UNIONE E FUSIONE DEI COMUNI: FORME DI CAMBIAMENTO NELLA GESTIONE COMUNALE ALLA LUCE DELLE PRINCIPALI NOVITA’ LEGISLATIVE E PRONUNCE GIURISPRUDENZIALI
di Gianfrancesco Silvestri
Sommario: 1. Premessa: il concetto di ente comunale – 2.Unione e Fusione di Comuni: passaggio dalla gestione autonomo individuale alla gestione associata. – 3. Evoluzione normativa degli istituti e principali innovazioni alla luce della legge Delrio. – 4. Osservazioni conclusive: luci ed ombre nella disciplina attuale e prospettive applicative.
- Premessa: il concetto di ente comunale
Una completa ricostruzione storico-normativa dell’istituto dell’Unione e Fusione dei Comuni, quali forme di associazionismo comunale volto alla gestione dei servizi o delle funzioni fondamentali ovvero alla nascita di un nuovo comune risultante dall’accorpamento di due comuni di dimensione più piccola, non può prescindere dall’analisi in chiave normativa, costituzionale e giurisprudenziale del Comune come ente. Il suo riconoscimento normativo è all’articolo 3 del T.U.E.L. quale “ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Tale norma conferisce ai comuni autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria: in altri termini, costituisce la cellula primaria di qualsiasi determinazione amministrativa con riferimento alla gestione dei servizi o al governo della collettività locale. Uno dei più autorevoli studiosi del diritto amministrativo, il prof. Vincenzo Cerulli Irelli, etichetta il comune come ente a fini generali[1] volendo specificare con tale definizione che di certe funzioni gli enti comunali devono necessariamente occuparsi, potendo, per il resto, fare tutto ciò che ritengono utile alla tutela degli interessi della comunità che risiede nel loro territorio.
L’autonomia comunale in Italia ha antiche tradizioni che risalgono al Medioevo, quando le città cominciarono a darsi proprio ordinamenti e a contrapporsi al potere dell’imperatore e dei signori feudali. Nei secoli successivi molte città, cittadine e centri minori conservarono, a seconda dei periodi storici e in diversa misura nelle varie zone del paese, proprie forme di autogoverno che furono successivamente riconosciute dallo stato italiano al momento dall’unificazione e regolamentate attraverso norme uniformi per tutto il territorio nazionale.
L’ordinamento italiano fu alle origini fortemente accentrato secondo il modello napoleonico, cioè l’organizzazione del potere politico- amministrativo che era stata data alla Francia da Napoleone Bonaparte. Modello caratterizzato da questo binomio: accentramento (concentramento del potere presso le autorità a Parigi) e uniformità (identico assetto per tutti i comuni). Con l’avvento della Costituzione del 1948, l’ordinamento italiano divenne una Repubblica che, ad oggi, riconosce le autonomie locali e che per la prima volta si riparte in regioni, provincie e comuni.
Ponendo all’apice della sua struttura il principio generale della tutela e della promozione delle autonomie locali [2], la Carta Costituzionale menziona l’ente comunale all’ articolo 114[3] del titolo V della Carta,” le regioni, le provincie, i comuni”: parificando la posizione di Comuni, Provincie, Città metropolitane e Regioni, ha sancito la fine della sovranità statale e la sua trasformazione in autonomia comunitaria di in ogni singolo[4]. Insomma il concetto di autonomia[5] permea l’essenza stessa della Repubblica e costituisce il nuovo modo di organizzare e strutturare i rapporti istituzionali tra i vari ambiti sostituendo il modello incentrato sulla sovranità che determina un ordinamento di tipo gerarchico- piramidale, nel quale i livelli di comando procedono dall’altro verso il basso[6]. L’autonomia non consente l’ evoluzione verso forme di rapporti paritari, piuttosto, implica un tipo di relazioni istituzionali che non siano conflittuali ma collaborative, appartenendo la dinamica del conflitto alla dimensione sociale[7]. Si è inteso, così, uscire da una logica di mera ripartizione territoriale del governo locale, secondo la quale tutti gli enti appartenenti ad una medesima categoria dovevano essere giuridicamente, strutturalmente e funzionalmente identici tra loro e ciascuno di essi costituiva una frazione dell’ente di livello superiore.
L’idea di base della legge di riforma è stata quella di rovesciare completamente, sottolinea altro illustre studioso del Diritto, il Professore Scoca[8], l’andamento della costituzione/ricostruzione del nuovo ordinamento dei pubblici poteri muovendo dal basso verso l’alto, partendo dalle istituzioni più prossime ai cittadini, anzi dalle istituzioni/formazioni sociali(ragionando alla luce del principio di sussidiarietà in senso orizzontale) e poi risalendo a quello di livello più elevato( muovendo con la logica del principio di sussidiarietà[9] in senso verticale)[10]. Tra tutti i principi ispiratori quello di sussidiarietà costituisce un profilo cardine perché rovescia la concezione tradizionale secondo la quale l’autonomia locale venga “concessa” dall’alto, ma allo stesso tempo ambiguo, dal momento che non esistono criteri per individuare le circostanze che impongono, volta per volta, lo spostamento del governo a livelli superiori[11].
Volendo a questo punto tracciare un seppur breve focus sulla situazione delle autonomie locali nel panorama europeo, è dato di affermare che nel Sud Europa ( con riferimento a Francia-Italia- Spagna) è preponderante il concetto di comunità che partecipa alla organizzazione politica dell’ente, nel Nord Europa ( tenendo in considerazione Norvegia, Danimarca e Svezia) è preponderante il concetto di governo locale inteso solo come erogatore di servizi. Alla luce di quanto appena considerato, emergono diverse modalità applicative sia del principio di tutela sia per i diversi tipi di autonomia previsti.
