di Eliana Benvegna
La figura dei “punitives damages” è uno degli istituti che, negli ultimi anni, ha maggiormente catturato l’attenzione dei giuristi. Si tratta di una figura che si è diffusa nel Nordamerica, già a partire dagli anni ’60, in seguito alla esplosione dei contenziosi in materia di responsabilità civile dovuta sia all’affermazione in diversi settori delle regole della responsabilità oggettiva, sia alla giurisprudenza sempre più incline a tutelare l’attore danneggiato (o la classe di attori). Quest’ultimo fenomeno ha visto in una prima fase, oltre all’elaborazione di ingegnosi metodi di imputazione della responsabilità, una sempre più frequente concessione di punitive damages con l’irrogazione di sentenze di condanna, aventi un dichiarato intento deterrente, per importi esorbitanti [1]
In Italia la delibazione di una sentenza straniera che condanna al risarcimento dei punitive damages impone una valutazione degli effetti prodotti in concreto dall’entità del risarcimento, non tanto in termini di mera comparazione quantitativa tra l’importo del risarcimento liquidato dalla corte straniera con quello che sarebbe stato liquidato in virtù della legge italiana, quanto in termini di “proporzionalità” tenendo conto di un complesso di fattori, quali il rapporto tra la componente compensativa e quella punitiva del risarcimento, la natura e la gravità sia dei danni sofferti dalla vittima dell’illecito, la condotta dell’autore [2]. Le condanne al pagamento dei punitive damages possono talvolta non soltanto essere eccessive ma anche abnormi o arbitrarie e tale criticità è stata fonte di un acceso dibattito dottrinale anche negli Stati Uniti. Ciò è stato all’origine di una “controriforma” sia sul piano legislativo a livello statale, essendo la tort law una materia di common law, con l’introduzione di massimali e parametri tali da sottrarre l’istituto agli umori delle giurie popolari, sia in giurisprudenza, con diverse pronunce della Corte suprema che hanno limitato la possibilità di irrogare condanne per importi spropositati [3].
La figura dei punitive damages è entrata nel panorama giuridico italiano in tempi relativamente recenti. Per la prima volta la Corte di Cassazione se ne occupa nel 2007 [4] negando il riconoscimento di una sentenza statunitense per contrasto con l’ordine pubblico. Tale orientamento contrario al riconoscimento delle sentenze di condanna al risarcimento di danni di natura non compensativa si era poi consolidato con una decisione della Corte di Appello di Trento [5] nel 2008 e con la sentenza della Corte di Cassazione (Prima Sezione) n. 1781 del 2012 [6].
Si ha un primo mutamento di rotta con la sentenza n. 7613 del 2015 [7], con la quale viene ammessa la delibazione in Italia di un provvedimento belga di astreinte e con la quale, pur affermando le differenze tra astreinte e punitive damages, la Suprema Corte afferma la funzione anche deterrente e/o sanzionatoria della responsabilità civile.
L’art. 64 della Legge 31 maggio 1995 n. 218 prevede che il riconoscimento di una sentenza straniera venga negato quando le sue disposizioni <<producono effetti contrari all’ordine pubblico>>, pertanto le pronunzie che avevano negato il riconoscimento in Italia delle sentenze statunitensi di condanna al pagamento dei punitive damages, facevano riferimento, pur senza approfondite riflessioni sull’argomento, ad una nozione di ordine pubblico intesa come <<principi giuridici fondamentali nell’ordinamento italiano>>.
In realtà la nozione di <<ordine pubblico>> può essere intesa in tre differenti accezioni [8].
Si parla di <<ordine pubblico interno>> con riguardo al limite per l’autonomia privata che è imposto dal codice civile e che comporta la nullità dei contratti contrari allo stesso. Taluni ritengono che esso coincida con le norme imperative ed inderogabili del diritto privato interno, secondo altri con i soli principi normati nella Costituzione ed, infine, secondo altri ancora con i <<principi fondamentali della comunità statale a cui esso si riferisce>>.
