Di Giuseppina Ivone
1. Considerazioni introduttive.
La questione dei contratti in corso di esecuzione tra soggetti uno dei quali è dichiarato fallito, pur risalente nella dottrina e nella giurisprudenza, era affrontata nel codice di commercio in poche episodiche norme. Con la legge del 1942 il legislatore ha disposto una disciplina articolata; tuttavia, il complesso normativo così risultante, pur rappresentando un primo tentativo di dare una sistemazione alla materia rispetto alla legislazione previgente, conservava un evidente carattere frammentario.
In particolare, numerosi contratti, pur ricorrenti nella organizzazione di una impresa (quali la locazione di mobili, l’affitto, l’agenzia) erano lasciati fuori dalla previsione legislativa; era spettato così alla giurisprudenza e dottrina di trarre dalla disciplina dei singoli contratti e fondamentalmente da quella del contratto di vendita alcune indicazioni di carattere generale dirette a colmare le lacune legislative. Nell’intervento di riforma, il legislatore si è preoccupato di porre rimedio alla lacuna: sia riscrivendo la regola generale dell’art. 72 (non più dedicato alla vendita e significativamente rubricato rapporti pendenti) sia disciplinando innovativamente figure classiche sia, infine, introducendo nuove figure, ormai note alla prassi.
Di seguito vengono esaminate le tipologie della vendita con riserva di proprietà e della locazione finanziaria; dei contratti ad esecuzione continuata o periodica e dei contratti di borsa a termine (sui quali ultimi, peraltro, il legislatore della riforma non è intervenuto). È parso buon metodo trattare congiuntamente le figure della vendita con riservato dominio e del leasing, attesa la vicenda giurisprudenziale che ha interessato questi contratti e l’utilizzo che si è fatto della norma sulla vendita per disciplinare analogicamente il modello atipico del leasing. Dalla trattazione congiunta, infatti, potrà emergere più chiaramente la ragione legislativa che presiede alle soluzioni da ultimo adottate proprio in considerazione della sedimentazione giurisprudenziale nel frattempo formatasi. Saranno poi trattate le norme sui contratti ad esecuzione continuata o periodica, e infine i contratti di borsa a termine.
2. Vendita a termine o a rate e vendita con riserva di proprietà.
Nell’art. 73, nella versione antecedente all’intervento correttivo attuato con il D.lgs 169/07, erano disciplinati gli effetti del fallimento sulla vendita a termine o a rate e sulla vendita con riserva di proprietà (quale fattispecie rientrante in quella più ampia della vendita a rate). In particolare, il primo comma regolava l’ ipotesi del fallimento del compratore, disponendo che se il prezzo deve essere pagato a termine o a rate, il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori (e non più del giudice delegato come era previsto nella versione del R.D. 267/1942), può subentrare nel contratto: pagando immediatamente il prezzo con lo sconto dell’interesse legale ovvero secondo le scadenze previste nel contratto prestando, se richiesto dal venditore, cauzione. Il comma successivo, disponeva che nella particolare forma della vendita con riserva di proprietà il fallimento del venditore non costituisce causa di scioglimento del contratto. La formulazione generica del primo comma dell’art. 73 (estesa a tutte le fattispecie di vendita a termine o a rate) e la particolare tutela del venditore non fallito (esplicantesi nell’obbligo del curatore che subentra nel contratto di pagare il prezzo integrale), hanno in passato sollevato questioni connesse all’istituto della vendita con riserva di proprietà. Infatti, l’effetto legale del pagamento integrale del prezzo da parte del curatore che subentra nel contratto si giustifica soltanto presupponendo, come non ancora avvenuto, il trasferimento del diritto (il che determina la non esecuzione del contratto traslativo); ciò che si verifica nella fattispecie – tipica della contrattazione di impresa – della vendita rateale con patto di riservato dominio.
