Di Sergio M.G. Scrufari
La nota che segue nasce dalla riflessione sul valore delle garanzie costituzionali, allorquando esse collidono con gli interessi e i valori che fanno capo alla organizzazione dei partiti politici e delle loro espressioni all’interno delle assemblee legislative italiane da un lato e gli interessi e valori degli organi costituzionali e della P.A. dall’altro.
Una questione di particolare interesse, nel corso degli ultimi anni, in ragione dei procedimenti penali per peculato, che hanno colpito alcuni esponenti politici appartenenti a tutti i partiti del panorama politico italiano. Non a caso, sarebbe semplicistica una mera lettura di questi reati atta a soffermarsi sul dato della cosiddetta normalità del malaffare, soprattutto con riferimento alla classe politica.
In proposito, ferma restando l’attitudine di siffatti comportamenti ad innescare il meccanismo principe di funzionamento della democrazia – vale a dire la responsabilità politica – appare tuttavia opportuno, sulla scia della presente trattazione, analizzare tali comportamenti sul precipuo versante tecnico-giuridico, in particolar modo per quanto attiene ai profili penalistici e di diritto amministrativo.
A tal proposito, in via preliminare e per non incorrere in equivoci, appare necessario sottolineare, quale questione cruciale, la esatta definizione giuridica del ruolo del soggetto attivo del malaffare suddetto e la conseguente esatta contestazione del reato.
Ecco che, se tale soggetto riveste una qualifica pubblica ricadrà sotto la previsione punitiva dei reati propri della P.A. Qualora, invece, tale soggetto, stante l’assenza della predetta connotazione, sia un privato, lo stesso sarà punibile al massimo per un reato comune.
Sotto tale ultimo versante, la qualificazione del privato passa poi dallo status di cittadino, vale a dire quel soggetto che riveste una particolare posizione, riservata dalla Costituzione a chi concorre a determinare la politica nazionale (o regionale) associandosi liberamente nella forma del partito politico (art. 49 Cost.), tra cui è possibile rinvenire il c.d. politico professionista.
Siffatte considerazioni di ordine tassonomico e preliminare non hanno un valore meramente descrittivo ai fini dell’analisi de qua. Esse, infatti, consentono una riflessione ulteriore che, in occasione dell’incontro tra il partito politico e le assemblee legislative, spinge a prendere in debita considerazione le strutture intermedie e di collegamento chiamate gruppi parlamentari o consiliari.
Il dato fattuale mostra che il reato di peculato sopra menzionato, negli ultimi anni e nella pratica dei tribunali, è stato contestato a diversi componenti di gruppi consiliari di diverse regioni italiane.
La disamina che qui principia però, sullo spunto offerto dell’attualità politica e giudiziaria, si occuperà, soprattutto, del dibattito teorico in tema di gruppi parlamentari quale figura dinamica risalente nel tempo e puntualmente normata dalla legge e dai regolamenti parlamentari, che si sovrappone perfettamente alla identica figura regionale.
In proposito, sono d’obbligo alcuni brevissimi cenni sul peculato che, com’è noto, si consumerebbe allorquando un pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) concreti un’apprensione, in ragione dell’ufficio ricoperto, di denaro o altra utilità.
1. La giurisprudenza in tema di pubblico ufficiale
La giurisprudenza unanime ritiene che, in tema di reato contro la pubblica amministrazione, dopo la riforma del 1990, sia da valorizzare esclusivamente la struttura funzionale-oggettiva della figura di pubblico ufficiale, senza tenere conto del rapporto di dipendenza dallo Stato o altro ente pubblico.
La Suprema Corte (1) indica come abbia “rilievo esclusivo la natura delle funzioni esercitate, che devono essere inquadrate tra quelle della P.A. Non rilevano invece la forma giuridica dell’ente e la sua costituzione secondo le norme di diritto pubblico, né lo svolgimento della sua attività in regime di monopolio, né (…) il rapporto di lavoro subordinato con l’organismo datore di lavoro”.
Eliminato, ad oggi, il riferimento al rapporto di dipendenza contenuto nella vecchia formulazione dell’art. 357 c.p., la definizione dei pubblici agenti viene oramai collegata al solo elemento oggettivo della natura della mansione specifica svolta, richiedendosi perciò lo svolgimento di attività regolamentata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi.
Il legislatore ha così sgombrato il campo da ogni diverso criterio interpretativo per
Note:
1) Cass., sez. VI, sent. n. 11417 del 11.03.2003 (ud. del 21.02.2003), Sannia, rv 224050.
dare rilievo al solo criterio del regime giuridico dell’attività svolta.
La nuova normativa stabilisce che:
1) è pubblica l’attività amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi;
2) la pubblica funzione si distingue dal pubblico servizio per la presenza, nella prima, di poteri autoritativi o certificativi mancanti nel secondo.
Ne consegue che, per correttamente inquadrare le qualifiche soggettive, bisogna in primis rilevare la natura pubblica o privata dell’attività svolta in concreto dal soggetto verificando se è disciplinata da norme pubbliche o atti autoritativi e, in secondo luogo, una volta riconosciuta l’attività come pubblica, distinguere tra pubblico ufficiale ed incaricato di pubbl. serv.
Ai fini penali conta, dunque, esclusivamente la disciplina dell’attività svolta in concreto.
La Suprema Corte a S.U. (2) ha affermato che “al fine di individuare se l’attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358, è necessario verificare se essa sia, o non, disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi – nell’ambito di attività definita pubblica sulla base del detto parametro oggettivo – la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza (nell’una) o la mancanza (nell’altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo comma dell’art. 357 predetto”.
Elemento decisivo per la qualifica di pubblico ufficiale è, dunque, l’esercizio effettivo di una pubblica funzione (3).
Ciò non significa che la qualificazione dell’attività prescinda del tutto dalla natura del soggetto, ma solo che occorre verificare in concreto se la mansione svolta presenti i connotati della pubblica funzione.
In particolare la verifica dell’esercizio della pubblica funzione deve essere compiuta prendendo in esame non già la natura dell’attività dell’ente pubblico vista nel suo complesso (nell’ipotesi che ci occupa, il Consiglio Regionale) bensì nei suoi singoli
Note:
2) Cass. S.U., sent. n.10086 del 13 luglio 1998 (depositata il 24 settembre 1998), Citaristi.
3) Si tratta di un criterio oggettivo che non pone alcun riferimento al rapporto di impiego con lo Stato o altro ente pubblico.
momenti e con riferimento alla normativa che governa ciascuno di essi.