Se in Germania gli enti locali si relazionano con i governi regionali e non con il governo centrale, in Spagna esistono diverse categorie di municipalità. In effetti, l’art. 137 ss. Costituzione spagnola prevede che lo Stato sia ripartito in Municipi, in Province e in comunità autonome; entità, le quali godono di autonomia per la gestione dei rispettivi interessi. Con riferimento alla Germania, essa è una Repubblica Federale, all’interno della quale le entità statali hanno progressivamente ceduto parti di sovranità all’apparato federale, conservando tramite il Bundesrat (Consiglio Federale formato dai membri dei governi dei Länder) poteri di condizionamento e di veto sulla legislazione della Federazione. La Legge Fondamentale tedesca, all’art. 20, de facto, dispone che «la Repubblica Federale Tedesca è uno Stato federale democratico e sociale»[12].. Lo Stato (Bund) si articola in Länder (Stati membri), Kreise (Circondari, enti intermedi, funzionalmente analoghi alle Province italiane, ma costituiti come forma aggregativa tra Comuni) e Gemeinden (Comuni), articolazioni che costituiscono i livelli necessari dell’amministrazione territoriale tedesca. A questi tre enti dotati di garanzia costituzionale occorre aggiungere le Gemeindeverbände (Unioni di Comuni/Consorzi di comuni), soggetti giuridici previsti dalla Costituzione quali forme associative per l’esercizio di servizi comuni[13].
Il caso francese[14] presenta una serie molto eterogenea di istituti di cooperazione: sono «agenti» dei comuni piuttosto che enti locali veri e propri; seppur in presenza di una riforma costituzionale che nel 2003 ha introdotto la suddivisione del territorio nazionale in regioni (art. 3), queste ultime non hanno poteri di regolazione del governo locale. Al contrario, nel caso italiano, la regione ha assunto poteri molto rilevanti in questo settore, soprattutto dal momento in cui le più recenti riforme istituzionali hanno assegnato a questo ente la competenza di pianificazione e regolazione del governo comunale. Ciò, di fatto, costituisce una sfida al principio dell’uniformità territoriale, almeno nella predisposizione degli enti di secondo livello (cioè non direttamente elettivi) che regolano la cooperazione tra comuni. Al di là di queste differenze, i due paesi sono gli unici nei quali la cooperazione inter municipale riveste un ruolo importante, specialmente in Francia laddove, in virtù di una tradizione decennale, l’associazionismo tra enti ha conosciuto importanti sviluppi, fino a riguardare oggi oltre il 90% della popolazione.
- Unione e fusione dei Comuni: passaggio dalla gestione autonomo alla gestione associata
La disciplina statale delle gestioni associate delle funzioni e dei servizi comunali trova riconoscimento nel TUEL e, in ambito europeo, con la Carta europea dell’autonomia locale[15] del 15 ottobre 1985, adottata nell’ambito dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa. In particolare, l’art. 14, comma 27, del decreto legge n. 78/2010, dispone precisi obblighi a carico degli enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, che possono utilizzare lo strumento della convenzione ovvero istituire un’Unione di Comuni[16]. Le convenzioni (disciplinate dall’art. 30 del T.U.E.L.)[17] rappresentano la forma più flessibile, ma meno stabile, di gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali[18]. La fusione di Comuni è normativamente prevista dall’art. 15 del T.U.E.L.: «a norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale». Da ultimo, l’unione di Comuni qualificata al primo comma dell’art. 32 del T.U.E.L. come l’«ente locale costituito da due o più comuni, di norma contermini, finalizzato all’esercizio associato di funzioni e servizi», con una formulazione che mantiene il disposto normativo già inserito nella legge n. 142/1990[19]. Analogamente, il comma 4 dell’articolo unico di cui si compone la legge 7 aprile 2014, n. 56 definisce le Unioni di comuni come «enti locali costituiti da due o più Comuni per l’esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza». All’ampliarsi del novero di funzioni da esercitare ovvero al diverso assetto organizzativo assumibile nella gestione delle medesime, corrisponde un proporzionale incremento della spesa pubblica[20], considerate le immanenti istanze di spending review cui il nostro ordinamento è attualmente informato e che mirano a un risultato antitetico[21], evitando così di intaccare contestualmente il livello di efficacia del servizio offerto.
La prima legge presa in considerazione nella ricostruzione storico-normativa dei due istituti, legge 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali, prevedeva un forte legame tra l’istituto dell’Unione di comuni e quello della fusione di Comuni, per il sol fatto che l’Unione di essi era preordinata alla successiva fusione tra i Comuni aderenti all’Unione medesima. Essa nasce come forma di gestione associata per risolvere il problema della ridotta dimensione demografica e territoriale di molti comuni italiani e delle conseguenti difficoltà organizzative e gestionali che tali comuni incontrano, dovute, tra l’altro, all’inadeguatezza degli apparati e dei mezzi necessari per svolgere tutte le funzioni loro assegnate, e al fine di giungere a una successiva fusione obbligatoria. L’obbligatorietà di fusione originariamente prevista, che aveva frenato l’avvio delle unioni, è stata successivamente rimossa.
In seguito, la legge n. 142/1990 è stata modificata dalla legge “Napolitano-Vigneri”, L. 3 agosto 1999, n. 265, Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142 che all’art. 6, fra l’altro, ha modificato l’istituto dell’Unione di comuni, determinandolo come fattispecie di gestione associata di funzioni e non più come modello organizzativo necessariamente prodromico alla fusione di Comuni.
Da un’iniziale ipotesi di volontarietà si è passati a un regime di obbligatorietà, in alternativa a forme di convenzione, secondo quanto sancito nell’art 14, comma 28, della legge 30 luglio 2010, n. 122 (legge di conversione del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78): “Le funzioni fondamentali dei comuni, previste dall’articolo 21, comma 3, della citata legge n. 42 del 2009, sono obbligatoriamente esercitate in forma associata, attraverso convenzione o unione, da parte dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti.
