Riflessioni a margine di un film drammaticamente attuale: Detenuto in attesa di giudizio
Il 29 maggio sarà proiettato presso la Casa Museo di Alberto Sordi il film “Detenuto in attesa di giudizio” diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi. L’evento è organizzato dall’associazione culturale Visioni & Illusioni, presidente Ettore Spagnuolo, presidente onorario Giuliano Montaldo.
Il film – denuncia in questione uscì nelle sale nel 1971 suscitando scalpore poiché, per la prima volta, un’opera cinematografica svelava senza mezzi termini l’arretratezza e la drammatica inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiano dell’epoca.
La celebre frase: “Signor Di Noi vuole accomodarsi un momento in ufficio? È una semplice formalità…” è solo l’inizio di una lunga serie di vicissitudini per il protagonista.
La pellicola in commento è una delle rappresentazioni interpretate dal grande attore protagonista su copioni di avveniristica e drammatica attualità, come Tutti dentro, precorritore di “quel sinistro tintinnar di manette”con cui il presidente Scalfaro stigmatizzò con efficace sintesi onomatopeica, un certo giustizialismo mediatico- forcaiolo, che della giustizia è la tragica deformazione.
Di tale deriva vittime furono -tra i più noti- Enzo Tortora, Raul Gardini e purtroppo tanti altri meno noti, morti per infermità contratte in seguito alla ingiusta detenzione patita, o suicidatisi per la vergogna . Una lunga scia di famiglie distrutte, di reputazioni irrimediabilmente infangate, di dignità calpestate, senza che i responsabili di tutto ciò fossero chiamati a rispondere di decisioni adottate in spreto ai valori fondanti della nostra Costituzione, come di quella europea.
La rappresentazione cinematografica di cui trattiamo, nella più o meno inconsapevole scia di una letteratura pedagogica, che ebbe già nella Storia della colonna infame del Manzoni il suo ideale prototipo, fu una sorta di film-inchiesta sulle anomalie del sistema giudiziario e sulle condizioni disumanizzanti delle carceri. Si apre con un banale controllo alla frontiera di un piccolo imprenditore, il citato geometra romano Giuseppe Di Noi, che con la famiglia dopo tanti anni di permanenza in Svezia per lavoro, decide di regalarsi una breve vacanza nella natia Italia.
Il protagonista della surreale vicenda, dopo il trasferimento in Svezia, non avendo ricevuto alcuna comunicazione internazionale riguardo ad un mandato di comparizione a suo carico, una volta varcato il confine italiano è tecnicamente ritenuto” latitante”.
Il tutto nasce dall’agire di un giudice istruttore in cerca di clamore mediatico (siamo nel 1971), il quale aveva spiccato un mandato di cattura contro il Di Noi , per il crollo accidentale del viadotto di una superstrada (dovuto a bradisismo) – da lui progettato- in seguito al quale aveva trovato la morte un cittadino tedesco.
La felicità dello sventurato vacanziere, si traduce repentinamente in incubo, innanzi a quello che avrebbe dovuto essere un normale controllo alla frontiera. Inizia viceversa ,un lungo calvario nell’incredulità di un’accusa di omicidio colposo, che lo accompagnerà con ritmi incalzanti in base all’ errore giudiziario, per cui egli viene arrestato al confine di Stato senza che gli venga fornita alcuna delucidazione ed è portato via a sirene spiegate, ammanettato e tradotto in prigione. Dopo tre giorni di carcere, apprende di essere accusato di “omicidio colposo ” di un cittadino tedesco da lui mai conosciuto .
Segue l’interlocuzione con un’ algida ed ottusa burocrazia, la presa delle impronte digitali, un’umiliante ispezione corporale, l’isolamento giudiziario in una fetida cella. Si alternano secondini pieni di boria e- come da stereotipo- rigidamente siciliani o pugliesi, con carabinieri – parimenti da stereotipo- rigorosamente piemontesi.