Più nello specifico, per quanto riguarda la funzione legislativa (4), non troviamo una definizione di questa all’interno dell’art. 357: si argomenta che questa in particolare sia un’attività talmente tipicizzata da consentire una immediata e diretta individuazione dei soggetti che la esercitano.
A mero titolo esemplificativo, si può affermare che sono ricomprese nella funzione legislativa l’emanazione di tutti i tipi di leggi, i provvedimenti con forza di legge ed anche l’attività normativa della Regione e delle Province Autonome.
Viceversa, e sempre a titolo esemplificativo, non svolgono funzioni legislative gli impiegati delle due Camere che dirigono uffici o espletano attività di segreteria o altre mansioni analoghe.
2. I gruppi consiliari
Nessun riferimento esplicito ai fini penali si trova in merito all’attività dei gruppi consiliari, né all’interno del codice o nel corpo di leggi speciali, né tantomeno all’interno di pronunce giurisprudenziali (5). Questa circostanza induce l’interprete a dover adattare alla peculiare situazione che ci occupa le nozioni generalissime in tema di reati contro la pubblica amministrazione.
Risulta di particolare pregio, ai fini della presente trattazione, l’analisi del momento dinamico della nozione che qui si ripercorre per ben inquadrare l’attività in concreto svolta dal consigliere regionale.
Ciò che maggiormente rileva è lo specifico momento che vede agire il consigliere esclusivamente quale componente e/o presidente del gruppo consiliare di appartenenza: per qualificare l’attività svolta da tale soggetto al fine di definirla come “pubblica” secondo le indicazioni delle S. U., occorre necessariamente capire quale sia la natura del gruppo consiliare e quali siano le sue attività tipiche.
Per tentare una ricognizione sulla natura dell’organo-gruppo consiliare in questione è necessario riferirsi all’ampia discussione svolta a proposito dei gruppi parlamentari, di cui i gruppi consiliari costituiscono una vera e propria replica, una sorta di “clonazione”, con la sola caratteristica divergente di essere allocati all’interno dell’assemblea di un ente territoriale e non all’interno dell’ente “centrale” per eccellenza, cioè il Parlamento.
Note:
4) Non a caso l’ente Regione ha tra i suoi compiti principali quello di emanare leggi.
5) Se non in sporadici casi, vista la natura e la particolare attività dei gruppi stessi.
2.1 Gruppi consiliari e partiti
Il particolare della presenza dei gruppi nell’ambito dell’assemblea regionale non è di poco momento, considerando che gli enti territoriali, soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, godono di una autonomia riconosciuta e sancita dalla Carta costituzionale.
Proprio a cagione di tale scelta del legislatore costituzionale, l’assemblea legislativa presente in seno all’ente-regione beneficia delle stesse prerogative di autonomia e autonoma ripartizione interna delle sue componenti che è riservata alla corrispondente assemblea legislativa nazionale e forse, a parere di alcuni commentatori, anche di qualche garanzia ulteriore, se si tiene presente il generale principio di sussidiarietà (vigente in tema di rapporti tra entità territoriali e Stato), oramai impostosi in seno a tutti gli ordinamenti dell’Unione europea.
La conseguenza di tale premessa è che le esperienze maturate all’interno dell’assemblea legislativa nazionale e poi in quella regionale hanno consegnato all’attenzione della giurisprudenza e dei pratici molteplici figure problematiche legate al particolarissimo rapporto tra le assemblee legislative – organi pubblici per eccellenza – e i partiti politici (6).
I partiti, attraverso i propri membri, “riempiono” le assemblee stesse ma rimangono, sempre e in ogni caso, associazioni di diritto privato, con il compito importantissimo di “concorrere (…) a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.).
Giova ribadire e sottolineare che l’ambito di attività dei medesimi partiti resta sempre ed in ogni caso inquadrabile nel novero delle libertà di sodalizio regolate dal codice civile e non ci sono motivi per discostarsi da questa precisa qualificazione di tipo privatistico.
Una considerazione che appare fondamentale al fine precipuo di poter distinguere quei reati che sono commessi da pubblici ufficiali e vedono come primo soggetto passivo la Pubblica Amministrazione, da quei reati che si consumano invece all’interno di associazioni private e che, pertanto, devono seguire il regime dei reati comuni.
Infatti, se l’attività del consigliere regionale, all’interno del gruppo consiliare del suo
Note:
6) Soprattutto nelle articolazioni di questi all’interno delle assemblee
partito, non riveste le caratteristiche di attività pubblica perché nel gruppo consiliare il consigliere è solo un membro del partito-associazione privata e non più un pubblico ufficiale. L’eventuale appropriazione di somme da parte di questo non sarebbe configurabile come peculato ma come appropriazione indebita o malversazione ai danni dello Stato.
2.2 La natura del gruppo consiliare
La corretta qualificazione della natura del gruppo consiliare discende necessariamente dalla identica nozione di gruppo parlamentare: in questa sede si profila quindi necessario mutuare dalla elaborazione dottrinale (7) e giurisprudenziale in punto di gruppo parlamentare per riferirsi ugualmente al gruppo consiliare.
Pare opportuno porsi la domanda se sia possibile – o meno – parlare di gruppo parlamentare (o consiliare), quale organo del Parlamento (o dell’assemblea regionale).
Se intendiamo l’organo come quell’ufficio o quella persona attraverso cui un ente personificato opera giuridicamente, bisogna obbligatoriamente concludere che il gruppo, parlamentare o consiliare, non sarebbe organo della Camera, del Senato o del Consiglio Regionale, perché in nessun caso e per nessuna ragione esprime la volontà dell’ente (Camera, Senato o Consiglio).
Corre l’obbligo di evidenziare come esistano diverse e molteplici definizioni del concetto di organo: qualunque sia, però, quella adottata, essa mai e in nessun caso si potrà applicare al gruppo parlamentare o consiliare.
Infatti, organi dell’assemblea legislativa sono, tra gli altri ed a titolo esemplificativo, il Presidente, la Giunta per il regolamento e le varie Commissioni, giacché le loro decisioni si imputano a tutta l’Assemblea: in nessun caso è organo il gruppo, che agirà sempre in nome e per conto proprio o tutt’al più in nome e per conto del partito di cui è espressione e solo di questo.
E’ pur vero che i gruppi designano i membri delle commissioni, ma:
1) un collegio elettorale per questo solo fatto non diventa organo dell’assemblea i cui membri concorre ad eleggere (i collegi elettorali regionali non sono organi del Consiglio Regionale, pur eleggendo i consiglieri);
Note:
7) Ex multis, cfr. Ciaurro – Negri, voce Gurppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma (Treccani), 1 e ss.; Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parlamento della Repubblica. Organi procedure apparati, 12, Roma Camera dei Deputati, II, 659 e ss..
