di Francesco Vergara

Negli ultimi anni il legislatore è intervenuto in modo costante su vari aspetti dell’assetto organizzativo della P.A., mosso, però, da un solo obiettivo: aumentare efficacia, efficienza ed economicità.

La ratio di tali interventi è non giuridica, ma economica: una P.A. più veloce crea “valore pubblico”, e quest’ultimo attrae investimenti e capitali.

La chiave di volta è come sempre l’art. 97 Cost. ma con una differenza: il buon andamento diviene servente all’equilibrio di bilancio ed ai vincoli eurounitari.

In tale contesto caratterizzato da ricorrenti interventi da parte del legislatore, il perno capace di creare il tanto auspicato “valore pubblico” è stato individuato nella figura del dirigente.

Non è intenzione qui indagare i rapporti tra politica e amministrazione o le numerose funzioni dirigenziali, bensì “le responsabilità dirigenziali”.

Infatti, l’istituto in esame ha subito una dilatazione tale da indagare se le novità introdotte possano risultare compatibili con il fine preso di mira dal legislatore.

Per fare ciò, il Testo Unico del pubblico impiego attribuisce al dirigente pubblico poteri manageriali, dai quali deriva una responsabilità di risultato legata al sistema di valutazione della performance, così come previsto dal Titolo II del d.lgs. 150/2009[1].

Dalla lettura delle norme in materia si nota come siamo ben lontani dagli schemi classici della responsabilità tendenti a sanzionare un singolo comportamento riconosciuto come illegittimo, poichè commesso dolosamente o colposamente, ma rivolta a colpire oggettivamente una condotta sistematica ed operativa non idonea al raggiungimento degli obiettivi fissati in sede di programmazione generale.

1. La genesi e l’attuale configurazione della responsabilità dirigenziale nel d.lgs. 165/2001

Sulla spinta di autorevole dottrina di matrice economica[2][3] il legislatore ha accolto l’invito ad avvicinare lavoro pubblico e principi aziendalistici: in buona sostanza si è preso atto che la mera responsabilità politica degli attori pubblici non è sufficiente a garantire l’efficienza.

Valutare i costi, controllare il rendimento dei dipendenti e la soddisfazione dell’utente finale richiede precisione nell’individuazione dei centri di responsabilità: chi deve fare cosa, con quali risorse e quale risultato deve ottenere.

In tale processo la dirigenza riveste un valore di pregio e di rilievo, ancor più enfatizzato dal principio di separazione tra atti di indirizzo di competenza politica ed atti gestionali di competenza dirigenziale, da qui l’attribuzione di una connessa responsabilità “atipica” nel contesto giuridico italiano.

La responsabilità dirigenziale, vede luce con l’art. 19 del d.P.R. 748/1972, ha trovato un riconoscimento nel d.lgs 29/1993 e infine nell’art. 21 del d.lgs. 165/2001, il Testo Unico  del pubblico Impiego fondata su una valutazione negativa dei risultati raggiunti dall’ufficio al quale il dirigente è preposto ed è volta principalmente alla sua sostituzione.

Senza dubbio, il dirigente è un funzionario pubblico sicchè risponde in sede civile, penale, amministrativo-contabile e disciplinare.

Tuttavia, Il d.lgs. 165/2001, va oltre, ed ha riconosciuto per i dirigenti l’imputabilità della responsabilità dirigenziale, come forma di responsabilità ad hoc[4].

La responsabilità dirigenziale nasce da una inidoneità organizzativa e datoriale, da un “cattivo uso” delle sue doti manageriali, che si è riverberata sull’organizzazione amministrativa produttrice di valore pubblico, creando tuttavia un saldo negativo.

Non è necessaria la violazione netta di una norma giuridica ben definita.

Si rammenti che l’organo di gestione è comunque legato all’organo politico con il quale deve coordinarsi. L’organo politico può identificarsi metaforicamente come il “creditore” della prestazione manageriale, in quanto responsabile ex art. 95 Cost. dinanzi alla collettività e ciò pone la necessità che l’organo politico possa influire anche se non autoritativamente come avveniva in passato sulla condotta del dirigente, a cui è affidato l’incarico.

