest’ultimo imprescindibile per la punibilità dei primi, che altrimenti sarebbero, come fatti di bancarotta, penalmente irrilevanti.
5. La questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite, per essere ragionevolmente risolta in aderenza al diritto positivo e alla ratio che ispira l’intero sistema, impone d’individuare la reale natura giuridica della disposizione di cui al comma secondo n. 1 dell’art. 219 l.f. e di apprezzare la configurazione delle singole condotte tipiche delineate dai precedenti artt. 216, 217 e 218, senza trascurare, ai fini che qui specificamente interessano, i riflessi processuali connessi alla disposizione di cui all’art. 649 c.p.p..
l’analisi del contenuto e della portata delle norme incriminatici (artt. 216, 217, 218) richiamate dall’art. 219, comma secondo, n. 1,
5.1. Preliminare è l’analisi del contenuto e della portata delle norme incriminatici (artt. 216, 217, 218 l.f.) richiamate dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f., la cui interpretazione ha dato luogo al contrasto giurisprudenziale.
E’ noto che vi sono disposizioni a più norme (o norme miste cumulative), che contengono diverse ipotesi incriminatici, aventi ciascuna una propria autonomia ontologica ed un’autonoma rilevanza penale, e norme a più fattispecie (norme miste alternative o fungibili), che viceversa prevedono un’unica ipotesi di reato e sono applicabili una sola volta anche in caso di realizzazione di più fattispecie, che degradano al rango di semplici modalità di previsione di un unico tipo di reato.
L’art. 216 l.f., in particolare, apprezzato nella sua complessa articolazione, è inquadrabile nella categoria della disposizione a più norme, prevedendo diverse ipotesi di reato assolutamente eterogenee tra loro per condotta, per oggettività giuridica, per gravità, per tempo di consumazione, per sanzione prevista:
a) bancarotta fraudolenta patrimoniale, contemplata dal n. 1 del comma primo, e cioè la distrazione, l’occultamento, la dissimulazione, la distruzione, la dissipazione di beni, nonché l’esposizione e il riconoscimento di passività inesistenti (diminuzione fittizia o effettiva del patrimonio), condotte queste che ledono l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia offerta dall’integrità patrimoniale dell’imprenditore;
b) bancarotta fraudolenta documentale, contemplata dal n. 2 del comma primo, che lede l’interesse dei creditori alla ostensibilità della situazione patrimoniale del debitore;
c) bancarotta preferenziale, contemplata dal comma terzo, che lede l’interesse dei creditori alla distribuzione dell’attivo secondo i principi della par condicio;
d) le anzidette figure criminose possono integrare fatti di bancarotta pre-fallimentare o post-fallimentare, a seconda che siano poste in essere prima o durante la procedura concorsuale (cfr. commi primo, secondo e terzo);
e) diversa è la collocazione temporale della bancarotta pre-fallimentare, la cui consumazione coincide con la sentenza dichiarativa di fallimento (condizione di esistenza del reato), rispetto a quella post-fallimentare, in cui la già intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento opera come presupposto del reato e la consumazione coincide temporalmente con le condotte vietate poste in essere;
f) differenziato è anche il trattamento sanzionatorio previsto: più grave per le ipotesi di bancarotta fraudolenta in senso stretto (comma primo, n. 1) e per le frodi nelle scritture contabili (comma primo, n. 2), meno grave per le indebite preferenze usate ai creditori (comma terzo).
L’art. 216 l.f., però, contiene anche norme a più fattispecie alternative o fungibili.
E’ il caso delle condotte di distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione di cui al comma primo n. 1, le quali, se hanno ad oggetto lo stesso bene, sono, per così dire, in rapporto di “alternatività formale”, di “alternatività di modi”, nel senso cioè che le diverse condotte descritte dalla legge sono estrinsecazione di un unico fatto fondamentale e integrano un solo reato, anche se vengono poste in essere, in immediata successione cronologica, due o più di tali condotte, che, essendo omogenee tra loro, ledono lo stesso bene giuridico (integrità del patrimonio del debitore insolvente): in tal caso, l’atto conforme al tipo legale resta assorbito dalla realizzazione, in contiguità temporale, di altro atto di per sé stesso tipico.
Analoghe considerazioni possono ripetersi per le ipotesi, pur esse omogenee, di esposizione e di riconoscimento di passività inesistenti (entrambe lesive dell’interesse specifico alla veridica indicazione del passivo).
In difetto della detta unitarietà d’azione con pluralità di atti, è indubbio che, anche tra fattispecie alternative, si ha concorso ogniqualvolta le differenti azioni tipiche siano distinte sul piano ontologico, psicologico e funzionale e abbiano ad oggetto beni specifici differenti.
Anche il comma primo, n. 2, prevede le fattispecie alternative della sottrazione, della distruzione o della falsificazione di libri o di altre scritture contabili, nonché della tenuta di tale documentazione in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, condotte che, se riconducibili ad un’azione unica, integrano un solo reato.
L’art. 217 l.f. è disposizione a più norme, prevedendo ipotesi di bancarotta semplice, riconducibili a condotte ontologicamente diverse e distinte tra loro:
a) spese personali o per la famiglia eccessive;
b) dissipazione del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;
c) operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;
d) aggravamento del dissesto con l’astenersi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento;
e) inadempimento delle obbligazioni assunte in sede di concordato preventivo o fallimentare;
f) omessa o irregolare tenuta dei libri e delle altre scritture contabili.