- Evoluzione normativa degli istituti e principali innovazioni alla luce della legge Delrio
Il quadro normativo di riferimento trova il suo completamento con le principali novità introdotte dalla legge 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (cd. legge Delrio), con l’art. 1, dal comma 104 al comma 141. Tale legge riassetta le competenze delle amministrazioni locali, introducendo alcune disposizioni che accentuano il carattere obbligatorio dell’associazione delle funzioni.
Il fulcro della disciplina consiste nel riconoscere ai comuni un ruolo di assoluta centralità nel sistema dei poteri locali, mediante l’ introduzione di misure volte a salvaguardare l’autonomia dei piccoli comuni, con un rafforzamento dei fenomeni associativi. Tale prospetto di impostazione nasce ed trova la sua giustificazione da un lettura della Costituzione ancorata a tre interpretazioni ritenute preliminari e assorbenti. Ci si riferisce, in primo luogo, all’art. 118, comma 1 Cost., che attribuisce ai comuni le funzioni amministrative, salvo quelle che per esigenze di esercizio unitario debbano essere conferite alle province, alle città metropolitane, alle regioni e allo Stato, in base ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione: il comune godrebbe dunque di una posizione prioritaria rispetto a quella delle province e delle città metropolitane, dal momento che il conferimento di funzioni a queste ultime rappresenta un’ipotesi derogatoria rispetto alla regola generale della spettanza comunale, alla luce delle considerazioni sopra esposte .
In secondo luogo, dall’art. 133, comma 1 Cost. emerge che, alternativamente a quanto considerato per le variazioni territoriali delle regioni e dei comuni, non si prevedono forme di consultazione delle popolazioni interessate per quanto concerne il mutamento delle circoscrizioni provinciali per il tramite di una declinazione del rapporto tra l’ente intermedio, il proprio territorio e la propria comunità in termini meno intensi rispetto a quanto avviene per i comuni, con conseguente legittimità di elezioni di secondo grado degli organi provinciali e metropolitani.
Infine, si utilizza il principio di differenziazione sancito nel già esposto art. 118, comma 1 Cost. come uno dei criteri per la riallocazione delle funzioni amministrative anche sul terreno dell’organizzazione di governo, giustificando in tal modo il superamento del principio di uniformità, con riguardo pure ai processi di rappresentanza politica delle istituzioni locali titolari di funzioni[22].
Tra le rilevanti modifiche apportate dalla legge n. 56/2014, occorre menzionare l’eliminazione della divisione tra Comuni con popolazione superiore o inferiore ai 1.000 abitanti (precedentemente prevista dall’art. 16 della legge 148 del 2011 con il modello della c.d. “Unione speciale”, rimasta inattuata nella pratica), affermando il modello Unioni di Comuni (ex art. 32 TUEL) come riferimento anche per i territori montani attraverso le Unioni di Comuni montani.. La disciplina delle fusioni, attualmente contenuta nel T.U.E.L agli artt. 15 e 16, ha attribuito alle regioni, a norma degli articoli 117 e 133 della Cost., la possibilità di modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate e nelle forme previste dalle leggi regionali; norme poi integrate dall’art. 1, commi 116 ss., della legge n. 56/2014 (legge Delrio).
La L. n. 56/2014 ha inteso dare respiro ad un nuovo assetto delle competenze delle città metropolitane, province, unioni di comuni per ridisegnare una nuova idea di Repubblica, fondata sull’efficienza, sull’efficacia e sull’economicità degli enti locali territoriali. Tale visione, però, ha dovuto fare in conti con la realpolitik[23] di quattro Regioni (Veneto, Campania, Puglia, Lombardia) che nel giugno del 2014 hanno prodotto ricorsi di legittimità costituzionale avverso 58 commi dell’unico articolo della legge n. 56/2014, fondati particolarmente sul riparto delle competenze derivanti dall’art. 117, comma secondo, lett. p), e comma 4, Cost.; censure complessivamente respinte dalla Corte costituzionale con sentenza n. 50/2015[24]. Con tale storica sentenza[25], la Corte Costituzionale ha posto fine ai dubbi sul riparto di competenze statali e regionali in merito alla questione asserendo che in merito alle Unioni , in quanto esse si risolvono essenzialmente in forme istituzionali di associazione tra comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e maggiormente per il fatto che non si costituisca un ente ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune, queste rientrano nelle competenze dello Stato: “ Le Unioni di Comuni, risolvendosi in forme istituzionali di associazione tra comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e non costituendo, perciò, al di là dell’impropria definizione sub comma 4 dell’art. 1, un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune, rientrano, infatti, nell’area di competenza statuale sub art. 117, comma 2, lett. p), e non sono, di conseguenza, attratte nell’ambito di competenza residuale di cui al quarto comma dello stesso art. 117”.
