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di Patrizia Marzaro
1. Agli occhi del giurista che si occupi (e si preoccupi…) di urbanistica – con tutta la consapevolezza della difficoltà in cui vive questa materia e dei limiti che incontra nella convivenza con gli interessi pubblici e privati che gravano sul territorio – appare oggi sempre più chiaro – nel tempo del post Covid e della guerra – che la realtà straordinaria e fragile in cui stiamo vivendo postuli un bisogno di pensiero lungimirante anche sulla funzione della città nella sua dimensione di spazio politico per eccellenza, sul diritto – della persona e della comunità – alla città, alla coesione sociale, all’inclusione, alla sostenibilità.
Che quindi essa ponga sul tappeto una forte richiesta di pianificazione.
Si dibatte con diffusa preoccupazione sul fatto che questo debba essere il tempo della rinascita, della rigenerazione della città; non può essere quindi che la decisione pubblica, la pianificazione delle Istituzioni, a dover tornare in primo piano, certamente senza farsi prendere la mano dalla retorica del piano, che peraltro appare ormai da sè privo di qualsiasi habitus mitologico, ma ancorandola comunque in modo solido a quella funzione assegnata all’ente locale dalle parole del giudice amministrativo, che oggi è ancora rappresentata in modo particolarmente significativo nella cd. sentenza sul p.r.g. di Cortina, la n. 2710 del 2012 del Consiglio di Stato[2], e alla quale non è solo il giudice amministrativo a continuare a fare riferimento, ma, come si vedrà, anche la stessa giurisprudenza costituzionale.
Il disegno tracciato dal giudice in quella pronuncia – e contemporaneamente spesso negato dal legislatore statale e regionale – conserva infatti ancora tutto il proprio significato. “L’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli – non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi -, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta – per autorappresentazione ed autodeterminazione – dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio”.
2. Paolo Stella Richter nel 2017, nella Rivista giuridica di urbanistica[3], parlava della fine del piano e del suo mito, ma in fondo del mito è sempre bene fare a meno, anzi smitizzare il piano aiuta ad interrogarsi sul suo ruolo e sulla realtà senza pregiudizi, però siamo consapevoli che nel momento in cui affrontiamo il tema della ricostruzione della città, della sua rinascita, della rigenerazione urbana, non possiamo che guardare alla pianificazione di impronta pubblica; le operazioni cd. di macrorigenerazione urbana non possono che fondarsi su scelte strategiche pubbliche. La riqualificazione della città oggi infatti deve mirare anzitutto a superare e risolvere le diseguaglianze territoriali, a ricostruire il tessuto sociale, non può certo limitarsi a ragionare in una logica quantitativa incentrata sugli standards e sulla misura della trasformazione del territorio. Saranno poi le politiche cd. di microrigenerazione a vedere protagonista l’intervento dei privati, peraltro non soltanto investitori ed imprese – in attuazione delle strategie elaborate in sede pubblica -, ma anche la cittadinanza in via di sussidiarietà orizzontale, specialmente attraverso modelli ispirati ai cd. patti di collaborazione. Anche la finalità di evitare il consumo di suolo non esaurisce assolutamente il tema della rigenerazione, che richiede invece attenzione primaria ai diritti fondamentali e deve essere espressione di politiche integrate di cura dell’interesse pubblico.
Se posso anzi permettermi un’altra digressione, vorrei andare a quell’affermazione fondante di Paolo Stella Richter sulla “sostanziale incompatibilità del diritto urbanistico con i principi di eguaglianza dei cittadini”[4] che attraversa tutta la sua opera, per una riflessione un po’ provocatoria: ma oggi la discriminazione riguarda ancora la proprietà immobiliare? Ormai sono i grandi investitori, i fondi immobiliari, la imprese, a trarre profitto dalle operazioni di riqualificazione di un territorio già urbanizzato e una cattiva riqualificazione, avulsa da una strategia pubblica oggi crea discriminazione prima di tutto all’interno della comunità; dalla diseguaglianza immobiliare siamo transitati alla diseguaglianza sociale, alla sperequazione nel godimento dei diritti fondamentali, prima ancora che immobiliari.
Forse potremmo chiederci se oltre al suolo oggi si sia consumata anche la proprietà; in ogni caso il ‘terribile’ diritto ha cambiato pelle, e sarebbe interessante tornare in futuro su una questione che ha occupato (e ‘spaventato’) tutti coloro che si sono occupati di diritto urbanistico; in fondo non si tratterebbe che di ritrovarsi ad occuparsi della funzione di pianificazione urbanistica dal rovescio della medaglia…
3. Se è innegabile questo bisogno di decisione pubblica, di assunzione di responsabilità da parte della mano pubblica, ciò peraltro porta con sé la necessità di una forte investitura da parte della cittadinanza, la partecipazione della quale è indispensabile anzitutto per ricostruire la legittimazione delle Istituzioni, per supplire a quel deficit di rappresentanza democratica che mostra sempre più tutti i propri limiti nel governo della cosa pubblica[5]. La cittadinanza ha bisogno di interlocutori preposti alla cura degli interessi della comunità, la rigenerazione, la ricostruzione urbana, non possono che venire da scelte strategiche pubbliche, legittimate dalla partecipazione popolare.
