È noto come all’amministratore di diritto, formalmente investito della relativa carica gestoria per essere stato designato dall’assemblea o nominato nell’atto costitutivo (art. 2383 c.c.) ovvero investito in forza di decisione dei soci presa ai sensi dell’art. 2479 c.c. (art. 2475 c.c.), si equipari la figura dell’amministratore di fatto, che, pur non essendo stato formalmente designato nelle dette modalità, svolge continuativamente l’attività gestoria (per come delineata dall’art. 2380- bis c.c. e, quanto alle società a responsabilità limitata, dall’art. 2475 c.c.), compiendo le operazioni funzionali all’attuazione dell’oggetto sociale ed esercitando i poteri correlati alle funzioni dell’amministratore di diritto.
L’equiparazione del fatto al diritto, che massimamente rileva in punto di regime di responsabilità collegato all’attività gestoria, dipende dal concreto ricorrere di concordanti indici sintomatici che la giurisprudenza ha delineato con un orientamento ormai costante.
Segnatamente, perché di gestione di fatto possa parlarsi, è necessaria la contestuale esistenza di apprezzabili atti tipici di gestione che complessivamente vantino i requisiti di continuatività e significatività (v., ad es., Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2020, n. 12912: “La nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 c.c., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione”).
Se la continuatività discende dalla protrazione nel tempo di atti tipici con i caratteri di ripetitività e sistematicità, non potendo bastare sporadici e isolati atti di gestione, la significatività si concreta nell’intensità dell’attività espletata, che non può non atteggiarsi a meramente accessoria né assumere la forma di mansioni meramente esecutive o comunque di scarsa rilevanza in relazione allo specifico oggetto sociale.
La necessità che constino ripetitivi e apprezzabili atti coordinati, riconducibili all’organizzazione e gestione della società non implica, tuttavia, che l’amministratore di fatto vanti una sorta di esclusiva sul compimento degli atti gestori.
È, anzi, evidente che determinati poteri (l’approvazione del progetto di bilancio, la convocazione dell’assemblea o, comunque, gli adempimenti espletabili dai soli soggetti provvisti di formale investitura) vengano comunque esercitati dall’amministratore di diritto, che non può non coabitare con quello di fatto; continuatività e sistematicità, vestite di tessuto normativo dall’art. 2639 c.c., implicano sì il coinvolgimento di apprezzabile entità e non meramente occasionale nelle vicende societarie, ma giammai comportano una sorta di esclusiva dell’amministratore di fatto nel compimento delle operazioni preordinate al conseguimento dell’oggetto sociale (v., ad es., Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2017, n. 21567: “Non può d’altronde condividersi neppure la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui il riconoscimento della qualità di amministratore di fatto postulerebbe un’ingerenza nella gestione sociale non solo continuativa e sistematica, ma estesa “a tutti gli ambiti tipici della gestione amministrativa”, in tal senso dovendosi intendere il requisito della completezza più volte menzionato dalla giurisprudenza di questa Corte: l’analisi dei precedenti segnalati dimostra infatti che non è affatto richiesta la riferibilità degli atti compiuti all’intero spettro delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale”; adde Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2020, n. 12912: “[…] significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (per tutte Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534). Peraltro la previsione di cui all’art. 2639 c.c. non esclude che l’esercizio dei poteri o delle funzioni dell’amministratore di fatto possa verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali anche contemporaneamente esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”).
Tale ricostruzione trova conferma nella giurisprudenza contabile, che dialoga con gli indirizzi di legittimità.