A conferma, come sottolineato dalla dottrina più avveduta, “si tratta quindi di una responsabilità interna all’amministrazione, non attivabile da alcun soggetto esterno a quel rapporto, perché nessun altro soggetto è titolare della pretesa a ricevere”.

L’art. 21 comma 1 del d.lgs. 165/2001 identifica due fattispecie principali di responsabilità: il “mancato raggiungimento degli obiettivi” e “l’inosservanza delle direttive imputabile al dirigente”. Le conseguenze sono: il mancato rinnovo dell’incarico, la revoca dell’incarico e nei casi più gravi il recesso del rapporto di lavoro.

Le menzionate ipotesi rappresentano senza dubbio il nocciolo duro dell’istituto in parola, su cui poco si può aggiungere, essendo correttamente conformate alla peculiarità dell’incarico dirigenziale.

In buona sostanza, proprio perché attiene alla fascia più alta dell’impiego presso le pubbliche amministrazioni, e come tale più vicina alla politica, è lo strumento che rende evidenti le tensioni tra politica e vertici amministrativi, con una precisazione: ai soli fini della responsabilità ex art. 21 dlgs 165/2001 non rileva l’eventuale rottura del legame fiduciario, ma i soli risultati ottenuti[5].

Infine, non è più previsto il parere conforme del Comitato dei Garanti, ma è necessario che esso sia solo sentito (art. 22 dlgs 165/2001).

2. Le ulteriori fattispecie di responsabilità

Sempre nel dlgs 165/2001 viene in rilievo il comma 1-bis dell’art. 21 che stavolta sanziona non un comportamento complessivo e organizzativo, ma “la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione”.

La fattispecie in esame ha ad oggetto apparentemente un singolo comportamento di stampo omissivo in connessione ai poteri datoriali di cui dispone.

La norma appare di difficile attuazione pratica nel profilo “qualitativo” richiesto dalla norma, innanzitutto la qualità richiesta presuppone la valutazione e la misurazione dell’outcome prodotto dal dipendente, la qualità presa singolarmente e fissata unilateralmente non è un parametro oggettivo ed idoneo ad essere misurato asetticamente.

In secondo luogo, non si vede quali possono essere i poteri dirigenziali idonei a far fronte ad una presunta ed asserita violazione qualitativa in presenza di carenze di organico.

Inoltre, la fissazione degli standard quantitativi se elevata può inficiare irrimediabilmente la qualità sicchè i parametri non appaiono cumulabili, salvo un loro intelligente dosaggio ad opera della P.A.

Ancora si menziona la responsabilità per assunzione o utilizzo di lavoratori in violazione di disposizioni imperative (art. 36 commi 5 e 5 quater dlgs 165/2001), per illegittimo ricorso a contratti di collaborazione (art. 7 comma 6 dlgs 165/2001), per illegittima attribuzione di mansioni superiori (art. 52 comma 5 dlgs 165/2001),  per mancata attivazione di procedure di ricognizione annuale del soprannumero o eccedenze di personale (art. 33 TUPI), per mancato avvio dell’azione disciplinare (art. 55 sexies TUPI).

Le prime quattro forme menzionate attengono all’illegittima espansione del personale in servizio ed è funzionale al contenimento dei costi del personale, che gravano pesantemente sui conti pubblici, l’ultima forma presuppone una colpevole inerzia circa il tempestivo avvio del procedimento disciplinare.

Tali fattispecie appaiono coerenti con il ruolo del dirigente nell’organizzazione amministrativa.

A ciò vanno aggiunte quelle previste dall’art. 2 bis L. 241/1990 in tema di termini di conclusione dei procedimenti amministrativi, dagli artt. 3 e 4 dlgs 198/2009 in caso di soccombenza della P.A. in una class action pubblica, ed infine quella prevista dall’art. 12 comma 1 – ter dlgs 82/2005 circa la mancata attuazione del Codice dell’amministrazione digitale, il mancato utilizzo della posta elettronica ed in particolare di quella certificata, l’omesso aggiornamento degli indirizzi di posta elettronica, i ritardi nella amministrazione digitale, la mancata utilizzazione delle convenzioni Consip e/o del Mepa, l’omesso avvio del procedimento a seguito di istanze e dichiarazioni presentate in via telematica[6]

3. Il perchè della proliferazione delle fattispecie

Le disfunzioni dell’amministrazione pubblica italiana sono molteplici e le riforme epocali che si sono succedute dalla L. Bassanini in poi solo in parte hanno risolto i problemi e, spesso, ne hanno generato altri, tra cui quella afferente i dirigenti e la loro corretta valorizzazione.