Se ci si ferma a riflettere, in fondo anche la stessa Smart City, a cui si guarda spesso come ad una sorta di narrazione salvifica, ma con attenzione superficiale, ad un occhio profondo può apparire come un “sistema cibernetico a regia eteronoma e centralizzata”, che porta con sé il rischio dell’assenza di una progettazione politica democratica degli strumenti di governo del territorio e della collettività[6].
Del resto, gli istituti di partecipazione trovano nella pianificazione una sede fisiologica, potendo assumerne le forme più diverse proprio perché essi si presentano come espressione tipica dell’autonomia degli enti locali, e trovano sempre più attenzione (e tendenziale applicazione) proprio in veste di anello di congiunzione tra sovranità e partecipazione, legato proprio alla crisi dei sistemi rappresentativi. Nella migliore dottrina è stato infatti l’art. 5 Cost. uno dei pilastri su cui ha trovato fondamento la partecipazione del quivis de populo, ravvisandone la ragion d’essere profonda nella necessità di dare respiro alla partecipazione sociale, attraverso la quale le comunità possono arrivare a realizzare il giusto livello di autogoverno[7].
Per altro verso l’autonomia – è stato efficacemente osservato[8] – è uno spazio politico di libertà, funzionale alla comunità, non all’ente, al punto che “la storia della pianificazione urbanistica è la storia dell’istituzione locale”.
E infatti l’autonomia a livello comunale è stata messa profondamente in crisi a mano a mano che si affermava l’urbanistica contrattata e poi la legislazione sul Piano Casa è intervenuta facendo da vettore e moltiplicatore del virus dell’ineffettività[9] della disciplina urbanistica, della cd. depianificazione del territorio.
4. Eppure, guardando al futuro, trascorsi ottant’anni dall’approvazione della Legge urbanistica fondamentale, non ci si può esimere dal continuare a cercare delle risposte, e, in un quadro così frammentato come quello tipico del governo del territorio, di fronte alle specificità della legislazione regionale e ad un legislatore statale che ha disseminato la storia di questa materia di riforme (di principio) mai arrivate in porto, può essere solo la dimensione costituzionale ad offrirci i semi del riconoscimento e di una rivitalizzazione dell’autonomia comunale in materia di pianificazione
Negli ultimi anni la Consulta sembra avere gradualmente riportato l’attenzione sul ruolo dell’autonomia comunale nel governo del territorio, a fronte di scelte legislative regionali frutto di un indirizzo politico forse troppo dirigista e disinvolto nei confronti dei poteri comunali, peraltro dopo avere sancito attraverso una giurisprudenza copiosa la legittimità costituzionale di numerosi Piani Casa regionali, i quali comunque fondavano le proprie radici nell’Intesa del 2009 stipulata in Conferenza Unificata Stato Regioni, in una materia (non è assolutamente senza importanza) attribuita alla competenza legislativa concorrente dei due enti.
Non si può ancora ritenere che attraverso queste pronunce si sia formato un indirizzo consolidato, data la multiformità della materia, che vede il giudice costituzionale occupato caso per caso a misurare la portata dei principi di sussidiarietà verticale e di proporzionalità nel sindacato sui limiti regionali al potere comunale di pianificazione, in un intreccio di materie a propria volta diviso tra legislazione statale esclusiva in tema di “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” e legislazione concorrente sul “governo del territorio”; non vi è alcun dubbio, però, che la Consulta sia intervenuta in modo decisivo a riportare l’attenzione sul tema dell’autonomia comunale, per troppo tempo appiattito sull’Intesa Stato- Regioni sul Piano Casa, e consideri oggi la strada aperta.
Ci si può limitare qui a ricordare alcune recenti pronunce che recano al loro interno più elementi di interesse.