Diversamente, infatti, l’applicazione del generale principio consensualistico, determinerebbe il trasferimento della proprietà del bene compravenduto in capo all’acquirente al momento della stipula; per conseguenza il contratto sarebbe da considerarsi eseguito. In questo secondo caso, essendo il compratore fallito già proprietario, nel patrimonio del venditore residuerebbe solo un mero diritto di credito, assoggettato alle ordinarie regole del concorso (nei limiti del prezzo non riscosso). La regola sopra citata, con la previsione di un diverso trattamento del venditore in bonis (diritto all’integrale pagamento nel caso di vendita con clausola sul termine del pagamento del prezzo o sul pagamento rateale; semplice creditore concorsuale nel secondo), si giustifica solo presupponendo non avvenuto il trasferimento del diritto di proprietà in capo all’acquirente. Per questa ragione, dottrina e giurisprudenza hanno sempre ritenuto che l’intero articolo 73 si riferisse esclusivamente alla vendita con patto di riservato dominio, quale importante e diffusa modalità di contrattazione della impresa con finanziamento al consumo.
In questa ottica si comprende agevolmente la tutela del venditore rispetto al fallimento dell’acquirente: non essendosi realizzato l’effetto traslativo e quindi il passaggio del diritto dall’alienante all’acquirente, il venditore conserva intatti i suoi poteri di autotutela quale titolare di un diritto reale e non di credito. Ne consegue che il fallimento dell’acquirente può solo determinare –per scelta del curatore – o lo scioglimento del contratto ovvero il subentro. Con l’intervento correttivo attuato con il d.lgs 169/2007 il legislatore, recependo l’ormai pacifica e consolidata interpretazione dell’articolo 73, ha inserito nel primo comma di tale articolo l’esplicito riferimento alla vendita con riserva di proprietà (pure esplicitato nella rubrica); pertanto, nella disciplina attuale nessuno spazio autonomo può riconoscersi alla figura della vendita con pagamento a termine del prezzo. Resta aperto il problema emerso nella prassi applicativa delle condizioni per la opponibilità del patto di riservato dominio alla massa: sia sotto il profilo delle formalità da porre in essere per la opponibilità al fallimento, sia con riferimento al momento della stipulazione del patto (nella ipotesi di non contestualità della stipula con il contratto di vendita). Quanto al primo profilo, il legislatore non prevede oneri formali specifici; occorre quindi volgersi alle regole generali e dunque all’art. 45 l. fall. a norma del quale le formalità previste per rendere opponibile il suddetto patto ai terzi sono efficaci solo se eseguite prima della dichiarazione di fallimento. Tale norma non pone alcuna distinzione tra terzi creditori e terzi acquirenti; distinzione invece presente sia nel codice civile (art. 1524 c.c.) sia nelle leggi speciali.
In particolare, l’art. 1524 c.c. prevede che, mentre per l’opponibilità del patto ai creditori del compratore è sufficiente la redazione di una scrittura privata avente data certa anteriore al pignoramento, invece per i terzi acquirenti si richiede inoltre l’avvenuta trascrizione del patto. Quel che importa mettere in evidenza in questa sede è che la giurisprudenza, con orientamento ormai consolidato, ritiene applicabile al fallimento il primo comma dell’art. 1524 c.c. e giudica sufficiente, ai fini della opponibilità del patto di riservato dominio alla massa, la semplice esistenza di una scrittura avente data certa anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento. Con riguardo al secondo profilo, concernente il momento della stipulazione del patto di riservato dominio, si discute sulla opponibilità della stesso nella ipotesi in cui tale patto sia stipulato in data anteriore alla data di dichiarazione di fallimento, ma successiva alla conclusione del contratto di vendita. Infatti, la presenza di una scrittura privata avente data certa anteriore al fallimento è condizione necessaria ma non anche sufficiente per la opponibilità del patto di riservato dominio alla massa: occorre che il patto sia altresì valido. Secondo un iniziale orientamento espresso da parte della dottrina, ai fini della validità del patto sarebbe necessaria la contestualità dello stesso (o quantomeno la sua anteriorità) rispetto alla vendita; infatti, il patto stipulato successivamente alla stipula dell’atto di vendita, intervenendo quando l’effetto traslativo si è già verificato, non potrebbe più svolgere la sua funzione peculiare, quella cioè si sospendere il trasferimento del diritto reale; per conseguenza, risulterebbe carente di causa o di oggetto. A tale opinione si è condivisibilmente obiettato che la fattispecie in parola ben potrebbe avere i connotati di un atto costitutivo di garanzia reale per l’adempimento, oppure di un negozio complesso formato da una risoluzione consensuale della vendita seguito dalla stipula di una nuova vendita con patto di riservato dominio: tutte tipologie che consentono a colui che ha fornito merci a credito al fallito di mantenere una posizione simile a quella che gli deriverebbe dalla stipula di una regolare clausola di riserva di proprietà.