La P.A. è stata designata come uno dei principali attori della crescita economica, come detto prima, cercando di importare i moduli aziendalistici al suo interno.

Dall’analisi delle numerose e disorganiche ipotesi di responsabilità appare nitido come le riforme abbiano di fatto tradito l’intento originario: la tendenza ad importare modelli organizzativi esterni, prevalentemente dal sistema dell’economica privata, ha indubbiamente rafforzato l’autonomia dirigenziale, allontanandola, per quanto possibile, dal potere politico, ha poi dato corpo all’imponente responsabilità dirigenziale.

L’accrescersi dell’autonomia dei dirigenti ne ha ampliato le responsabilità. Responsabilità disciplinari, penali, civili, amministrativo-contabili, dirigenziale per coloro che rivestono tale funzione, con una continua moltiplicazione ed intersezione dei profili di responsabilità che lungi dall’incrementare l’efficienza si risolvono di fatto in una paralisi dell’attività[7].

Si tratta di violazione delle prescrizioni sulla gestione della funzione dirigenziale, violazione di adempimenti principalmente formali più che di mancato raggiungimento di una idonea performance.

La proliferazione e parcellizzazione delle ipotesi omissive rendono il dirigente mero controllore del rispetto delle formalità legali, sotto “minaccia” di un mancato rinnovo.

Ma quali le cause di tale irrigidimento? Le risposte, a parere di chi scrive vanno ricercate nell’instabilità politica ed economica che affascia il Paese da decenni.

La schizofrenia del legislatore appare dettata dalla necessità di trovare risultati economici immediati senza riuscire a programmare sul lungo termine.

La programmazione, intesa come predisposizione di un piano prima generale e poi via via più dettagliato delle operazioni da compiere in coerenza con i fini politici da perseguire, appare l’anello mancante per un passaggio reale da un’amministrazione meramente burocratica ad una “di risultato” in coerenza con il modello aziendalista ispiratore delle ultime riforme in materia di P.A.


[1] D. BOLOGNINO e D’ALESSIO G., La responsabilità dirigenziale legata al sistema di valutazione e la responsabilità per omessa vigilanza su produttività e efficienza, in (a cura di) PIZZETTI F. e RUGHETTI A., La riforma del lavoro pubblico, 2010

[2] Per tutti, v. E. BORGONOVI, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, EGEA, 2005, p. 47 ss.

 

[4] TENORE V., PALAMARA L., MARZOCCHI BURATTI B., Le cinque responsabilità del funzionario pubblico: civile, penale, amministrativo, disciplinare e dirigenziale. Normativa dottrina e giurisprudenza, Milano, II ed, Giuffrè,

2013;

[5] A. GARILLI, Dirigenza pubblica e poteri datoriali, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2019 p.  20 e ss.; Corte di Cassazione, sez. lav., 20 ottobre 2017, n. 24905;

[6] S.BATTINI, Al servizio della Nazione? Verso un modello di disciplina della dirigenza e del personale pubblico, relazione tenuta al 62° Convegno di Studi amministrativi, L’Italia che cambia: dalla riforma dei contratti pubblici alla riforma della Pubblica Amministrazione – Varenna, 22, 23 e 24 settembre 2016, in www.astrid-online.it/static/upload/batt/battini_varenna_2016.pdf; G. ARMAO, La responsabilità dirigenziale trasfigurata e la disciplina delle regioni speciali, in www.ildirittoamministrativo.it

[7] G. ARMAO, La responsabilità dirigenziale trasfigurata e la disciplina delle regioni speciali, in www.ildirittoamministrativo.it