Sicuramente un riferimento ormai consolidato è rappresentato dalla nota sentenza n. 179 del 2019[10], su una legge della regione Lombardia che poneva un sostanziale divieto di variante ai piani comunali vigenti – non solo in peius ma anche in melius, rispetto alla finalità di contenimento del consumo di suolo perseguita dalla normativa regionale – in attesa che fosse completata la fase transitoria prevista per l’integrazione e l’adeguamento dei piani stessi; di essa vanno evidenziati alcuni passaggi, significativi per i parametri utilizzati dalla Corte in sede di sindacato di legittimità costituzionale e per la novità degli argomenti utilizzati. Confermato in premessa che “il sistema della pianificazione” non può assurgere a “principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale di prevedere interventi in deroga alla pianificazione”, ma richiamata anche la propria giurisprudenza meno recente, e anteriore alla modifica del Titolo V, quanto al fatto che “all’interno del delicato rapporto tra l’autonomia comunale e quella regionale…il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere (sent. n. 378 del 2000) e che la suddetta competenza regionale non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni” – la pronuncia apre ad un giudizio di proporzionalità da svolgersi “dapprima in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti”. La norma impugnata sarà dichiarata illegittima in quanto non proporzionata in concreto, poichè “all’interno della complessiva funzione di pianificazione urbanistica comunale, ne ritaglia uno specifico contenuto, quello della potestas variandi e la sottrae ai Comuni, ritenendoli inidonei a svolgerla in nome di una esigenza di esercizio unitario rispondente a non ben definiti interessi generali…”; il potere di pianificazione in variante, infatti, avrebbe potuto comunque essere esercitato nel frattempo per assicurare la finalità individuata dal legislatore regionale, senza invece limitarlo a tempo sostanzialmente indeterminato.
Ma c’è un altro passaggio che va sottolineato in questa pronuncia ormai ‘storica’, perché può aprire a considerazioni su un versante diverso, nella parte in cui colpisce la legge regionale perchè “rende i Comuni meri esecutori di una valutazione compiuta dal livello di governo superiore [in quanto] non viene previsto a favore dei primi alcuna possibilità di una motivata interlocuzione con il secondo, in contrasto …con la necessità di garantire agli stessi forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia”
In una sentenza di poco successiva, anche se di rigetto – la n. 198 del 2019 – la Corte segnava poi il confine dei poteri urbanistici comunali (della relazione tra autonomia comunale e potere legislativo regionale in sede di governo del territorio), nella “condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia”.
Ancora più di recente, con la sentenza n. 202 del 2021[11] – di nuovo una declaratoria di illegittimità di una legge lombarda, in materia di rigenerazione urbana – la Corte affronta la questione di legittimità sempre alla luce del principio di sussidiarietà verticale, riaffermando che l’autonomia comunale “non implica una riserva intangibile di funzioni”, potendo il legislatore competente “modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali”; tipicamente, in questi tempi, si tratta di quelle esigenze che prendono corpo in un “obiettivo generale di interesse pubblico, perseguito con disposizioni incentivanti di carattere straordinario, limitate nel tempo e operanti per zone territoriali omogenee”, cui fa riferimento anche un’altra pronuncia di poco precedente, la n. 119 del 2020[12]. Anche in questo caso il giudizio viene poi sviluppato attraverso le diverse fasi del sindacato di proporzionalità, per concludere che i “Comuni lombardi vedono gravemente alterati i termini essenziali di esercizio del loro potere pianificatorio, per il fatto che risulta loro imposta una disciplina che genera un aumento non compensato, di portata potenzialmente anche significativa, del carico urbanistico…”. In questa ipotesi, anzi, dalla pronuncia si può cogliere un elemento ulteriore rispetto al quadro risultante dalla n. 179 del 2019, perché, nel compiere la valutazione di proporzionalità in senso stretto della legge regionale, il sacrificio non tollerabile viene riferito ad uno degli oggetti peculiari della funzione di pianificazione, il carico urbanistico, il quale rappresenta l’indice tipico di quella trasformazione del territorio che costituisce una delle prime cause giustificatrici del potere comunale di disciplina dell’uso del territorio.
5. Se questo è il quadro entro il quale la questione dell’autonomia comunale in sede di pianificazione urbanistica è stata affrontata, ed entro cui devono essere individuate le coordinate irrinunciabili della funzione di pianificazione, non si può ignorare una pronuncia ancora più recente – la n. 17 del 2023 – che ad avviso di chi scrive costituisce un ulteriore passo in avanti per l’ampiezza dei parametri utilizzati, e con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una legge della regione Puglia, recante ennesima proroga delle disposizioni derogatorie del piano casa.