Non va sottaciuto che alcune di tali previsioni incriminatici sono strutturate normativamente in modo tale da comprendere tanto un solo fatto quanto una molteplicità di fatti: si pensi alle spese personali o per la famiglia eccessive (comma primo, n. 1), alle operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti (comma primo, n. 2), alla tenuta irregolare o incompleta dei libri e delle altre scritture contabili (comma secondo). In queste ipotesi, la molteplicità dei fatti, intesi come atti di un’unica azione, integra un reato unico.
L’art. 218 l.f. disciplina una sola fattispecie delittuosa: il ricorso abusivo al credito, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza dell’impresa commerciale.
L’analisi delle norme citate evidenzia che in esse sono previste plurime, distinte e autonome fattispecie delittuose, le quali, ad esclusione delle ipotesi a cui innanzi si è fatto cenno, sono in concorso materiale tra loro.
Si tratta ora di stabilire la disciplina applicabile al riguardo.
plurime, distinte e autonome fattispecie delittuose in concorso materiale tra loro: la disciplina applicabile
5.2. Non può farsi riferimento al sistema generale delineato dal codice penale (artt. 72 e ss.) in tema di concorso di reati, venendo, invece, in rilievo la norma specifica di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. e la natura giuridica della relativa disciplina.
Quest’ultima norma dispone che le pene stabilite nei precedenti artt. 216, 217 e 218 sono aumentate se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati.
Tale regolamentazione sembra, almeno formalmente, non discostarsi, in linea di massima, dalla direttiva tradizionale della unitarietà della bancarotta.
E’ necessario, però, cogliere, attraverso un’interpretazione corretta e aderente alla logica del sistema, la reale portata della previsione unificante, se cioè integri, sotto il profilo strutturale e al di là di quello funzionale, una effettiva circostanza aggravante, così come si evincerebbe dalla rubrica della norma, o piuttosto una peculiare disciplina del concorso di reati alla stregua del principio del cumulo giuridico in luogo di quello generale del cumulo materiale.
La configurazione unitaria della bancarotta ha trovato, come sopra precisato, la giustificazione più significativa nell’antica concezione del fallimento come evento del reato e ha avuto come supporto “naturale” la spiccata omogeneità dei comportamenti criminosi commessi dall’imprenditore nella fase della decozione.
Nella realtà contemporanea, con l’abbandono definitivo della concezione del fallimento come evento e in considerazione del fatto che i comportamenti dell’imprenditore insolvente possono essere estremamente eterogenei per tipologia e per offensività, deve ritenersi che i plurimi fatti di bancarotta nell’ambito del medesimo dissesto fallimentare, pur unificati normativamente nella previsione dell’art. 219, comma 2, n. 1, l.f., rimangono naturalisticamente apprezzabili, se riconducibili a distinte azioni criminose, e sono da considerare e da trattare come fatti autonomi, ciascuno dei quali costituisce un autonomo illecito penale.
E’ in rapporto, quindi, alla natura e alla eterogeneità delle fattispecie previste dalle norme incriminatrici che deve essere valutata e colta la reale portata dell’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f.
Tale norma postula l’unificazione quoad poenam di fatti-reato autonomi e non sovrapponibili tra loro, facendo ricorso alla categoria teorica della circostanza aggravante, della quale presenta sicuri indici qualificanti:
a) il nomen iuris, circostanze, adottato nella rubrica;
b) la generica formula utilizzata per individuare la variazione di pena in aggravamento (le pene […] sono aumentate) implica il necessario richiamo all’art. 64 c.p., che è l’unica disposizione che consente di modulare la detta variazione sanzionatoria.
Circostanza aggravante sul piano formale e funzionale – concorso di reati sul piano strutturale
E’ indubbio che, sul piano formale, si è di fronte a una circostanza aggravante.
In realtà, però, il riferimento formale e anche quello funzionale a tale categoria giuridica non sono coerenti con la connotazione strutturale della stessa.
Difetta, infatti, il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza.
Occorre, per configurare una circostanza in senso tecnico, che si sia in presenza di un elemento non essenziale del reato, di un quid cioè che può esserci o non esserci, senza che il reato venga meno nella sua previsione di base.
Si è obiettato che, nel caso in esame, il legislatore avrebbe considerato proprio la pluralità dei fatti di bancarotta come una circostanza aggravante.
E’ agevole replicare che i fatti sono tutti sullo stesso piano, ciascuno di essi delinea – secondo la corrispondente previsione tipica – un’ipotesi delittuosa e non v’è, quindi, alcuna ragione logica per assegnare ad uno o più di essi la funzione di circostanza, declassando così condotte tipiche di determinate fattispecie incriminatrici ad accadimento eventuale di altra fattispecie incriminatrice.
L’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. disciplina, nella sostanza, un’ipotesi di concorso di reati autonomi e indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante. Tale scelta appare chiaramente ispirata dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica.
Detta norma non dà vita a un reato unico nella forma del reato complesso ex art. 84, comma primo, seconda parte, c.p., con riferimento all’ipotesi in cui la legge considera […] come circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero, per se stessi, reato: il reato complesso, certamente costruito come reato unico a tutti gli effetti, è integrato da fatti-reato realizzati contestualmente (si pensi, esemplificativamente, al furto aggravato dalla violazione del domicilio, al danneggiamento aggravato dalla minaccia o dalla violenza concretizzatasi in sole percosse), mentre difetta tale contestualità nei fatti di bancarotta riconducibili a distinte azioni criminose.