2) il gruppo, nell’eleggere i membri delle commissioni, cura esclusivamente i propri interessi e non quelli del Consiglio e agisce in proprio nome e non in nome del Consiglio.
E’ altresì vero che in generale i gruppi sono in parte disciplinati dalla Regione attraverso le leggi e i regolamenti e godono di poteri all’interno del Consiglio: questi fatti però non bastano a qualificarli come organi, altrimenti, seguendo lo stesso principio, sarebbero organi dello Stato le regioni e i comuni, che invece, secondo la nuova formulazione (post riforma del 2001) dell’art. 114 Cost., sono “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni”.
Ulteriori elementi utili a sostenere quanto sin ora affermato possono rinvenirsi nei seguenti punti:
a) i gruppi hanno propri organi, sono cioè entità autonome che esprimono se stesse attraverso la figura dell’organo: i loro organi non sono organi della Camera o del Consiglio ma solo del gruppo;
b) possono essere membri dei gruppi, ad esempio in Parlamento, persone estranee alle Camere (come i segretari di partito): se i gruppi fossero organi dell’assemblea legislativa questo fatto sarebbe difficilmente ammissibile;
c) i gruppi hanno loro regolamenti che spesso vengono tenuti segreti: ciò è sintomo del carattere privato che viene attribuito ai gruppi dalle assemblee legislative;
d) i gruppi hanno propri uffici che non sono uffici dell’assemblea e propri impiegati che non sono dipendenti dell’assemblea ma del gruppo (8);
e) i gruppi hanno un proprio bilancio che amministrano in piena autonomia senza alcun obbligo di rendiconto particolareggiato, ma solo generico (richiamando solo voci generali) e non devono specificare le voci di spesa nemmeno alla Camera di appartenenza in seduta segreta.
Secondo una giurisprudenza ormai datata (9) i gruppi non sono neppure organi cc.dd.
Note:
8) Così Gianniti – Lupo, Corso di diritto parlamentare, Bologna, 2008, 85 e Cass. S.U. civili, ord. n. 3335, 19 feb. 2004 ivi citata in tema di associazioni non riconosciute.
9) Ma solo perché non ci sono state occasioni nelle quali questa venisse rinnovata o nelle poche occasioni sorte, per profili procedurali non si è mai affrontato il merito della questione. Cfr. Trib. Roma, 29 aprile 1960, in Giur. cost., 1961, 295 e ss..
interni della Camera di appartenenza perché non svolgono attività meramente interna, avendo essi i propri organi deputati proprio allo scopo di svolgere attività esterne di imputazione di effetti giuridici, come ad esempio attività negoziali (acquisto di beni e servizi).
In ultima analisi è ben vero che le assemblee legislative, come il Consiglio Regionale, sono organicamente divise in gruppi, in quanto questi ultimi hanno le caratteristiche della necessarietà (perché previsti dalle norme e dai regolamenti), della permanenza (perché esistono senza una scadenza), della essenzialità (perché tutta l’attività dell’assemblea è condizionata dalle decisioni dei gruppi): ma è solo in questa particolarissima accezione che si parla di organi.
Sarebbe eccessivo, se non addirittura un errore, pensare di dare all’espressione “organi” suesposta il senso di “organi dell’assemblea” quando la prima espressione ha carattere atecnico: i reali soggetti politici che muovono le assemblee legislative sono i gruppi e attraverso i gruppi i partiti, ma i soggetti che lo Stato riconosce sono le Camere (nel caso del Parlamento) e i suoi organi, o il Consiglio (per la Regione) e i suoi organi; reciprocamente i partiti e i gruppi non possono raggiungere i loro scopi se non si “rendono padroni” delle Camere divenendo maggioranza per poter agire attraverso di esse.
Non è altro se non lo stesso rapporto Stato/Partiti (10).
Formalmente organi dello Stato sono gli enti previsti in Costituzione ma nella realtà i soggetti interessati sono i partiti; i partiti però non possono governare se non attraverso la formazione di una maggioranza in seno all’assemblea.
Questa contraddizione non è paralizzante, costituendo invece la ragione stessa della multiformità della vita politica.
Così, da un lato esiste lo Stato, potenzialmente illimitato nei suoi poteri, e dall’altro esistono i partiti, che rimangono mere associazioni private e che godono di quella sfera di libertà da impiegare nell’attività politica.
La situazione di associazioni private garantisce per un verso che lo Stato non soverchi i partiti, istituzionalizzandoli e rinchiudendoli nella sfera del legittimo (nella quale fini e mezzi sono precostituiti per legge), per altro garantisce la coesistenza dei partiti giacché nessuno può identificarsi con lo Stato (11). Proprio perché i gruppi sono
Note:
10) Sostanzialmente in questi termini Gianniti – Lupo, cit., 85.
11) L’impianto della tesi sostenuta nel presente lavoro è debitore (e si fonda quasi totalmente su) di quanto esposto magistralmente da Rescigno, in Enc. dir., voce Gruppi parlamentari, Milano, 1997.
l’espressione parlamentare dei partiti essi riproducono a questo livello il medesimo rapporto intercorrente tra partiti e Stato.
Questa è la ragione a cagione della quale i gruppi costituiscono l’ossatura delle Camere e la ragione per cui non sono organi delle Camere.
Come i partiti, i gruppi agiscono essenzialmente nella sfera del lecito e non del legittimo e usano questa autonomia per dirigere le Camere e attraverso queste ultime tutto lo Stato.
Tale equilibrio tra sfere di azione diverse garantisce anzitutto l’autonomia dei gruppi, che verrebbe viceversa meno ove venissero inseriti nell’organizzazione statuale come organi, e nel contempo assicura loro maggiore libertà d’azione; in secondo luogo garantisce la coesistenza di gruppi diversi spesso confliggenti.
L’osservazione secondo cui le Camere essenzialmente si compongono di gruppi è analoga a quella secondo cui lo Stato è governato essenzialmente dai partiti: come i partiti non sono organi dello Stato, così i gruppi non sono organi della Camera o del Consiglio. Come i partiti per lo Stato sono associazioni non riconosciute che attraverso le loro sfere di libertà conquistano gli organi dello Stato o della Regione e attraverso di essi governano, così i gruppi per lo Stato o Regione sono ugualmente associazioni non riconosciute che, conquistando gli organi delle Camere o del Consiglio, li dirigono.