Per quanto riguarda i procedimenti di fusione, la competenza risulta essere ripartita in capo all’ente regionale e all’ ente comunale, a seconda della tipologia di fusione che i singoli comuni vanno ad attuare. In sintesi, secondo i giudici della Corte Costituzionale ne deriva che la competenza legislativa nel caso di fusione tradizionale rimane confermata in capo alle Regioni (poiché si determina la nascita di un nuovo comune); di contro, nel caso di fusione per incorporazione (delle quali si parlerà di seguito), non determinandosi da essa la nascita di un nuovo comune, l’ambito di competenza rientrerebbe nella materia” ordinamento Enti Locali” e comunque incide su funzioni fondamentali e legislazione elettorale applicabile[26]. Così, manifestamente, la Corte Costituzionale ha chiarito: “ le disposizioni censurate, oltre che al conseguimento di obiettivi di maggiore efficienza o migliore organizzazione delle funzioni comunali, riflettono anche principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, non suscettibili, per tal profilo, di violare le prerogative degli enti locali. In particolare, la disposizione (comma 130) relativa alla fusione di comuni di competenza regionale non ha ad oggetto l’istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l’incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune, e cioè una vicenda (per un verso aggregativa e, per altro verso, estintiva) relativa, comunque, all’ente territoriale Comune, e come tale, quindi, ricompresa nella competenza statale nella materia “ordinamento degli enti locali”, di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), cost. Del pari insussistente è l’ulteriore violazione degli art. 123 e 133, comma 2, cost., con riferimento al censurato comma 130, atteso che lo stesso demanda la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate (quale passaggio indefettibile del procedimento di fusione per incorporazione) proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo, peraltro, alle singole regioni l’adeguamento delle stesse rispettive legislazioni, onde consentire l’effettiva attivazione della nuova procedura, sul presupposto che le disposizioni di carattere evidentemente generale (e che rimandano, in ogni caso, alle discipline regionali) contenute nella legge censurata non siano, di per sé, esaustive. Per cui non risulta scalfita l’autonomia statutaria spettante in materia a ciascuna Regione[27] (sent. n. 237 del 2009, 151 del 2012, 22 e 44 del 2014[28]).
Accanto all’istituto della fusione tradizionale[29] – la quale si risolve nell’istituzione di un nuovo Comune nato da enti locali distinti – la legge 7 aprile 2014, n. 56, prevede un’ulteriore ipotesi di aggregazione tra Comuni.
Nello specifico, la fusione “tradizionale” è riferibile all’art. 15 del TUEL, nel quale è previsto che «le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale, con la precisazione che, salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale limite».” Essa era già stata prevista dalla L. n. 142/1990, art. 11[30], solo da qualche anno essa ha assunto un reale importanza nel panorama degli enti locali territoriali perché, a decorrere dagli anni 2000, si sono costituite numerose realtà comunali a seguito di processi di fusione di comuni; nonostante ciò, la frammentazione comunale è ancora fortemente presente nel comparto degli enti locali territoriali del nostro Paese, atteso che, su 8.047 realtà amministrative, si registra la presenza di ben 5.627 Piccoli Comuni, con una incidenza di Piccoli Comuni sul totale dei Comuni regionali pari al 69,9%[31].
La seconda tipologia di fusione, definita “per incorporazione” (come visto già presente nell’ordinamento come aggregazione di comuni), trova il suo fondamento normativo nella L. n. 56/2014, all’art. 1, comma 130, nel quale è specificato che: “i comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un comune contiguo”. Si tratta di una modalità di fusione peculiare ,che si realizza attraverso un vero e proprio accorpamento di un Comune in un altro: infatti “il comune incorporante conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al comune incorporato e gli organi di quest’ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione”, a differenza di quelli del Comune incorporante che, al contrario, vengono mantenuti. Si tratta di una modalità alternativa alla fusione – incardinata su un procedimento semplificato – che si distingue dall’ipotesi classica disciplinata dal T.U.E.L. principalmente per il fatto che mentre in quest’ultima i Comuni preesistenti vengono soppressi per essere sostituiti da un nuovo ente, istituito mediante legge regionale e retto da un commissario fintanto che non si addivenga all’elezione dei nuovi organi, nel procedimento amministrativo per incorporazione non si assiste alla nascita di un nuovo soggetto bensì alla permanenza in vita di uno dei Comuni originari, il quale succede a titolo universale al Comune incorporato, con la contestuale estensione dei confini amministrativi dell’ente che mantiene la preesistente personalità giuridica[32]. L’estinzione e conseguente fusione di due distinti Comuni in un unico Ente territoriale determina una successione nel munus tra i soggetti pubblici, con trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche sia dei rapporti amministrativi pendenti ma senza soluzione di continuità idonea a cagionare un evento interruttivo del processo[33].
Per quanto riguarda la rappresentatività, il legislatore italiano è stato davvero lungimirante nel prevedere un nuovo ruolo per i Municipi, luoghi di partecipazione politica e decentramento dei servizi. Potranno essere infatti questi organismi a prendere il posto dei vecchi consigli comunali e saranno dotati di veri e propri poteri essendo il raccordo fra le istanze dei “vecchi” territori e il nuovo Comune unico. In base alle considerazioni svolte, sembra lecito – de iure condendo – porsi l’interrogativo: ma come funzionano e chi ne farà parte? Per rispondere a tale domanda è necessario rifarsi a un modello, ossia la struttura di base adottata nel Comune di Valsamoggia, comune emiliano, nato dalla fusione di cinque piccoli Comuni. In questo caso ogni Comune è stato sostituito da un Municipio dotato, oltre che di un apparato amministrativo, di un Presidente e un Consiglio di Municipio, quest’ultimo formato da componenti eletti direttamente dai cittadini contestualmente alle elezioni comunali e che ricoprono il loro incarico in modo gratuito, senza ricevere alcuna indennità. Ma la nota davvero innovativa è costituita dalla circostanza che i Municipi sono inseriti nel processo decisionale del nuovo Comune. Possono, infatti, presentare proposte di provvedimenti, sono obbligatoriamente informati dal Comune sugli atti e le iniziative che questi ha intenzione di adottare e sono coinvolti nel processo decisionale tramite i pareri obbligatori che contribuiscono allo sviluppo dei singoli territori nell’ambito dell’unitarietà del Comune. Chiaro è che si tratta, dunque, di veri e propri organi elettivi del Comune, in quanto rappresentanti le comunità di origine. Non è da dimenticare che la legge Delrio prevede anche la possibilità di istituire tramite lo statuto, “ forme particolari di collegamento tra il nuovo comune e le comunità che appartenevano ai comuni oggetto di fusione”, quindi lasciando la più ampia libertà ai Comuni sulle modalità con le quali i cittadini si rapportano con le nuove istituzioni, potendo prevedere anche ulteriori forme di collegamento e partecipazione popolare.