Non può parlarsi neppure di reato abituale, considerato che tale categoria penalistica richiede la reiterazione nel tempo di condotte omogenee e una differenza qualitativa tra la volontà del fatto singolo e la volontà del fatto complessivo, mentre le condotte di bancarotta sono o possono essere eterogenee e la prospettazione soggettiva dell’agente non subisce mutamento alcuno per il moltiplicarsi delle condotte medesime.
Non va sottaciuto che è rinvenibile nel nostro sistema giuridico altra ipotesi accostabile all’interpretazione, che qui si privilegia, della norma in esame: il riferimento è all’art. 589, comma quarto, c.p., che, pur atteggiandosi apparentemente come circostanza aggravante, non è tale e non costituisce neppure un’autonoma figura di reato complesso, ma configura, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, un’ipotesi di concorso formale di reati, nella quale l’unificazione rileva solo quoad poenam, con la conseguenza che, ad ogni altro effetto, anche processuale, ciascun reato rimane autonomo e distinto (Sez. 4 n. 1509 del 15/12/1989, dep. 9/2/1990, imp. Mangili; Sez. 4 n. 10048 del 16/7/1993, dep. 8/11/1994, Rv. 195698,; Sez. 1 n. 175 del 7/11/1995, dep. 9/1/1996, imp. Ferraioli; Sez. 4 n. 12472 del 15/6/2000, dep. 1/12/2000, imp. Pellegrini; Sez. 4 n. 4738 del 29/10/2008, dep. 19/12/2008, imp. Pilato).
l’art. 219, comma secondo, n.1 è un’ipotesi di concorso di reati regolamentata in deroga alla disciplina generale sul concorso di reati e sulla continuazione
5.3. Conclusivamente, l’art. 219, comma secondo, n.1, l.f. altro non è che un’ipotesi di concorso di reati, icasticamente definita da una parte della dottrina come una sorta di continuazione fallimentare, regolamentata in deroga alla disciplina generale sul concorso di reati e sulla continuazione.
Non è un caso che l’ambito di operatività della norma coincide con quello dell’art. 81, comma secondo, c.p., così come modificato dall’art. 8 d.l. 11 aprile 1974, n. 99 (introdotto dalla legge di conversione 7 giugno 1974, n. 220): la norma codicistica fa riferimento sia all’inosservanza di ipotesi delittuose diverse, sia alla violazione della medesima disposizione di legge; la norma della legge fallimentare deve intendersi, come meglio si preciserà in seguito, applicabile sia in caso di “più fatti” costituenti reiterazione della medesima fattispecie tipica”, sia in caso di “più fatti” rappresentanti la realizzazione di situazioni differenti”.
La portata derogatoria della disciplina introdotta dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f., rispetto a quella generale di cui all’art. 81 c.p., si apprezza in maniera ancora più evidente, ove si consideri che, al momento dell’entrata in vigore della legge fallimentare, il reato poteva definirsi “continuato”, in base al testo originario dell’art. 81, comma secondo, c.p., soltanto in costanza di più violazioni della stessa disposizione di legge.
i singoli fatti di bancarotta, pur unitariamente considerati quoad poenam, conservano, ove ne ricorrano i presupposti, la loro autonomia sia sul piano ontologico che su quello giuridico
Il legislatore del 1942, quindi, facendo ricorso alla categoria giuridica della circostanza aggravante, che, come si è detto, è tale solo dal punto di vista funzionale, ma non da quello strutturale, ha inteso, per ragioni di favor rei, dettare una particolare disciplina della continuazione in tema di reati fallimentari, con l’effetto che i singoli fatti di bancarotta, pur unitariamente considerati quoad poenam, conservano, ove ne ricorrano i presupposti, la loro autonomia sia sul piano ontologico che su quello giuridico.
La concezione unitaria, che contrasta tale conclusione, riconducendo a unità fatti autonomi e diversi, finisce col precludere – dopo un’eventuale sentenza definitiva su un singolo fatto di bancarotta – l’accertamento completo di altri fatti emersi successivamente, si pone in contrasto con la logica del sistema penale e con gli artt. 3 e 112 Cost., determina conseguenze paradossali: esemplificativamente, una condanna per bancarotta preferenziale di scarso rilievo condurrebbe all’impunità di altri e più gravi fatti di bancarotta fraudolenta commessi dallo stesso soggetto nell’ambito dello stesso fallimento ed emersi solo successivamente al fatto già giudicato.
“più fatti” tra quelli previsti in “ciascuno” degli articoli suddetti
6. L’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. opera sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti indifferentemente dai precedenti artt. 216 e 217.
In relazione al primo aspetto, rileva la Corte che l’espresso richiamo fatto dalla norma in esame anche al reato di cui all’art. 218 l.f., che disciplina una sola fattispecie delittuosa (ricorso abusivo al credito), non lascia margini di dubbio sull’operatività della disposizione in caso di reiterazione della stessa condotta tipica.
Diversamente opinando, si determinerebbe una interpretatio abrogans del richiamo che l’art. 219 fa all’art. 218.
In relazione al secondo aspetto, vanno condivise, a superamento dell’esistente contrasto giurisprudenziale, le argomentazioni sviluppate da Sez. 5, n. 27231 del 3/6/2005, dep. 21/7/2005, imp. Laface e da Sez. 5, n. 3619 del 15/12/2006, dep. 31/1/2007, imp. Belsito.