I gruppi esistono prima ed indipendentemente dal riconoscimento delle Camere o del Consiglio. Con il riconoscimento acquisiscono poteri ulteriori ma restano sempre espressione di autonomia politica come i partiti: le Camere o il Consiglio prendono semplicemente atto della loro esistenza e adeguano il proprio ordinamento alle esigenze dei gruppi, senza pretendere di trasformare i gruppi da enti privati in enti pubblici.
L’esempio della Regione Sicilia, che gode di statuto autonomo, è emblematico: il gruppo si chiama gruppo parlamentare e l’organo legislativo assemblea e non consiglio e i suoi membri deputati e non consiglieri, rimarcando così ancor di più la totale sovrapposizione tra gruppi parlamentari e gruppi consiliari.
In tale ordinamento regionale, di fatto, i gruppi esercitano tutti i poteri che esercitano quelli nazionali e forse anche qualcuno di più se, come sembra, i gruppi assembleari in Sicilia esercitano, in occasione delle crisi di governo, poteri maggiori dei corrispondenti gruppi nazionali.
Sembrano questi, a parere di chi scrive, ulteriori indici di una oramai consolidata qualificazione della natura di gruppo, parlamentare o consiliare, nel senso suesposto (12).
Ulteriori conferme emergono dalle recenti pronunce del Giudice delle leggi, anche se si tratta di conferme trasversali: le sentt. 39 e 40 del 2014 sull’attività della Corte dei conti.
La Corte Costituzionale, infatti, definisce i gruppi consiliari quali espressioni di “autonomia politica” in quanto “proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale” (13).
Sul punto, attenta dottrina ha recentissimamente affermato (14) come siano proprio le funzioni politiche dei gruppi a dettare queste affermazioni della Corte. I gruppi “contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, assicurando (…) il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche… realizzando (…) quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica” (15). Ecco che emerge un “doppio volto, l’uno rivolto all’assemblea legislativa, l’altro nella società” dei gruppi parlamentari e omologhi regionali i quali trasferiscono “in sede istituzionale gli orientamenti espressi dalle forze sociali strutturate in partiti, contribuendo a delineare la fisionomia della rappresentanza politica nel Parteinstaat” (16).
Note:
12) Cfr. su tutti il lavoro di ricostruzione e inquadramento di Bin, La disciplina dei gruppi parlamentari, in Ass. It. Cost., Annuario 2000. Il Parlamento. Atti del convegno annuale, Firenze, 12-14 ottobre 2000, Padova, 2001, 87 e ss.; e Bin, Rappresentanza e Parlamento. I gruppi parlamentari, in Relazione al convegno su “La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti”, Firenze 19 ottobre 2007, su www.forumcostituzionale.it.
13) Così sent. n. 39/2014.
14) Cfr. Caruso, Consigli regionali e rappresentanza politica, in federalismi.it, n. 17/2016, 15.
15) C.Cost., sent. n. 187/1990.
16) Così lucidamente ancora Caruso, idem. Si richiama qui anche l’esaustiva bibliografia citata dallo stesso Caruso, ricognitiva sul tema dell’autonomia contabile, fondamentale e anche campo di prova del più ampio argomento delle interferenze tra poteri dello Stato (o cicli funzionali, per dirla con Silvestri). Si confronti: Morvillo, L’ausiliarietà ai tempi della crisi: i controlli della Corte dei conti tra equilibrio di bilancio e autonomia dei controllati, in Giur. cost., 2014, 933 e ss.; Carovita – De Jorio, La corte costituzionale e l’attività della corte dei conti (una breve nota sulle sentenze nn. 39 e 40 del 2014), in federalismi.it n. 6/2014; Di Cosimo, Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi, in Le Regioni, 2014, 837 e ss.; Buffoni – Cardone, I controlli della corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion?, in Le Regioni, 833 e ss..
3. I casi di cronaca
Le vicende giudiziarie che negli ultimi anni si sono susseguite nel tema che ci occupa e che hanno visto come capo d’imputazione il peculato, presentano ad un primo esame come integrati i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di pubblico ufficiale: il consigliere regionale e la sua attività sono sottoposti alle norme di diritto pubblico sull’attività legislativa delle assemblee regionali.
Nel prosieguo, per fini pratici e di esemplificazione, si farà riferimento a concrete norme regionali. Tale espediente risulta molto agevole nella esposizione degli argomenti oggi trattati e soprattutto utile a verificare la possibile applicazione delle tesi sostenute ai casi reali e concreti sorti all’onore delle cronache.
Si prenderà a modello, solo per maggiore facilità da parte dello scrivente, la Regione Calabria nel periodo precedente all’anno 2008, quando sembrava che il legislatore nazionale e regionale non avessero dubbi sulla natura dei gruppi.
Gli ultimi sviluppi hanno contraddetto questa personale impressione.
Si è visto supra come siano ricomprese nella funzione legislativa l’emanazione di leggi costituzionali, i provvedimenti di legge e con forza di legge e l’attività normativa della Regione e delle Province Autonome. A contrario, non svolgono funzioni legislative gli impiegati delle due Camere che dirigono uffici o espletano attività di segreteria o altre mansioni analoghe: questa specificazione, indicata dalla giurisprudenza, è già esemplificativa del ragionamento che di qui a breve si verrà a fare.
Infatti, ciò che a prima vista appare evidente e quasi non bisognevole di approfondimento, cioè un consigliere regionale-pubblico ufficiale in forza del suo status di consigliere regionale, deve quantomeno iniziare a porsi in dubbio solo considerando che, nel momento in cui viene consumato l’ipotizzato reato di peculato, il consigliere stesso è funzionalmente presente all’interno del gruppo consiliare – perché è questo il luogo della ipotizzata consumazione del reato.
Solo in un secondo momento, rispetto alla consumazione, si potrà considerare anche la posizione dello stesso consigliere all’interno del Consiglio Regionale.
Questo sembra l’ordine logico più corretto da seguire: il consigliere, ai fini della consumazione del reato, è principalmente membro e/o presidente del gruppo consiliare e solo secondariamente membro dell’assemblea regionale.
Sarà quindi necessario verificare momento per momento quali siano gli atti posti in essere da consigliere e quali siano invece gli atti compiuti quale membro di partito all’interno del gruppo consiliare.
Per come insegna la giurisprudenza citata, ciò che conta ai fini della configurazione del reato in esame è esclusivamente la disciplina dell’attività svolta in concreto, e l’attività svolta in concreto da un consigliere regionale quale membro del gruppo consiliare è collegata principalmente, se non esclusivamente, al gruppo consiliare e non al Consiglio Regionale.