Riportata al centro dell’attenzione la ratio del potere di pianificazione, con una sorta di rovesciamento dello schema rispetto alle svariate pronunce sul Piano Casa, il giudice costituzionale non si esime dal rilevare che “reiterate proroghe di una disciplina eccezionale e transitoria, volta ad apportare deroghe alla pianificazione urbanistica al fine di consentire interventi edilizi di carattere straordinario, possono compromettere l’imprescindibile visione di sintesi, necessaria a ricondurre ad un assetto coerente i molteplici interessi che afferiscono al governo del territorio ed intersecano allo stesso tempo l’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.)”. Il giudice prosegue poi richiamando ‘frammenti’ di propri precedenti, osservando che “questa Corte ha già sottolineato che «[i]l prolungato succedersi delle proroghe di una disciplina derogatoria, in contrasto con le esigenze di una regolamentazione organica e razionale dell’assetto del territorio, presenta un innegabile rilievo» (sentenze n. 24 del 2022 e n. 170 del 2021). Inoltre, la previsione di «interventi parcellizzati, svincolati da una coerente e stabile cornice normativa di riferimento, trascura l’interesse all’ordinato sviluppo edilizio, proprio della pianificazione urbanistica» (sentenza n. 24 del 2022; nello stesso senso sentenza n. 219 del 2021)…”.
Ma a dover richiamare l’attenzione dell’interprete è un passaggio successivo di questa pronuncia – quello che la chiude in modo molto asciutto, al punto da poter passare ‘quasi inosservato’ – nel quale la Corte, abbandonato il parametro della competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma Cost, che giustificava la declaratoria di illegittimità della legge regionale di proroga del piano casa, “pena la destrutturazione dell’ordinato assetto del territorio, che può essere assicurato esclusivamente dalla pianificazione urbanistica”, passa a pronunciarsi su un diverso motivo di ricorso, prospettato dallo Stato in sede di impugnazione in via di azione, vale a dire sulla lamentata violazione di due parametri costituzionali ampi, e generalissimi, gli artt. 3 e 97 Cost., che paiono essere sempre ‘trattati’ con estrema attenzione e circospezione dal giudice costituzionale, proprio per l’ampiezza delle loro ‘potenzialità interpretative’, che potrebbe scivolare nel rischio della loro ‘indeterminatezza’.
Ciò che colpisce in particolare, sono l’asciuttezza e la stringatezza delle conclusioni. “Va ribadito anche in questa sede” – ma nella pronuncia precedente cui fa rinvio, la 229 del 2022 non si era arrivati a dichiarare l’illegittimità costituzionale di altra legge regionale di proroga del Piano Casa – “che tale prolungato e più volte ripetuto succedersi di proroghe espone a rischio il buon andamento dell’azione amministrativa nella corretta gestione del territorio e nella sua tutela, consegnandolo a una dimensione perennemente instabile e precaria”.
Attraverso un unico periodo, ecco che il giudice costituzionale riporta al centro dell’attenzione, riconoscendo la violazione del principio che regge tutto l’esercizio delle funzioni amministrative, la ratio del potere di pianificazione urbanistica e ripristina la sua tipicità.
Innegabilmente queste recenti pronunce segnano un risveglio di attenzione sui temi dell’autonomia dell’ente locale ponendo la questione dello spazio vitale da riconoscere al potere di pianificazione urbanistica comunale. Sicuramente esse trovano ragione anche nel fatto che ci si sta man mano allontanando dalla stagione del Piano Casa, e permettono di riportare al centro dell’attenzione le questioni del bilanciamento degli interessi gravanti sul territorio nel senso più ampio, con la necessità per l’ente locale di ritornare all’esercizio del potere di indirizzo politico proprio in ragione del perseguimento di quegli obiettivi di coesione sociale e di transizione ecologica che si presentano come ineludibili in sede di rigenerazione urbana.
6. Vi è anche un diverso versante al quale si deve portare attenzione, evidenziato dalla giurisprudenza sin qui ricordata.
Non vanno infatti sottovalutati i richiami del giudice costituzionale alla necessaria cooperazione tra istituzioni in ragione dei diversi livelli di governo del territorio coinvolti, quando affronta il tema del ricorso a meccanismi di compensazione procedurale ‘partecipativa’ nella ricerca dell’autonomia da riconoscere – o da restituire – all’ente locale.
Essi si fondano senza dubbio sul principio di sussidiarietà verticale – quanto all’individuazione dello stadio adeguato di allocazione delle funzioni, tanto normative che amministrative – ma non paiono esaurire in quel contesto la propria forza espansiva. L’attenzione rivolta al significato in sé della sede procedimentale, ad un meccanismo di legalità procedurale che deve supplire all’assenza di limiti predefiniti nell’allocazione delle funzioni di tutela di interessi che si distribuiscono su una pluralità di livelli territoriali, apre anche a riflessioni che vanno al di là della necessità di assicurare il raccordo tra enti, e spostano l’attenzione su di un diverso filone della giurisprudenza costituzionale che sta emergendo con una certa frequenza negli ultimi anni, il quale, in diverso modo torna a mettere al centro la funzione del procedimento amministrativo.