Il detenuto viene portato in treno da un carcere all’altro dell’Italia, sotto lo sguardo disgustato della gente comune, che grida con qualunquismo da bar dello sport all’indirizzo dei carcerati, fermi in una stazione di transito “vi dovrebbero tagliare le mani!”. Chiede di essere interrogato dal magistrato, ma inutilmente: sbatte contro il muro di gomma di procedure infinite, di inesorabili inerzie , mentre un compagno di sventura gli dice”calmo, devi stare sempre calmo!Altrimenti dal carcere non uscirai mai”.
E’ una sorta di discesa agli inferi, in prigioni della vita e dell’intelligenza, in una serie di gironi danteschi di Malebolge, che vanno dall’ottuso direttore del carcere(un Lino Banfi niente affatto comico, ma oggettivamente ridicolo nel soggetto magistralmente interpretato), per il quale anche la partecipazione dei detenuti alla Messa con la risposta corale alle preghiere del celebrante, diventano un “fatto eversivo”,in quanto il Regolamento carcerario non consentiva ai reclusi di parlare in nessuna occasione.
La liturgia della Messa in lingua nazionale, introdotta nel 1965, era (ed è)fondata sulla costante interlocuzione tra il Celebrante ed il popolo dei fedeli, nessuno escluso.
Nella narrazione filmica segue la rivolta di tutti coloro che erano da lungo tempo in attesa di essere sentiti dal giudice competente, con una fuga generale, cui peraltro non partecipa Sordi; ma che ciò nonostante viene tradotto insieme ai rivoltosi in un nuovo carcere, dove viene messo in una cella in cui impera la brutalità di pericolosi ergastolani. Egli reagisce ad un loro tentativo di aggressione con la forza della disperazione, finendo per essere ricoverato come pazzo nella “quiete”di un manicomio giudiziario.
Verso la fine della proiezione, si svela finalmente l’equivoco che ha condotto il protagonista, onesto cittadino e padre di famiglia, ad essere vittima di una sorta di ingranaggio automatico e di prassi consolidate, in spreto ad una doverosa previa verifica dei presupposti che avrebbero dovuto giustificare la privazione della libertà nella fase investigativa.
Scarcerato, il frastornato Di Noi rientra nella normalità della vita quotidiana, potendo finalmente riabbracciare i figli e la moglie, la cui caparbietà ha contribuito in maniera determinante alla fine dell’incubo. Esce un uomo distrutto ed il film si conclude con il transito alla frontiera dove tutto era iniziato con le stesse rassicuranti parole del poliziotto:”non si preoccupi, è solo un banale controllo”.
Oggi, il quadro di riferimento è dato dal c.d. “giusto processo”. Quel principio giuridico oggi costituzionalizzato sia a livello nazionale che sovranazionale[1].[2]
A ben vedere, però, l’aspirazione ad un giusto processo risale all’esperienza giuridica romana, che sottolinea come tale esigenza fosse particolarmente sentita, sia sul piano terminologico, sia in relazione al concreto svolgimento dell’attività giurisdizionale, che mirava, per tale via, all’affermazione della iustitia.
Ma difficilmente si coglierebbe il senso delle nuove disposizioni costituzionali senza inquadrarle in più lungo processo riformatore iniziato con l’emanazione del vigente codice di procedura penale. Detto è stato approvato con il D.P.R. 22/9/1988 n. 447 (denominato codice Vassalli dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca) ed è entrato in vigore il 21 ottobre 1989.
Il nuovo codice attua un radicale mutamento di modello basandosi ancora oggi (pur dopo le modifiche e integrazioni a esso apportate) sui princìpi del modello accusatorio,continuando a contrapporsi al processo penale di tipo inquisitorio introdotto con il codice di procedura penale del 1930 (c.d. codice Rocco dal cognome del Ministro della Giustizia dell’epoca), rimasto in vigore per circa sessanta anni.
Nel trascorso sistema processuale che attribuiva al giudice il potere di attivarsi d’ufficio per ricercare i reati ed acquisirne le prove, la denominazione attribuita al sistema derivava dall’organo che prendeva la correlata iniziativa, vale a dire il magistrato inquisitore.
Il modello oggi vigente di processo penale, nell’applicare la legge sostanziale persegue contemporaneamente la funzione di salvaguardare la collettività dalla delinquenza e- per converso- di garantire una più efficace difesa all’accusato, riducendo il rischio di una condanna ingiusta, quale risultato del precedente squilibrato rapporto tra i poteri dell’accusa e quelli della difesa, in favore dei primi.