- Osservazioni conclusive: luci ed ombre della disciplina attuale e prospettive applicative
In realtà quando si scrive di fusione e unione dei comuni, temi in continua evoluzione legislativa, una vera conclusione non esiste: sono due campi aperti, infiniti. L’attività di amministratore di una comunità, di una realtà sociale o anche di un semplice gruppo, comporta che, prima ancora che da regole tecniche ovvero da mere pratiche burocratiche, essa sia indirizzata secondo principi di vita e regole morali. L’amministratore o colui che si trova ai vertici di una comunità è consapevole della responsabilità di gestire un patrimonio che prima ancora che suo, è un bene di tutti e tutti, non solo costui, devono concorrere a tutelare, a salvaguardare, a far si che nessuno possa scalfirlo o danneggiarlo: si tratta della cosa pubblica e nel particolare caso dell’amministrazione dell’ente comunale. E’ alla luce da questi spunti di riflessione che scaturisce l’ attenzione verso i temi del diritto amministrativo e nello specifico della gestione dell’ente comunale e delle nuove forme di associazionismo comunale, cioè l’unione o la fusione dei comuni, ossia istituzioni che per forza di cose devono abbandonare la logica del personalismo e tendere inevitabilmente all’ interesse collettivo. Amministrare bene la cosa pubblica, secondo colui che vi parla, non significa obbligatoriamente soddisfare i singoli interessi di ciascun cittadino, perché altrimenti staremmo a parlare di amministratori ad personam, ma significa, altresì, creare le condizioni e i presupposti per il soddisfacimento degli interessi del maggior numero di cittadini, mettendo da parte le solite logiche di interessi personali che, de facto, guidano l’attività di amministrazione specie nei comuni di piccole dimensioni e con un minor numero di abitanti.
Introdotto più per esigenze di contenimento e razionalizzazione della spesa locale, il modello di cooperazione intercomunale, prospettato dalla legge Delrio nel 2014, ha faticato però a trovare piena attuazione. La legge n. 56 del 2014 non ha evidentemente risolto il problema: sono ancora molti i fattori che continuano a ostacolare il percorso attuativo, tra cui, in primo luogo, una scarsa chiarezza nella ripartizione delle competenze dei singoli comuni e le conseguenti difficoltà nel raggiungere uno stabile equilibrio tra esigenze di uniformità e quelle di flessibilità. Ed ancora, la legge Delrio incentiva relativamente la sua costituzione, limitandosi dai commi 131 al 134 a prevedere “la possibilità per la regione di individuare misure per favorire la gestione associata tramite unioni di comuni e a stabilire una priorità per il finanziamento di progetti presentati dalle unioni di comuni”.
E’ necessario, come mette in evidenza il Barrera, informare e formare i soggetti che saranno i protagonisti della fusione[34]. Aldilà di ogni ragionevole dubbio è lecito affermare che trattasi di un fenomeno incompiuto, considerato che, in merito al fenomeno delle Unioni di Comuni, soltanto il trenta per cento dei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti ha associato le funzioni fondamentali, benchè tale normativa fosse diretta ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica ed il contenimento delle spese per l’esercizio delle funzioni di cui sopra. Per l’effetto, anche la valutazione dei risultati a questo punto risulta essere difficoltosa non solo per il contenuto numero degli enti coinvolti nei processi, ma anche per la limitatezza dei dati di cui si dispone. Tra i principali benefici, possiamo collocare maggiori contributi statali e regionali per un lungo periodo, risparmio sulle spese per gli organi politici e di controllo, incremento del risparmio pubblico sulle funzioni di segreteria, ragioneria, possibilità di potenziare i servizi resi ai cittadini decentrati presso i municipi, maggiori opportunità nel riorganizzare i servizi e specializzare il personale ed infine una maggiore massa critica negli acquisti.
A fronte di numerosi vantaggi, tra profili di criticità che di fatto ne rendono difficoltosa l’ attuazione possiamo annoverare il timore di perdere l’identità territoriale, la creazione di divisioni interne fra le forze politiche o tra i singoli rappresentanti di Comuni diversi, resistenze del personale e, soprattutto, delle posizioni organizzative, Da tenersi in considerazione sono, ancora, le differenti aliquote tributarie e diversi livelli di servizio e di tariffe. Si riscontrerebbero, secondo lo scrivente, meno problemi se la fusione interessasse Comuni con all’attivo un percorso maturo di gestione associata dei principali servizi, non troppo diversi per dimensione demografica unitamente a caratteristiche morfologiche simili.
Il nuovo comune che nascerà dalla fusione dovrà essere in grado di intercettare le importanti risorse messe a disposizione dell’Unione Europea che va considerata come un’agenda politica costantemente aperta, concentrando in particolare i propri sforzi sul tema dello sviluppo sostenibile, dell’innovazione e dell’attrattività del territorio. Si dovranno prendere decisioni in tempi celeri, migliorando la resilienza dell’ organizzazione, intervenendo sulla macchina amministrativa della Fusione tenendo insieme il coinvolgimento dei territori e dei diversi livelli decisionali, con la necessaria rapidità dei percorsi. Affinché questo percorso sia efficace occorrerà continuare a sviluppare la più ampia partecipazione e collaborazione dei cittadini e dei portatori di interesse. L’innovazione sarà la chiave di volta per mantenere alti i livelli di efficienza dell’ente al servizio dei cittadini e delle imprese. Si dovrà lavorare per snellire l’attività dei servizi associati, per velocizzare e semplificare i procedimenti amministrativi, costruire una pubblica amministrazione trasparente, amica del cittadino e in grado di sostenere l’imprenditorialità.