3. Vendita con riserva di proprietà.
Stabilito a quali condizioni il patto di riservato dominio è opponibile al fallimento, occorre ora indagare la specifica disciplina dettata nella ipotesi di fallimento dell’acquirente. L’articolo 73, comma 1 l.f. prevedeva e prevede che, in ipotesi di subingresso del curatore nel contratto, il venditore può chiedere cauzione sul pagamento del prezzo salvo che il curatore non scelga di pagare immediatamente scontando l’interesse legale. Come tradizionalmente illustrato in dottrina, questa disposizione mira a salvaguardare l’interesse del venditore in bonis e ad assicurare che il curatore rispetti gli obblighi contrattuali che ha deciso di assumere. Lo stato di fallimento impone dunque che, se il curatore decide di proseguire nel contratto pagando le rate alla scadenza, su richiesta della controparte, deve prestare cauzione a garanzia del suo adempimento. Piena tutela al venditore in bonis è assicurata nel caso in cui il curatore opti per lo scioglimento del contratto. In tale ipotesi, venendo meno il sinallagma, come il venditore conserva la proprietà e riacquista il possesso della cosa compravenduta, così egli dovrà restituire le rate nel frattempo riscosse, fatto salvo l’ equo compenso per l’uso della cosa nel frattempo fatto da parte dell’acquirente poi fallito.
La disposizione costituisce applicazione della regola generale dettata dall’art. 1526 c.c. in ipotesi di risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà per inadempimento del compratore(con esclusione del diritto del venditore al risarcimento del danno, mancando nella ipotesi di fallimento il fatto oggettivo dell’inadempimento). Occorre tuttavia considerare che, poiché il venditore deve comunque soggiacere al potere di scelta del curatore (espressione di un principio di carattere generale), se questi sceglie di subentrare – e finché tale decisione può essere espressa – il primo non può rivendicare vittoriosamente la cosa. Ne consegue che, presentata la domanda di restituzione, questa potrà essere accolta solo qualora il curatore opti per lo scioglimento del contratto. Verificatosi lo scioglimento del contratto – o per scelta del curatore o per decorrenza del termine giudiziale assegnato dal giudice delegato -, come il curatore deve restituire la cosa consegnata al venditore, così quest’ultimo dovrà restituire le rate riscosse, fatto salvo il diritto all’equo compenso per l’uso della cosa in conformità a quanto previsto dall’art. 1526 c.c. A tale riguardo, si è posto il problema della compensabilità del credito del venditore in bonis all’equo compenso che, pur essendo post fallimentare, può essere fatto valere nel passivo fallimentare, con il credito del curatore al recupero delle rate riscosse.