Sembra, infatti, acclarato, dopo le specificazioni sulla natura del gruppo svolte in introduzione, che i due profili non possano essere sovrapponibili: per gli atti inerenti alla gestione del gruppo (“buoni” o “cattivi” che siano 1) non si può parlare di atti
Note:
17) Si specifica che il richiamo ad atti “buoni” o “cattivi” vuole essere un riferimento solo di sintesi a ciò che gli organi di informazione hanno pubblicato negli ultimi anni in tema “peculato dei consiglieri regionali”: effettivamente, vedere elencati sui quotidiani nazionali, tra gli atti di spesa dei gruppi consiliari, delle spese palesemente personali (dei consiglieri) induce a pensare che siano atti non collegati all’esercizio politico. Tale valutazione, oltre ad essere comunque riservata all’Autorità Giudiziaria, non cambia in alcun modo i termini dell’esposizione del presente lavoro, in quanto (e lo si chiarirà più avanti) il responsabile è passibile in ogni caso di sanzione – civile e penale –. Tutto sta nello stabilire quale sia e di quale natura sia la sanzione corretta da applicare: peculato, appropriazione indebita, responsabilità civilistica per utilizzazione di fondi oltre quanto previsto dallo statuto di partito etc.
della pubblica amministrazione, ma solo di attività privata, nella specie particolarmente qualificata perché concorrente alla formazione delle decisioni politiche di maggior rilievo a livello regionale.
Non per tale ragione (l’attività politica a livello regionale), lo si ribadisce, viene a mutare la giustificazione dell’esistenza di un’associazione privata (il partito) posta alla base della previsione legislativa che vuole i gruppi consiliari presenti ed esistenti all’interno del Consiglio Regionale.
3.1 L’appartenenza del denaro alla P.A.
Sarebbe fondamentale, al fine di ritenere integrato il reato di peculato, verificare la reale appartenenza del denaro alla P.A.
La giurisprudenza afferma che bisogna dare rilievo esclusivo alla sua destinazione a finalità pubbliche (18).
La tesi estensiva su tale destinazione postula come, ai fini della verifica dell’appartenenza alla P.A., sia richiesto solo un collegamento tra la destinazione del bene e le finalità pubbliche.
Il vincolo di destinazione può risultare tanto da espresse disposizioni normative quanto da manifestazioni di volontà della P.A. (19).
Al fine di rendere il più esplicito possibile questo principio di diritto, la Suprema Corte ha elaborato alcune figure sintomatiche del vincolo di destinazione: “l’obbligo di rendiconto e la restituzione del residuo di gestione, … denotano appunto, come l’erogazione sia finalizzata esclusivamente al raggiungimento della finalità pubblica e che la somma non è passata nella piena disponibilità dell’accipiens” (20).
Ciò posto, sarebbe quindi utile applicare al ragionamento che ci occupa le appena individuate figure sintomatiche.
Circoscriviamo preliminarmente una singola normativa regionale vigente rispetto a concreti casi: Regione Calabria, l’art. 4, comma 1, legge regionale 15 marzo 2002, n. 13, nomina “le spese organizzative, di funzionamento, etc.”, per le quali “è assegnato
Note:
18) Cfr. Cass., sez. VI, sent. n. 3755 del 14.11.95 (ud. del 24.10.95), Randazzo, rv 203320 e Cass., sent. del 14.09.94, Palladini , CED 199154.
19) Cfr. Cass., sez. VI, sent. n. 16708 del 19.12.90 (ud. del 25.06.1990),Nassisi.
20) Cfr. ancora Cass., sez. VI, sent. n. 3755 del 14.11.95 (ud. del 24.10.95), Randazzo, rv 203320.
a ciascun Gruppo consiliare un contributo a carico dei fondi … del Consiglio regionale”; il successivo art. 7, comma 1, postula che “i Presidenti dei Gruppi consiliari sono tenuti a presentare all’Ufficio di Presidenza … una nota riepilogativa circa l’utilizzazione dei fondi”, e al comma 2 “gli atti amministrativi e di gestione relativi ai fondi di competenza del Consiglio sono sottoposti al controllo autonomo ed esclusivo dell’Assemblea regionale secondo le norme del regolamento interno”.
Applichiamo ora le figure sintomatiche appena viste alla normativa di riferimento:
- le spese individuate non sono spese del Consiglio (in caso contrario ci saremmo trovati di fronte ad un tipico esempio di denaro appartenente alla P.A.), ma del Gruppo, che le può sostenere perché assegnatario di un contributo a carico del Consiglio (il termine contributo, che si usa per qualificare le assegnazioni ai soggetti estranei alla P.A., altrimenti avremmo direttamente una spesa della stessa P.A., denota specificamente come il denaro sia uscito dalla “sfera pubblica” per entrare in quella privata);
- l’obbligo di rendiconto, secondo la normativa citata e vigente al momento della sua applicazione, non sussiste, in quanto la legge prevede esclusivamente l’onere di presentazione di una nota riepilogativa e null’altro, quindi un adempimento del tutto formale e non dotato dei crismi di specificità tipici degli atti di contabilità, in special modo pubblici;
- nemmeno sussiste il successivo obbligo di restituzione del residuo: se si confrontano le note riepilogative presentate dai Presidenti dei Gruppi consiliari Regione Calabria nel periodo 2001-2005 (21) il primo elemento, che balza agli occhi anche del lettore meno attento, è che, tra le pochissime voci delle note riepilogative, una (presente ogni anno) riguarda il residuo di gestione che viene incamerato nell’anno di riferimento ed usato poi nell’esercizio finanziario successivo. Non ne è prevista la restituzione, e non vi può essere figura sintomatica più evidente, secondo la giurisprudenza di legittimità, per verificare l’appartenenza del denaro al soggetto privato invece che alla P.A.;
- in ultimo, come chiosa, vi è da rilevare che la previsione di un controllo contabile delle note riepilogative, autonomo ed esclusivo dell’assemblea secondo il regolamento interno, denota ed indica principalmente la non tecnicità del controllo contabile stesso e la sua natura prettamente politica.
Note:
21) Pubblicate sul BURC nel corso dell’anno successivo a quello dei singoli esercizi.
A suggellare tale proposta di corretta lettura del quadro delineato sono intervenute, a parere di chi scrive, le considerazioni della Corte Costituzionale sulla autonomia politica dei gruppi.