[1] V.CERULLI IRELLI, “Lineamenti del diritto amministrativo”, G.GIAPPICHELLI EDITORE-TORINO
[2] Art. 5 Cost.: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».
Sotto il primo profilo, l’art. 5 – secondo la tradizionale impostazione dottrinaria che risale ai lavori preparatori della Costituzione – è volto a garantire l’unità dello Stato contro spinte secessionistiche e ad impedire l’avvio di riforme di tipo federalistico: come affermò l’On. Ruini, «la Regione non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge lo statuto di una regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa, ma si arresta prima della soglia federale ed attiene al tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini» Sotto il secondo profilo, al fine di rispecchiare le differenze storico-culturali del Paese, il Costituente ha disciplinato, com’è noto, due tipi di regioni: le regioni di diritto comune e le regioni a statuto speciale, queste ultime dotate di una più spiccata autonomia, che si traduce nella particolare forza giuridica attribuita agli statuti, che sono stati adottati con legge costituzionale, e nella potestà legislativa esclusiva, che assegna alla piena competenza di tali regioni la regolamentazione con legge di alcune materie individuate dagli statuti.
L’art. 5 funge da norma-programma dell’intero assetto costituzionale che disciplina l’impianto autonomo della Costituzione italiana: esso, in quanto principio fondamentale, risulta svincolato dalle problematiche inerenti all’organizzazione amministrativa e prevale sulle norme del titolo V, primauté di cui la recente revisione costituzionale ha dovuto tener conto nella nuova strutturazione dei rapporti Stato /regioni con riferimento sia al riassetto delle competenze normative sia alla “restituzione” alle regioni del potere statutario, la cui parziale sottrazione, come sopra evidenziato, era stata da alcuni guardata con sospetto( si consulti Regioni ed enti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione fra attuazione e ipotesi di ulteriore revisione “Le variabili istituzionali del “multilevel system of government”: tendenze devolutive in alcune esperienze dell’Europa occidentale”, di Marina Calamo Specchia, straordinario di Diritto Pubblico Comparato, Università di Bari).
[3] Come è ben chiaro, la disposizione costituzionale, nella seconda parte della norma, si compone di due parti separate e distinte. La prima, che contiene il riconoscimento di Roma come capitale della Repubblica, assume un chiaro valore evocativo e simbolico. La novella costituzionale risolve la querelle del 128 della Costituzione che diversifica e separa il regime giuridico della capitale dal regime degli altri comuni.
[4] R.BIN, ”L’interesse nazionale dopo la riforma :continuità dei problemi, discontinuità nella giurisprudenza costituzionale”, in Forum di quaderni costituzionali. Esso sottolinea che “lo Stato partecipa alla Repubblica in posizione di parità , e non più di supremazia gerarchica, rispetto agli altri enti; la tutela degli interessi nazionali e delle esigenze unitarie della Repubblica non è parte delle caratteristiche di supremazia dello Stato, ma deve essere frutto dell’unico modo in cui i soggetti di pari grado possono decidere, attraverso l’ accordo: la leale collaborazione”.
[5] Come nota L. Paladin,”entro la carta costituzionale l’ espressione autonomia ricorre anche altrove , con riferimenti ad apparati ben distinti dall’ Ente Regione”, così che la definizione di ente autonomo contenuta nell’ articolo 114 Cost., non ha più di per sé un’ attitudine qualificatoria sufficientemente definita, dovendo i caratteri dell’ autonomia dedursi dalle altre disposizioni che la specificano, e dal carattere territoriale- rappresentativo dell’ Ente Regione.
[6] L’articolo 5 della Costituzione stabilisce, da un lato, il principio della unità e indivisibilità dell’ ordinamento giuridico, della Repubblica italiana e dall’ altro, il principio delle autonomie locali. Ad essi si da attuazione negli articoli 114 e seguenti della Costituzione. Come indica l’articolo 5 Cost., interessi nazionali e interessi regionali coesistono all’ interno della cornice costituzionale, secondo il riparto di competenze fissato nella Carta Costituzionale. Unità e autonomia non sono però valori che si prestano in tutte le situazioni ad una armoniosa composizione .Esse esprimono spinte spesso contrapposte, tanto da richiedere un attento bilanciamento. A tal proposito Rolla parla di un equilibrato bilanciamento tra natura unitaria dello Stato e distribuzione territoriale del potere politico.