La compensabilità è stata esclusa dalla dottrina prevalente per insussistenza del presupposto della reciprocità ex art. 1241 c.c.: mentre, infatti, il credito del venditore sarebbe verso il fallito, il suo debito sarebbe verso la massa, ossia verso un soggetto terzo rispetto al rapporto venditore/compratore. Diversamente, giurisprudenza consolidata afferma la compensabilità tra le due partite: soluzione ancora una volta favorevole al venditore il quale, non solo come beneficiario di una garanzia impropria sul bene oggetto di riserva, ma anche come titolare di un credito chirografario scaturente dallo scioglimento del contratto, si trova in una situazione di vantaggio rispetto agli altri creditori. Il secondo comma dell’art. 73 l. f. si mostra speculare al primo, trattando del fallimento del venditore con riserva di proprietà. Stabilisce che il fallimento del venditore non è causa di scioglimento del contratto; né determina l’insorgere in capo al curatore del potere di decidere sul destino del contratto. La norma potrebbe apparire peculiare: infatti, trattandosi di vendita con riserva di proprietà, poiché al sopraggiungere del fallimento l’effetto traslativo non si è ancora verificato, il contratto dovrebbe ritenersi bilateralmente ineseguito. Dovrebbe discenderne il potere del curatore di decidere se sciogliersi o dare esecuzione al contratto. La legge, tuttavia, considera opportunamente che il verificarsi dell’effetto traslativo è rimesso alla scelta esclusiva dell’acquirente in bonis di pagare tutte le rate e quindi l’intero prezzo della cosa. A tal riguardo, l’intervenuto fallimento del venditore non spiega nessuna incidenza: infatti, spetterà sempre all’acquirente di decidere se pagare o meno le rate rimanenti, mentre il curatore non potrà che soggiacere all’altrui determinazione. Questa soluzione normativa dimostra come il legislatore abbia inteso privilegiare non l’aspetto giuridico e formale ma l’aspetto economico e sostanziale della operazione: la riserva di proprietà svolge nella pratica degli affari una pura funzione di garanzia dell’esatto adempimento dell’acquirente; non vi è nessuna ragione ulteriore alla base del patto. Conseguentemente, il curatore del fallimento del venditore non potrebbe mai trarre vantaggio dal non essersi ancora verificato l’effetto traslativo senza disattendere la ragione che presiede all’apposizione del patto di riservato dominio: la quale, si ripete, non è di conservare la proprietà in capo al venditore ma di garantire l’adempimento del compratore. Sotto questo profilo la norma rappresenta una ulteriore applicazione del generale principio affermato dall’art. 72 che esclude lo scioglimento del contratto di vendita pura e semplice per il fallimento del venditore nel caso in cui la proprietà sia già passata in capo al compratore.
4. Vendita con riserva di proprietà e locazione finanziaria.
La ragione storica della figura della vendita con patto di riservato dominio è stata individuata nell’interesse ad incentivare il ricorso ad operazioni di finanziamento al consumo o alla produzione. Infatti, lo sviluppo della economia capitalistica impone la moltiplicazione dello scambio e la più ampia diffusione dei prodotti industriali sui mercati finali; altamente funzionale a tale scopo è lo strumento della vendita a credito che, consentendo all’acquirente l’immediato utilizzo del bene a fronte della rateizzazione del prezzo, facilita in rilevante misura l’acquisto dei beni di consumo: l’alienante, attraverso la dilazione del pagamento assicura a chi non ne ha attualmente i mezzi la possibilità di entrare nella disponibilità immediata del bene per la utilizzazione diretta o per la trasformazione produttiva. Si evidenzia la necessità che l’impresa conservi una idonea garanzia sull’adempimento della controparte; a questo fine è storicamente servita la clausola sul riservato dominio. Immediata disponibilità e utilizzo del bene da un lato, e agevolazioni finanziarie all’acquisto dall’altro, hanno raggiunto maggiore efficienza e sottigliezza giuridica nel contratto di leasing, ossia il contratto con il quale una parte concede all’altra un bene verso il corrispettivo di un canone periodico per un determinato tempo, alla fine del quale è consentita al beneficiario la scelta tra varie alternative possibili: continuare nel godimento del bene con canone ridotto, acquistarne la proprietà, chiederne la sostituzione e simili.