Ciò in particolare rileva in questa sede perché avviene proprio con particolare riguardo agli atti di pianificazione “da adottarsi a seguito di un’adeguata istruttoria e di un giusto procedimento, aperto al coinvolgimento degli enti territoriali e dei soggetti privati interessati e preordinato alla valutazione e alla sintesi delle plurime istanze coinvolte (statali, locali, private)”[13], arrivando talora a configurare espressamente per questi atti una “riserva di procedimento amministrativo”[14].
Non ci si può purtroppo diffondere qui in modo approfondito su questi profili, ma non vi è dubbio che ormai oggi si possa parlare di un orientamento generale dal quale emerge un favor del giudice costituzionale per il procedimento pianificatorio come ‘luogo elettivo di garanzia’ per gli interessi sensibili coinvolti nell’uso del territorio. Ciò non si riscontra soltanto nel governo del territorio, anzi il problema si è posto forse più di frequente quando si tratti di discipline dagli importanti risvolti ambientali, ma sicuramente si tratta di un indirizzo che merita particolare considerazione e che trova ragione proprio nella natura del procedimenti pianificatorio in generale come procedimento di ‘area vasta’, collettore di una pluralità di interessi pubblici e privati, da comporre in quella tutela sistemica che si oppone ai cd. diritti tiranni, ormai da tempo disegnato dal giudice costituzionale come lo scenario necessitato entro cui devono muoversi anche gli interessi costituzionali primari[15].
Ora, come avviene sempre nel sindacato della Corte, ogni pronuncia reca in sé dei profili innati di specificità, legati al contesto normativo interessato, alla natura del riparto di competenze fra Stato e Regione, ai parametri di volta in volta richiamati, eppure, al di là degli aspetti particolari, la giurisprudenza cui si fa riferimento sembra considerare oggi i procedimenti pianificatori – nei quali il potere di valutazione tecnica della consistenza degli interessi si intreccia, mitigandosi, con l’esercizio della discrezionalità amministrativa, quanto alla loro ponderazione e comparazione – l’unica sede di (tendenziale) effettivo bilanciamento in concreto degli interessi pubblici, oltre che privati, e in particolare di quelli sensibili.
Non si può dimenticare infatti che, quando si tratti di scendere poi sul piano delle pronunce sulle istanze di utilizzo del territorio avanzate dal privato, ci si trova nuovamente di fronte alla giurisprudenza costituzionale, questa volta ‘ferrea’, però, nel senso opposto, nel sostenere le ragioni della semplificazione, espressione di un livello essenziale delle prestazioni, capace di assicurare quella concentrazione dell’esercizio delle funzioni amministrative, in chiave di celerità e razionalizzazione oggi richieste dal mercato[16]; ma causa allo stesso tempo di un progressivo svuotamento di funzione delle regole procedurali, in quanto finalizzate a garantire in concreto una puntuale, adeguata, valutazione degli interessi in gioco.
Di fronte ad una progressiva perdita di senso del procedimento amministrativo nella sua accezione più consueta, via via compresso da meccanismi di semplificazione ispirati a una corsa contro il tempo che assume sempre più le sembianze di una rinuncia preventiva ad assicurare la cura degli interessi pubblici, non può essere ignorata questa ‘riserva di amministrazione’ che il giudice costituzionale sembra pian piano approntare attorno ai procedimenti di pianificazione, in quanto aventi ad oggetto la pluralità di interessi che con diverso peso ricadono sul territorio, anche se i percorsi che segue per arrivare a configurarla sono diversi, e non ancora pienamente compiuti.
Com’è noto, è ormai dotato di una notevole stabilità l’orientamento sviluppatosi in materia di fonti rinnovabili – rientranti nella competenza concorrente sulla “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” di cui all’art. 117, terzo comma, e in particolare per quanto riguarda la disciplina dell’art. 12 D.Lgs. n. 387 del 2003, con le relative Linee Guida approvate in sede di Conferenza Unificata e investite della stessa forza di principio fondamentale riconosciuto alla norma primaria – in relazione ad una pluralità di leggi regionali che provvedevano direttamente all’individuazione delle “aree e siti non idonei all’installazione di specifiche tipologie di impianti”, che invece la normativa statale riserva ad uno specifico atto di pianificazione regionale, con cui si “conciliano le politiche di tutela dell’ambiente e del paesaggio con quelle di sviluppo e valorizzazione delle energie rinnovabili…”. A tale proposito – osserva la Corte – “una normativa regionale, che non rispetti la riserva di procedimento amministrativo e, dunque, non consenta di operare un bilanciamento in concreto degli interessi, strettamente aderente alla specificità dei luoghi, impedisce la migliore valorizzazione di tutti gli interessi pubblici implicati”[17].