Ed infatti, sebbene la “diversità di posizione” dei Consigli regionali nei confronti del Parlamento non ammetta il massimo grado di autonomia appannaggio di quest’ultimo, la Corte dei conti sez. regionale procede solo – in sede di controllo di conformità sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari in base allo schema stabilito in Conferenza – ad una verifica esterna di natura documentale che non scende nel merito delle singole voci di spesa e che si limita alla valutazione di compatibilità astratta tra spese e attività istituzionali (22).
Ulteriore mattone aggiunto alla costruzione dell’autonomia regionale – citato sempre all’interno dell’omogeneo gruppo di recenti pronunce della Corte Costituzionale – è costituito dal divieto di sanzioni che importino la decadenza dal diritto a percepire contributi finanziari nel caso di controllo contabile dal quale emergano irregolarità.
La giustificazione di tale divieto a sanzionare la si rinviene facilmente nelle considerazioni sopra anticipate: sanzionare i gruppi vorrebbe dire compromettere “le funzioni pubbliche affidate” loro con conseguente lesione del “fisiologico funzionamento dell’assemblea regionale stessa” (23).
Ed ancora, il capogruppo (colui che firma le note riepilogative) non può essere sottoposto al giudizio di resa di conto in quanto la sua funzione è “eminentemente politica” oltreché “di rappresentanza, [con funzioni] direttive e organizzative” (24). Egli è, come indica precisa dottrina, “inassimilabile a un comune agente contabile” (25).
Note:
22) Cfr. C.Cost., sentt. nn. 39/2014, 263/2014, 104/2016. In dottrina: Morvillo, L’ausiliarietà ai tempi…, cit., 933 e ss..
23) Cfr. ancora sent. n. 39/2014.
24) Cfr. sent. n. 107/2015.
25) Così Caruso, Consigli regionali…, cit., 15.
3.2 Rapporti tra peculato e appropriazione indebita
Se tale ricostruzione del requisito “appartenenza del denaro alla P.A.” fino ad ora illustrata, e fin qui ad esito negativo, gode di un qualche pregio, e al fine di evidenziare gli elementi di reato, questo non potrebbe che essere qualificato, una volta escluso il peculato, come appropriazione indebita in generale o, meglio, come malversazione ai danni dello Stato.
A mero titolo di aiuto per la memoria di chi scrive, solo a titolo esemplificativo, ripercorrendo le differenze esistenti tra il reato di appropriazione indebita e il peculato, è da osservare come un fatto che presenti tutti i requisiti dell’appropriazione indebita può costituire peculato nelle specifiche occasioni in cui si attua in riferimento ad un possesso qualificato (del denaro o altra utilità) dalla ragione d’ufficio (pubblico o di incarico di pubblico servizio).
Nell’appropriazione indebita viene considerata non la genesi del possesso del bene ma solo il suo sviluppo: è valorizzata solo la fase patologica dell’abuso dei poteri (26).
Viceversa l’art. 314 esplicita un immediato riferimento anche alla genesi del possesso, condizionando così lo svolgimento della fase c.d. fisiologica, la quale si riflette sulla percezione e sulla valutazione della fase successiva di realizzazione dell’illecito.
La giurisprudenza così precisa: l’appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 9 c.p., a differenza del peculato, postula che il possesso sia stato devoluto all’agente non già per ragioni d’ufficio, ma intuitu personae, e inoltre l’abuso dei poteri servirebbe all’agente non già per procurarsi il possesso ma solo per agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica, che è quella di far propria la cosa (27).
Questa, appena presentata in sintesi e in linee generali, è la ricostruzione rispetto alla figura generale dell’appropriazione indebita.
Una ricostruzione tesa a negare la sussistenza dei presupposti del peculato per evidenziare come, astrattamente ragionando, il reato da contestare correttamente, secondo le indicazioni della Suprema Corte, possa essere (senza escludere ipotesi maggiormente specifiche) quello di appropriazione indebita.
Note:
26) Cfr. in questo senso, seppur datati (ma l’impianto teorico è valido tuttoggi) Pedrazzi, voce Appropriazione indebita, in ED, II, Milano, 1958, 838, e Flick, Appropriazione indebita e contratto estimatorio, in RIDPP, 1962, 1123 e ss..
27) Cass. pen., 17.1.1989, Mandozzi, in Cass. pen., 1990, 833.
4. Quale l’esito delle riflessioni svolte?
Appare a questo punto chiaro che, in tema di peculato, si erra allorquando si voglia applicare, in relazione alla natura del gruppo consiliare e al ruolo del consigliere e/o capo-gruppo consiliare nell’organizzazione amministrativa della Regione, l’art. 357 c.p.
I gruppi consiliari, come ritenuto dal prevalente orientamento (anche se datato) della giurisprudenza, andrebbero configurati non come organi dei Consigli Regionali, ma come libere associazioni non riconosciute.
Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che, in base alla disciplina vigente, i gruppi non esprimono mai la volontà dei Consigli in cui sono inseriti, né gli atti da essi posti in essere sono mai imputabili giuridicamente ai Consigli stessi.
Anche la disciplina dettata dalla legge regionale 15 marzo 2002, n. 13 “Testo Unico della struttura e finanziamento dei Gruppi Consiliari” (per rimanere nell’ambito dell’esempio della Regione Calabria, già sopra richiamato), all’art. 4, comma 1 (ora sostituito a seguito della legge regionale 13 giugno 2008, n. 15 e s.i.m.) qualificando come “contributi” (e non come “spese”) le somme che dal Consiglio vengono messe a disposizione dei gruppi, denotava in quel preciso momento storico, in maniera puntuale, la natura di associazioni private (e non di organi) rivestita dai gruppi consiliari.
I contributi erogati ai gruppi dal Consiglio sarebbero, pertanto, somme di “denaro pubblico” che, una volta assegnate a soggetti privati, uscirebbero dalla “sfera pubblica” per entrare nella piena disponibilità del privato cittadino (anche se operante in un contesto particolarmente complesso come il partito da un lato e la Regione dall’altro), e avrebbero solamente una destinazione “vincolata”, dovendo essere impiegati dai gruppi stessi (e da chi agisce per i medesimi) “per le spese organizzative, di funzionamento, di rappresentanza (…) etc.” (art. 4, comma 1, legge regionale – sempre Calabria – 15 marzo 2002, n. 13).
Il controllo su tali spese sarebbe esclusivo dell’assemblea e privo dei caratteri tipici dei controlli contabili (art. 7 legge cit.), perché altrimenti si sarebbe previsto l’intervento della Corte dei Conti ed in particolare degli uffici territorialmente competenti.