In tale generica definizione, rientrano tuttavia due operazioni distinte: da un lato, il leasing operativo, dove il canone costituisce il corrispettivo del godimento del bene, il quale conserva normalmente, allo scadere del contratto, un valore residuale che lo rende idoneo ad una nuova utilizzazione; dall’altro il leasing finanziario – che rappresenta l’ipotesi prevalente – dove la durata del rapporto è commisurata alla vita tecnico-economica del bene, il quale alla fine del rapporto ha un valore residuale modesto, per cui il totale dei canoni è calcolato in modo che il concedente riceva alla scadenza il rimborso totale del prezzo. Anche l’utilizzatore accede alla immediata disponibilità del bene dietro versamento dei canoni. A differenza di quanto accade nella vendita con riserva di proprietà, nel leasing il dominio si trasferisce con l’esercizio del diritto di opzione di acquisto una volta pagata l’ultima rata. Nonostante le innegabili differenze tra la figura tipica della vendita con patto di riservato dominio e il contratto innominato di leasing, è dunque evidente come dal punto di vista economico e sociale entrambi i contratti rispondono alla medesima esigenza di fondo di favorire la diffusione dei beni sul mercato per mezzo di agevolazioni finanziarie riconosciute agli acquirenti, agevolazioni bilanciate dalla garanzia impropria, a vantaggio del proprietario e del concedente in leasing, sostanziata dal mantenimento del titolo dominicale fino al completo adempimento di controparte. Cosicchè, nella materia dei rapporti pendenti, in mancanza di una apposita disciplina sul leasing, la figura era operativamente trattata non attraverso l’applicazione della regola generale di cui all’art. 72 l.f. bensì per mezzo della applicazione analogica della norma speciale di cui all’articolo successivo.
Ne discendeva un regime del leasing quale contratto pendente che può così ricostruirsi sinteticamente sulla scorta del diritto giurisprudenziale. Dopo un iniziale contrasto tra giurisprudenza di merito, in prevalenza favorevole alla assimilazione del contratto di leasing alla vendita con riserva di proprietà (in funzione, nella ipotesi di risoluzione, dell’applicazione dell’articolo 1526 c.c.) e di Cassazione incline per una qualificazione del leasing come contratto atipico di durata regolamentato dalle disposizioni generali in materia contrattuale e quindi, in ipotesi di risoluzione, dall’art. 1458 c.c., si è venuto ad affermare a partire dal 1989 un nuovo consolidato indirizzo giurisprudenziale. In particolare si deve alla giurisprudenza di Cassazione la individuazione di criteri discretivi nella alternativa circa l’applicabilità della disciplina della vendita con riserva di proprietà (art. 1523 e ss. c.c.) ovvero della locazione, con la creazione della distinzione tra leasing ‘traslativo’, con prevalente causa di vendita e leasing ‘finanziario’ con prevalente causa di godimento.
La conseguenza dell’inquadramento del contratto nell’una o nell’altra figura di leasing ha portato alla applicazione di una diversa disciplina in sede di risoluzione del contratto: mentre nel leasing di godimento, attesa la funzione esclusivamente finanziaria del contratto, gli effetti della risoluzione sono ex nunc e non retroagiscono sui canoni pagati dall’utilizzatore, i quali restano acquisiti in capo al concedente ai sensi dell’art. 1458, primo comma c.c..; nel leasing traslativo, stante la concomitante causa di scambio e l’analogia con la vendita con patto di riservato dominio, la risoluzione del contratto ha effetti ex tunc e trova applicazione, in via analogica, l’art. 1526 c.c. con la conseguenza che il concedente deve restituire i canoni percepiti salvo trattenere un equo compenso per l’uso del bene da parte dell’utilizzatore.
5. Disciplina della locazione finanziaria.
A seguito del non sopito dibattito tra gli operatori sulla fattispecie del leasing e considerata la rilevantissima importanza sociale ed economica oggi assunta dal contratto, in occasione della riforma il legislatore si è preoccupato di dettare una apposita disciplina per il leasing come contratto pendente. La considerazione sintetica delle nuove regole rivela immediatamente come esse siano state concepite in stretta considerazione del dibattito sopra riassunto e nel tentativo di conciliare più efficientemente gli interessi del fallimento con gli interessi della società di leasing.