Deve osservarsi, invero, che, di fronte al dato testuale non univoco (più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli), l’applicabilità dell’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. alla pluralità di fatti di bancarotta commessi, a prescindere se gli stessi siano contemplati nello stesso articolo o in articoli diversi, è imposta dalla necessità di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, perché, diversamente opinando, si determinerebbero, in contrasto con l’art. 3 Cost., situazioni di palese e irragionevole disparità di trattamento: ove si ritenga, infatti, che la norma in esame sia applicabile solo ai casi di concorso interno, quello cioè tra più fatti di bancarotta tutti semplici o tutti fraudolenti, mentre il concorso esterno tra fatti di bancarotta semplice e fatti di bancarotta fraudolenta rientrerebbe nella sfera di operatività dell’art. 81 c.p., si finirebbe col punire con maggiore asprezza chi abbia commesso un fatto di bancarotta fraudolenta e un fatto di bancarotta semplice, rispetto a chi abbia commesso più fatti di bancarotta fraudolenta, dovendo il primo soggiacere al più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 81 c.p.
Il reato rimane logicamente unico nelle ipotesi, già sopra richiamate, di condotte criminose in rapporto di “alternatività formale” o “alternatività di modi”, di condotte espressione di un’unica azione con pluralità di atti, di fattispecie costruite, per espressa previsione normativa, su una base strutturale unitaria, assimilabile a quella del reato abituale ma non coincidente con la stessa.
Estensione della disposizione ai fatti di bancarotta impropria
6.1. La peculiare disciplina di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. deve essere estesa anche alle ipotesi di c.d. bancarotta impropria, vale a dire ai fatti di reato previsti negli artt. 216, 217, 218 allorché siano commessi da persone diverse dal fallito (artt. 223, 224, 225 l.f.).
E’ vero che, sul piano della interpretazione letterale, tale estensione sembra insostenibile, non contemplando la disciplina della bancarotta impropria la normativa di cui all’art. 219 (e quindi anche del comma secondo n. 1) e non facendo quest’ultimo rinvio agli articoli 223 e seguenti.
E’ agevole, tuttavia, osservare, in aderenza al consolidato orientamento di questa Suprema Corte, che il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione, ricorrendo l’eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria. L’applicazione analogica dell’art. 219 l.f. ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all’imputato (Sez. 5. n. 561 del 17/3/1967, dep. 16/5/1967, imp. Folonari; Sez. 5, n. 1209 del 29/11/1968, dep. 31/1/1969, imp. Solaro; Sez. 5, n. 3297 del 08/1/1980, dep. 11/3/1980, imp. Riva; Sez. 5, n. 12531 del 25/10/2000, dep. 1/12/2000, imp. Mazzei; Sez. 5, n. 8829 del 18/12/2009, dep. 5/3/2010, imp. Truzzi).
L’esclusione del bis idem
7. La soluzione privilegiata, integrando una unità fittizia di reati, che in realtà concorrono tra loro, comporta conseguenze rilevanti sul piano processuale e, per la individuazione di tali effetti, la figura di unificazione legislativa deve necessariamente essere scissa nelle sue componenti.
E’ sufficiente ricordare che:
– la contestazione nel decreto che dispone il giudizio deve indicare ogni singolo fatto;
– ogni singolo fatto deve essere oggetto di accertamento in sede di istruttoria dibattimentale;
– ogni singolo fatto deve essere oggetto di un autonomo capo della decisione anche i fini dell’effetto devolutivo in sede di eventuale impugnazione;
– per ogni diverso e autonomo fatto di bancarotta che emerge nel corso di un processo riguardante altro fatto di bancarotta, relativo logicamente alla stessa procedura fallimentare, occorre procedere a nuova contestazione;
– la diversità ontologica dei singoli fatti, unificati fittiziamente dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f., si riflette sul giudicato e sul connesso problema dell’operatività dell’art. 671 c.p.p. in materia di applicazione in executivis della disciplina del reato continuato.
7.1. Sono questi due ultimi aspetti processuali, intimamente connessi tra loro, che assumono rilievo specifico nel caso rimesso alla cognizione delle Sezioni Unite.
Osserva la Corte che, poiché – secondo la concezione pluralista qui privilegiata – i diversi episodi di bancarotta nell’ambito dello stesso fallimento conservano la loro autonomia e la disciplina dettata dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. costituisce, sotto il profilo strutturale, non un’aggravante ma un’ipotesi particolare di continuazione derogativa di quella ordinaria, l’eventuale giudicato intervenuto su uno dei detti fatti non è di ostacolo alla perseguibilità di altro e diverso fatto di bancarotta relativo allo stesso fallimento.
A chiarire meglio la insussistenza, in tale ipotesi, del divieto del bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. è la nozione di medesimo fatto che la norma evoca.
L’identità del fatto sussiste quando v’è corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persone (Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005, dep. 28/9/2005, imp. Donati).
Non v’è certamente tale corrispondenza tra le varie ipotesi di bancarotta.
La bancarotta fraudolenta patrimoniale, quella fraudolenta documentale, quella preferenziale, le plurime e diverse ipotesi di bancarotta semplice, la bancarotta pre-fallimentare e quella post-fallimentare si concretizzano attraverso condotte diverse, determinano eventi diversi, hanno gradi di offensività non omologhi, sono sanzionate in modo differenziato, non tutte coincidono come tempo e luogo di consumazione (la bancarotta pre-fallimentare si consuma nel momento e nel luogo in cui interviene la sentenza di fallimento, mentre la consumazione di quella post-fallimentare si attua nel tempo e nel luogo in cui vengono posti in essere i fatti tipici).