Con l’espressione <<ordine pubblico internazionale>> si intende, invece, un limite all’applicazione del diritto straniero o alla riconoscibilità di provvedimenti stranieri. Con riferimento all’ordinamento italiano, taluni autori hanno affermato che, dal punto di vista contenutistico, coincida con l’ordine pubblico interno, mentre altri autori lo considerano alla stregua di un’eccezione allo scopo generale della disciplina internazionalprivatistica (che è quello che consentirebbe l’applicazione di un certo sistema di diritto straniero a situazioni che siano ad esso riconducibili per garantire l’uniformità delle soluzioni) e che, pertanto, esso debba essere applicato solo quando sia strettamente necessario.
Infine, quando si parla di <<ordine pubblico transnazionale>> o <<veramente internazionale>>, il riferimento va ad un insieme di principi che caratterizzano il commercio internazionale, applicati solitamente nell’ambito degli arbitrati commerciali internazionali e che trovano origine sia nel diritto internazionale pubblico che negli usi propri degli scambi internazionali.
Si tratterebbe, di conseguenza, sia di norme che tutelano diritti umani fondamentali, che di regole basiche del commercio internazionale, come il divieto di pirateria, contrabbando e corruzione.
All’anzidette definizioni si va progressivamente affiancando il concetto di <<ordine pubblico dell’unione europea>>, consistente in un meccanismo di tutela dei valori fondamentali dell’Unione che trovano origine nei trattati istitutivi e che devono essere salvaguardati innanzitutto dai giudici degli stati membri [9].
A partire dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 19599/2016 [10], si assiste ad una evoluzione del concetto di ordine pubblico, se prima era inteso come espressione di un limite riferibile al solo ordinamento giuridico nazionale, comincia ad essere sempre più ispirato ad una maggiore apertura verso la comunità internazionale.
Si comprende così che “se l’ordine pubblico si identificasse soltanto con quello interno, le norme di conflitto sarebbero operanti soltanto ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando così l’eterogeneità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato” [Cass. civ. 19599/16].
Questo concetto di ordine pubblico è stato sostenuto anche da una parte della dottrina civilista italiana favorevole ad una sua globalizzazione [11].
La chiave di volta è rappresentata dalla sentenza 16601/2017 [12] che, prende atto della complessità della materia causata dall’intreccio della normativa interna con i principi di origine internazionale, al contempo pone un freno alle tendenze globalizzatrici che tendono a svuotare di contenuto la nozione di ordine pubblico internazionale (cosi come tradizionalmente intesa).
L’anzidetta sentenza risulta importante non soltanto per la definizione di ordine pubblico accolta, ma altresì per l’approccio metodologico seguito a tal fine.
Le Sezioni Unite – ancor prima di discutere il rapporto tra danni punitivi e ordine pubblico internazionale – hanno condotto una dettagliata analisi della natura e delle funzioni della responsabilità civile nell’ordinamento italiano al fine di ricavare i principi fondanti della materia. Partendo dalle sentenze delle Cassazione che in passato si erano dichiarate contrarie alla compatibilità dei danni punitivi con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano in tema di responsabilità civile (la quale si riteneva avesse una sola funzione compensativa), la decisione passa ad esaminare le pronunce giurisprudenziali ed i provvedimenti legislativi da cui si evince che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento alla base delle scelte del legislatore. Non ci si sofferma in questa sede sui vari rimedi risarcitori, con funzione anche sanzionatoria, elencati nella sentenza 16601/2017 nella quale viene riconosciuta la natura polifunzionale della responsabilità civile, in quanto il tema è stato ampliamento e spregevolmente sviluppato da vari autori [13].
Si afferma, dunque, che la polifunzionalità della responsabilità civile possa oggi essere assunta a punto di riferimento concettuale in tema di funzioni del risarcimento del danno.
Le Sezioni Unite ritengono, dunque, che l’ordine pubblico internazionale, nella materia de qua, sia sia evoluto e che la precedente natura meramente compensativa si sia trasformata e che adesso non costituisca più un ostacolo all’accoglimento di istanze giuridiche straniere basate su una visione sanzionatoria della responsabilità civile [14]. Si parte, quindi, dal dato normativo dell’ordinamento interno per giungere ad enucleare i principi fondanti che vengono poi concretizzati per valutare la possibilità di dare accoglimento nel nostro ordinamento a valori e provvedimenti stranieri.