L’articolo 72 quater prevede innanzitutto che al contratto di leasing, in caso di fallimento dell’utilizzatore, si applichi la regola generale dettata dall’art. 72 in materia di rapporti giuridici pendenti: pertanto, l’esecuzione del contratto rimane sospesa in attesa della scelta del curatore di subentrare nel contratto oppure sciogliersi dal vincolo. Unica eccezione è data dalla eventualità dell’esercizio provvisorio dell’impresa. Nel caso, infatti, la norma dispone in via generale la prosecuzione del contratto di locazione finanziaria, in quanto contratto di impresa avente ad oggetto beni strumentali necessari alla continuazione dell’attività svolta dal soggetto fallito in data antecedente alla dichiarazione di fallimento, salvo che il curatore espressamente dichiari di volersi sciogliere. Quest’ultimo succede quindi nel rapporto acquistando però ex lege un diritto di recesso che gli consente di sciogliersi dal rapporto, anche se successivamente.
Poiché l’articolo 72 prevede con norma generale che, se il curatore decide di subentrare nel contratto, resta assoggettato ai relativi obblighi, si realizza, per la ipotesi di fallimento dell’utilizzatore, lo stesso effetto già previsto nell’articolo 73 per la vendita con riserva di proprietà: se il curatore subentra dovrà corrispondere tutti i canoni mancanti, il pagamento dei quali diviene debito della massa che deve essere pagato per intero in prededuzione.
Una spinosa questione concerne invece la sorte degli eventuali canoni non pagati dall’utilizzatore poi fallito sino alla data di dichiarazione di fallimento. In assenza di una previsione normativa sul punto e in considerazione della efficacia retroattiva del subentro del curatore (almeno sino alla data di dichiarazione di fallimento), si ritiene che i canoni pregressi e non pagati dall’utilizzatore poi fallito diventano anche essi un debito di massa, come tali da pagarsi per intero e in prededuzione. A differenza di quanto stabilito per la vendita con patto di riservato dominio, non è previsto che il curatore debba pagare l’intero importo o prestare, a richiesta della controparte, una idonea cauzione. Ne discende che l’unica vera differenza tra la regola posta dalla citata norma per l’ipotesi di fallimento dell’utilizzatore e quella prevista dall’art. 73 per il fallimento del compratore nella vendita con riserva di proprietà, è che nel primo caso se il curatore decide di subentrare nel contratto non deve né adempiere immediatamente né prestare cauzione.
L’art. 72 quater prosegue disponendo per il caso in cui il curatore decida di sciogliersi dal contratto. In tale ipotesi, analogamente a quanto previsto nella vendita con riserva di proprietà, la società concedente ha diritto alla restituzione del bene, sempre che il contratto di leasing abbia data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore e sia quindi opponibile ai sensi dell’art. 2704 c.c. alla curatela; tuttavia, mentre nell’art. 73 è previsto l’equo compenso in favore del venditore in bonis, invece nell’art. 72 quater è previsto un più complesso meccanismo: la restituzione alla curatela dell’eventuale differenza tra quanto ricavato dalla vendita o ricollocazione del bene a terzi secondo il valore di mercato e il ‘credito residuo in linea capitale’; con irrevocabilità a norma dell’art. 67, terzo comma, lett. a) delle somme già riscosse. Il medesimo concedente ha quindi diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza tra credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. Con tale previsione il legislatore considera che la durata del contratto di leasing può non corrispondere alla durata economica del bene. Con la conseguenza che, interrompendosi la esecuzione del contratto, il bene può avere un valore corrispondente a quello dei canoni scaduti e impagati, ovvero un valore inferiore o superiore. Per questa ragione la consolidata giurisprudenza sopra richiamata usava distinguere tra le figure del leasing traslativo e finanziario (o di godimento). La nuova regola, in recepimento di questo consolidato orientamento, stabilisce un complesso criterio per la determinazione dei rapporti di dare e avere tra curatore e società di leasing.