7.2. A non diversa conclusione deve pervenirsi con riferimento alla previsione di cui all’art. 669 c.p.p. in tema di pluralità di sentenze di condanna irrevocabili pronunciate contro la stessa persona per il medesimo fatto.
Anche in questo caso, se più condanne irrevocabili sono state pronunciate contro la stessa persona per reati di bancarotta commessi nell’ambito dello stesso fallimento, in tanto può ordinarsi l’esecuzione della sentenza che ha inflitto la pena meno grave e revocarsi le altre, in quanto vi sia esatta coincidenza, nel senso innanzi indicato, tra i fatti-reato oggetto dei plurimi giudizi.
L’applicazione in sede esecutiva, ai sensi dell’art. 671 c.p.p., della peculiare disciplina di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. (sostitutiva di quella di cui all’art. 81 c.p.)
7.3. Una riflessione merita la questione concernente la possibilità di applicare l’art. 671 c.p.p. al caso in cui contro la stessa persona siano state pronunciate, in procedimenti distinti, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta riguardanti la medesima procedura concorsuale.
La detta norma menziona testualmente la disciplina del reato continuato e ha carattere eccezionale, nel senso che fa eccezione alla regola generale dell’intangibilità del giudicato, con l’effetto che non può essere applicata oltre i casi in essa previsti.
L’operazione ermeneutica, però, non può rimanere negli angusti limiti del dato testuale offerto dalla citata norma, ma deve essere di più ampio respiro, nella prospettiva di non vanificare la finalità che la norma persegue e di non determinare irragionevoli disparità di trattamento, che legittimerebbero dubbi di costituzionalità, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
Tale operazione deve tenere conto, innanzi tutto, che il vigente codice di rito, favorendo la separazione delle regiudicande, tende a recuperare in executivis quelle occasioni di riunificazione legislativa dei fatti di reato e di cumulo giuridico tra le pene che non siano state fruite in sede di cognizione; deve, inoltre, considerare che la previsione di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. configura, come si è detto, una particolare ipotesi di continuazione, c.d. “continuazione fallimentare”.
Sulla base di tali premesse, è agevole concludere che non vi sono ostacoli insuperabili per applicare in sede esecutiva, ai sensi dell’art. 671 c.p.p., la peculiare disciplina di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. (sostitutiva di quella di cui all’art. 81 c.p.) nel caso in cui nei confronti di uno stesso soggetto siano state emesse, in procedimenti distinti e relativi a un unico fallimento, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta, sempre che il giudice della cognizione non abbia già escluso la unificazione quoad poenam dei detti reati.
8. All’esito dell’analisi logico-sistematica della normativa esaminata, devono enunciarsi, in ossequio al disposto dell’art. 173, comma 3, disp. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:
più condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell’ambito di uno stesso fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico;
la disposizione di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1, l.f. non integra, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta una peculiare disciplina della continuazione, in deroga a quella ordinaria di cui all’art. 81 c.p., in tema di reati fallimentari;
deve escludersi, con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, la preclusione dell’eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale.
9. La sentenza impugnata, privilegiando implicitamente la concezione unitaria del delitto di bancarotta, si pone in contrasto con gli enunciati principi di diritto e perviene alla declaratoria, ex art. 649 c.p.p., di non luogo a procedere per precedente giudicato.
Il G.u.p. del Tribunale di Trieste non considera che gli episodi di bancarotta fraudolenta per distrazione oggetto del presente procedimento sono diversi e distinti da quelli già giudicati con la sentenza del 14 marzo 2006 (irrevocabile il 18 luglio 2006) dello stesso G.u.p., sicché i primi non sono sovrapponibili ai secondi e non sono inquadrabili nella nozione di medesimo fatto.
Ed invero, i fatti distrattivi per cui si procede (art. 216, comma primo, n. 1, l.f.) riguardano operazioni bancarie poste in essere dall’imputato a proprio vantaggio anche in periodo successivo alla dichiarazione di fallimento (condotte commesse fino al 13 febbraio 2006) e, quindi, si ipotizzano anche episodi di bancarotta post-fallimentare. La sentenza irrevocabile, invece, si è occupata di fatti di bancarotta preferenziale di cui all’art. 216, comma terzo, l.f. e di bancarotta semplice di cui all’art. 217, comma primo, n. 4, l.f.
Non ricorrono, pertanto, nel caso in esame, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice a quo, i presupposti di operatività della norma di cui all’art. 649 cod. proc.pen..
La sentenza in verifica deve, pertanto, essere annullata con rinvio, per nuova deliberazione, al Tribunale di Trieste, che dovrà adeguarsi ai principi di diritto enunciati e rivalutare, in piena libertà di giudizio quanto al merito, la vicenda.
E’ il caso di precisare che l’annullamento va disposto con rinvio, non ricorrendo alcuno dei casi tassativamente previsti dall’art. 620 c.p.p. per l’annullamento senza rinvio, il quale implica concettualmente la superfluità del nuovo giudizio, perché la decisione della Cassazione risolve ed esaurisce il thema decidendum, anche attraverso l’eventuale adozione di provvedimenti compatibili con la cognizione di legittimità. Nel caso in esame, invece, la riscontrata illegalità della decisione in relazione alla fattispecie concreta impone l’intervento del giudice di rinvio, che ha il compito di rinnovare la decisione sulla stessa fattispecie e di conformarla alla legge.