In questo contesto la Consulta non teme di parlare di riserva di procedimento, sottolineandone la ratio: “l’atto di pianificazione contiene criteri che presiedono alla determinazione, attuata con il singolo atto autorizzativo, vòlta a comporre in concreto i tanti interessi coinvolti”[18]. La scelta di bilanciamento degli interessi, ragion d’essere della sede procedurale ed espressione di una discrezionalità mista, tecnica e amministrativa, tipica dei procedimenti di area vasta, deve dunque essere assicurata a monte, in sede pianificatoria, per garantire quella celerità della decisione a valle che in realtà non si è più in grado di assicurare, avendo oramai assunto l’interesse alla tempestività del provvedimento puntuale il rango di interesse pubblico primario nei procedimenti semplificati.
In un quadro ordinamentale profondamente mutato, sotto l’occhio attento della Corte, il procedimento pianificatorio va dunque incontro ad un processo di valorizzazione, allo scopo di assicurare “il bilanciamento in concreto degli interessi che il legislatore statale affida al procedimento amministrativo”, garantendo almeno un parziale esercizio di quella discrezionalità destinata a non trovare più necessariamente spazio in sede di procedimento semplificato.
7. Ancora più interessanti in questa sede sono quelle pronunce nelle quali il giudice costituzionale non configura una riserva di procedimento amministrativo utilizzando solo gli specifici parametri propri delle singole fattispecie, ma allarga il proprio sguardo sulla funzione in sé del procedimento amministrativo, usa l’endiadi “riserva di procedimento e della relativa istruttoria”[19], osservando – anche qui si trattava della pianificazione per l’installazione delle fonti rinnovabili – che la relativa “valutazione può e deve utilmente avvenire nel procedimento amministrativo, la cui struttura rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241”[20]. Ma anche in relazione a fattispecie diverse, il più delle volte legate a cd. leggi provvedimento, la Corte ha precisato che “le norme statali che rimettono la definizione di interventi regionali ad atti di pianificazione devono intendersi prescrittive della forma dell’atto amministrativo; solo così infatti è possibile assicurare le garanzie procedimentali per un giusto equilibrio tra i vari interessi in gioco… Del resto – si prosegue – l’atto amministrativo costituisce il punto di approdo di un’adeguata attività istruttoria svolta nella sede procedimentale, aperta al coinvolgimento degli enti territoriali e dei soggetti privati interessati, e quindi preordinata all’apprezzamento e alla sintesi delle plurime istanze coinvolte (siano esse statali, locali o private); è in tale sede che dette istanze possono adeguatamente emergere ed essere valutate in modo trasparente, e ciò non solo a garanzia dell’imparzialità della scelta – nel rispetto del principio di cui all’art. 97 Cost. – ma anche e soprattutto per il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario coinvolto…”[21] .
Anche prima della pronuncia n. 17 di quest’anno, la Consulta ha talora utilizzato espressamente come parametro generale di legittimità anche l’art. 97 Cost., ponendo al centro del proprio sindacato i canoni fondamentali di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.
Parla di “implicita riserva di amministrazione” Corte Cost. n. 258 del 2019, con riferimento ancora una volta alla garanzia di “un’istruttoria approfondita e trasparente anche ai fini del controllo giurisdizionale”; e anche due pronunce dell’anno precedente, utilizzano espressamente il parametro dell’art. 97 Cost.
Con la sentenza n. 69 del 2018[22] – sempre in tema di energie rinnovabili di cui all’art. 12 del D. Lgs. n. 387 del 2003 – la Corte ha sì fatto valere il “principio di massima diffusione degli impianti di energia a fonte rinnovabile”, il quale “può trovare eccezione in presenza di esigenze di tutela della salute, paesaggistico-ambientale e dell’assetto urbanistico del territorio”, ma ha preferito poi concentrarsi sulle virtù del procedimento amministrativo, piuttosto che fondare la pronuncia di illegittimità sulla riserva di procedimento di cui alla normativa speciale.
E così il giudice sente la necessità di diffondersi sull’essenza della sede procedimentale nella quale “può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela. La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241…”, così venendo garantita “in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.”.
Anche nella pronuncia coeva n. 66 del 2018, la Corte non rinnega la propria giurisprudenza in materia di leggi provvedimento, ma ne ribadisce la necessaria sottoposizione ad uno scrutinio di stretta costituzionalità che in questo caso porta all’illegittimità della legge perché essa “incide su procedimenti di piano che intrecciano strettamente competenze statali (la tutela ambientale e la pianificazione paesaggistica) e regionali (la disciplina delle cave e delle torbiere)”, laddove invece la Regione avrebbe dovuto operare con atti di pianificazione, da “adottarsi a seguito di un’adeguata istruttoria e di un giusto procedimento, aperto al coinvolgimento degli enti territoriali e dei soggetti privati interessati e preordinato alla valutazione e alla sintesi delle plurime istanze coinvolte (statali, locali, private)”, ancora una volta insistendo sulla necessaria “ponderazione degli interessi emersi nella sequenza procedimentale, in vista del perseguimento del primario interesse pubblico, in coerenza con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97, secondo comma, Cost.”.