Le due posizioni dialettiche rivestono pari importanza, in quanto non bisogna incorrere nell’errore che pone la tutela della collettività nel suo insieme, ad un livello superiore rispetto a quello della libertà del singolo, presunto reo.
Corollario di siffatto sviamento logico, è che l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine sociale, dovrebbe intrinsecamente ritenersi preminente rispetto a quello della difesa dell’accusato, che rivestirebbe- viceversa- una natura meramente privatistica, e quindi recessiva rispetto al primo.
Vero è che ad ogni cittadino potrebbe accadere di essere inquisito da innocente od avendo commesso un fatto meno grave di quello ascrittogli.
Il vigente sistema accusatorio è ispirato ad una più equilibrata dialettica, avendo collocato i poteri dell’accusa e quelli della difesa su di un livello tendenzialmente paritetico, in “un dialogo processuale” volto all’accertamento della verità fattuale da parte del giudice di merito, organo super partes.
E’ sempre attuale l’insegnamento di Montesquieu: “perché non si possa abusare di un potere, bisogna che, per le disposizioni delle cose, il potere arresti il potere”[3]
Tra le più importanti modifiche apportate al sistema rientrano l’inserimento nella Costituzione (art. 111)[4] dei princìpi del “giusto processo” : “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. In base al nuovo testo di detto articolo, il processo penale può considerarsi “giusto” (= “equo”, stando al testo della Convenzione Europea ) quando: 1) E’ legalmente configurato (ossia è regolato da norme introdotte da una legge e non da fonti a essa subordinate : quali possono essere i regolamenti, i decreti ministeriali, le circolari …).; 2) Ha una ragionevole durata (prevede la concentrazione e la continuità tra le varie fasi e i vari gradi del processo) ; 3) Si svolge davanti ad un giudice terzo ed imparziale, vale a dire un magistrato che si configura come “arbitro” di una “contesa” tra parti, nella quale egli è portatore di un unico interesse: quello alla corretta applicazione della legge; 4) Assicura il contraddittorio tra le parti ( prevede che le decisioni del giudice siano assunte con la partecipazione di accusa e difesa e che la formazione della prova avvenga con il metodo “dialettico”, a séguito della contrapposizione e il confronto tra le medesime)[5].
Sempre stando alle previsioni sul “giusto processo” inserite nell’art. 111 Cost., il contraddittorio può realizzarsi concretamente solo quando: 5) Viene garantita la parità tra le parti ( esse sono collocate in posizione di tendenziale eguaglianza nel compimento degli atti processuali) 6) L’accusato può esercitare il diritto di difesa in tutti i suoi aspetti, perché gli viene assicurato a) il diritto all’interprete; b) il diritto alla riservata e tempestiva contestazione delle accuse; c) il diritto a una difesa tecnica effettiva (= diritto di disporre di un difensore “motivato” e di forme di “patrocinio” a spese dello Stato); d) il diritto a “difendersi provando ( diritto di svolgere autonome “indagini difensive;e) il diritto al confronto con gli accusatori (cioè di poter esaminare o far esaminare davanti al giudice coloro che rendono dichiarazioni a suo carico).
Un sistema quindi delineato sulla parità delle parti nel processo. Un sistema che oggi non avrebbe permesso al malcapitato Giuseppe Di Noi/Alberto Sordi di subire un iter tanto terrificante.
Il film mostra anche un problema che ancora oggi si presenta drammaticamente nelle nostre carceri, ossia il sovraffollamento delle stesse e le terribili condizioni igienico-sanitarie in cui si trovano a vivere i detenuti e che ci interroga sulla giustizia e sulla condizione delle carceri medesime che, Costituzione alla mano, dovrebbero contenere al loro interno strumenti che aiutino al recupero del detenuto [6].
E’ passato quasi mezzo secolo dalla pellicola per sommi capi riassunta, è cambiato il quadro normativo di riferimento , è maturata una maggiore coscienza sociale in merito alle finalità preminentemente rieducative del carcere rispetto alla tradizionale concezione punitiva, ma molta strada ancora rimane da fare perché il dettato dell’art.27 cost. abbia compiuta attuazione.