6. Concorso di circostanze attenuanti e recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, c.p.
C. cost. 15 novembre 2012, n. 251
omissis
1.– Il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, c.p.
La norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), perché, in determinati casi, condurrebbe «ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso»: il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche è punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità, al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la circostanza prevista dal quinto comma dell’art. 73, con la conseguenza che «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di offensività (art. 25, secondo comma, Cost.), che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconoscerebbe rilievo fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità sociale, implicando pertanto «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Infine, la norma censurata violerebbe «il principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)» (art. 27, terzo comma, Cost.), «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a sei anni di reclusione per la cessione di una singola e modesta dose di sostanza stupefacente non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
… omissis
3.– Nel merito la questione è fondata.
4.– L’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 c.p., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, c.p., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata», con la precisazione che «la questione si appunta sulla sola circostanza attenuante specificamente indicata, senza carattere di generalità», perché in altri casi il divieto può trovare giustificazione.
Per effetto della norma impugnata, ove secondo la valutazione del giudice debba essere applicata la recidiva reiterata, le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, devono essere invece punite con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Nell’attuale formulazione, l’art. 69, quarto comma, c.p. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, come nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, nella legge 6 febbraio 1980, n. 15) e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata.
Come è stato sottolineato da questa Corte, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale; alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.
La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990
5.– La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, c.p. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.
In altre parole, ove si potessero applicare i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, c.p. prima della modificazione operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, la pena da irrogare in un caso come quello in esame sarebbe, a seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato attenuato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, aumentato, a seconda dei casi, di sei mesi o di otto mesi per la recidiva, mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di cinque anni.
Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “lieve entità”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato. Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenza n. 249 del 2010).
La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.
Violazione del principio di uguaglianza
È da aggiungere che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “lieve entità”.
Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla considerazione che, come hanno ritenuto le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 giugno 2011, n. 34475), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti «costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73», che forma oggetto della previsione dell’art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, costituisce un reato diverso da quello oggetto del primo comma dello stesso articolo 74, relativo a un reato associativo analogo ma punito assai più gravemente perché concerne fatti di non “lieve entità”.
Violazione del principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.)
6.– È fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”.
L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, c.p. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
Questa conclusione non può essere confutata dal rilievo dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la previsione di trattamenti sanzionatori più severi per i recidivi reiterati non potrebbe condurre a un trattamento sanzionatorio di per sé sproporzionato. Invero, la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994).
7.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale.
C. cost. 18 aprile 2014, n. 105
omissis
1.– La Corte d’appello di Ancona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 648, secondo comma, c.p., sulla recidiva dell’art. 99, quarto comma, c.p.
La norma censurata, oltre che irragionevole, sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale molto diverso: il recidivo reiterato implicato in ricettazioni di normale o anche di rilevante gravità, al quale siano concesse le circostanze attenuanti generiche, verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di episodi di modesto disvalore, a cui siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dall’art. 648, secondo comma, c.p., con la conseguenza che la «rilevantissima differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte» verrebbe «completamente annullata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore».
Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto con il «principio di offensività, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al “fatto commesso”», attribuirebbe una rilevanza fondamentale all’azione delittuosa «per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione di pericolosità sociale», implicando «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo».
Infine, la norma censurata violerebbe il «principio di proporzionalità della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa)», previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., «perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»: la condanna a due anni di reclusione per la ricettazione di un solo bene, di modestissimo valore, non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata.
2.– La questione è fondata.
3.– L’art. 3 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 c.p., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, c.p., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 648, secondo comma, c.p., sulla recidiva dell’art. 99, quarto comma, c.p.
Per effetto della norma impugnata, nei casi in cui, secondo la valutazione del giudice, debba riconoscersi rilevanza alla recidiva reiterata, le ricettazioni «di particolare tenuità», per le quali l’art. 648, secondo comma, c.p., prevede la pena della reclusione da quindici giorni a sei anni e la multa sino a 516 euro, devono invece essere punite con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da 516 a 10.329 euro.
Come questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 251 del 2012), l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento, iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. «L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base», come nel caso regolato dall’art. 648, secondo comma, c.p.
È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», prevista dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 febbraio 1980, n. 15, e, «in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata» (sentenza n. 251 del 2012).
Il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso «non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012); alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.
4.– Anche nel caso in esame, infatti, come in quello concernente l’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), le conseguenze del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p. sulla recidiva risultano manifestamente irragionevoli, per l’annullamento delle differenze tra le due diverse cornici edittali delineate dal primo e dal secondo comma dell’art. 648 c.p. Nel caso in esame assume particolare rilievo non tanto la divaricazione tra i livelli massimi della pena detentiva prevista nei due commi, quanto, come ha rilevato la Corte rimettente, quella tra i livelli minimi, perché, per effetto della recidiva reiterata, il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di particolare tenuità (15 giorni di reclusione) viene moltiplicato per 48, determinando un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto per tale recidiva dall’art. 99, quarto comma, c.p., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.
L’incongruità di questo risultato appare evidente se si considerano i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, c.p., prima della modificazione (in genere diretta a favorire l’imputato) operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, quando l’aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame, infatti, la pena minima da irrogare sarebbe stata, a seconda del tipo di recidiva, di 22 giorni o di 25 giorni, vale a dire di 15 giorni per il reato attenuato previsto dall’art. 648, secondo comma, c.p., aumentato per la recidiva, a seconda dei casi, della metà o di due terzi (in base alla disposizione attualmente vigente, dato che prima era previsto un aumento minore), mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, determina un aumento di un anno, 11 mesi e 15 giorni.