8. I principi tracciati dal giudice costituzionale, sembrano dunque offrire oggi gli argomenti più robusti e fertili per una nuova considerazione della funzione della pianificazione urbanistica come espressione del principio di autonomia e di buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto sede nella quale converge necessariamente quella pluralità di interessi pubblici che si fondano su valori costituzionalmente garantiti cui fa riferimento espresso anche il giudice costituzionale.
Molte sono anche in questo caso le sfaccettature del tema, ma almeno alcuni profili vanno qui messi in evidenza per essere poi affidati ad una riflessione futura più ampia.
Il punto di partenza da cui non si può prescindere è costituito dal fatto che il grande dibattere di rigenerazione urbana, la ricerca della ricostruzione della città e della comunità, non possono prescindere da scelte strategiche da parte delle istituzioni pubbliche, le quali devono fondarsi necessariamente sulla conoscenza dello stato – materiale e immateriale – del territorio e dei bisogni della collettività, e sul confronto e la condivisione con i privati; tutto ciò, è evidente, rimette in gioco il ruolo primario della pianificazione pubblica.
Anzi, se la Corte costituzionale nell’affrontare il tema della spettanza al Comune del potere di pianificazione, richiama ad una sorta di nucleo intangibile, che richiede comunque il confronto necessario con l’ente locale allo scopo di non annullare o comprimere radicalmente il potere di pianificazione, si potrebbe iniziare a costruire questo nucleo essenziale proprio a partire dalla necessaria conoscenza delle specificità del territorio, quelle che richiedono il confronto e l’elaborazione di scelte, locali, con la partecipazione dei cittadini, espressione imprescindibile dell’indirizzo politico del Comune. Una limitazione ragionevole dell’autonomia dell’ente non può mai andare a sacrificare tali specificità – le invarianti non soltanto ambientali, demografiche, strutturali, ma anche e soprattutto sociali, culturali – rispetto alle quali si riconosce e interagisce anche la comunità.
In fondo, vedendo il disegno in controluce, se è la Consulta a riconoscere al Comune una “riserva di tutela attuabile mediante una delibera di sottrazione, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria al piano casa”[23], essa non potrà che essere rinvenuta anzitutto nella salvaguardia della funzione di disciplina di ciò che caratterizza il proprio territorio e ne definisce le peculiarità e bisogni specifici.
In questo quadro, peraltro – se ne accennava in apertura – non è certo privo di significato che il giudice costituzionale avverta il bisogno di richiamare espressamente nelle proprie pronunce quel disegno tracciato dal giudice amministrativo nell’ultimo decennio, quando sia chiamato a pronunciarsi sull’essenza del potere di pianificazione. E infatti la sentenza n. 202 del 2021, richiama l’indirizzo consolidato del Consiglio di Stato sull’essenza del potere di pianificazione, espressione dell’ “intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”[24], in quanto “rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”[25].
Là dove quindi non operino limiti al potere di pianificazione che vengano da scelte diversamente configurate a garanzia di interessi primari, o da interessi effettivamente allocati su livelli territoriali diversi – e non si presentino situazioni straordinarie che attivino le leve della sussidiarietà in senso verticale e condiviso tra gli enti coinvolti – non si potrà intervenire su di esso per soffocare la conoscenza e l’autonomia delle scelte relative alle specificità del territorio, quelle in ragione delle quali il potere è affidato all’ente esponenziale affinchè ne curi lo sviluppo.
D’altra parte, se, in questa prospettiva, la garanzia delle scelte di pianificazione in quanto fondate sulla conoscenza del territorio da ‘governare’ – nelle sue componenti materiali e immateriali – e il necessario confronto con la collettività, rappresentano il nucleo essenziale del relativo potere di pianificazione, è anche l’autonomia del Comune ad uscire rafforzata da questo processo di lenta costituzionalizzazione della ‘riserva di procedimento e della relativa istruttoria’ che sta emergendo.
La sede pianificatoria non può che apparire necessitata se è finalizzata ad assicurare, attraverso l’esercizio del potere di indirizzo politico, uno sviluppo armonico del territorio basato sulla sua conoscenza, sulla comparazione e sul bilanciamento degli interessi che ne consegue.