- PIRAINO, La funzione normativa dei comuni, provincie e città nel nuovo sistema costituzionale”,Quattrosoli
[8] F.G. SCOCA, Diritto Amministrativo, quarta edizione, G.Giappichelli Editore, Torino
[9] È stato rilevato da C. MILLON-DELSOL, Il principio di sussidiarietà, cit., 1, che il concetto di sussidiarietà «costituisce il perno di un’antropologia e (…) rileva una maniera peculiare di vivere la politica, nel senso ampio di “cosa di tutti”», rispondendo «alle seguenti domande: perché esiste l’autorità? qual è il suo compito? quale ruolo deve avere? (…) L’autorità può assolvere a diverse funzioni”, tra cui quella di “supplire le mancanze delle comunità o delle persone libere, responsabili del loro destino, ma incapaci di perseguire una piena realizzazione. Dunque all’autorità non si deve riconoscere altra finalità se non il potere esercitato sugli individui che comanda. E’ necessaria in quanto tale, perché non sono autosufficienti. Tuttavia il suo ruolo rimane secondario: essa rappresenta un mezzo a loro esclusivo servizio». Sempre in termini generali, A. D’ATENA, Il principio di sussidiarietà nella Costituzione italiana, cit., 608, ha evidenziato «la carica garantistica» della sussidiarietà, la quale «si pone in tensione dialettica con uno dei principi fondanti del costituzionalismo moderno e contemporaneo: il principio maggioritario, dal momento che il modello della sussidiarietà è rivolto a salvaguardare l’autonomia di gruppi minoritari nei confronti della collettività generale e delle maggioranze politiche che in essa si enucleano».( cfr. POSSIAMO FARE A MENO DELLA SUSSIDIARIETÀ “VERTICALE” NEL RIPARTO DI COMPETENZE LEGISLATIVE DELINEATO NEL TITOLO V DELLA SECONDA PARTE DELLA COSTITUZIONE? OSSERVAZIONI A MARGINE DEL D.D.L.COST. S. 1429-D, di Francesca Leotta in Rivista AIC)
[10] F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, quarta edizione, Giappichelli Editore, Torino
[11]T.MARTINES, Diritto costituzionale, dodicesima edizione, Giuffrè Editore,pp. 706-707
[12] Le prime forme associative tedesche risalgono alla prima metà del XIX secolo. Se all’inizio erano presenti solamente delle Leggi speciali, riguardanti le funzioni di cura dei poveri, istruzione e difesa degli incendi, con la Legge Zweckverbändegesetz del 1911, c’è stata una vera regolamentazione delle associazioni comunali. Queste associazioni potevano avvenire solamente sotto obbligo da parte della Pubblica Amministrazione; i Comuni avevano la possibilità, però, di esprimere il loro punto di vista.
[13] La LF tedesca contempla oltre ai Comuni anche le Unioni/Consorzi di comuni e dispone all’art. 28, comma 2, che le Unioni di Comuni godono del potere di autoamministrazione sulla base delle leggi.
[14] In Francia le forme associate ricevono in via esclusiva l’amministrazione di una imposta e trasferimenti che sembrano avere natura automatica e non discrezionale. Le istituzioni della cooperazione intercomunale francese comprendo unità fondamentali definite istituzioni pubbliche della cooperazione intercomunale, costituite da Comuni che si associano e delegano l’esercizio di alcune competenze e funzioni (ad es. acqua, rifiuti, trasporti locali). All’interno delle EPCI, i raggruppamenti di Comuni a fiscalità propria (GFP) costituiscono una categoria specifica per la natura fiscale delle loro entrate autonome di bilancio e per l’esercizio di funzioni piu` integrate. Il regime fiscale si basa su due fonti principali. La fonte primaria e` la taxe professionnelle (TP), un’imposta introdotta nel 1975 che grava sulle aziende . Le associazioni dei Comuni adottano un regime di taxe professionnelle unique (TPU), trasferendo le decisioni in materia di TP dal livello comunale al livello intercomunale.
[15] La Carta europea dell’autonomia locale del 15 ottobre 1985, adottata nell’ambito dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa e da questi regolarmente ratificata (per l’Italia, dalla legge n. 439/1989), è un documento che reca importanti affermazioni di principio in materia di autonomia territoriale. Basti dire che è uno dei più risalenti documenti giuridici a formulare espressamente (anche se non ancora nominalmente) il principio di sussidiarietà Nel complesso, il suo intendimento è quello di approntare una garanzia giuridica in ordine all’indipendenza politica, amministrativa e finanziaria degli enti locali.
[16] A.BIANCO, La gestione associata diventa obbligatoria, in Comuni d’ Italia, n.5, 2010.
[17] Quando si parla di Convenzioni ci si riferisce ad accordi (volontari o, in casi particolari e specifici, obbligatori) che devono avere durata almeno triennale e un numero di enti che può essere predeterminato (nelle convenzioni di tipo “chiuso”) o suscettibile di variazioni tramite adesioni successive (nelle convenzioni di tipo “aperto”). Dal punto di vista definitorio gran parte dei contenuti giuridici della Convenzione sono desumibili dal codice civile, il quale all’art. 1321, nel definire il contratto, ci offre un percorso per intendere meglio la Convenzione tra enti locali, spiegata come l’accordo di due o più parti (in tal caso pubbliche), per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale; parti che possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, così come prevede l’art. 1322 cod. civ.
[18]Tra le principali forme di associazionismo comunale possono altresì considerarsi le Comunità montane, le Convenzioni tra enti e i Consorzi. La Comunità montana, disciplinata all’articolo 27 T.U.E.L., sono in via di soppressione(art.2,187co.,L.191/2009) sostituite dalle Unioni dei comuni. Sulle Comunità montane si era pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza, fissando principi che restano validi a proposito delle Unioni di comuni[18]: questi enti(cui la Corte attribuisce natura di enti locali autonomi), costituiscono “un caso speciale di unioni di comuni, create in vista della valorizzazione delle zone montane , allo scopo di esercitare in modo più adeguato di quanto consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, funzioni proprie, funzioni, comunali e, funzioni conferite”. La Convenzione tra enti, attraverso la quale essi possono prevedere anche” la costituzione di uffici comuni, che operano con personale distaccato dagli enti partecipanti, ai quali affidare l’ esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all’ accordo , ovvero la delega da parte degli enti partecipanti all’ accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti(art.30,co.4T.U.E.L.). Nella legislazione comunale e provinciale è previsto un modello ormai consolidato di gestione in forma associata di funzioni e servizi di pertinenza degli enti locali: quello del consorzio(art.156 e ss.L.com.prov.1934); “I comuni hanno facoltà di unirsi in consorzi fra loro o con la provincia per provvedere a determinati servizi e opere di comune interesse. E ancora: la costituzione del consorzio può anche essere imposta “per provvedere a determinati servizi od opere di carattere obbligatorio “. Il consorzio ha propria personalità giuridica, un proprio statuto approvato dall’ autorità governativa, se necessario proprio personale.