Occorre, tuttavia, tenere distinta la questione relativa alla riconoscibilità in Italia delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei punitive damages dalla possibilità, per il giudice italiano, di irrogare condanne a risarcimenti di natura non compensativa, assimilabili ai predetti punitive damages, in controversie soggette al diritto italiano.
Il principio di legalità, che costituisce parametro di valutazione della conformità all’ordine pubblico di sentenze straniere, delimita anche l’area della discrezionalità del giudice italiano. Dato per certo che <<la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento>>, rimane altresì fermo il principio che <<questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma II, nonché l’art. 7 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali>> [15]. Per cui la possibilità di condanna a risarcimenti di natura non compensativa, con valenza deterrente e/o sanzionatoria, richiede una <<intermediazione legislativa>> e non può essere lasciata alla mera discrezionalità del giudicante [16].
L’esigenza dell’interpositio legislatoris si spiega agevolmente in considerazione dell’appartenenza dell’ordinamento italiano alla famiglia dei sistemi del civil law, laddove nel sistema statunitense (di common law), terra d’elezione dei danni punitivi, al potere giudiziario è stato (ed è) pacificamente riconosciuto il potere di creare autonomamente simili rimedi sanzionatori [17].
Nell’ordinamento italiano, espressamente menzionata dalla sentenza n. 16601/2017, una delle fattispecie normative che hanno provveduto a “dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento” [18] è l’art. 96, comma 3, c.p.c. [19], in cui si coglie un’indubbia “finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici” [20].
L’art. 96, comma 3, c.p.c., si inserisce nell’idea secondo la quale i danni punitivi inducono a considerare dimensioni collettive (rilevanti sul piano giuridico e spesso anche sul terreno etico-sociale) della vicenda, presentandosi come “una forma di ‘rivincita’ del corpo sociale unitariamente considerato nei confronti di una violazione grave” [21].
Sul punto si evidenzia la recente ordinanza della Corte di Cassazione 16898/19 [22] che giunge a valle di un percorso giurisprudenziale di “assorbimento” dei c.d. danni punitivi, forma di risarcimento aggiuntive di carattere sanzionatorio tipiche di altri ordinamenti. Tale evoluzione ha condotto la Suprema Corte a transitare da un giudizio di compatibilità di questi strumenti con l’ordine pubblico, ex art. 64 L. 218/1995, ad una sovrapposizione quasi completa fra queste misure di deterrenza ed altre figure esistenti nel nostro ordinamento, al fine di motivare e giustificare interpretazioni all’avanguardia che, probabilmente, possono rintracciarsi già al di qua dei nostri confini nazionali.
Nell’anzidetta ordinanza gli ermellini richiamano precedenti arresti giurisprudenziali ed affermano che “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017) e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione”. Ritiene la Suprema Corte che configurino atteggiamenti sanzionabili, ai sensi dell’art. 96, comma III, c.p.c. e dunque abuso del diritto la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della impugnata sentenza, o completamente privo dell’autosufficienza, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348 ter u. co. c.p.c. che ne esclude la invocabilità, oppure ancora contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia.
In tali ipotesi, considerato che deve essere universalmente garantito l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (art. 6 CEDU), nonché tutelato il principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), è necessario sanzionare l’abuso dello strumento giudiziario creando strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie.
Seppure gli Ermellini abbiano richiamato la lista stesa dalle precedenti Sezioni Unite del 2017, nella quale l’art. 96, comma III, c.p.c. figura tra gli strumenti con funzione di deterrenza, deve ritenersi che detta norma non costituisca un provvedimento di condanna al risarcimento dei danni punitivi, intesi nella originaria accezione statunitense, né tantomeno una forma di responsabilità oggettiva con natura sanzionatora, in quanto proprio in una logica di deterrenza si richiederebbe la presenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa che, invece, in questo caso non sono richiesti.