Poiché, come detto, il bene ceduto può avere un valore non corrispondente alla somma dei canoni a scadere, si dispone che:
a) il curatore restituisca il bene alla società concedente;
b) quest’ultima realizzi il bene sul mercato; tutto ciò al fine di poter comparare il prezzo così ottenuto con l’ammontare dei canoni a scadere. Da questa comparazione emergerà se, al momento del fallimento dell’utilizzatore, il bene aveva un valore inferiore, corrispondente o superiore alla somma di detti canoni. All’esito della vendita del bene, la società concedente dovrà riferire agli organi della procedura e, in relazione alle diverse ipotesi dovrà dichiarare alternativamente che (i) il prezzo conseguito in sede di vendita è inferiore alla somma dovuta per i canoni a scadere (c.d. credito residuo); il prezzo realizzato dalla vendita del bene è corrispondente; (iii) il prezzo di ricollocazione del bene è superiore alla somma dovuta per i canoni scaduti. Questa regolamentazione mira al risultato di definire con maggiore realismo i rapporti di dare e avere tra procedura e società di leasing. Infatti, il non risolto dubbio sulla corrispondenza del valore residuo del bene alla somma dei canoni a scadere – dubbio che aveva originato la nota distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo – non poteva essere convenientemente risolto sulla base di criteri astratti ovvero per mezzo di consulenza tecnica d’ufficio sul residuo valore del bene, bensì solo attraverso la concreta ricollocazione di quel bene sul mercato.
Questa soluzione ha suscitato una critica fondata su ragioni economiche non dissimili da quelle nutrite dal legislatore. Si era infatti obiettato che nella sua attività di ricollocazione del bene sul mercato la società di leasing non sarebbe stata in nessun modo incentivata a conseguire il massimo prezzo. Infatti, mentre avrebbe verosimilmente prestato attenzione ad ottenere un corrispettivo pari al valore residuo del bene (così da evitare una probabilmente infruttuosa ammissione al passivo), nessuno stimolo avrebbe avuto a conseguire un prezzo che, per la parte eccedente le somme dei canoni a scadere, sarebbe stato da restituire alla procedura. In sede di intervento correttivo è stata così introdotta la specificazione che la vendita del bene deve avvenire a valori di mercato.
Tale precisazione comporta la rilevante conseguenza che gli organi della procedura potranno variamente determinarsi nei confronti della società di leasing e così, non giudicando congruo il prezzo di riallocazione,: a) respingere la domanda di ammissione al passivo per la differenza tra minor prezzo e canoni a scadere;
b) richiedere alla società di leasing la differenza tra prezzo conseguito corrispondente alla somma dei canoni a scadere e maggior valore di mercato. Quanto alla regolazione in sede concorsuale della differenza tra credito vantato dal concedente e ricavato dalla vendita o allocazione del bene la norma indica quale momento di determinazione di tale credito la dichiarazione di fallimento. Secondo i primi commentatori della norma, tale credito dovrebbe ricomprendere tutti i canoni, sia scaduti sia a scadere, comprensivi della componente di interessi corrispettivi, oltre agli interessi di mora sino alla data di fallimento. La somma cosi determinata potrà essere insinuata nello stato passivo secondo le regole del concorso. Quanto alla ipotesi di fallimento del concedente, che il comma 4 dell’art. 72 quater definisce come le società autorizzate alla concessione di finanziamenti sotto forma di locazione finanziaria, la norma prevede l’automatica prosecuzione del contratto; ne consegue la facoltà per l’utilizzatore di acquistare, alla scadenza, la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.