[19] L’articolo 32 del T.U.E.L. è stato sostituito dall’art.19,co.3,D.L.95/2012convertito in legge 135/2012 e successivamente modificato con legge 56 del 2014.La precedente versione dell’ articolo 32 del T.U.E.L. recitava :” Le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”.
[20] Cfr. L. VANDELLI, Il governo locale, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 13 ss., ove si sottolinea che le riforme amministrative introdotte a partire dalla legge 59/1997, ampliando le competenze dei Comuni, hanno sostanzialmente acuito il rischio dell’inadeguatezza degli enti di ridotte dimensioni in relazione ai nuovi compiti attribuiti.
[21] M. MASSA, [D.l. n. 95/2012], cit.; ID., Ricorsi delle regioni contro la spending review: funzioni fondamentali dei comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, in Diritti regionali, 13 dicembre 2012.
[22]L’emarginazione del principio autonomistico e lo svuotamento delle garanzie costituzionali per le istituzioni provinciali in una sentenza “politica”. Di Gian Candido De Martin( si consulti www. Dejure.it)
[23] Realpolitik: Condotta politica che si attiene a un totale realismo, anteponendo la concretezza degli obiettivi che intende perseguire ai problemi ideologici e alle questioni di principio(il significato attribuito alla parola realpolitik è stato tratto da La Repubblica, i Dizionari).Si veda www.dizionari.larepubblica.it.
[24] Ricorso Regione Puglia n. 44, depositato in Cancelleria il 16 giugno 2014; ricorso Regione Campania n. 43, depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Veneto n. 42, depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Lombardia n. 39, depositato in Cancelleria il 6 giugno 2014.Si consulti il sito www.giurcost.org(vedi consulta on line)
[25] La Corte costituzionale ha fatto recente applicazione della categoria delle norme programmatiche proprio con riguardo alla natura delle norme contenute nella Carta europea dell’autonomia locale (sentenze 325/2010 e 50/2015). Essa infatti ha evidenziato che” gli evocati articoli della Carta europea dell’autonomia locale non hanno uno specifico contenuto precettivo, ma sono prevalentemente definitori (articolo 3, comma 1), programmatici (articolo 4, comma 2) e, comunque, generici (articolo 4, comma 4). Inoltre, la stessa Carta, al comma 1 dell’evocato articolo 4, afferma, con previsione di carattere generale, che “le competenze di base delle collettività locali sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge”, con ciò rinviando alla normativa nazionale la definizione del quadro generale delle competenze ». La sentenza n. 50/2015 è, in sostanza, solo una riaffermazione dell’orientamento interpretativo: « A prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta europea, che lascia ferme “le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge”, come riconosciuto nella sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l’idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
[26] Articolo del professore L. Sergio, Direttore generale della Provincia di Lecce, “Analisi dell’ istituto tra innnovazione legislativa e giurisprudenza costituzionale”
[27] Corte Costituzionale, sentenza n.50 del 2015
[28] Cfr. si consultino le ulteriori sentenze della Corte Costituzionale sent. n. 237 del 2009, 151 del 2012, 22 e 44 del 2014[28].
[29] La fusione dei Comuni è indicata in letteratura come la soluzione di “first best” per superare il problema del sottodimensionamento dei governi locali, per accrescere l’efficienza e l’efficacia nella gestione delle funzioni assegnate, per riportare alla scala territoriale adeguata la programmazione dello sviluppo( Si consulti FRASCHINI A. –OSCULTATI F., La teoria economica dell’associazionismo tra enti locali, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS, Working paper n. 71, Marzo 2006.)
[30] Art. 11 della legge 142 del 1990”Modifiche territoriali, fusione ed istituzione di comuni”
- A norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi’ di fusione tra piu’ comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza che altri comuni scendano sotto tale limite.
- Le regioni predispongono un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli comuni e lo aggiornano ogni cinque anni, tenendo anche conto delle unioni costituite ai sensi dell’articolo 26.
- La legge regionale che istituice nuovi comuni, mediante fusione di due o piu’ comuni contigui, prevede che alle comunita’ di origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
- Al fine di favorire la fusione di comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con comuni di popolazione superiore, oltre agli eventuali contributi della regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono.
- Nel caso di fusione di due o piu’ comuni con popolazione inferior a 5.000 abitanti, tali contributi straordinari sono calcolati per ciascun comune. Nel caso di fusione di uno o piu’ comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o piu’ comuni di popolazione superiore, i contributi straordinari sono calcolati soltanto per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del comune risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi prestati nell’ambito territoriale dei comuni soppressi, aventi popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
[31] Dato riferito al 31 gennaio 2015; fonte Atlante dei Piccoli Comuni 2015, IFEL-ANCI.
[32] Anche in ambito societario è conosciuto l’istituto della fusione: La fusione di società, anche mediante incorporazione, realizza una successione universale corrispondente a quella “mortis causa” delle persone fisiche, sicché il nuovo soggetto risultante dalla fusione (o il soggetto incorporante) diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti estinti in ragione della fusione o della incorporazione, fra i quali vanno ricompresi anche quelli derivanti da responsabilità di cose in custodia ex art. 2051 c.c.( Si veda la Cassazione civile , sez. III , 11/11/2015 , n. 22998)
[33] Si veda la sentenza del T.A.R. , Catanzaro , sez. II , 17/04/2018 , n. 892
[34] Cfr. BARRERA P., Organi e funzionamento dell’ unioni di comuni. Fusioni di comuni, in il nuovo governo dell’area vasta, Jovene, 2014, p. 238.