Sulla legittimità e sulla natura sazionatoria della norma de qua si era pure pronunziata la Consulta affermando che “l’art. 96, comma 3, c.p.c., che, a differenza dei primi due commi della stessa norma, prevede una disposizione di carattere non risarcitorio, ma sanzionatorio, non è viziata da incostituzionalità, per violazione degli art. 3, 24 e 111 cost., nella parte in cui stabilisce che la condanna debba essere pronunciata in favore della controparte e non dell’erario” [23]. Rimane, tuttavia, discutibile il fatto che il legislatore, nei casi in cui abbia previsto delle pene private poste a tutela di interessi (anche) sovraordinati abbia sempre provveduto ad indicare dei parametri, seppur non aritmeticamente, per la liquidazione del quantum, mentre l’art. 96, comma 3, c.p.c. lascia ampia discrezionalità al giudicante. Pertanto, è difficile immaginare finanche un qualche controllo ex post, in sede di impugnazione, di una statuizione che, intesa quale pienamente discrezionale, non è controllabile, fermi restando ovviamente limiti imprescindibili di proporzionalità e ragionevolezza, di cui si accenna nella stessa ordinanza 16898/2019, nella quale la somma ex art. 96, comma 3, c.p.c. è quantificata all’incirca, in termini di proporzionalità (cfr. Cass. SU 16601/2017), in misura pari alla metà dei compensi liquidati in relazione al valore della causa.
___________________________________________________________________________________[1] Alberto Scaravalle, Cronaca di una sentenza annunciata (per gli internazionalprivatisti), in Enrico Gabrielli e Angelo Federico (a cura di), Dottrina e attualità – I danni punitivi dopo le Sezioni Unite, Giurisprudenza Italiana – ottobre 2018, 2283.
[2] Marco Lopez De Gonzalo, La Corte di Cassazione cambia orientamento sui punite damages, in Diritto e Commercio internazionale, fasc. 3, 2017, pag. 714.
[3] In tema Corte Suprema nei casi BMW of North America v. Gore (in Foro it. 1996, IV, c. 421, con nota di G. Ponzanelli), State Farm Mutual Automobile Insurance v. Campbell (in Foro it. 2003, IV, c. 355 con nota di G. Ponzanelli), Philip Morris Usa c. Williams (in Foro it. 2008, c. 178, con nota di G. Ponzanelli).
[4] La Cassazione Civile, sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183, aveva affermato il principio secondo il quale “ritenuto che nell’ordinamento italiano alla responsabilità civile è estranea l’idea della punizione, fondandosi il risarcimento del danno sull’esistenza di una lesione e sulla prova delle conseguenze negative sofferte dal danneggiato, e rimanendo irrilevanti, ai fini del risarcimento, la condotta del danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato; ritenuto che la clausola penale non ha natura e finalità punitive, assolvendo alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tanto è vero che, se l’ammontare della clausola penale venga a configurare, secondo l’apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso od uno sconfinamento dell’autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotto; ritenuto che l’apprezzamento del giudice italiano, in sede di delibazione di una sentenza straniera, sull’eccessività dell’importo liquidato per danni dal giudice estero, con finalità punitive, consiste e si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice della delibazione, ed insindacabile, se congruamente e logicamente motivato, in sede di legittimità; ritenuto che è incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto nordamericano dei cc.dd. danni punitivi (“punitive damages”), istituto, fra l’altro, non riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali e morali; ritenuto che la clausola penale di cui all’art. 1382 c.c., istituito con scopi punitivi incompatibili con un sindacato discrezionale del giudice (italiano) della delibazione sulla sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito; ritenuto, infine, conclusivamente, che nel nostro ordinamento la risarcibilità del danno è sempre condizionata all’accertamento delle sofferenze o delle lesioni inferte dall’illecita condotta altrui e non può considerarsi provata “in re ipsa”; ritenuto tutto quanto precede, non può essere delibata, perché contraria al nostro ordine pubblico, la sentenza nordamericana che, nel risarcire il danneggiato, abbia liquidato una somma ingiustificatamente sproporzionata (per eccesso) rispetto al danno subito. (Nella specie, era stata impugnata per cassazione la pronuncia di rigetto dell’istanza di delibazione di una sentenza statunitense che aveva condannato il produttore di un casco protettivo utilizzato dalla vittima di un incidente stradale; la sentenza aveva accertato il difetto di progettazione e costruzione della fibbia di chiusura del casco ed aveva liquidato i danni secondo criteri che il giudice della delibazione aveva ritenuto propri dell’istituto dei danni punitivi (“punitive damages”) e, come tali, incompatibili con il nostro ordine pubblico)”; in Diritto di famiglia e delle persone, (II) 2010, 2, 547.