Trascorsero trent’anni dalla sua entrata in vigore alla riforma dell’Ordinamento penitenziario ad essa ispirato(L. n. 354 del 1975), senza la qual riforma l’art.27 sarebbe rimasto una mera, tanto altisonante quanto vuota dichiarazione di principio.
Da quel momento in poi il detenuto venne chiamato con il suo nome e non più con un degradante numero di matricola; il trattamento penitenziario venne “sartorializzato” coinvolgendo discipline scientifiche come la pedagogia, la psichiatria, la criminologia e le scienze sociali, per individualizzare il miglior trattamento rieducativo e /o terapeutico del recluso.
A supporto del monitoraggio in parola, il percorso di riabilitazione funzionale al reinserimento sociale, comprende come momenti qualificanti il lavoro, lo sport e l’opportunità dell’assistenza religiosa, anche per gli appartenenti a fedi diverse da quella cattolica.
Poiché nonostante le menzionate caratteristiche volte alla risocializzazione del detenuto , il carcere comunque potrebbe- soprattutto nel caso di un reo primario- produrre degli effetti regressivi per la sua personalità, con la citata riforma del sistema penitenziario sono state create delle misure alternative alla detenzione.
Ciò nondimeno, si registra ancora un elevato numero di suicidi ed un sovraffollamento carcerario che ha costituito oggetto di richiami dalla Corte europea dei Diritti umani.
Il rimedio non è-a nostro avviso- quello di far ricorso a delle misure reclusive solo per i reati più gravi. Le pene- come già avvertiva oltre due secoli or sono il Beccaria, devono essere miti nella previsione edittale, ma certe ed inesorabili nella loro compiuta esecuzione.
Il che significa non sanzioni di altisonante severità, destinate poi ad essere diluite mediante sconti vari in corso d’opera, che rendendone aleatoria la reale applicazione, perdono ogni deterrenza psicologica in capo al reo.
La moltiplicazione delle figure di nuovi reati- per converso- non garantisce la società dalla crescita del crimine nelle sue variegate espressioni . Oggi come nei tempi antichi, vale sempre il monito: plurimae leges. maxima iniuria.
In conclusione: poche e certe fattispecie di reati; poche, miti, ma non riducibili sanzioni, poiché il diritto è efficace solo quando ne è certa la puntuale applicazione, senza mercanteggiamenti o grimaldelli processuali, con cui troppo spesso viene elusa la condivisa aspettativa di una giustizia sostanziale certa, rapida e perciò veramente efficace.
Le grida di manzoniana memoria, con pene tanto altisonanti quanto aleatorie, e quindi prive di un serio effetto di deterrenza dal crimine, possono risultare gradite ad un’opinione pubblica facilmente suggestionabile dal clamore mediatico, ma fanno sorridere i delinquenti incalliti, perfettamente a loro agio nel nuotare tra i liquami di norme mal formulate e peggio applicate.
Dott.ssa Michela TRABALZINI
Ufficio Affari dell’Amministrazione della Giustizia della Presidenza della Repubblica.
Avv. prof. Tito Lucrezio RIZZO
già Consigliere titolare dell’Organo centrale di Scurezza della Presidenza della Repubblica.
[1] V. art. 111 Cost. e art. 6 CEDU.
[2] La riforma dell’art. 111 Cost. è contenuta nella l. cost. 23 novembre 1999 n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), attuata con l. 25.2.2000 n. 35 (“Conversione in legge, con modificazioni, del d.l.7 gennaio 2000 n. 2, recante disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, in materia di giusto processo”).
[3] Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748, libro I, cap. IV
[4] A seguito dell’approvazione della legge di revisione costituzionale 23/11/1999, n. 2, è stato introdotto l’art. 111 della Costituzione composto di cinque nuovi commi illustrativi dei princìpi del “giusto processo”.
[5] V. L.D’Ambrosio, La pratica di polizia giudiziaria, Cedam.
[6] Mymovies.it: recensione di F. Catani.
Ottimo! Per un profano è molto interessante, grazie!