Se poi, come si è affermato in dottrina,[26], non vi è più ragione di considerare il piano per la sua dimensione strutturale, oggetto di tanti studi in passato, essendo questa ormai venuta meno, erosa in tante stagioni di legislazione regionale, ma esso ormai si presenta e rileva nella sua dimensione funzionale, ecco che anche sotto questo profilo non può che uscirne valorizzata la ‘riserva di procedimento’.
Se il procedimento di pianificazione urbanistica è luogo essenziale della sintesi degli interessi ricadenti sul territorio, oltre che della partecipazione, del confronto e della collaborazione necessaria, al fine di assicurare lo sviluppo armonico del territorio, l’ordinato assetto del territorio, sulla base di una “visione integrata di una determinata porzione di territorio, sufficientemente ampia da poter allocare su di esso tutte le funzioni che per loro natura richiedono di trovarvi posto” [27], in questa sede trova la propria collocazione fisiologica la riserva di amministrazione, seguendo un percorso che, al livello più elevato dell’ordinamento, si auspica sia ormai avviato verso quella costituzionalizzazione del principio del giusto procedimento che per decenni ha trovato un argine nella sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 1962, e che oggi invece potrebbe offrire garanzie inaspettate a fronte di una politica di semplificazione che sta svuotando sempre di più il procedimento amministrativo, non più forma, ma ormai solo ‘parvenza’ della funzione di cura degli interessi pubblici.
[1] Il presente contributo trae spunto dalla relazione su “La pianificazione urbanistica tra autonomia comunale e riserva di procedimento” tenuta nel convegno su “Ottant’anni dalla legge urbanistica – Giornata di studi in onore di Paolo Stella Richter” l’1 dicembre 2022, presso la facoltà di Economia dell’Università La Sapienza, Roma.
[2] In www.giustizia-amministrativa.it
[3] Cfr. STELLA RICHTER, La fine del piano e del suo mito, in Riv.giur.urb. 2017, 432.
[4] Sempre in STELLA RICHTER, op.cit., 435.
[5] Sulla partecipazione, con particolare attenzione al governo del territorio, si rinvia, anche per l’esame della dottrina precedente, al recente SANTACROCE, Territorio e comunità nella teoria giuridica della partecipazione, Torino, 2023.
[6] Su questi aspetti cfr. PIZZOLATO, Città e diritti fondamentali: le ambivalenze della politicità dei diritti, Istituzioni del federalismo, 1, 2022.
[7] Su questi aspetti sia consentito il rinvio a MARZARO, Partecipazione consapevole e giusto procedimento di pianificazione, Nuove Autonomie, 2020.
[8] Cfr. PIPERATA, Gli spazi mobili dell’autonomia locale, Dir.amm., 2020.
[9] Così efficacemente definito in SALVIA, BEVILACQUA, GULLO, in Manuale di Diritto urbanistico, 2022, Padova.
[10] In www.cortecostituzionale.it
[11] In www.cortecostituzionale.it
[12] In www.cortecostituzionale.it
[13] Così Corte Cost. n. 66 del 2018, in www.cortecostituzionale.it
[14] Cfr. tra le altre Corte Cost. nn. 177 del 2021 e 121 del 2022, in www.cortecostituzionale.it
[15] Cfr. in questo senso già Corte Cost. n. 85 del 2013, la cd. sentenza sul caso ILVA, in www.cortecostituzionale.it
[16] Sia consentito a tale proposito il rinvio, da ultimo, a MARZARO, Il silenzio assenso e l’infinito della semplificazione. La scomposizione dell’ordinamento nella giurisprudenza sui procedimenti autorizzatori semplificati, in Riv.giur.urb., 2022.
[17] Così tra le altre Corte Cost. n.216 del 2022, in www.cortecostituzionale.it
[18] Così Corte Cost. n. 177 del 2021, in www.cortecostituzionale.it
[19] Così Corte Cost. n 121 del 2022, in www.cortecostituzionale.it
[20] Così Corte Cost. n. 106 del 2020, in www.cortecostituzionale.it
[21] Così Corte Cost. n. 28 del 2019, in www.cortecostituzionale.it
[22] In www.cortecostituzionale.it
[23] Così Corte Cost. n. 119 del 2020, in www.cortecostituzionale.it
[24] Così Cons. Stato, IV, n. 821 del 2017, in www.giustizia-amministrativa.it, indirettamente richiamata dalla Consulta, attraverso il rinvio alla pronuncia di cui alla nota successiva.
[25] Così Cons. Stato, IV, n. 2780 del 2018, in www.giustizia-amministrativa.it
[26] Cfr. BARTOLINI, Urbanistica, in Funzioni amministrative. Enciclopedia del Diritto, I, Tematici, vol. 3, Milano 2022
[27] Così Corte Cost. n. 17 del 2023, cit.