[5] Corte di Appello di Trento, 16 agosto 2008, in Danno e reso. 2009, p. 92, con nota di G. Ponzanelli e in Corr. giur. 2009, p. 523, con nota di P. Fava.
[6] Cassazione Civile, sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1781, Ruffinatti c. Oyala-Rosado, in Foro it. 2012, I, c. 1449 con nota di r. De Hyppolitis e in Danno e resp., con nota di G. Ponzanelli.
[7] Cassazione Civile, sez. I, 15 aprile 2015, n. 7613, in Foto it. 2015, I, c. 3951, con nota di A. Mondini; in Banca, borsa, tit. credo. 2015, p. 674 con nota di F. Benatti, in Resp. civ. prev. 2015, p. 1899, con nota di A. Venchiarutti.
[8] P. Rossi, Pubblic Policy and Enforcement of Foreign Awards: An Appraisal of Chinese Judicial Practice, in Diritto del Commercio Internazionale, 2017, p. 321-322 ss.
[9] Zarra, L’ordine pubblico attraverso la lente del giudice di legittimità: in margine a Sezioni Unite 16601/17, in Diritto del commercio Internazionale, fasc. 3, 2017, p. 722.
[10] Corte di Cassazione, sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599. Commentata da P. Di Marzio, Figlio di due madri?, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 2017, p. 298 ss.
[11] Sul punto v. M. Grondona, Il problema dei danni punitivi e la funzione degli istituti giuridici, ovvero: il giurista e la politica del diritto, in giustiziacivile.com, approfondimento del 30 maggio 2017, p. 8 ss.; L. Nivarra, Brevi considerazioni al margine dell’ordinanza di rimessione alla Sezioni Unite sui <<danni punitivi>>, in Diritto civile contemporaneo, 30 gennaio 2017, p. 2.
[12] Corte di Cassazione SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601, in DeJure.
[13] Sul punto v. A. Pisani, <<Delitto e castigo>>: appunti sui rimedi risarcitori ultracompensativi nel vigente ordinamento, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 3, 1 marzo 2019, pag.1036.
[14] Zarra op. cit.
[15] Cass. civ., 6 maggio 2015, n. 9100, M.G. c. Curatela Fall. Utens, in DeJure.
[16] In questo senso cfr. F. Benatti, Danni punitivi e abuso del diritto, in Contr. imp. 2015, p. 866, C. Scogliamiglio, Principio di effettività, tutela civile dei diritti e danni punitivi, in Resp. civ. prev. 2016, p. 1134, G. Ponzanelli, Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi, in Danno e resp. 2016, p. 838.
[17] D’Andrea, Principio di ragionevolezza e danni puntivi: la prospettiva costituzionale, in Enrico Gabrielli e Angelo Federico (a cura di), Dottrina e attualità – I danni punitivi dopo le Sezioni Unite, Giurisprudenza Italiana – ottobre 2018, 2288.
[18] In questi termini, Cass., Sez. un. 6 maggio 2015, n. 9100, in Giur. It., 2015, 1417.
[19] Ai sensi del quale “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la part soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. Con riguardo a tale disposizione, sottolinea “l’enorme potenzialità dello strumento risarcitorio” N. Sciarratta, La Cassazione su astreinte, danni punitivi e (funzione della) responsabilità civile, in Dir. Civ. Cont., 7 luglio 2015, 9.
[20] Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152, in Foro it., 2016, I, c. 2639.
[21] G. Ponzanelli, I punitive damages nell’esperienza nordamericana, p. 442.
[22] Cassazione civile Ord., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16898, in DeJure; Guida al Diritto 2019, 30, 25; Diritto & Giustizia 2019, 26 giugno.
[23] Sul punto M. Di Marzio, Responsabilità aggravata: per la Consulta il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. ha funzione sanzionatoria; in ilprocessocivile.it, fasc., 30 giugno 2016.