Ecco che, proprio in virtù della funzione tipica dei gruppi (di essere il canale di collegamento principale e privilegiato fra il Consiglio e la società civile regionale), tra i compiti dei gruppi stessi rientrerebbero non soltanto le attività che si svolgono all’interno del Consiglio, ma anche attività esterne e ad esso funzionali.
Non vi sarebbe poi nella disciplina regolamentare (nell’esempio oggi seguito, quella calabrese) alcuna prescrizione che realmente imponga una pubblicità analitica del modo di impiego dei contributi.
In definitiva, il consigliere e/o capo-gruppo consiliare non potrebbe essere qualificato come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio e non sarebbe configurabile nel caso di specie il reato di peculato.
Appare evidente che, ragionando diversamente da come oggi si espone, vi sarebbe una erronea interpretazione dell’art. 314 c.p. in relazione alla natura della contestata “appropriazione” di pubblico denaro.
Ed infatti, non essendo richiesto un rendiconto analitico del contributo, secondo il disposto dell’art. 7, comma 1, legge regionale 15 marzo 2002, n. 13 (Regione Calabria), il consigliere e/o capo-gruppo consiliare dispone, nei fatti, della più ampia discrezionalità nella scelta delle attività da intraprendere e finanziare per porre il gruppo nelle condizioni di esplicare al meglio il proprio compito: per quanto possa essere considerata una scelta poco accorta del legislatore, a parere di chi scrive non appare fuori luogo, solo in considerazione dei principi di autonomia e autodichia delle assemblee legislative (ma questo è un altro discorso).
Tenuto conto che il gruppo consiliare non sarebbe altro che la proiezione di un partito nell’ambito del Consiglio, nella discrezionalità del capo-gruppo rientrerebbe anche il finanziamento di quelle attività di partito che egli consideri particolarmente utili per il corretto esercizio della sua funzione.
Ulteriormente, occorre evidenziare una diversa ipotesi di erronea interpretazione dell’art. 357 c. p.: il gruppo consiliare non sarebbe un organo di diritto pubblico, ma una associazione politica, con finalità privatistiche sue proprie, e cioè una formazione di diritto privato.
In effetti, con riferimento alla funzione pubblico-amministrativa del capo-gruppo, sarebbe erroneo qualificare come pubblico ufficiale colui che ottiene e gestisce contributi di denaro pubblico, per il solo fatto che la concessione di contributi sia regolata da norme di diritto pubblico.
Ciò sarebbe dimostrato dalla esistenza nel nostro ordinamento di una previsione come quella di cui all’art. 316 bis c. p., rubricata “Malversazione a danno dello Stato” nella quale, pur essendo di diritto pubblico le norme che regolano la concessione e l’utilizzo delle attribuzioni di denaro pubblico, e pur essendo i finanziamenti destinati ad attività di pubblico interesse, il soggetto attivo del reato è “estraneo alla pubblica amministrazione”.
In ogni caso il consigliere e/o capo-gruppo non potrebbe essere considerato pubblico ufficiale, in quanto la disciplina dettata dalla legge regionale 15 marzo 2002, n. 13 (Calabria) non avrebbe individuato in alcun modo le modalità di gestione del contributo e avrebbe attribuito al capo-gruppo medesimo una vasta discrezionalità in proposito, proprio per non comprimere la libertà di agire di tale “formazione associata a carattere politico-privatistico”.
Il contributo sarebbe, in definitiva, una sovvenzione di una attività politica, che come tale è, da un lato, indefinibile nei suoi limiti oggettivi e, dall’altro, anche riservata.
Ecco di nuovo l’erronea interpretazione dell’art. 314 c. p.
Anche a volere considerare il capo-gruppo un pubblico ufficiale, non sussisterebbe il reato di peculato per mancanza del presupposto della destinazione pubblica del denaro concesso dalla Regione al gruppo consiliare.
L’errore sarebbe nella identificazione de “i compiti del gruppo” (28) nell’esercizio di poteri istituzionali di legislazione e amministrazione, i quali giustificherebbero la classificazione dell’attività svolta come attività pubblica.
Infatti il citato art. 4 non descriverebbe in alcun modo la tipologia dei compiti del gruppo consiliare.
Conseguentemente i contributi erogati servirebbero a coprire le spese che il gruppo consiliare ha sostenuto per le sue esigenze di formazione associativa a carattere politico, caratterizzata da interessi propri, da finalità sue proprie, di natura autonoma e distinta da quelle del Consiglio Regionale.
In considerazione della vasta autonomia che il capo-gruppo avrebbe nella scelta delle attività da intraprendere e finanziare, i pagamenti da questi effettuati sarebbero totalmente estranei alla pubblica amministrazione, dovendo egli solamente giustificare l’uso del denaro come destinato alle genericissime attività di “organizzazione, funzionamento, rappresentanza, aggiornamento, studio e documentazione” del gruppo consiliare ed essendo sottoposto all’unico controllo previsto, cioè quello effettuato dai “colleghi” politici secondo un regolamento interno della stessa assemblea regionale.
Note:
28) Alla cui esplicazione l’art. 4, legge reg. cit., evidentemente destina i contributi a carico del Consiglio Regionale.
Si ribadisce che i gruppi consiliari non sarebbero organi dei Consigli Regionali, ma associazioni non riconosciute, e che il capo-gruppo, che non svolgerebbe attività pubblicistica, non potrebbe essere qualificato come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Conseguentemente, nel caso di comprovata utilizzazione di contributi per finalità estranee ai compiti del gruppo, non troverebbe applicazione l’art. 314 c.p., ma occorrerebbe ricorrere ad altre figure di reato, quali la appropriazione indebita (art. 646 c.p.), eventualmente aggravata dall’art. 61, n. 9, c.p., o la malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.).
5. Un arresto giurisprudenziale definitivo a seguito della pronuncia della Suprema Corte?
La giurisprudenza sul tema che ci occupa è particolarmente esigua.
Si rinvenivano, oltre al “Tribunale di Roma” degli anni ‘60 citato nel testo, una sola pronuncia della Suprema Corte di pochi anni fa e una ordinanza della Corte Costituzionale.
La Corte di Cassazione (1) ha così argomentato in un caso analogo a quello in oggetto: “il carattere ambivalente dei gruppi consiliari (espressione dei partiti (e quindi operanti nella società e collocati nella dimensione delle associazioni private) ma ad un tempo elementi essenziali della struttura e dell’agire delle assemblee politiche (e quindi ubicati anche nell’ambito dell’organizzazione dei pubblici poteri)) si riflette inevitabilmente sulla loro configurazione giuridica, tanto che essi sono stati visti da dottrina e giurisprudenza sia come libere associazioni non riconosciute sia come organi dei consigli.