Le differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 c.p. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite nel minimo edittale, assicurato al fatto di «particolare tenuità» (la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di rilevanza criminosa assolutamente modesta, talvolta al limite della contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza), «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato» (sentenza n. 251 del 2012). In altri termini due fatti, quelli previsti dal primo e dal secondo comma dell’art. 648 c.p., che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, determinando la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., «che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenze n. 251 del 2012 e n. 249 del 2010).
La recidiva reiterata «riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità» (sentenza n. 251 del 2012).
Inoltre, come ha rilevato la Corte rimettente, la norma censurata dà luogo ad una violazione del principio di uguaglianza, perché il recidivo reiterato autore di una ricettazione di normale o anche di rilevante gravità, da punire, in presenza delle attenuanti generiche, con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 648, primo comma, c.p., riceverebbe lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di «particolare tenuità».
5.– È fondata anche la censura relativa al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
L’art. 69, comma quarto, c.p., nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza una «deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenze n. 251 del 2012 e n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 648, secondo comma, c.p., impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di «particolare tenuità».
Come è stato già affermato da questa Corte (sentenza n. 251 del 2012), «la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni», e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 648 c.p. Perciò deve concludersi che «la norma censurata è in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena, che implica un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 341 del 1994)».
6.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, secondo comma, c.p., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p.
C. cost. 18 aprile 2014, n. 106
omissis
1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, con ordinanza del 15 ottobre 2013 (r.o. n. 275 del 2013), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, c.p., sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, quarto comma, c.p.
Il giudice a quo ricorda che la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), ricorrendo all’unitaria nozione di atti sessuali, ha unificato nella violenza sessuale le fattispecie di congiunzione carnale violenta e di atti di libidine violenti, previste dalla precedente normativa. Ad avviso della Corte rimettente, proprio «la “unificazione” in una sola [ipotesi] criminosa di ogni attentato alla sfera sessuale ha indotto il legislatore, per differenziare sul piano sanzionatorio le ipotesi meno gravi (rientranti secondo la previgente disciplina negli atti di libidine), a configurare una circostanza attenuante speciale», che ricorre quando il fatto di reato ha recato una minore offesa alla libertà sessuale della vittima.
La conclusione che l’attenuante dei casi di minore gravità concerna le condotte caratterizzate da una minore «intensità della lesione del bene giuridico tutelato» troverebbe conferma nella divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per la fattispecie base del primo comma dell’art. 609-bis c.p., per la quale è prevista una pena da cinque a dieci anni di reclusione, e per la fattispecie circostanziata del terzo comma del medesimo articolo, il quale stabilisce che «nei casi di minore gravità» la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Ad avviso del giudice a quo, quindi, la norma censurata sarebbe irragionevole e violerebbe il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto fatti anche di minima entità vengono, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell’art. 609-bis c.p., per le ipotesi di violenza più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalità, sia per il danno arrecato alla vittima, con la conseguenza che l’autore di condotte di minore gravità, che sia recidivo ex art. 99, quarto comma, c.p., è punito con la stessa pena prevista per chi pone in essere comportamenti ben più gravi sotto il profilo dell’offesa alla libertà sessuale della vittima.
Inoltre, la norma impugnata sarebbe in contrasto con il principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), perché, come è stato già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 251 del 2012, «l’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, c.p. […] attribuisce alla risposta punitiva i connotati di una pena palesemente sproporzionata e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato (sentenza n. 68 del 2012)», soprattutto con riferimento alle ipotesi di minore gravità previste dal terzo comma dell’art. 609-bis c.p., che si differenziano, rispetto a quelle delineate dal primo comma, per la minore offesa alla libertà sessuale cagionata dal fatto di reato.
omissis
3.– Nel merito, la questione è fondata.
4.– L’art. 3 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 c.p., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla circostanza prevista dall’art. 99, quarto comma, c.p., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, c.p., sulla recidiva reiterata.
L’art. 609-bis, terzo comma, c.p., prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale, che comporta una riduzione della pena base (reclusione da cinque a dieci anni) «in misura non eccedente i due terzi», sicché, come ha rilevato il giudice a quo, ove ritenuta sussistente, «la pena (applicandosi l’attenuante nella massima estensione) può variare da un minimo di 1 anno e 8 mesi di reclusione a un massimo di 3 anni e 4 mesi»; se però si applica la recidiva reiterata, i casi di violenza sessuale di minore gravità, per i quali l’art. 609-bis, terzo comma, c.p., prevede la pena della reclusione da un anno e otto mesi a tre anni e quattro mesi, devono essere puniti con la reclusione da cinque a dieci anni.
Come questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 251 del 2012), l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento, iniziata con l’art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 giugno 1974, n. 220, che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole. «L’effetto è stato quello di consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione, ma anche quello di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base», come nel caso regolato dall’art. 609-bis, terzo comma, c.p.
È rispetto a questo tipo di circostanze che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», prevista dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 (Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 febbraio 1980, n. 15, e, «in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti; ed è appunto questo il risultato che si è voluto perseguire con la norma impugnata» (sentenza n. 251 del 2012).
Il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono» (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento però sono possibili e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte «soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso «non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012); alterazione che, come si vedrà, emerge per più aspetti nella situazione normativa in questione.