In particolare, secondo la Sezione I Appello di questa Corte, la configurabilità della posizione di amministratore di fatto presuppone il continuativo, non occasionale, esercizio di funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto e la sistematica ingerenza nella gestione della cosa sociale (App. I, n. 87/2015; adde: Sez. Sardegna, n. 119/2017); l’autonomia decisionale dell’amministratore di fatto non deve necessariamente surrogare l’apporto dell’amministratore di diritto, con il quale quello di fatto ben può cooperare (App. I, n. 87/2015: “Ora, va ricordato che l’amministratore di fatto ricorre nelle fattispecie nelle quali un soggetto non formalmente investito della carica si ingerisce egualmente nell’amministrazione, esercitando (di fatto) i poteri propri inerenti alla gestione della società. Al fine di far emergere il soggetto che effettivamente esercita le funzioni gestorie, la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato la figura dell’amministratore di fatto equiparandolo a quello di diritto ai fini della responsabilità civile e penale. Le condizioni al ricorrere delle quali sussiste la figura dell’amministratore di fatto sono dunque per comune accezione: 1) assenza di una efficace investitura assembleare; 2) attività esercitata (non occasionalmente ma) continuativamente; 3) funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto; 4) autonomia decisionale (non necessariamente surrogatoria, ma almeno cooperativa non subordinata) rispetto agli amministratori ‘di diritto’”).
Lungi dall’essere una mera costruzione teorica, la figura in discorso comporta conseguenze rilevanti in punto di responsabilità.
Se nel sistema societario vengono in rilievo gli artt. 2392 ss., in quello penale i singoli reati speciali (tributari e fallimentari) e in quello tributario le sanzioni correlate a violazioni fiscali di cui l’amministratore di fatto sia stato beneficiario, nella contabilità pubblica rilevano le conseguenze sanzionatorie correlate alla violazione, da parte dell’amministratore di fatto, del dovere di esclusività, consacrato dall’art. 98 Cost..
È, del resto, pacifico che il pubblico dipendente che gestisca, quale amministratore esecutivo, una società di capitali incorra nel divieto di esercizio del commercio, di cui all’art. 60 d.P.R. n. 3/1957 (“L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”; divieto la cui violazione, recando un vulnus al principio di esclusività, comporta, oltre alla sanzione della decadenza dall’impiego (art. 63 d.P.R. cit.), l’obbligo del dipendente di riversare i compensi scaturiti dall’espletamento dell’attività non consentita.
Chiaro è, sul punto, l’art. 53 d.lgs. n. 165/2001.
Evidente è, dunque, che lo status giuridico ed economico dei dipendenti pubblici sia contraddistinto da uno specifico divieto di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, e che, dall’inosservanza di tale divieto, discenda (salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare) l’obbligo, con adempimento a cura dell’erogante o in difetto del percettore, di versare il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato a incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti; obbligo che ha carattere dissuasivo e di deterrenza dall’assunzione di incarichi retribuiti non sottoposti, previamente, al regime autorizzatorio da parte dell’amministrazione di appartenenza del singolo pubblico dipendente (Sez. Riunite, n. 26/2019, secondo cui la condotta omissiva del versamento del compenso dà luogo a un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito).
Parimenti evidente è come il disposto debba essere, maiori causa, applicato alle più gravi ipotesi di incarichi, relativi ad attività assolutamente incompatibili, non autorizzabili siccome in contrasto con divieti espressamente tipizzati, come è quello di cui all’art. 60 d.P.R. n. 3/1957 (v., ad es., Sez. Emilia-Romagna, n. 29/2020: “se l’assenza di autorizzazione allo svolgimento di incarichi o attività libero-professionali che siano autorizzabili da parte della pubblica amministrazione di appartenenza determina, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del D.Lgs. n.165/2001, l’obbligo di versamento del compenso dovuto, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza per essere destinato ad incremento dei fondi di produttività o equivalenti, tale obbligo di versamento a maggior ragione sussiste in caso di svolgimento di attività assolutamente vietate e quindi mai autorizzabili”), che, genericamente parlando di esercizio del commercio, non osta all’equiparazione – dettata dalla dovuta prevalenza della sostanza sulla forma – dell’amministratore esecutivo di diritto a quello di fatto.