5. Dal ‘contratto di somministrazione’ ai ‘contratti ad esecuzione continuata o periodica’.
In materia di contratti traslativi di durata, regole generali erano e sono dettate dall’articolo 74 l.f. La norma, nella formulazione antecedente all’intervento correttivo attuato con il d.lgs 169/2007, disciplinava sia la fattispecie della somministrazione sia quella della vendita a consegne ripartite. Precisamente, il primo comma prevedeva che a tali contratti si applicassero i primi due commi dell’art. 72; nel capoverso successivo prevedeva che, in ipotesi di subentro nel contratto, il curatore dovesse pagare integralmente il prezzo delle consegne avvenute e dei servizi erogati. Pertanto, anche per le fattispecie in esame valeva la regola generale per cui l’esecuzione del contratto si arrestava e il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, poteva effettuare la scelta tra la esecuzione del contratto stesso o il suo scioglimento. Nel caso di inerzia del curatore, il contraente in bonis poteva metterlo in mora facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni decorso il quale il contratto si intendeva sciolto. La previsione dell’obbligo del curatore di pagare integralmente il prezzo delle consegne già eseguite e dei servizi già erogati costituiva una rilevante eccezione al principio generale secondo il quale i crediti sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento devono essere soddisfatti in moneta fallimentare e previa ammissione allo stato passivo. Tale ultima regola è stata variamente giustificata, talora richiamando esigenze di equità, altre volte invocando la unitarietà del contratto in considerazione della previsione civilistica della facoltà del somministrante di sospendere l’esecuzione in caso di inadempimento del somministrato. Il nuovo testo dell’articolo 74, come modificato dall’intervento correttivo di cui al d.lgs 169/2007, è rubricato ai contratti ad esecuzione continuata o periodica. La norma dispone che se il curatore subentra in tali contratti deve pagare integralmente il prezzo anche delle consegne già avvenute o dei servizi già erogati.
La portata innovativa della previsione risiede nell’oggetto della disciplina: non più ed esclusivamente riferita alla vendita a consegne ripartite e alla somministrazione ma, più in generale, a tutti i c.d. contratti di durata. La disposizione non innova nei contenuti disciplinari rispetto alla formulazione antecedente. In particolare, non è ripetuto che si applica, anche in queste fattispecie, la regola generale dell’art. 72; l’inciso è stato eliminato in quanto evidentemente superfluo (se la disposizione tratta degli obblighi del curatore che intende proseguire nel contratto non può che presupporre a monte la decisione dello stesso curatore di sciogliersi o subentrare). Invece, è ripetuto che sul curatore subentrante grava l’obbligazione di pagare anche consegne e servizi ricevuti dal fallendo e rimasti inadempiuti. Si è accennato che questa disposizione, in quanto eccezionale rispetto alle regole generali del concorso aveva suscitato un acceso dibattito sulle ragioni che l’animassero. La sua conservazione nel nuovo testo, dedicato ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, induce a ritenere preferibile la tesi sulla unitarietà causale del contratto in esecuzione quale ragione giustificativa della sottrazione del credito pregresso alle regole del concorso. Infatti, la considerazione dei contratti di durata, globalmente considerati induce a ritenere che la eccezione al concorso sia giustificata proprio da questa caratteristica di elezione, che separa tale contratto da quelli ad esecuzione istantanea o differita. Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica elemento fondamentale del sinallagma è la modalità della prestazione, inapprezzabile nei suoi momenti isolati e considerabile esclusivamente nel suo valore complessivo, dato dal costante ripetersi nel tempo. Sembra pertanto che la regola fallimentare privilegi la peculiarità causale dei contratti di durata e la non frazionabilità del momento esecutivo degli stessi ai fini di un trattamento diversificato da riservare ad uno dei due contraenti. Per questa ragione, mentre il curatore resta libero di dare corso o invece di sciogliersi dal contratto, non può scegliere di dare corso al contratto senza assumere per intero l’obbligazione in quel momento gravante sul fallito.
La norma fallimentare assume un più ampio significato se collocata nel vasto panorama del nuovo diritto contrattuale, nel quale, sotto la spinta delle prassi internazionali, i contratti di durata acquisiscono uno statuto sempre più definito e caratterizzato dalla preoccupazione sia del legislatore sia degli operatori di considerare tali contratti non isolatamente ma in quanto inseriti nelle prassi commerciali che legano anche fittamente più imprese per rilevanti periodi di tempo (come dimostrano la legge del 1998 sui contratti di subfornitura, dalla legge 6 maggio 2004 sul franchising; senza considerare l’attenzione dottrinale riservata ai fenomeni dei cosiddetti relational contracts e delle reti di impresa).