5.– Come questa Corte ha già rilevato, la legge n. 66 del 1996, che ha riformato la disciplina dei delitti contro la libertà sessuale, ha realizzato una «concentrazione nell’unico delitto di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) delle fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine violenti, rispettivamente previste negli artt. 519 e 521 del testo originario del codice penale» (sentenza n. 325 del 2005) e, nel descrivere la condotta del nuovo delitto di violenza sessuale, l’attuale art. 609-bis c.p. impiega, quale termine di riferimento dell’attività costrittiva, l’espressione «atti sessuali», che costituisce il fulcro della nuova fattispecie incriminatrice, volta a sintetizzare, mediante una formula particolarmente ampia, le nozioni di congiunzione carnale e di atti di libidine presenti nella precedente normativa.
Proprio l’introduzione dell’unitaria nozione di atto sessuale – la quale, pur continuando «ad avere come punti di riferimento da un lato la congiunzione carnale e dall’altro gli atti di libidine, […] intende distaccarsi dalla fisicità e materialità della distinzione per apprestare una più comprensiva ed estesa tutela contro qualsiasi comportamento che costituisca una ingerenza nella piena autodeterminazione della sfera sessuale» – ha fatto sorgere «l’esigenza di introdurre una circostanza attenuante per i casi di minore gravità (art. 609-bis, terzo comma, c.p.). Mediante una consistente diminuzione (in misura non eccedente i due terzi) della pena prevista per il delitto di violenza sessuale (fissata, nel minimo, in cinque anni di reclusione), risulta così possibile rendere la sanzione proporzionata nei casi in cui la sfera della libertà sessuale subisca una lesione di minima entità» (sentenza n. 325 del 2005).
La circostanza attenuante prevista dal terzo comma dell’art. 609-bis c.p. per i «casi di minore gravità» si pone, pertanto, «quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato» (sentenza n. 325 del 2005). Peraltro, la concorde giurisprudenza della Corte di cassazione considera l’attenuante in esame applicabile «in tutte quelle fattispecie in cui avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale, personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì estesa anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati nell’art. 133 c.p.» (Cassazione, sezione quarta penale, 12 aprile 2013, n. 18662, nonché sezione terza penale, 13 novembre 2007, n. 45604 e 7 novembre 2006, n. 5002).
6.– Ciò posto, la censura relativa al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) è fondata.
L’art. 69, quarto comma, c.p., nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenze n. 251 del 2012 e n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 609-bis, terzo comma, c.p., impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire appunto attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il caso di «minore gravità».
L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, c.p., sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal terzo comma dell’art. 609-bis c.p., che viene annullata, attribuisce così alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012).
È stato già affermato da questa Corte (sentenza n. 251 del 2012) che «la legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni», e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 609-bis c.p.
La recidiva reiterata, infatti, «riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo». Sia nell’individuazione dell’attenuante dei casi di minore gravità, sia nella determinazione complessiva e finale della pena, insomma, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base non può essere «“neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità» (sentenza n. 251 del 2012).
Perciò deve concludersi che la norma censurata è in contrasto con la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra (sentenza n. 341 del 1994)» (sentenza n. 251 del 2012).
7.– Questa conclusione, peraltro, è resa ancor più evidente dalla notevole divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per la fattispecie base, prevista dal primo comma dell’art. 609-bis c.p., e per quella circostanziata, prevista dal terzo comma del medesimo articolo: nei casi di minore gravità infatti la pena è diminuita «in misura non eccedente i due terzi», con la conseguenza che, in seguito al riconoscimento dell’attenuante speciale in questione, il massimo della pena edittale, come ha rilevato il giudice rimettente, è, «in modo considerevole, inferiore al minimo della pena prevista per l’ipotesi di cui al comma 1 (anni 5)».
Anche nel caso in esame quindi, come in quello oggetto della sentenza n. 251 del 2012, dal divieto di prevalenza sancito dalla norma censurata derivano delle conseguenze manifestamente irragionevoli sul piano sanzionatorio, assumendo particolare rilievo la divaricazione tra i livelli minimi, rispettivamente di cinque anni, per il primo comma dell’art. 609-bis c.p., e di un anno e otto mesi, per il terzo comma dello stesso articolo. Così, per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante della minore gravità, l’imputato viene di fatto a subire un aumento assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, c.p., che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.
L’incongruità di questo risultato appare evidente se si considerano i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, c.p., prima della modificazione (in genere diretta a favorire l’imputato) operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, quando l’aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame, infatti, la pena minima sarebbe stata, a seconda del tipo di recidiva, di due anni e sei mesi o di due anni, nove mesi e dieci giorni, vale a dire di un anno e otto mesi per il reato attenuato previsto dall’art. 609-bis, terzo comma, c.p., aumentata, a seconda dei casi, della metà o di due terzi per la recidiva, cioè, rispettivamente, di dieci mesi o di tredici mesi e dieci giorni. Per contro il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, comporta l’applicazione della pena di cinque anni di reclusione, determinando un aumento di tre anni e due mesi.
8.– Anche la censura relativa al principio di uguaglianza è fondata, perché, come ha rilevato la Corte rimettente, fatti anche di minima entità vengono, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell’art. 609-bis c.p., per le ipotesi di violenza più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalità, sia per il danno arrecato alla vittima.
Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla giurisprudenza costituzionale che, come si è visto, giustifica l’introduzione dell’attenuante dei casi di minore gravità «quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato» (sentenza n. 325 del 2005).
9.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, c.p., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p.