Con tali affermazioni la Suprema Corte anticipa in maniera esplicita, anche se parziale, la tesi proposta da chi scrive per correttamente configurare la natura dei gruppi consiliari.
E’ evidente, infatti, come, una volta stabilito in senso inequivoco che i gruppi sono solo associazioni private (anche se inserite in una struttura pubblica come la Regione), cade l’ipotesi di peculato – e il Supremo Collegio quantomeno non lo esclude, anzi, nella stessa pronuncia, si sbilancia proprio in favore della presente tesi quando afferma che “(l)’unico dato certo che l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha maturato in riferimento alla natura giuridica dei gruppi consiliari, l’essere cioè essi una sorta di essenziale interfaccia o cerniera fra i consigli regionali e provinciali (e quindi l’organizzazione dei pubblici poteri) e la società e i cittadini (che, attraverso i partiti politici ed i gruppi, sono rappresentati nei consigli)”.
E ancora, “più specificamente i compiti espletati dai gruppi non sono soltanto quelli che trovano il loro svolgimento all’interno del Consiglio, contribuendo alla organizzazione ed allo svolgimento all’interno del Consiglio, contribuendo alla organizzazione ed allo svolgimento dei lavori consiliari, ma, in considerazione di quella che si è vista essere la funzione tipica dei gruppi (e cioè di fare da canale di collegamento fra il consiglio e la società), includono sicuramente anche attività esterne rispetto al Consiglio e che attengono più propriamente al mondo della politica, di cui pure i gruppi fanno parte”.
Note:
29) Cass. Sezione 6 Penale, con sentenza del 5 agosto 2003, n. 33069.
Appare chiaro, dopo queste precisazione della Cassazione, che il nodo centrale del nostro argomentare non è privo di fondamento e, anzi, iniziava a godere di uno specifico apprezzamento del Giudice di legittimità.
A riprova dell’importanza dell’argomento, nella stessa pronuncia gli Ermellini sceglievano la via salomonica, decidendo di non decidere “a prescindere dalla natura giuridica dei gruppi consiliari (e del presidente di essi, quale soggetto che riceve e gestisce il contributo), sembra a questa Corte indispensabile preventivamente definire se i contributi versati ai gruppi consiliari possano dirsi vincolati nella loro destinazione a determinate finalità o siano, invece, discrezionalmente, fruibili, o se, tra le due alternative, possano darsi ipotesi intermedie”.
Nel caso affrontato la via salomonica era giustificata dalla circostanza che i giudici ritenevano il reato non sussistente per ragioni diverse – ragioni di diversa configurazione del fatto storico – pronunciando sentenza di assoluzione senza rinvio e ritenendo di non approfondire ulteriormente un nodo giurisprudenziale e dottrinale particolarmente delicato.
La scelta di non pronunciarsi non inficiava però la forza delle affermazioni contenute nella stessa sentenza, con le quali si riconosceva la particolarità della natura giuridica dei gruppi consiliari: affermazioni che sono il punto di partenza imprescindibile per qualunque nuovo esame della tematica che ci occupa.
Infine, per mero scrupolo di completezza, sembra opportuno citare anche l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 319 del 2008, con la quale si dichiarava improcedibile il ricorso per un difetto di notifica (mancava, nel caso di specie, la notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri). Sarebbe stato interessante sapere se, per la Corte Costituzionale, le decisioni di spesa degli organi indipendenti presenti in Consiglio Regionale fossero sottoposti al sindacato della giurisdizione ordinaria, contabile o, invece, totalmente insindacabili se non da apposito organo interno. Quanto deciso più recentemente dalla Corte (e citato sopra) lascia intendere che, in ogni caso, il merito delle decisioni di spesa non può essere intaccato se non quale verifica di compatibilità esterna tra spesa e attività istituzionale (30).
Si può, quindi, affermare che il controllo sia, alla fine, solo superficiale e che le decisioni dovrebbero essere insindacabili (con i limiti già sopra richiamati in tema di responsabilità).
Come si preannunciava all’inizio del presente lavoro, questo quadro giurisprudenziale è stato aggiornato dalle molte pronunce sul peculato, fioccate negli ultimi anni, nei confronti di parlamentari/consiglieri regionali.
La più importante e per molti versi riassuntiva pronuncia presente nel panorama odierno è rappresentata dalla Sez. Un., 03.12.2012, n. 49976.
Con il citato arresto le Sezioni Unite hanno messo la parola fine (per ora) ad un ingresso, nelle aule di giustizia, delle tesi qui esposte e sostenute.
Le motivazioni della sentenza, come appare ovvio, non sono condivise da chi scrive, coerentemente con quanto sopra affermato in tema di natura dei gruppi.
Bisogna evidenziare quanto viene affermato in motivazione “ai fini del thema decidendum incentrato sulla corretta qualificazione giuridica dell’illecito contegno del ricorrente, appa[re] inconferente e non determinante la collaterale problematica definitoria della natura giuridica dei gruppi consiliari” (31).
Ebbene, tale affermazione – è di tutta evidenza – non fa altro che evitare di affrontare il vero tema della questione (natura degli organi e principio di legalità) che queste breve ricostruzione spera di aver reso, invece e seppur in parte, chiaro ed intelligibile.
Si è visto come anche il Giudice delle leggi abbia oramai intrapreso la strada del riconoscimento pieno delle autonomie anche degli organi interni alle assemblee regionali: con i limiti esposti (è vero) ma la strada appare già intrapresa e senza ritorno (32). Solo la Cassazione non se ne è avveduta.
Note:
30) Vedi nota 13.
31) Pag. 10 della cit. sent. Sez. Un.
32) Vedi le sentt. C.Cost. del 2014/15 citate.
La sentenza delle Sezioni Unite commentata acutamente da attenta dottrina (1) ha, sulla scia della giurisprudenza citata, aggirato la questione di fondo: l’autonomia degli organi interni delle assemblee legislative. Il fine è chiaro: punire in maniera evidente quei pubblici amministratori che l’”hanno fatta grossa”, in modo da dare una eclatante risposta alla domanda di giustizia della collettività.
Il prezzo di questa risposta è, in questo caso, anche una abdicazione a quei principi fondamentali che presiedono al corretto rapporto tra poteri dello Stato.
Si allude, soprattutto, al cardine del discorso fin qui svolto: il principio di legalità.